Racconto andino

Il campione della morte Di Enrique López Albújar (liberamente tradotto da Gabriele Poli http://www.magiedelleande.it )Il sole era tramontato e sull’impressionante tristezza del villaggio, la notte iniziava a spargere le sue gocce d’ombra. Liberato Tucto, accovacciato di fronte alla porta della capanna, masticava con...
Scritto da: Gabriele Poli
racconto andino
Il campione della morte Di Enrique López Albújar (liberamente tradotto da Gabriele Poli http://www.magiedelleande.it )

Il sole era tramontato e sull’impressionante tristezza del villaggio, la notte iniziava a spargere le sue gocce d’ombra. Liberato Tucto, accovacciato di fronte alla porta della capanna, masticava con ostinazione, sperando che la coca gli rivelasse la sorte occorsa alla figlia, rapita un mese addietro da un giovane del villaggio. Durante questi trenta giorni, il consumo di coca era aumentato. Con regolarità sistematica, ogni tre ore introduceva la mano nella borsa che portava a tracolla, sua unica fonte di consolazione. Toglieva la foglia sacra con la delicatezza del gioielliere che raccoglie frammenti di diamante e l’introduceva, arricchita con la calce, nella bocca, ripetendo il gesto senza sosta. Con la testa coperta da un comico berretto di lana, gli occhi leggermente obliqui e freddi come quelli di un serpente, gli zigomi di stampo mongolo, la narice curva e aggressiva, la bocca tumefatta e ripugnante per lo smodato uso della coca che segnava le labbra con un filo verdastro e spumoso e il poncho colorato tetramente che lo avvolgeva, il vecchio Tucto assomigliava, più che a un uomo dei nostri tempi, ad un idolo incaico fatto di carne. Le risposte della coca, tuttavia, erano ambigue. Una volta la coca gli era sembrata dolce, un’altra amara e la cosa lo sconcertava, lasciandolo indeciso su da farsi. Sapeva che Hilario Crispín, il rapitore della figlia, era un indio di malaffare, gran bevitore, ozioso e seduttore; uno zotico, come generalmente apostrofano da queste parti un vagabondo disoccupato. E per un indio onorato questi sono i peggiori difetti che possa avere un pretendente alla mano di una fanciulla. Dove avrà condotto la sua Faustina, lo svergognato? Che vita le starà facendo passare? O l’avrà abbandonata per vendicarsi del suo rifiuto quando il padre di Crispín gliela chiese per il figlio? In tutti questi cupi pensieri stava il vecchio Tucto il trentesimo giorno dal rapimento, quando, dalle ombre della notte imminente, comparve la torva figura di un uomo che, togliendosi dalle spalle un grosso sacco, disse: – Vecchio, qui dentro ti reco tua figlia, perché tu non l’abbia a cercare tanto, né vaghi per il villaggio gridando che uno zotico se l’è portata via. E, senza attendere risposta, l’uomo, che altri non era se non Hilario Crispín, aprì il sacco e lo svuotò rovesciando il contenuto al suolo; un contenuto nauseabondo, vischioso, orripilante, sanguinolento, macabro che, cadendo, si sparse in terra, liberando un odore acre e ripugnante. Tutto quell’ammasso era ciò che restava della figlia di Tucto, squartata con perizia e pazienza diaboliche e raggelanti, con insana ferocia. E con demoniaco sarcasmo, l’indio Crispín, dopo aver scrollato ben bene il sacco, aggiunse sghignazzando: – Non ti lascio il sacco perché potrebbe servirmi per te, se ti azzarderai ad attraversarmi il cammino. E voltò le spalle. Però il vecchio, superato il primo momento di sgomento, aveva riacquistato il controllo e, alzandosi con una tranquillità inconcepibile per uomini di altre razze, esclamò: – Fai bene a portarti il sacco; è certo rubato e potrebbe portarmi sfortuna. Tuttavia, visto che mi hai consegnato mia figlia, devi lasciarmi del denaro per le candele della veglia funebre e per offrire qualcosa da mangiare ai parenti. Avresti un sol? – Crispín, comprendendo la sottile ironia del vecchio, senza guardarlo rispose: – Che potrà mai darti uno zotico? Ti andrebbe una pugnalata, vecchio stupido? E l’indio sparì, lacerando con una bestemmia il silenzio della notte… Nascoste fra le falde di una montagna e il sinuoso e tormentoso mormorio del Rio Marañon, giacciono, sopra il grembo fertile di una valle, cento capanne disordinate, ammucchiate e pericolanti come cento pezzi del “domino” sopra un tappeto verde. E’ Pampamarca. Nella monotona vita pastorale dei suoi abitanti, l’unica distrazione è il tiro al bersaglio che serve da pretesto per colossali bevute di chicha e aguardiente e per dissipare grandi quantità di proiettili, nonostante la difficoltà a reperirli, che gli indios pagano a peso d’oro pur di sparare con il proprio vecchio “mauser”. Per tale motivo, nei principali villaggi della provincia prosperano agenti incaricati di reperire le munizioni utilizzando ogni mezzo a loro disposizione. Queste persone compiono il proprio lavoro con vergognosa abilità, moltiplicando il valore della pericolosa mercanzia e corrompendo con regalie le autorità. E se l’agente è poco sollecito, gli indios scendono dalle alture, senza preoccuparsi delle grandi distanze da percorrere a piedi e li si vede a Huánuco, camminando lentamente, con fare distratto, con volti ingenui che rasentano la stupidità, mentre entrano in tutti i negozi, addirittura nelle farmacie, ed iniziano a richiedere timidamente le classiche pallottole calibro 44, terminando con l’acquistare qualsiasi tipo di cartuccia. Sono talmente riconoscibili che, nonostante l’attenzione che pongono per passare inosservati, chiunque li veda mormora con disprezzo: “I ciabattoni del Dos de Mayo”, e i commercianti li accolgono con amabilità e un sorriso che sembra voler dire: “So cosa vuoi, ciabattone; munizioni per compiere qualche diavoleria”. E’ in queste contrade, in questa terra di pistoleri che vide per la prima volta il sole Juan Jorge, giunto all’età di trent’anni circondato da una fama che fa rizzare i capelli agli uomini e cadere in deliquio le fanciulle. E questa celebrità è ingigantita dal fatto che il giovane è un abile chitarrista e un cantante capace, con la sua voce, di domare il cuore femminile più ribelle. Non è un poveraccio, né un ladruncolo; veste come un cittadino e porta orologio e ornamenti quando scende a valle a compiere i suoi affari – come egli stesso afferma -che consistono nell’eliminare da questo meschino mondo qualche predestinato all’onore di ricevere un suo proiettile nel mezzo degli occhi. E non si pensi che Juan Jorge sia analfabeta o un miserabile vagabondo, oppure incapace a trattare con le persone o con le donne. Nulla di tutto questo; Juan Jorge legge e scrive correttamente, d’altronde fu alunno nientemeno che del maestro Ruiz, insegnate di gran fama che in un’occasione, facendo uso della sua influenza, disse all’antico discepolo: – Uomo, mi han detto che ti sei guastato, che ti sei dedicato al triste lavoro di uccidere le persone. Uno di questi giorni ti ammazzeranno. Ti conviene tornare sulla retta via. Al che Jorge contestò: – Lo so, padrino; però il mio lavoro è quello di uccidere, così come potrebbe essere di fare il calzolaio, e devo continuare perché questo è il mio destino. E il maestro Ruiz, scandalizzato dalla risposta, mai più parlò della cosa e si allontanò pensando che, forse, questo fosse davvero il destino di un così speciale assassino. Le proprietà di Jorge consistevano in vari terreni occupati da coloni, da bestiame, da coltivazioni e da una donna che gli teneva in ordine la casa, pronta l’acqua calda e la zuppa per la cena. Per tale ragione, la nostra saggia legge lo considera il miglior contribuente della provincia. Tutto ciò, come soleva dire con orgoglio, lo doveva al suo lavoro, ai suoi affari, al suo mauser, figlio del suo cuore, che baciava ogni volta che portava a termine un contratto. E tutto ottenuto senza rischi, perché quando lui prendeva la mira… Juan Jorge non sbagliava; la sua fortuna, infatti, era frutto di due doti personali: il polso e l’occhio. Cose insignificanti per alcuni, ma che il sicario aveva saputo sfruttare in un territorio nel quale ogni altra industria sarebbe fallita per mancanza di mezzi, vie di comunicazione e mille altre ragioni. Per voler essere più precisi, potremmo dire che la sua posizione l’aveva ottenuta grazie anche a due altri fattori: la fortuna di essere nato a Pampamarca e quella di aver avuto un altro importante maestro, Ceferino Huaylas, il Guglielmo Tell della Sierra che, con i suoi insegnamenti e l’esempio, riuscì in breve tempo a fare di Juan Jorge il più grande fenomeno di tiro, per la gloria e la fama dei compaesani. Ceferino Huaylas fu colui che, dopo infiniti allenamenti, gli confidò i segreti del tiro e lo obbligò ad imparare a memoria, come fosse una preghiera,, gli accorgimenti che doveva tenere a mente un buon tiratore. Grazie al maestro, già a quindici anni Juan Jorge era in grado di compiere col mauser cose sorprendenti. Colpiva un cervo in corsa a trecento metri di distanza; infilava una moneta a cinquanta passi; spezzava un fiore posto sulla testa di una india; spaventava gli abitanti della vicina Chupán nelle notti di festa, spegnando a colpi di fucile i lampioncini della chiesa e terrorizzava i suoi stessi compaesani facendo volar via il contenitore della calce dalla mano destra mentre stavano masticando la coca. Ed era molto di più quello che poteva fare. Il maestro osservava con approvazione ed orgoglio, ma senza elogiare il discepolo per non renderlo troppo sicuro di se stesso e, quindi, vulnerabile. Per tale ragione, quando Juan Jorge, desideroso di dimostrare il proprio grado di preparazione, chiese: – Hai saputo, padrino Ceferino, che la notte scorsa ho spento tutti i lumi della chiesa di Chupán? Il maestro gli rispose scuotendo il capo: – Questo è nulla. Fino a che tu non riesca a colpire l’occhio di un uomo, dopo averlo avvisato e da due isolati di distanza, non sarai un buon tiratore. Al che Jaun Jorge replicò: – Ma questo è facile, padrino. E’ più difficile ciò che ho appena fatto: alla stessa distanza, per scommessa, ho obbligato un condor a mollare la serpe che teneva prigioniera, spezzandogli il becco. E il maestro, ribadendo la propria opinione, contestò: – No; l’uomo che si prende di mira fa sempre tremare il polso. I primi uomini che uccisi, li colpii a tre o quattro dita di distanza da dove avevo mirato. Tiravo, ad esempio, alla bocca, perché così mi era stato chiesto, e colpivo l’occhio o il naso. Una vergogna. Se avessi proseguito in quel modo, sarei stato screditato”. Juan Jorge ascoltava col rispetto e l’ammirazione di un vero discepolo, soffrendo al momento di separarsi dal maestro e considerando sprecate le ore passate altrove, senza la possibilità di perfezionare la sua arte. Tutto questo che potrebbe sembrare strano in un indio, non lo era nel caso di Juan Jorge, nel cui pallido viso erano visibili i segni dell’incrocio con un sangue antico, epico e ambizioso. Trascorse queste ore di crisi, Juan Jorge tornava a impugnare il mauser e ad esercitarsi nelle più difficili prove che gli suggeriva la sua fantasia. La sua distanza favorita erano i duecento metri, una distanza adeguata per colpire senza essere visto. Passarono così due anni, fino a che un giorno, compiuti i venti, ebbe la soddisfazione di sentirsi dire dal vecchio Ceferino, dopo avergli riferito sul primo lavoro portato a termine: – Bel tiro, ragazzo. Neppure io iniziai così. Da quale distanza hai sparato? – Da due isolati, maestro. Stava masticando la coca il ciabattone e gli ho ficcato il proiettile in bocca. – E non ti ha tremato il polso? – Nemmeno la punta di un’unghia, padrino… – Ben guadagnati i due montoni. Hai tolto gli occhi al cadavere? – No, maestro. – Male; ti potrebbero scoprire. Al morto è necessario staccare gli occhi e conservarli perché non indichi alla famiglia dove si trova il sicario; e anche la lingua, perché non parli; e il cuore, per mangiarlo se appartiene a un coraggioso, perché ti darà maggior forza d’animo. Non dimenticarlo, ragazzo. In breve tempo iniziò a crescere la celebrità di Juan Jorge, celebrità che faceva tremare tutti gli indios della provincia e aumentare, al tempo stesso, la sua fortuna, facendo di lui, a trent’anni, uno strumento indispensabile nella lotta per il potere. Fu a questo personaggio, a questo fior di tiratore, che il vecchio Tucto inviò la moglie per contrattare l’eliminazione dell’indio Hilario Crispín, la cui morte era necessaria per la tranquillità della sua coscienza, la soddisfazione dei vermi e la felicità di Faustina nell’altra vita. La sposa di Tucto per prima cosa, dopo aver umilmente salutato il terribile sicario, prese un pugno di coca e glielo offrì con queste parole: – Per addolcire la tua bocca, padrino. – Grazie nonna; siediti. Juan Jorge accettò la coca e iniziò a masticare lentamente, con lo sguardo vacuo, come se fosse assorto in misteriosi pensieri. Trascorso un lungo momento, chiese: – Cosa ti porta da queste parti, Martina? – Vengo perché tu mi elimini un uomo cattivo. – Hum! La tua coca non è molto dolce. – Prendine ancora, padrino. Io la sento molto dolce. E ti porto anche la goccia di fiore reale. E afferrando la bottiglia di acqua di fiori e aguardiente, la porse al tiratore. – Bene. Berremo. Ed entrambi bevvero un buon sorso, assaporando il liquore con finta soddisfazione. – Chi è il malfattore e che ha fatto? Perché sai bene che io vendo i miei servigi solo per uccidere i criminali. Il mio mauser è come il bastone della giustizia. – Hilario Crispín, di Patay-Rondos, padrino, quello che ha assassinato la mia Fausta. – Lo conosco; un buon mezzosangue. Dispiace che abbia ucciso tua figlia perché è un indio coraggioso e non è male con la carabina. Suo padre possiede terreni e bestiame. Sei sicura che sia Crispín l’assassino di tua figlia? – Come del suo funerale di ieri. E’ un cane rabbioso, un mostro. – Quanto mi pagheresti per farlo fuori? – Liberato ti offre due tori. – Non mi conviene. Quest’uomo vale quattro tori; non uno di meno. – Li avrai, padrino. Liberato mi incarica di dirti di colpire il mostro dieci volte e solo l’ultima palla dovrà por fine alla sua esistenza. Juan Jorge si alzò bruscamente e esclamò: – Tatau! Chiedi molto. Chiedi una cosa che mai ho fatto, del tutto nuova da queste parti. – Ti pagheremo, padrino. Spari bene; ti sarà facile. – Juan Jorge tornò a sedersi, portò alla bocca un po’ di coca e, dopo aver meditato per un lungo momento pensando a chissà che cosa che lo fece sorridere, disse: – Bene; dieci, quindici e venti, se lo desideri. Però ti avverto che ogni colpo costerà a Liberato un montone in aggiunta. Le pallottole del mauser sono rare e non bisogna sprecarle per capriccio. Che Tucto paghi per il suo capriccio. Inoltre, sparando così tante volte ad un uomo, corro il pericolo di screditarmi, di farmi ridere dietro anche dai principianti. – Avrai quel che chiedi, padrino. Del resto, non ti preoccupare. Farò sapere a tutti che ti è stato chiesto di agire così. Juan Jorge si fregò le mani, sorrise, diede un buffetto alla Martina e la congedò con queste parole: – Fra oggi e domani, farò controllare dai miei uomini se quanto mi dici è vero e se Hilario Crispín è l’assassino di tua figlia accetterò l’incarico. Quattro giorni dopo iniziò la persecuzione di Hilario Crispín. Jorge e Tucto intrapresero un’avventura gravida di difficoltà e pericoli; dovevano avanzare lentamente, con infinite precauzioni, arrampicandosi su per dirupi vertiginosi, attraversando sentieri sospesi sul nulla, nascondendosi fra le rocce ore intere, riposando in caverne umide e oscure, evitando gli esseri umani, attendendo la notte per rifornirsi di acqua nelle sorgenti e nelle gole percorse da torrenti. Davvero un’epica caccia all’ uomo, durante la quale uno dormiva, intanto che l’altro vegliava attento, carabina alla mano. Peggio di una caccia al giaguaro. Il sicario, che in meticolosità non era inferiore neppure al maestro Ceferino, aveva oliato il mauser la sera della partenza, con diligenza e abilità irreprensibili. Juan Jorge, infatti, oltre ad essere conscio del pericolo che avrebbe corso se si fosse distratto trovandosi sotto il tiro dell’indio Crispín, feroce e astuto, era ossessionato da una preoccupazione che solo per orgoglio aveva tenuto nascosta; aveva una sua superstizione, solamente sua, secondo la quale un sicario corre un forte pericolo quando si accinge ad uccidere un uomo che figura come numero dispari nella lista delle vittime. La stessa cosa non accade con le cifre pari. Forse per tale ragione, la prima vittima fa sempre tremare il polso più delle altre, come affermava il maestro Ceferino. E Crispín, secondo i suoi calcoli, sarebbe stato il numero sessantanove. Questa superstizione era dovuta al fatto che in tre o quattro occasioni era stato sul punto di soccombere per mano dei suoi bersagli e sempre al momento di raggiungere un numero dispari. Per questo motivo era solito avventurarsi fra le montagne solo dopo aver esplorato attentamente ogni anfratto del terreno, tutte le sporgenze e i meandri, tutto quello che poteva essere utile per un’imboscata. Trascorsero così tre giorni. La mattina del quarto, Juan Jorge, che si stava spazientendo e la cui inquietudine aumentava col passare del tempo, disse, mentre riposava all’ombra di una roccia: – Credo che il meticcio se ne sia andato lontano, o forse sarà nascosto in qualche caverna, per uscire solo a notte fonda. – Il mostro è qui, padrino. In questa gola si rifugiano tutti gli assassini e i ladroni violenti. Cunce Maille è rimasto qui per un anno, burlandosi di tutti i gendarmi che lo cercavano. – Peggio ancora, allora. Non riusciremo a trovare Crispín nemmeno in un mese. – Non sarà così, padrino. Chi insegue non sa cercare; passa e passa e il ricercato lo guarda passare. Dobbiamo aver pazienza. Qui siamo in un buon posto e ti garantisco che non giungerà la notte senza che il mostro compaia nella gola o esca da una di quelle caverne che vedi lì di fronte. La fame o la sete lo costringeranno ad uscire. Aspettiamo tranquilli. Aveva ragione Tucto a ritenere che Crispín non fosse lontano; infatti, poco dopo, dal fondo della gola comparve un uomo con la carabina nella mano destra, intanto che studiava con attenzione le pareti di roccia e trascinava un montone che si ostinava a non voler camminare. – Vedi, padrino -, disse sottovoce il vecchio Tucto che durante tutta la giornata non aveva staccato gli occhi dalla gola, – E’ Crispín. Quando ti dicevo.Prendi la mira, prendi la mira, inquadralo bene. Individuato il bersaglio, a Juan si iniettarono gli occhi di sangue, si gonfiarono le narici, come al lama quando annusa il vento, e un lungo sospiro di soddisfazione gli uscì dal petto. Controllò il mauser e dopo aver rapidamente calcolato la distanza, rispose: – L’ho visto; deve essere affamato, altrimenti non si arrischierebbe ad uscire di giorno dal suo nascondiglio. Però non voglio sparargli da qui; sarà lontano sì e no centocinquanta metri e dovrei rivedere tutti i miei calcoli. Arretriamo. – Padrino, che non ti sfugga!. – Non essere sciocco! Se ci scorgesse, ci metterebbe più tempo lui a scappare che io a infilargli una palla. Il mio cuore è calmo e il polso fermo. Entrambi, scivolando con rapidità incredibile come felini, si rifugiarono dietro un bianco ammasso di rupi, simile ad onde in tempesta. – Qui va bene – borbottò Juan Jorge – Duecento metri giusti; potrei scommetterci. Tolta la sicura e alzato il cane, si distese nella posizione del fuciliere dell’esercito che si prepara ad una gara di tiro, mormorando: – Fai attenzione, vecchietto! Stammi sulla destra per ricordami di sparare solo una volta. Va bene? – Sì, padrino, ma non dimenticarti che sono dieci le pallottole che gli devi ficcare in corpo. Non l’uccidere subito. Echeggiò uno sparo, la carabina volò in aria, l’indio Crispín emise un ruggito e spiccò un balzo felino, scuotendo furiosamente la mano destra. Poi iniziò a sparare per ogni dove, cercando di scoprire da dove fosse partito il colpo; raccolse l’arma con l’altra mano e iniziò a correre verso le rocce. Però, non aveva fatto dieci passi che una seconda pallottola lo fece cadere e rotolare al punto di partenza. – Questa l’ho ficcata nella gamba destra – disse sorridendo il feroce sicario – perché non possa scappare. Ho capito che porterò felicemente a termine il mio “sessantanove”. Tornò a prendere la mira e un terzo proiettile ruppe l’altra gamba dell’ infelice. L’indio tentò di sollevarsi, riuscendo solo a mettersi in ginocchio. Levò le braccia al cielo, come a chiedere pietà; poi cadde sulle spalle, rantolante e rimase immobile. – Lo hai ucciso, padrino! – No, uomo. So dove colpisco. E’ più vivo di noi. Fa il morto per vedere se lo lasciamo perdere o se facciamo l’errore di andare a guardare, per approfittare del momento e pugnalarci. Così mi ingannò una volta José Illatopa e quasi mi apriva il ventre. Aspettiamo che si muova. Juan Jorge accese una sigaretta e iniziò a fumare, osservando con interesse le volute di fumo. – Vedi vecchio? Il fumo sale diritto; buon segno. – Ti potrebbe vedere Crispín, padrino; non fumare. – Non importa. Il mio mauser lo tiene a tiro. Il ferito, che aveva simulato la morte, ritenendo forse che fosse trascorso un tempo sufficiente perché l’assassino avesse lasciato il campo libero, o, chissà, per non riuscire a sopportare il dolore che sicuramente stava patendo, si rigirò e iniziò a strisciare verso una grotta a cinquanta passi di distanza. Juan Jorge riprese a sorridere e tornò a prendere la mira, dicendo: – Alla mano sinistra. E così fu: la mano sinistra fu fatta a pezzi. L’indio, sentendosi scoperto, terrorizzato dalla ferocia con la quale lo stavano massacrando e convinto che il suo giustiziere altri non potesse essere che il sicario di Pampamarca – davanti al cui mauser non c’era scampo -, rischiò tutto il possibile e iniziò a chiedere aiuto a gran voce e a maledire il suo assassino. Ma Juan Jorge, che seguiva col fucile puntato ogni movimento dell’indio, scorgendo il suo profilo, sparò il quinto colpo, non senza aver prima esclamato: – Perché taccia. L’indio tacque immediatamente, come per magia, portandosi alla bocca le mani mutilate e sanguinanti. Il tiro gli aveva fracassato la mandibola. E così continuò il sicario, squarciando il corpo dello sventurato, fino all’ultima pallottola che, penetrata attraverso l’orecchio, gli spaccò il cranio. Era durato un’ora questo gioco satanico; un’ora di orrore, di sinistra ferocia, di raffinatezza da inquisizione che il vecchio Tucto assaporò con soddisfazione e che rappresentò per Juan Jorge la più grande impresa della sua vita di campione della morte. Poi, entrambi discesero fin dove giaceva, smembrato da dieci proiettili, come un cencio umano, l’infelice Crispín. Tucto gli girò il viso con un calcio, sguainò il coltello e con destrezza gli staccò gli occhi. – Questi – disse riponendo gli occhi nella borsa della coca -, perché nessuno possa cercare vendetta; e questa – tagliando con ferocia la lingua -, perché non avvisi i parenti. – E per me il cuore – aggiunse Juan Jorge. – Prendilo intatto. Voglio mangiarmelo perché appartiene a un indio coraggioso.



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