L’Aia tutta di corsa

La scorsa settimana, verso la metà dell’aprile 2002, ho trascorso sei giorni all’Aia, città olandese di rappresentanza e congressi: non a caso, infatti, ero lì proprio per partecipare ad un grande incontro internazionale, la sesta conferenza delle parti della Convenzione per la biodiversità, un accordo globale volto a salvare la diversità...
Scritto da: lorecoll
l'aia tutta di corsa
Partenza il: 14/04/2002
Ritorno il: 19/04/2002
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
La scorsa settimana, verso la metà dell’aprile 2002, ho trascorso sei giorni all’Aia, città olandese di rappresentanza e congressi: non a caso, infatti, ero lì proprio per partecipare ad un grande incontro internazionale, la sesta conferenza delle parti della Convenzione per la biodiversità, un accordo globale volto a salvare la diversità biologica del mondo.

Sono partita per l’Aia una domenica pomeriggio dall’aeroporto romano di Fiumicino, dopo aver consumato in loco un gradevolissimo pranzo a base di pesce con la mia famiglia ed una coppia di cari amici torinesi in visita dalle nostre parti. Era una bella domenica di sole, piena di gente a spasso e di un piacevole vento fresco di mare, che a me ha arruffato i capelli ed a mia figlia ha fatto tornare il raffreddore.

Per raggiungere l’Aia sono prima volata con l’Alitalia ad Amsterdam, giungendo a sorvolare paludi e polder olandesi giusto poco prima del tramonto. Arrivata allo Schipol, il grande e moderno aeroporto olandese, ho camminato un bel po’ prima di riuscire il terminale dei treni, che si trova in una sorta di enorme sottopassaggio: strada facendo, come a Copenaghen, ho trovato dei buffi nastri trasportatori al termine di ognuno dei quali un piccolo altoparlante miagolava ossessivamente “Mind the step – mind the step – mind the step – mind…” (occhio allo scalino).

L’Aia, al pari delle più grandi città olandesi nonché di varie città belghe e dintorni, è ottimamente collegata allo Schipol da un impeccabile servizio di treni, che ho trovato efficiente, puntuale e relativamente poco costoso: basti pensare che il biglietto costa sui 6 Euro, meno di quanto ci voglia per raggiungere Fiumicino in treno dalla stazione Termini. Il mio viaggio si è svolto senza inciampi, al crepuscolo, in un treno semideserto che per mezz’ora è filato via su una landa piatta, ordinata e piena di fattorie, che mi avrebbe ricordato molto da vicino la nostrana pianura Padana se non fosse stato per la frequente presenza di serre e per l’occasionale visione di qualche mulino a vento.

Qualche problemino l’ho avuto, invece, alla stazione centrale dell’Aja, dove ho faticato un po’ a capire qual’era il mezzo giusto per raggiungere il mio hotel: alla fine, a forza di girare senza costrutto come una rincoglionita, ho scovato un banco informazioni al piano inferiore, dove una signora paffuta mi ha spiegato che, data l’ora assai tarda, non sarebbe più passato il tram diretto ma avrei dovuto accontentarmi di prendere il numero 1. Nessuna cartina dell’Aia in omaggio, cosa che avrebbe facilitato un po’ i miei spostamenti in una città che è meno piccola di quel che si pensi.

Arrivata con l’1 al capolinea il guidatore, un tizio coi baffetti ed un inglese assai stentato, mi ha spiegato che dovevo cambiare tram e prendere l’8, fermo lì vicino a porte aperte: ci sono salita, era tutto a luci accese e vuoto, ben riscaldato per combattere le basse temperature, con la radio che trasmetteva allegre musichette, pronto a raccogliere i viaggiatori sperduti nella notte. Deserto ed incustodito. Mi veniva così da ridere al pensiero di cosa sarebbe successo se la stessa cosa si fosse provata a fare in certe zone di Roma, probabilmente qualcuno sarebbe riuscito a smontare qualche pezzo del tram ed a portarselo via …

Il mio hotel l’ho scelto un po’ casualmente su Internet e si è rivelato grazioso, anche se piuttosto caro se confrontato con certi standard europei. Il Bad Hotel Scheveninghen si trova nella zona nord dell’Aia, a un centinaio di metri dal mare, e per avere l’onore di essere sua ospite ho speso la bellezza di 177 euro a notte che, caso unico in tutti i miei viaggi in Europa, mi sono stati fatti pagare sull’unghia immediatamente appena ho messo piede alla reception. Belle stanze, ottima pulizia, solita colazione internazionale: la mattina dopo ho visto che nell’albergo c’erano pure tutti i colleghi della Presidenza spagnola, chiaro segno che la mia scelta fortuita non era poi stata così peregrina. E poi c’era, comunque, poco da scegliere, tutti gli hotel erano strapieni, cosa che spesso succede lassù.

Per tutti i cinque giorni successivi ho trascorso il mio tempo dalle otto e mezza di mattina fino alle undici di sera nel centro congressi Dorint, ottimamente collegato al mio hotel dal tram numero 8: la palese inesistenza di tempo libero ha praticamente azzerato le mie possibilità di conoscere la città, che ho solo visto sfilare mattina e sera ai lati del tram. E per fortuna che non ho scelto l’hotel piazzato proprio sopra in centro, altrimenti della città non avrei visto manco quel poco! Il Dorint è uno grosso scatolone bianco piantato nel mezzo della città, privo di giardini e di verde, appena rallegrato – si fa per dire – da una immensa e scialba vasca/fontana circolare posta vicino all’ingresso e da qualche striscia d’erba. All’interno è tutto un susseguirsi bianco e splendente di sale, salette, corridoi e piccoli bar, cosparsi di cartelli con il logo multicolore dell’incontro, in cui stazionavano o gironzolavano gli esemplari di variopinta umanità dei congressisti, oltre duemila persone in tutto. Bellissime le decorazioni floreali, composte da fantasiosi vasi di vetro riccamente riempiti con ogni specie di tulipani e decorazioni. Impressionante la sala delle riunioni plenarie, uno spazio enorme foderato di rosso con una sorta di scalinata degradante che ospita i banchi dei delegati e che porta verso il palco centrale, su cui torreggia uno schermo necessario per ingrandire le figure dei conduttori della riunione.

Al centro congressi si lavorava, si mangiava, si beveva, ci si connetteva ad internet, si andava al bagno, si passeggiava, si chiacchierava senza uscire mai fuori. Alienante. Per cinque giorni ho galleggiato su un mare di irrealtà, correndo da una riunione all’altra, spulciando e spuntando mazzi di carte ed espletando le varie necessità psico/fisiche negli inesistenti intervalli. I cibi, in particolare, erano piuttosto cari (del resto mi dicono che tutta l’Olanda è cara ammazzata), quindi mi limitavo a trangugiare tramezzini, panini e merendine in busta, bevendo acqua e cappuccini semiliofilizzati. Un pacchettino contenente due diafani ed insipidi tramezzini costava 2,5 euro, una bottiglietta d’acqua 1,5 euro, una misera insalatina nella tavola calda sotterranea quasi 4 euro. Di pranzi completi manco a parlarne, così che ora non ho assolutamente la minima idea di come o cosa sia la cucina olandese.

In compenso la città mi è sembrata estremamente bella ed elegante, molto verde e curata: quasi tutte le case hanno la forma tradizionale, sono ad un paio di piani con abbondanza di vetrate e bay-windows, molto sono circondate da giardini piccoli o grandi impeccabilmente tenuti e pieni del verde tenero della primavera. Ho visto tanti bar più o meno all’aperto, severe chiese puntute in mattonicini, ristoranti multietnici. Come da tradizione ho notato tantissime piste ciclabili, pulite e spaziose, la cui larghezza spesso supera quella dei marciapiedi ed a volte rivaleggia con quella delle strade stesse. Qua e là ho intravisto qualche canale, bordato di filari di alberi e panchine, che interrompeva la geometria lineare e prevedibile delle strade: frequenti i parchi, in molti dei quali si cerca di riprodurre la natura in città, quando non si tratta addirittura di piccoli boschi completi di tutto punto.

Sono rimasta impressionata dal fatto che, alla stazione tram del Centro Congressi, la terra tra i binari era stata accuratamente ricoperta da vera erba in rotoli, accostata e ritagliata a coprire meticolosamente ogni spazio, che vista in prospettiva conferiva alla via ferrata un aspetto da viottolo verde nella foresta. In giro niente carte, cicche e immondizia, in una pulizia da Lisoform.

L’ordine puntiglioso della città è stato momentaneamente scompigliato dalle folle degli ambientalisti di Greenpeace, che proprio nei giorni della mia permanenza hanno più volte chiassosamente manifestato sotto il nostro centro a favore della conservazione delle “ancient forests”. Il problema di fondo è questo: i Paesi ricchi, dopo aver distrutto le proprie foreste primarie, non vogliono che la cosa si ripeta nei Paesi poveri che sono detentori degli ultimi lembi di foresta più o meno intoccati dall’uomo: l’azione in questione sarebbe estremamente lodevole se non fosse che nessuno ne vuole pagare il prezzo, adducendo a scusa un superiore ed astratto “bene dell’umanità”. Pertanto i risultati delle nostre discussioni – potentemente annacquati dalle azioni di Paesi che di gestione sostenibile delle proprie foreste sembra non vogliano manco sentirne parlare – non hanno soddisfatto i manifestanti, che hanno protestato in più modi. L’ultima mattina di riunione, tra le macchie di colore degli stendardi e degli animali di cartapesta che i “Kids for forests” avevano parcheggiato nei magri ritagli di erba di fronte all’entrata, torreggiava una croce di legno con su uno stendardo bianco che recitava “Ancient forests – 18th April 2002”. E speriamo che non abbiano davvero ragione loro … L’ultima mattina, uscendo un quarto d’ora prima dall’albergo ed approfittando dell’unica giornata di sole di tutta la mia permanenza, sono riuscita a gettare un’occhiata sulla spiaggia: di fronte ad alberghi moderni e torreggianti ho visto una distesa di sabbia accuratamente pettinata e recintata da una fascia di ordinatissimi stabilimenti balneari deserti, buona parte dei quali riecheggiava nel nome l’Italia (es. Marina). Tutto ordinato, pulito, perfettamente innaturale: né una duna, né verde, né alberi o vegetazione spontanea. Sullo sfondo di tutto si stagliava una specie di megapontile coperto, che si stendeva verso il mare e si allargava in una grande rotonda vetrata, una sorta di Belvedere ipertecnologico. Unico segno di vista degli stormi di gabbiani, uccelli ormai quasi ubiquitari, che svolazzavano in giro gridando. Ho rimpianto le residue dune di Sabaudia, verdi e scapigliate ancorché invase dai rifiuti e dalla sporcizia, perfino le modeste spiagge di Marina di San Nicola, dove resti di ville romane si intravedono tra la disordinata vegetazione delle macchie. Non ho avuto modo di conoscere molto gli olandesi, anche se ho notato in giro un’alta percentuale di fumatori e di gente originale: all’ormai famosa fermata del tram n.8, di notte ho visto sfilare punk in bicicletta, persone delle razze e dei colori più strani, perfino un vecchietto rinseccolito in cappotto marrone che esibiva un clamoroso cappello di pelo a falde larghe e che sembrava appena disceso da qualche tenebroso quadro fiammingo del bel tempo che fu. Rimpiango di non aver potuto vedere molto in Olanda: non ho visitato Amsterdam, né Leida, né l’Aia a rigori, delle celeberrime coltivazioni di fiori ho visto giusto qualche striscia lungo la ferrovia per Amsterdam. Il simbolo dei tulipani era, comunque, onnipresente. Non ho potuto vedere né il Keukenhof di Lissa, una sorta di grande parco pieno dei colori della primavera e di attrazioni turistiche, né la Floriade di Amsterdam, che è una grandissima esposizione orticola all’aperto, né musei, chiese, sexy shop o quant’altro: nada de nada.

La mia esperienza olandese, per lo meno dal punto di vista turistico, è stata giusto una corsa lunga sei giorni, che mi ha consentito appena di gettare qualche furtiva occhiata lungo il percorso. Ad ogni modo la mia modesta esperienza mi porta a concludere che è un Paese più che degno di essere visitato, soprattutto da giovani, magari ricorrendo ad un volo per Bruxelles (ce ne sono ancora di molto economici), usando come base qualche modesto hotel o ostello nelle vicinanze di Amsterdam e poi spostandosi in giro con gli efficientissimi treni locali.

Pure il viaggio di ritorno, tanto per cambiare, l’ho fatto di gran carriera, inseguendo tram e treni mentre venivo strangolata da un (ex) bagaglio a mano che rispetto alla partenza era notevolmente lievitato, raggiungendo il peso di sedici chili grazie ai tanti libri e pubblicazioni con cui l’avevo inzeppato. Tra il materiale riportato anche un mega-poster con il logo del congresso (tre tulipani sovrapposti – e ti pareva!), grattato da un muro del centro congressi con l’intima giustificazione morale che, tanto, di lì a poche ore sarebbe stato staccato finendo miseramente la sua esistenza nell’immondizia, nonché un bel tappetino per mouse ricoperto di tulipani rossi, vestigia “clandestina” delle mie frequentissime incursioni lampo nel cyber-caffè: entrambi oggetti che ora fanno bella mostra di sé a casa mia, nel mio studio.

L’assoluta mancanza di tempo libero mi ha addirittura ridotto a fare un po’ di shopping all’aeroporto, sulla via del ritorno. Io ed un collega italiano, ammaliati dai colori floreali degli oggetti esposti nei negozi, abbiamo fatto una piccola man bassa di souvenir altamente turistici, tutti colorati, divertenti e fioriti: ho riportato boxer multicolori per mio marito, piccoli fermacarte magnetici con zoccoletti e tulipani (che sfrenata fantasia) per mia figlia e mio nipote, una bustina di bulbetti di fresie blu per il mio giardino (ma saranno davvero blu? Li ho piantati, aspetto e spero). In particolare mi hanno colpito le cataste di bulbi ben confezionati in pacchi, che è possibile portar va all’ultimo momento e che rappresentano tutte le specie, colori, accostamenti e assortimenti possibili nel mondo dei vegetali tuberosi. E mentre me ne andavo verso il lontanissimo terminal da cui sarei ripartita ho sorriso, divertita al pensiero delle tante mamme italiane, ignare di tutto o quasi, che a titolo di graditi souvenir si vedono riportare a casa queste coloratissime scatole dai propri pargoli, volati ad Amsterdam a trascorrere un esaltante week-end trasgressivo al ritmo di canne & casino & vetrine a luci rosse…



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