Non abbiamo forato in Namibia

Avendo letto un certo numero di resoconti di viaggio, una delle preoccupazioni maggiori relative al nostro viaggio in Namibia era quella, banale se vogliamo, di forare una gomma dell’automobile. Non che di per sè la cosa potesse essere particolarmente grave, era solo il fatto di dove e quando sarebbe potuto capitare: nell’Etosha Park, dove...
Scritto da: baffo56
non abbiamo forato in namibia
Partenza il: 08/08/2007
Ritorno il: 29/08/2007
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 3500 €
Avendo letto un certo numero di resoconti di viaggio, una delle preoccupazioni maggiori relative al nostro viaggio in Namibia era quella, banale se vogliamo, di forare una gomma dell’automobile. Non che di per sè la cosa potesse essere particolarmente grave, era solo il fatto di dove e quando sarebbe potuto capitare: nell’Etosha Park, dove non puoi scendere dall’auto? 
A mezzogiorno lungo una pista sterrata lontano dai centri abitati, sotto un sole cocente? 
Davo per scontato, comunque, che sarebbe successo..

Per fortuna invece questo non è accaduto, nonostante gli oltre 2500 km di sterrato e nonostante le gomme della nostra Toyota Condor fossero già piuttosto consumate. Alle mie proteste, l’addetto del noleggio mi aveva dimostrato che il battistrada delle gomme era di ben 8 mm e che quindi andavano bene. Non ho avuto modo di controllare alla perfezione, ma penso che alla fine del viaggio si fosse ridotto di almeno 3 mm! Ma veniamo al viaggio vero e proprio. A partire siamo in tre: io, mia moglie Enrica e nostra figlia Benedetta detta Bibi, di quattro anni. Benedetta vanta già un curriculum di viaggio non indifferente: con noi è stata due volte in Australia, una in Thailandia e in diverse capitali e grandi città europee. Questa è la volta del suo quarto continente, l’Africa e in particolare appunto la Namibia.
Va detto che prima di programmare questo viaggio avevo valutato attentamente se fosse adatto per una bambina così piccola, ma diversi riscontri sia dal sito di Turisti Per Caso che da altre fonti mi avevano dato una certa sicurezza.

Il nostro programma di viaggio è stato il seguente: 8/08: Partenza dall’Italia (Bologna) per Windhoek, via Francoforte/Johannesburg 9/08: Windhoek (pernottamento alla Rivendell Guest House) 10/08: Otjiwarongo (Bush Pillow Guest House) 11-13/08: Etosha Park (Mokuti Lodge) 14-15/08: Kamanjab Area (Rustig Toko Lodge) 16-17/08: Twyfelfontein Area (Mowani Mountain Camp) 18-20/08: Swakopmund (Alte Brucke Resort) 21-23/08: Sesriem Area (The Desert Homestead and Horse Trails) 24-25/08: Aus (Klein Aus Vista) 26-27/08: Kalahari (Marienthal) Area (Anib Lodge) 28/08: Partenza per l’Italia da Windhoek, via Johannesburg/Francoforte 29/08: Arrivo in Italia (Bologna).

In totale, 20 giorni di permanenza in Namibia, con 19 pernottamenti.

Commento Generale Alla prova dei fatti, posso confermare l’assoluta fattibilità del viaggio. Certo, va tenuto presente che se ci sono dei problemi (fisici), ci si può trovare anche a 100/150 km dal più vicino punto di assistenza sanitario, ma questo potrebbe capitare anche in altri paesi, Australia o USA, tanto per dire. E’ bene, quindi, avere con sè tutte le medicine eventualmente necessarie e avere stipulato un’assicurazione cui ricorrere, per consigli di natura medica, appena possibile.

Il viaggio in sè è stato molto bello: forse non abbiamo visto, all’Etosha, tantissimi animali, quanto meno quelli più rari (tipo leopardi o rinoceronti), ma la varietà del paesaggio incontrato ha pochi riscontri con altri paesi africani.

La Namibia si è rivelata…Facile, negli spostamenti e nell’utilizzo delle strutture in cui abbiamo soggiornato, una più bella dell’altra, ma non per questo necessariamente di lusso.

Abbiamo mangiato, spesso, molto bene, anche se un po’ dispiaciuti per l’uso di animali locali che viene fatto dalla cucina namibiana.

Certamente questo viaggio rimarrà a lungo nei nostri cuori.

Di seguito il resoconto di ogni tappa.

8/08: Partenza dall’Italia (Bologna) per Windhoek, via Francoforte/Johannesburg Il giorno della partenza avviene un piccolo giallo: controllando, per caso, la situazione dell’aeroporto di Bologna sul relativo sito Internet, scopro che il volo che dovremmo prendere alle 19:40 per Francoforte non c’è! Dopo una serie piuttosto concitata di telefonate sia con i servizi aeroportuali sia con l’agenzia dove abbiamo comprato i biglietti aerei, veniamo a sapere che da tempo eravamo stati “riprotetti” sul volo precedente, in partenza circa un’ora prima, ma nessuno ci aveva avvertito.
Da notare che Lufthansa, la compagnia che abbiamo utilizzato, ci aveva obbligato ad acquistare i biglietti sin dalla metà di Febbraio.

In fretta ritariamo gli orari per farci accompagnare a Bologna (noi abitiamo in provincia di Reggio Emilia e ci vogliono circa tre quarti d’ora per arrivare all’aeroporto) e alla fine comunque siamo sull’aereo con destinazione Francoforte, il nostro primo scalo verso la Namibia.

Mai come alla partenza si percepisce il piacere di viaggiare con dei bambini: per Benedetta, sia pure già un po’ abituata ai viaggi, tutto è motivo di eccitazione, che si tratti dell’abbigliamento che indossa, dello zainetto che si è portata con dentro un po’ di bambole e giochi per passare il tempo o l’aspettativa per quello che avverrà i prossimi giorni.
I suoi occhi radiosi e il suo sorriso smagliante ci confermano ogni volta che stiamo facendo una scelta giusta, a cui molti rinunciano, credo, per troppe preoccupazioni o che altro.

Ma la giornata delle sorprese non finisce qui: pochi minuti dopo il decollo Benedetta comincia a chiederci: “L’aereo sta precipitando? Se precipita si rompe?” Io ed Enrica ci guardiamo stupiti, Benedetta ha già volato molte volte e sempre senza problemi. Non riusciamo a capire chi possa averle messo in testa una cosa del genere e abbiamo un bel da fare a rassicurarla, poco aiutati dal fatto che, contemporaneamente, stiamo attraversando una zona di turbolenze.

Arriviamo comunque a Francoforte e qui ci aspetta il “rito” delle salsicce locali, che mangiamo ogni volta che passiamo di qui e che anche Benedetta ricorda bene. Dopo qualche minuto che siamo seduti ci raggiungono Caterina e la sua giovane mamma, di Modena, che sono dirette a Gerusalemme per riunirsi con il rispettivo padre e marito, che di mestiere fa l’osservatore ONU (!). La mamma di Caterina, di cui purtroppo non ricordo ill nome, ci racconta di come lei sia sempre stata abituata a viaggiare, sin da piccola, grazie al padre che per lavoro e non, aveva questa passione. In particolare ci racconta di come fosse bello il Libano una volta e di quanto sia difficile adesso. Alla mia domanda se anche Gerusalemme abbia di questi problemi, risponde decisa di no, che la città è assolutamente sicura. Sarà…

Verso le 23 decolliamo da Francoforte e questa volta Benedetta è più tranquilla. L’abbiamo convinta che questo è un aereo molto robusto e che quindi non precipiterà, per cui dorme placidamente per tutta la durata del volo fino a Johannesburg, che è di circa 9 ore e mezzo. Noi facciamo un po’ più fatica, da esperienze precedenti ho l’impressione che Lufthansa abbia ridotto le distanze tra i sedili e quindi non si sta molto comodi.

9/08: Windhoek (pernottamento alla Rivendell Guest House) Dopo lo scalo a Johannesburg arriviamo a Windhoek a mezzogiorno circa. Dall’aereo scendiamo per accedere direttamente a piedi alla zona degli arrivi dell’aeroporto e questo ci fa sorridere. Il tempo è bello, come peraltro sarà per tutta la durata del viaggio e il cielo è terso e luminoso. Siamo in Africa, la terza volta per noi, la prima per Benedetta! Al controllo passaporti aiutiamo in un qualche modo un ragazzo nero che parla solo francese e che non riesce a capire cosa gli chiedono. In realtà gli addetti al controllo vogliono solo che scriva sul foglio di entrata in quale hotel è alloggiato, ma lui non lo sa, lo deve ancora trovare! E’ veramente una situazione paradossale, questo poveraccio non parla una parola d’inglese.

Finalmente passiamo anche noi e all’uscita scopriamo che il promesso autista che ci dovrebbe portare in centro a Windhoek, distante 45 km dall’aeroporto, non c’è! Telefono a Kirsty dell’agenzia Cardboard Box Travel Shop, con cui ho programmato viaggio e auto, che mi rassicura, l’autista sta arrivando. Approfitto dell’attesa per cambiare un po’ di euro in dollari namibiani e dopo un po’ arriva il nostro accompagnatore.

Mentre ci spostiamo in auto verso Windhoek cominciamo a notare meglio il paesaggio: è molto spoglio, quasi lunare. Sulla strada mi colpisce l’insegna di un’azienda che realizza, se non ho capito male, modelli imbalsamati di animali tipici africani, Spero vivamente di essermi sbagliato! Arriviamo alla sede dell’agenzia di noleggio auto e ritiriamo la nostra Toyota Condor, poi ci dirigiamo verso il centro della città, per fare due passi prima di andare alla guesthouse dove abbiamo prenotato la camera. Per visitare Windhoek, secondo la nostra tabella di marca, abbiamo a disposizione solo una mezza giornata e non vogliamo sprecare tempo.

Parcheggiata l’auto vicino al Post Mall, passiamo a conoscere Kirsty della Cardboard Box Travel Shop. Anche se quest’agenzia è la più referenziata nei resoconti di viaggio in Namibia, la vista della loro sede non è entusiasmante: sono in 5/6 persone in una stanza non più grande di 30 mq, tutte molto indaffarate. Non che la cosa mi preoccupi, noi quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto e non avremo intoppi di sorta. Nel corso del viaggio ho però sentito altri italiani lamentarsi un po’ del servizio offerto dalla CBTS. Io francamente penso questo: la Namibia sta avendo un boom turistico notevole, ma le strutture sono limitate. C’è sicuramente un problema di crescita e di sviluppo ulteriori e questo probabilmente riguarda tutti i settori, agenzie di viaggio comprese.

E’ probabile che fino a poco tempo fa la CBTS fosse adeguata, come personale, alle richieste che avevano, oggi forse comincia ad avere qualche problema.

Salutata Kirsty, facciamo due passi per il centro: proprio due, perchè Enrica si butta nella Bushman Art Gallery, nella Independence Ave. E comincia con i suoi classici acquisti etnici. Anche Benedetta vuole qualcosa e anche per lei cominciano le prime spese. Tale la madre tale la figlia! Dopo aver trovato gli adattatori per le spine di corrente (fondamentali!), ci spostiamo, con l’auto, in un altro negozio di oggetti etnici, il Namibia Craft Center, in Tal Street.
Quelli che abbiamo visitato sono probabilmente i posti migliori, a Windhoek, per questo genere di acquisti, ma, come detto da altri, la capitale è sicuramente più cara rispetto, per esempio, a Swakopmund. Se uno sa aspettare…

Finita la serie di acquisti, ci spostiamo finalmente alla nostra guesthouse, la Rivendell Guest House situata ad un paio di km dal centro. La troviamo senza fatica, girare per Windhoek non è difficile e il traffico è molto relativo, non certo di dimensioni occidentali.

La guesthouse è molto carina e abbiamo una stanza grandissima, con veranda sul giardino interno dove c’è la piscina che Benedetta vuole subito provare, ma siamo in inverno e anche se il sole è caldo e piacevole, l’acqua è decisamente fredda.

Monica, che ci ha accolto con grande cordialità e cortesia, ci spiega che poichè la guesthouse non ha il ristorante, può prenotare per noi dove vogliamo oppure ordinarci qualcosa ad uno dei tanti takeaway disponibili. Noi, stanchi per il lungo viaggio e non troppo invogliati a riprendere la macchina per tornare in centro, decidiamo per questa seconda soluzione, che si rivela comunque validissima.
Ci arriva infatti dell’ottimo pesce (stile fish and chips) che mangiamo nell’accogliente cucina comune della guesthouse. In effetti, la Rivendell GH, come impostazione, assomiglia più ad un ostello che ad un hotel: molto friendly, dove uno volendo può anche cucinare la sua roba e poi mangiarsela in camera. L’insieme è però molto più accurato di tanti ostelli dove siamo stati in altri paesi.

Il nostro primo giorno in Namibia sta finendo, ma mentre il pomeriggio era stato piacevolmente caldo, la sera e la notte sono decisamente fresche, tanto è vero che ci viene data una borsa dell’acqua calda da mettere in ognuno dei nostri letti.

Alle 21 siamo già a letto e cadiamo subito addormentati.


10/08: Otjiwarongo (Bush Pillow Guest House) Lasciamo la Rivendell Guest House, dove ci siamo trovati piuttosto bene e cominciamo a spostarci verso nord. In realtà, prima di lasciare Windhoek, facciamo una sosta per un paio di fotografie alla Christ Church (o Christuskirche), la centenaria chiesa luterana. D’altra parte, persi ieri nel vortice degli acquisti, della capitale abbiamo visto giusto il centro e quello che c’era lungo le strade che abbiamo percorso, ricavandone comunque un buona impressione: Windhoek è una città pulita, ordinata e per nulla caotica. Fa certamente specie quest’architettura dalla linea occidentale (tedesca?), quando per strada le persone sono in stragrande maggioranza di colore. Ma troveremo questa caratteristica, per altro ovvia, in tutte le altre città di rilievo.

Per arrivare ad Otjiwarongo prendiamo la B1. E’ una strada normale, corrispondente come larghezza della carreggiata alle nostre statali, ben asfaltata e scorrevole. Certamente di diverso, rispetto ad una qualsiasi strada europea, è la presenza di animali: vediamo infatti facoceri di tutte le taglie! Dopo circa 4 ore arriviamo ad Otjiwarongo, dove perdiamo un po’ di tempo, per colpa delle indicazioni poco chiare, per trovare la Bush Pillow Guest House. Ci registriamo, appoggiamo i bagagli e poi riprendiamo subito l’auto, vogliamo andare a visitare il Cheetah Conservation Fund che si trova a 45 km da qua e che è il motivo per cui ci siamo fermati ad Otjiwarongo. Affrontiamo il nostro primo sterrato in Namibia, comunque piuttosto buono e senza buche.

Come previsto, arriviamo in tempo per il feeding degli animali, presenti in un buon numero. Certo, non sono liberi, sono chiusi in grandi recinti e anche se liberati non sarebbero in grado di cacciare per nutrirsi. Lo scopo del CCF, d’altronde, è soprattutto questo, aiutare gli animali rimasti orfani e che non hanno potuto svilupparsi secondo la norma.

Al CCF non ci sono solo animali rinchiusi, se si arriva al mattino si può partecipare ad un’escursione che permette di andare a cercare gli esemplari liberi all’interno del Centro, che ha comunque una sua recinzione esterna che lo rende una vera e propria riserva dedicata ai ghepardi, presenti in Namibia più che in ogni altro paese al mondo.

Perdiamo ancora un po’ di tempo al centro visitatori del CCF e poi ritorniamo ad Otjiwarongo, dove Benedetta tenta anche qui la piscina, ma senza successo: l’acqua è troppo fredda e così sarà per tutto il resto del viaggio, quando ci ritroveremo, quasi sempre, in situazioni analoghe.

La cena ha un carattere familiare, in quanto condividiamo quello che mangiano i proprietari: un buon arrosto di manzo e un dessert. Poi, a letto presto anche stasera.


11/08: Etosha Park (Mokuti Lodge) Dopo aver salutato Neville, il cordiale proprietario della Bush Pillow Guest House, partiamo da Otjiwarongo alle 8:15, la nostra prossima destinazione è l’Etosha National Park, uno degli highlights del nostro viaggio.

La strada, sempre la B1, si mantiene buona e percorriamo 120 km fino ad Otavi, poi ci dirigiamo verso Tsumeb (70 km) e in questo tratto la strada si fa più tortuosa, anche se sempre abbastanza buona. Il paesaggio è piacevole, tra colline e saliscendi continui. Dopo Tsumeb, affrontiamo altri 90 km di strada per lo più diritta. Lungo il percorso abbiamo la sorpresa di vedere quello che ci sembra un babbuino.

Arriviamo finalmente al nostro lodge, il Mokuti Lodge che si trova appena fuori della porta di ingresso sud-est dell’Etosha National Park, il Von Lindequist Gate. Purtroppo anche se abbiamo cominciato a preparare il viaggio sin da novembre 2006, dandone poi conferma definitiva a febbraio 2007, non siamo riusciti a trovare posto all’interno dei tre camps del parco (Namutoni, Halali, Okaukuejo) e questo sicuramente ci ha tolto qualche cosa, in termini di possibilità di visione degli animali.

Non che ci possiamo lamentare, il Mokuti Lodge è veramente molto bello e al suo interno troviamo sia delle antilopi che tanti scoiattolini. Una sorpresa interessante è che il cellulare prende anche qua, così come nei tre campi all’interno del parco. In effetti la Namibia sta investendo parecchio nelle telecomunicazioni e man mano che procediamo nel nostro viaggio scopriamo che il cellulare, vicino ai lodge o nei centri abitati, funziona quasi sempre.

La temperatura è molto piacevole, anzi diciamo pure che fa caldo. In effetti, avevo questa aspettativa: cercando di capire via Internet le temperature della zona, avevo sempre trovato valori tra i 20 di minima e i 30/31 di massima, solo che mi erano sembrati poco convincenti. In realtà è proprio così e finalmente possiamo passare ai pantaloni corti. L’acqua delle piscine, purtroppo per Benedetta, rimane comunque inesorabilmente fredda.

Dopo esserci rilassati un po’, andiamo alla porta del parco per vedere come funziona il giro dei permessi. Il mio timore è che l’indomani ci possa essere coda per entrare e che questo ci possa far perdere del tempo prezioso. In realtà, il mattino dopo saremo i primi o quasi ad entrare nell’Etosha.

Quando rientriamo, visitiamo invece l’Ontouka Snake Park: è uno spazio, all’interno del Mokuti Lodge, dove sono custoditi vari esemplari di serpenti e altri animali. Leggendo le note descrittive del lodge, questo dovrebbe essere uno dei suoi punti di forza, dato che si vanta di poter mostrare molti tipi di rari serpenti locali, in un ambiente simile a quello naturale.

In realtà molti degli spazi destinati ai serpenti sono vuoti e tutta la struttura ci sembra un po’ in decadimento. Riusciamo comunque a vedere da vicino il velenosissimo black mamba, di cui, nel corso del nostro viaggio, ne sentiremo delle belle.

Il meglio di sè, il Mokuti lo dà a cena: il buffet è spettacolare e per 12 euro a testa ti puoi riempire da scoppiare. Particolarmente attraente è la mega-griglia dove alcuni cuochi cuociono in continuazione carne di vario genere, anche se “normale”. Qui al Mokuti, infatti, non abbiamo trovato, come invece da molte altre parti, piatti a base di springbok, eland o orice, non saprei dire perchè.

Particolarmente apprezzabile, dal mio punto di vista, il banco dei formaggi: mai mi sarei immaginato di trovare una cosa del genere, quando, a pochi passi da noi, ci sono leoni ed elefanti in libertà (nota: il Mokuti Lodge, pur essendo un lodge di livello medio-alto, non è un posto di lusso, quindi la mia sorpresa deriva anche da questo).

Particolarmente corroborati da questa cena abbondante, ce ne andiamo a letto prestissimo: all’indomani ci aspetta una levataccia, per potere essere alle porte del parco non appena apre (ore 6:30).

12/08: Etosha Park (Mokuti Lodge) La sveglia suona alle 5 e dopo aver faticato un po’ a convincere Benedetta per alzarsi, facciamo colazione e ci dirigiamo verso il gate d’ingresso nell’Etosha Park.

In effetti siamo i primi ed entriamo rapidamente. In realtà questa è solo la prima parte della burocrazia necessaria, i permessi veri e propri si fanno al camp del Namutoni all’ufficio della NWR (Namibia Wildlife Resort), la compagnia statale che gestisce il parco e altre zone della Namibia. Per tre giorni spendiamo 580 dollari namibiani, circa 60 euro. Nemmeno tanto! Perdiamo però tempo a cercare il negozio interno al camp dove vendono la mappa del parco e qui incappiamo in una delle distonie che abbiamo notato quando c’è di mezzo la NWR, in sostanza lo stato: perchè non vendere la mappa direttamente nell’ufficio dei permessi? Oltretutto con i lavori in corso, le indicazioni per raggiungere il negozio sono vaghe e dobbiamo chiedere a tre persone diverse prima di arrivarci. E tutto per una mappa (indispensabile per altro). 
Nota: la stessa mappa la si può trovare in un qualsiasi negozio di oggettistica namibiana o in libreria, a Windhoek, quindi consiglio di procurarsela prima di arrivare all’Etosha.

La questione dei lavori di ristrutturazione dei tre camps all’interno del parco mi suscita molta perplessità: nell’occasione del centenario dell’Etosha la NWR o chi per essa decide di effettuare dei profondi lavori di ristrutturazione. Quando? Durante il periodo invernale (luglio-agosto-settembre), periodo di punta per gli europei. Non c’era un periodo migliore? Mah! Ad ogni modo, con la mappa in mano cominciamo la visita del parco, battendo a tappeto tutte le waterhole (punti di abbeveramento) possibili o almeno una prima parte. Chiarisco subito che, come detto da molti, un’auto fuoristrada non è necessaria, le piste sono buone e si fanno tranquillamente con un’auto normale.

Un’altra nota informativa: anche se i tre camps distano l’uno dall’altro circa 75 km (che su sterrato vogliono dire un’ora e mezzo di strada circa), qua e là ci sono dei punti…Pipì! Certo, molto spartani, ma visto la proibizione assoluta di scendere dall’auto per qualsiasi ragione, è bene sapere che qualche area di sosta c’è.

Man mano che giriamo per le piste del parco, ci esaltiamo con la visione a ruota libera di: springbok, gembok (orici), zebre, giraffe, elefanti, struzzi, varie specie di uccelli. Niente felini, oggi, come primo giorno non ne incontriamo neanche uno. L’incontro più particolare di oggi è forse quello con un grosso maschio di elefante (un bull come lo chiamano qui), che ci ha attraversato la strada: era veramente enorme.

Per l’ora di pranzo arriviamo all’Halali, il campo centrale, dove però non mangiamo, visto che al Mokuti avevamo chiesto dei lunch packs. Prendiamo solamente qualcosa di fresco da bere e facciamo benzina. In tutti i tre campi esiste infatti un distributore di carburante, peccato però che quello del Namutoni sia rimasto senza benzina di tipo senza piombo (la nostra) per tre giorni! L’Halali mi fa un’impressione migliore del Namutoni, anche se molti resoconti di viaggio l’avevamo descritto come il più spartano. Probabilmente i lavori di ristrutturazione qui sono stati piuttosto intensi.

Dall’Halali torniamo verso il Namutoni, visitando altre waterhole. Colpisce molto il pan, cioè la bianca pianura salina, rimasta dopo il prosciugamento di quello che migliaia di anni fa era un lago glaciale. In certe ore del giorno la luce del sole sul pan è veramente accecante, ma il panorama è splendido, sia pure nella sua desolazione.

Mentre percorriamo i 12 km di strada asfaltata dal Namutoni notiamo una macchina ferma a lato della strada, segnale che sta guardando uno o più animali. Rallentiamo e vediamo ad un paio di metri dal limite della carreggiata un elefante maschio che sta placidamente mangiando il suo quintale giornaliero di vegetazione. E’ vicinissimo, tanto è vero che Enrica deve smontare il teleobiettivo dalla sua macchina fotografica. Aspettiamo che la macchina davanti a noi si sposti per cercare di prendere una posizione migliore, perchè…
MASSIMA DI ENRICA N. 1: IL POSTO DI OSSERVAZIONE DEGLI ALTRI E’ SEMPRE MIGLIORE.

In realtà, non è quasi mai vero.  Rientrati al Mokuti, aspettiamo rilassati l’ora di cena, che risulta sullo stesso tenore della sera precedente. Nota stonata, almeno per noi, che qualche scrupolo animalista ogni tanto ce lo facciamo, è la presenza di una griglia su cui è distesa un’intera capra, ovviamente già cotta. Vediamo che molti commensali si avvicinano e, letteralmente, strappano pezzi di carne per metterla nei propri piatti. Per quanto possibile, cerchiamo di ignorare questo “spettacolo”.

Poi, di nuovo a letto presto, per l’indomani ci aspetta un’altra intensa giornata di safari. Da rilevare che oggi, tra un giretto di qua e uno di là, abbiamo percorso più di 200 km.

13/08: Etosha Park (Mokuti Lodge) Sveglia ancora all’alba, per cercare di usufruire del momento migliore di osservazione degli animali. Questa volta non abbiamo impedimenti burocratici ed entriamo spediti nel parco diretti alla waterhole Klein Namutoni, vicinissima al camp e una delle più grandi. L’amico Fabio, nel suo resoconto, aveva scritto che, a suo tempo, qui aveva visto diversi leoni, noi vediamo i “soliti” springbok e poco più.

Dopo la sosta alla Klein Namutoni, imbocchiamo il Dikdik drive, un circuito di alcuni chilometri che parte proprio dalla waterhole e qui vediamo subito altre macchine ferme. Per cosa? Per un leone finalmente, che tranquillo sotto un albero si sta riposando all’ombra. E qui scatta il gioco del: “Dov’è quella macchina forse si vede meglio…Vai un po’ più avanti…Torna un po’ indietro…” e poichè siamo in certo numero (5/6 macchine) a fare questo balletto, i vari autisti, me compreso, cominciano a guardarsi in cagnesco. 
massima di enrica n. 2: UN PO’ PIU’ AVANTI…NO, UN PO’ PIU’ INDIETRO…NO, ERA MEGLIO PRIMA.

E’ quasi sempre meglio prima.  Finita la visione del leone, che nel frattempo si è allontanato disturbato dagli umani, proseguiamo il drive, ma improvvisamente mi rendo conto di un problema: anche se ieri abbiamo fatto benzina all’Halali, percorrendo poi circa un centinaio di chilometri, l’indicatore del livello del carburante tende drammaticamente verso lo zero. O è rotto l’indicatore o è successo qualcosa al serbatoio (una falla, un’incrinatura?) e sto perdendo benzina a rotta di collo.

Decidiamo di tornare al Namutoni per vedere quanta benzina possiamo mettere, ma quella senza piombo, come avevo detto, non c’è. Per fortuna che anche il Mokuti Lodge ha un suo distributore e vi ritorno sperando che non sia solo di servizio ma aperto a tutti, quanto meno ai clienti del Mokuti. Così è e, per fortuna, scopriamo che di benzina ne abbiamo in abbondanza in quanto il serbatoio si riempie quasi subito. E’ evidentemente un problema dell’indicatore di livello e purtroppo questo malfunzionamento mi assillerà per tutto il viaggio, dovendo sempre stare attento ai chilometri che percorriamo per non rischiare di trovarci a secco.

Per la cronaca, comunque, val la pena di sapere che al Mokuti Lodge c’è un punto di rifornimento al momento non segnalato su nessuna mappa e disponibile per tutti (credo… PECUNIA NON OLET).

Più tranquilli, ritorniamo dentro al parco e riprendiamo da dove ci eravamo fermati, all’inizio del Dikdik drive. Purtroppo non vediamo altri leoni, ma almeno alcuni dik-dik, animale carinissimo e tenerissimo. Non da mangiare, intendiamoci, come aspetto! Studiando un po’ la mappa e programmando di arrivare anche oggi all’Halali nel primissimo pomeriggio, decidiamo di prendere l’Eland Drive, che si addentra con decisione nella parte meridionale dell’Etosha. Il nome poi, riferito ad una delle più grosse antilopi presenti nel parco, fa ben presagire. Purtroppo vediamo moltissime…Cacche (sorry per l’eufemismo) di elefante, anche fresche, ma dei pachidermi nemmeno l’ombra. Qualche zebra, qualche giraffa, springbok e niente di più. Oltretutto l’Eland Drive è lungo e noioso e alla fine abbiamo veramente la sensazione di aver buttato via del tempo.

Mentre guido mi rendo conto che siamo in una situazione di possibile rischio: qua il cellulare ovviamente non prende e d’altra parte non incontriamo veramente nessuno. Se avessimo un problema con la macchina la cosa non sarebbe certo piacevole. Per fortuna non succede niente (il problema della benzina mi ha un po’ scosso) e arriviamo all’Halali come previsto.

Dopo una breve sosta per i soliti beveraggi freschi, ripartiamo decidendo di dirigerci più ad ovest, verso l’Okaukuejo, per tentare le varie waterhole lungo la strada.

In un lungo tratto diritto a fianco del pan, notiamo un gruppo di macchine ferme, ma di fronte c’è solo un’ampia radura, con una fila di alberi e cespugli che la contornano su di un lato. Ci fermiamo anche noi, ma non notiamo nulla, anche se tutti maneggiano binocoli e macchine fotografiche. Un cortese visitatore che sta lasciando il suo punto d’osservazione ci dice che, a circa 200/300 mt dalla strada, sotto un albero che in qualche modo ci indica, c’è un ghepardo che fino a pochi attimi prima era in piedi ed ora si è sdraiato.

Ringraziamo questa persona per la sua cortesia (si è fermato spontaneamente) ma avrebbe potuto dirci qualsiasi cosa, anche che c’erano dei leoni che facevano gli equilibristi sugli alberi: noi non vediamo nulla.

Proseguiamo verso Okakuejo, arrivando fino alla pozza di Omob, poi torniamo indietro e quello che vediamo vale più per l’aspetto paesaggistico che per gli animali, veramente scarsi.

Molto bella la zona di Sona e Sandora, rivolte verso il pan, dove il sole sta cominciando a calare e i colori sono più caldi e meno accecanti.

Sulla via del ritorno vediamo uno sciacallo e quella che sul momento ci sembra la schiena di un rinoceronte. In realtà probabilmente ci siamo sbagliati, guardando la foto scattata da Enrica, sembra più un grosso masso liscio.

Oggi, nessun elefante.

Rientriamo al Mokuti, dopo aver percorso ben 270 km. E siamo rimasti in macchina per oltre dieci ore. Benedetta, ieri come oggi, ha avuto i suoi momenti di noia, ma in generale è stata bravissima, stimolata comunque dalla visione di tanti animali così inconsueti.

A cena, evidentemente a grande richiesta, viene riproposta la capra (intera) alla griglia. Povera capra! 14/08: Kamanjab Area (Rustig Toko Lodge) Anche se oggi ci alziamo un po’ più tardi, non di meno la sveglia è piuttosto mattiniera, dato che ci aspettano la traversata di tutto il parco (circa 150 km di sterrato) e altri 270 km per arrivare a Kamanjab, nostra tappa successiva.

Rientrati per la terza volta nell’Etosha, andiamo subito al Klein Namutoni e all’inizio del Dikdik drive per vedere se ci sono ancora leoni, ma senza successo.

Qualche centinaio di metri prima di arrivare al Namutoni, le solite macchine ferme a bordo strada ci fanno sperare in qualcosa di particolare. In effetti, a qualche metro dalla carreggiata, alcuni sciacalli si stanno contendendo una carcassa ancora quasi intera di un orice. Ieri non c’era, è quindi evidente che è stato ucciso durante la notte o nelle prime ore del mattino.

L’incontro successivo con un gruppo di italiani ci farà scoprire che solo mezz’ora prima, in effetti, sul posto c’era il leone che aveva catturato e ammazzato la povera bestia, tutto intento nel suo pasto.

Riprendiamo la marcia e in seguito siamo un po’ più fortunati: vediamo ancora elefanti, tantissime giraffe e zebre, gnu ed antilopi varie, ma soprattutto troviamo, non molto distanti dalla strada di attraversamento del parco, quattro leonesse. Sulle prime sembrano puntare un gruppo di antilopi a qualche centinaio di metri da loro, Ma sono decisamente sopravvento e le antilopi si allontanano rapidamente. Alle leonesse non resta che, una dopo l’altra, di andare a sistemarsi sotto l’ombra degli alberi, in attesa di una situazione, per loro, più propizia.

In prossimità di Okakuejo, facciamo una deviazione al Pan Lookout, un’area che si spinge per un centinaio di metri dentro il pan dell’Etosha. E’ mezzogiorno e la luce è accecante, ma siamo ripagati anche dal fatto che troviamo un gruppo di simpaticissimi scoiattolini di terra. Non so se abbiamo fatto bene, gli abbiamo dato un po’ di pane da mangiare che loro, dopo una certa titubanza, hanno mostrato di gradire. Speriamo di non avere turbato la loro dieta, che comunque non deve essere particolarmente abbondante, vista la desolazione del luogo.

A mezzogiorno e mezzo in punto, un vero mezzogiorno di fuoco dato il caldo e la luce, siamo al camp di Okakuejo, dove ci fermiamo per un po’ per i soliti beveraggi e “altro”. Facciamo anche un salto sulla torre, da dove si ha una bellissima vista del camp e delle zone circostanti. Data l’ora, però, la luce è troppo forte per scattare delle buone fotografie.

Lasciato il camp con il rimpianto di non averci fatto almeno una notte, cominciamo il lungo avvicinamento a Kamanjab, per fortuna, finalmente, su strade asfaltate. La C38 prima e la C40 poi, sono, infatti in ottime condizioni e si può viaggiare spediti.

Dopo qualche ora arriviamo a Kamanjab, che immaginavo un po’ più grande, ma in realtà sono veramente poche case, il classico distributore e, comunque, un grande supermercato, piuttosto ben fornito. Devo dire che questa è stata tutto sommato una costante: quando si possono definire tali, e non semplici negozietti on the road, i supermercati sono veramente colmi di mercanzia.

Ne approfittiamo per fare scorta di un po’ di latte UHT per Benedetta, dato che è il suo alimento preferito e, oserei dire, principale.

Per arrivare al nostro lodge, dobbiamo riprendere un po’ di sterrato, anche perchè dei lavori di rifacimento bloccano la C35 verso Ruacana e dobbiamo percorrere una pista parallela che incrocia più volte la strada principale, fino a che le indicazioni del Rustig Toko Lodge ci fanno dirigere verso le colline.

In effetti il lodge si trova proprio sul fianco di una collina, cosa che non avevo notato quando avevo “studiato” la zona con le foto satellitari di Google (nota: per chi non lo sapesse, quasi tutti i lodge della Namibia sono visibili).

Il Rustig Toko Lodge, come altre situazioni analoghe, è la naturale conseguenza della proprietà di una grande fattoria da parte di una coppia di tedeschi che si stabilì da queste parti diversi anni fa. Ad accoglierci al nostro arrivo è Karol, la bella figlia dei proprietari che gestisce in prima persona il lodge. Molto cordiale, ci accompagna nella nostra stanza, posta nell’edificio che ospita il primo gruppo di camere, che condividono una lunga e larga terrazza da cui si gode una splendida vista della pianura sottostante.

Lo dico subito: il Rustig Toko Lodge è stato il posto che più è andato oltre le mie aspettative. Avendolo scelto più che altro per la possibilità di fare un’escursione per visitare un piccolo villaggio Himba situato vicino a Kamanjab, si è rivelato invece come molto bello e accogliente, molto più di quanto non facessero supporre le foto sul relativo sito internet e, tutto sommato anche il prezzo, per niente caro.

Siamo stati trattati con estrema cordialità, ma al di là di questo il posto è veramente bello e piacevole.

Con Karol concordiamo le escursioni per l’indomani: quella al villaggio Himba e il game drive al tramonto. Poi ci rilassiamo un po’ in camera e sulla terrazza. In effetti, si sta meglio fuori che dentro, qua la temperatura è più bassa rispetto all’Etosha e verso sera si abbassa ulteriormente, non gelida, ma decisamente fresca.

Bello e gradevole quindi il falò che viene allestito sul finire di ogni pomeriggio, intorno al quale ci si può ritrovare tutti insieme, a raccontarsi le avventure del giorno. E’ un’usanza che troveremo anche in altri lodge più avanti.

A cena affrontiamo per la prima volta la carne di animali “fuori ordinanza”, dato che ci servono delle cotolette di kudu. Mi spiace ammetterlo, ma sono buonissime e tenerissime e anche Benedetta la mangia di vero gusto.

A tavola scopriamo che ci sono anche due coppie di ragazzi italiani (beh, ragazzi “maturi”) che avevano volato con noi sin da Francoforte e che avevamo incontrato ancora ad una stazione di servizio lungo il tragitto verso Otjiwarongo. Non ricordo tutti i loro nomi, però so che ci troviamo ad avere in tre lo stesso nome (Stefano). Coincidenza veramente singolare.

Sempre a tavola conosciamo due “ragazzi” belgi, Anna e Irun, con cui parliamo di…Anversa, la splendida città da dove provengono. Benedetta a tavola è in gran forma, trovandosi con delle persone che, finalmente, può capire e da cui si può fare intendere. Non sta zitta un attimo e mi dà l’impressione di essere…Cresciuta! 15/08: Kamanjab Area (Rustig Toko Lodge) Dopo una colazione finalmente non troppo mattiniera, partiamo con Schmidt verso il villaggio degli Himba, posto a circa venti chilometri da Kamanjab, in direzione di Outjo.

Schmidt è una persona particolare: di origine tedesca, anche se nato in Namibia, ha lavorato per alcuni anni come pescatore (?!) freelance in Angola, da cui andava e veniva per alcuni mesi all’anno. Ora si è stabilizzato presso il Rustig Loko Lodge e non ho ben capito (non mi sembrava educato chiederlo) quali siano i suoi rapporti con la proprietà: marito o fidanzato di Karol, socio, dipendente? Non so, ho solo visto che comunque è coinvolto in tutte le escursioni del lodge e a cena si occupa del bar, ma se necessario serve anche in tavola. Gira sempre con un cappello da cowboy, d’altra parte con tutto il bestiame che c’è in giro! A riguardo dell’Angola ci dice che è un paese molto bello e che, dopo anni di instabilità dovuti alla guerra, le cose si stanno normalizzando e c’è una grande voglia di sviluppo e miglioramento. Chissà, sarà forse questa la prossima Namibia? Arriviamo rapidamente al villaggio Himba e qui troviamo ad accoglierci Jacob, che è il responsabile di un progetto di mantenimento delle tradizioni di questa popolazione. Jacob, dopo aver vissuto a lungo tra gli Himba, di cui conosce alla perfezione linguaggio e tradizioni (ha sposato due o tre donne Himba!) ha portato da queste parti alcune donne dal Nord, per accudire e far crescere dei bambini Himba orfani o comunque abbandonati.

Dato che gli Himba sono una popolazione nomade, il villaggio si è spostato da poco in questa zona, seguendo un po’ la presenza o meno di vegetazione adatta al mantenimento della piccola mandria di bestiame che possiedono.

Troviamo quindi che le capanne, circa una decina, sono ancora in via di costruzione, solo quella del capo villaggio è completamente finita. Questo però ci dà modo di vedere come vengono realizzate: rami, sterpaglia, fango e…Sterco di mucca! Sembra strano, ma in effetti le pareti delle capanne sono realizzate con un composto misto di fango e sterco di mucca, che pare piuttosto efficace.

Il villaggio è abitato da circa 50 persone, ma quando vi arriviamo troviamo solo donne e bambini, mentre tutti gli uomini sono fuori a lavorare nei campi o con il bestiame e solo due. Perchè malati, sono rimasti al villaggio.

Quando avevo concordato questa escursione, sin dall’Italia, avevo espresso timori che si trattasse di una cosa per turisti, artefatta e poco credibile. D’altra parte, il nostro viaggio non ci permetteva di spostarci più a nord, dove ci sono i maggiori insediamenti Himba, dato che sarebbero stati necessari almeno tre giorni solo per quello.

In realtà, come peraltro mi era stato assicurato, questo villaggio anche se piccolo è assolutamente… Vero e la visita si rivela particolarmente interessante. Jacob ci spiega usi e costumi degli Himba e insieme ad un’altra coppia di visitatori venuti con un altro tramite, ci accomodiamo nella capanna del capo, dove quella che sembra la donna più importante del villaggio, quasi una maitresse, aiuta Jacob nel farci vedere quello che man mano lui descrive: le acconciature dei bambini nei diversi periodi di età, quelle delle donne adulte, i “cosmetici” utilizzati (la famosa ocra rossa) e altro.

Rimaniamo quasi un’ora nella capanna e riesco a filmare tutto senza problemi. In effetti tutti nel villaggio si prestano ad essere fotografati tranquillamente e senza esigere soldi in cambio, come, per esempio, succede ormai da anni per le popolazioni Masai in Kenya e Tanzania. Con gli Himba è “bon ton” portare un po’ di generi alimentari e cose simili, ma niente di più.

Arriva però il momento del mercatino, momento molto atteso da Enrica che non crede quasi ai suoi occhi. Le donne del villaggio espongono infatti collane, braccialetti e altri monili realizzati da loro. Enrica trova dei pezzi piuttosto belli a prezzi oserei dire stracciati, soprattutto se li confrontiamo con Windhoek. E poi, qui siamo sicuri che i soldi vanno direttamente a loro e che verranno usati per il bene dell’intera comunità.

Ringraziamo Jacob, a cui facciamo i complimenti e gli auguri per il suo progetto e ritorniamo al lodge. La visita è stata veramente molto interessante e questo costituisce un altro punto a favore del Rustig Toko. Senza doverci sobbarcare un lungo viaggio di andata e ritorno verso Opuwo, abbiamo potuto avere un’idea di un villaggio Himba e dei suoi abitanti. Ne è proprio valsa la pena.

Nel pomeriggio partecipiamo al game drive del tramonto, nei 4000 ettari di proprietà del Rustig Toko Lodge. Siamo in tanti (4 auto) perchè mentre eravamo via il lodge si è riempito di…Italiani(!), che condividono con noi questa escursione piuttosto rilassata e rilassante.

Schmidt, ancora lui, capo-carovana, ci dice che oltre ai vari animali erbivori, nei dintorni vivono anche ghepardi e sulle colline, leopardi. Ovviamente noi vediamo “solo” giraffe, zebre, springbok…E mucche.

Abbiamo però la fortuna di vedere un animale particolarissimo e piuttosto difficile da incontrare, quanto meno di giorno: un formichiere! E’, che dire, simpatico, con questo lungo muso a forma di tubo, una vera e propria proboscide, da dove la lingua guizza incessantemente in cerca di formiche. Ha un colore grigio e quasi si confonde con l’ambiente circostante.

Nel frattempo, Benedetta, visto che siamo in macchina con un gruppo di italiani, fa di tutto per farsi notare da un ragazzino che insieme ad altri compagni e compagne, sta nel sedile dietro di noi. Si chiama Alberto e Benedetta lo interroga in continuazione con le domande e/o osservazioni più ingenue. Per fortuna lui sta al gioco, è molto gentile e non ci sembra per nulla infastidito. Meno male, perchè quando Bibi attacca una pezza non finisce più! Sulla via del rientro ci godiamo il tramonto, dopo di che ci aspetta una cena buona come quella precedente. Non più orice, ma spezzatino di springbok, ormai queste carni stanno diventando la norma.

16/08: Twyfelfontein Area (Mowani Mountain Camp) Lasciamo il Rustig Toko con un piacevolissimo ricordo e prometto a Karol che parlerò di loro nel mio resoconto di viaggio. Enrica, oltre al ricordo, porta con sè qualcosa d’altro: all’ultimo momento è riuscita a farsi vendere dalla proprietaria del Rustig Toko (madre di Karol) una splendida collana Himba che faceva parte della sua collezione personale. Nemmeno Karol si spiega come mai la madre abbia deciso di venderla, ma meglio per noi! Da Kamanjab imbocchiamo la C35 verso Khorixas e dopo pochi chilometri svanisce l’illusione di poter muoverci su strada asfaltata. Troviamo infatti lo sterrato, però abbastanza buono e veloce.

A Khorixas arriviamo dopo aver percorso circa 110 km e ci fermiamo per fare rifornimento di benzina e di…Latte per Benedetta! Alla stazione di servizio notiamo una scena piuttosto singolare: a dei turisti francesi viene recapitata una valigia e dalle esclamazioni compiaciute degli stessi capiamo che si tratta di un bagaglio “ritardatario”, cioè non recapitato al loro arrivo in Namibia.

Quest’anno il problema dei bagagli ha colpito moltissime persone, spesso abbiamo incrociato turisti che ci hanno detto di avere avuto inconvenienti di questo tipo. Noi, quando siamo arrivati a Windhoek, le valigie (gli zaini) le avevamo tutte e avevamo tirato un grosso sospiro di sollievo. Ma ancora non sappiamo, a questo punto del viaggio, che il rientro in Italia sarà ben diverso! Da Khorixas verso Twyfelfontein la strada è molto meno buona e la velocità media scende. Troviamo infatti un fondo piuttosto sassoso e scivoloso, con molte curve e saliscendi.

Ai lati notiamo diversi “banchetti” e “negozi” open air di manufatti locali e minerali. Non ci fermiamo, perchè abbiamo voglia di arrivare al lodge e comunque non sembrano particolarmente interessanti.

Ad un certo punto arriviamo al gate d’ingresso per visitare la Foresta Pietrificata e dato che è mezzogiorno e fa piuttosto caldo, ci informiamo solo sugli orari, ripromettendoci di tornarci più tardi nel pomeriggio. In realtà, quando arriveremo al nostro lodge scopriremo che tornare comporterebbe un viaggetto di 50+50 km e lasceremo perdere.

Per fortuna, colloqui successivi con altri turisti ci faranno capire che non abbiamo perso moltissimo, almeno secondo il loro punto di vista.

C’è anche un altro motivo che ci ferma nel tornare alla Foresta Pietrificata: il nuovo lodge dove siamo arrivati e dove passeremo due notti, il Mowani Mountain Camp è M E R A V I G L I O S O.

Intendiamoci, quello che avevo visto sul relativo sito internet, per la verità un po’ stringato, faceva ben presagire e d’altra parte non era stata una scelta a cuor leggero, dati i prezzi del Camp che ne fanno un’accomodation di lusso.

Ma, SEMEL IN ANNO LICET INSANIRE, una volta all’anno si possono fare follie e questa è stata la nostra follia annuale.

Il Mowani Mountain Camp è composto da 12 tende di lusso, più le zone comuni, completamente immerse e nascoste nel panorama circostante, tipico di questa zona, il Damaraland, per me una delle più belle di tutto il viaggio.

Le tende sono distanti l’una dall’altra e non si vedono, nascoste come sono tra quei grossi pietroni sferici che sono un po’ la caratteristica dell’area. E’ difficile spiegare quanto sia bello questo posto, che nella nostra classifica di esperienze di viaggio, mettiamo senza dubbi in testa a tutti gli altri, forse eguagliato solo da un soggiorno su un’isola della Grande Barriera Corallina australiana.

Insomma, per farla breve, una volta piazzati nella nostra tenda, non ci muoveremmo più di lì, anche perchè il viaggio è stato comunque faticoso, con tutto quello sterrato non si arrivava mai.

E poi, io uso la parola tenda come nella terminologia del Camp, ma in realtà si tratta di un bungalow sopraelevato, che ha come copertura, appunto, un telo a mò di tenda, praticamente una casetta con una grande veranda, da cui si gode un panorama spettacolare.

Intorno a noi, sugli alberi e sulle rocce, notiamo tantissime di quelle che noi chiamiamo manguste, ma che forse sono un altro tipo di animale che non saprei indicare. La gente del Mowani in realtà li chiama…Topi. E’ divertente vedere come si arrampicano sui rami degli alberi circostanti, lasciandosi poi dondolare nella brezza che soffia leggera.

Fatto un bagno tonificante, andiamo ad esplorare le zone comuni del Mowani, prenotando per prima cosa le escursioni per l’indomani.

La piscina, piccola, ma splendidamente incastonata tra le rocce, presenta come al solito un’acqua fredda e anche se mi ero messo il costume non trovo il coraggio per immergermi, come quasi nessuno degli altri ospiti che incontriamo sul posto.

Che, tra parentesi, sono tutti italiani! Tra questi un simpaticissimo gruppetto formato da tre coppie milanesi/romane che si distingue per la maglietta che portano tutti, con, sul davanti il disegno dell’Africa con la scritta “Ci siamo persi qui?” e sul retro le loro firme. Anche noi abbiamo “la maglietta del viaggio”, ma di questo parlerò più avanti. Questi signori, ultracinquantenni, hanno intenzioni “bellicose”, dopo la Namibia intendono spostarsi anche in Botswana, via terra.

Più tardi, ci appostiamo tutti nella zona-tramonto, una particolare collinetta rocciosa da dove si può godere di uno splendido panorama, mentre un cameriere porta in giro stuzzichini e drinks vari. L’ho detto, siamo in un posto di lusso e si vede da tutti i punti di vista.

Arriva infine il momento della cena, a menù fisso, con piatti buoni e ben curati, poi rientriamo, presto come al solito, nella nostra tenda, cantando e ballando “Buffalo Soldier” di Bob Marley. Non sapremmo spiegare perchè, ma la magnifica notte stellata sopra di noi, ci ha ispirato un ritmo reggae.

Carinissima, infine, la consuetudine pre-sonno del Mowani: ci viene infatti consegnato uno stampato su cui è riportata una storia riferita ai luoghi del posto. Ho così l’opportunità di raccontare a Benedetta qualche cosa di diverso dai soliti Cenerentola, Peter Pan o Winnie The Pooh.

17/08: Twyfelfontein Area (Mowani Mountain Camp) Per l’escursione prevista per la mattinata ci dobbiamo alzare, ti pareva, all’alba. Dopo una rapida colazione raggiungiamo la guida e i nostri compagni di viaggio, ben due (!), per cui in, in auto, ci accomodiamo a nostro piacere.

Athan, la nostra guida, ci racconta che lui è proprio di questa zona, il Damaraland: appartiene quindi al gruppo dei Damara e ne sembra piuttosto fiero.

Dopo aver percorso per circa mezz’ora la D2612, deviamo decisamente verso i campi, per seguire il corso asciutto del fiume Huab, nelle cui vicinanze dovremmo trovare l’oggetto della nostra escursione, i famosi e particolari elefanti del deserto.

Sullo sfondo le montagne tipiche del Damaraland, con questi massi di granito, resi più o meno sferici dall’azione degli agenti atmosferici. Avevo già visto formazioni rocciose di questo genere, in Australia (le Devil’s Marbles) e nel parco del Matopo in Zimbabwe, ma qui sono presenti in quantità decisamente superiore, quasi industriale! Ci muoviamo lungo e attraverso il corso del fiume e sulla sabbia si notano nettamente le impronte degli elefanti, che però non vediamo. Ci spostiamo quindi in un’altra zona, abbandonando il fiume e portandoci in una vasta piana ai piedi delle montagne.

Ogni tanto ritroviamo le tracce degli elefanti che però continuiamo a non vedere. Ad un certo punto arriviamo ad un villaggetto e qui Athan chiede informazioni ad un vecchio seduto su di un muretto. Immaginate la scena: “Scusi, ha mica visto degli elefanti?” – “Certo, sono andati verso le montagne”. Robe da…Africa!!! In realtà, il tutto si è svolto nel loro dialetto e quasi più a gesti che a parole, ma il senso del breve dialogo è quello e in effetti, dopo avere attraversato questa bella piana desertica, troviamo finalmente gli elefanti, un bel gruppo di 8 esemplari, di varie taglie e sesso.

Stiamo a lungo ad osservarli: sono diversi da quelli dell’Etosha, più piccoli, la pelle molto rugosa, con i piedi dalla base molto più allargata rispetto al fusto delle gambe. L’ambiente desertico e il fondo spesso sabbioso del terreno, hanno indotto su di loro queste mutazioni, atte proprio a favorirne l’adattamento a questo tipo di habitat. Pare inoltre che possano stare senza bere per alcuni giorni! Dopo oltre cinque ore rientriamo al Mowani. E’ stata una bella escursione, che vale sicuramente di fare. Athan si è dimostrato una brava guida, molto cordiale e gentile e quello che abbiamo visto lo si trova solo qui, in un contesto che a me è piaciuto veramente molto.

Dopo un pranzo frettoloso, siamo già pronti per la seconda escursione del giorno, quella a Twyfelfontein, per vedere i famosi graffiti rupestri. Non sono molto lontani dal Mowani, si trovano a circa 20 chilometri di distanza, poco dopo il lodge omonimo.

In questa escursione siamo completamente soli, in compagnia della guida, di cui ricordo solo il soprannome, Squirrel, cioè scoiattolo. Arrivati al parcheggio ed entrati nel padiglione di accesso all’area riservata, mentre Squirrel fa i biglietti Enrica riesce a trovare e ad acquistare degli oggetti di produzione locale, nel curio-shop del centro visitatori. Poi, entriamo.

Devo dire che solo a quel punto mi rendo conto che c’è da camminare e da salire sulle montagne e noi abbiamo…Benedetta! Per fortuna, riusciamo a muoverci abbastanza speditamente, convincendo Bibi che questo è un gioco e ci stiamo arrampicando sulle montagne, come grandi scalatori.

I percorsi di visita sono due: il “Dancing Kudu” e il “Lion Man”; Squirrel ci suggerisce di seguire il primo, più adatto alle nostre possibilità.

Dopo un breve tratto pianeggiante, risaliamo quindi le colline. Il sentiero non è difficile e Benedetta sembra quasi divertirsi. Ad un certo punto Squirrel ci fa notare una sorgente d’acqua potabile dove un cartello riporta che il contenuto dell’acqua è particolarmente ricco di minerali. Visto che la cosa sembra sicura, ne assaggio un sorso ed effettivamente è un’acqua molto dura.

Twyfelfontein significa “sorgente incerta” . Il nome a questo posto venne dato nel 1947 da un colono europeo che aveva appunto notato questa inaffidabilità della fonte d’acqua. Squirrel di par suo ci racconta la storia del fattore tedesco che voleva impiantare un’allevamento di bestiame in questi territori, di cui ancora oggi si può vedere il sistema di convogliamento dell’acqua nei pozzi. L’incertezza della situazione, però, non aveva purtroppo consentito all’uomo di continuare con la sua fattoria e relativo bestiame Man mano che saliamo, troviamo i vari punti d’interesse, cioè alcune rocce su cui sono disegnati alcuni animali (una giraffa, il kudu “danzante”, un bufalo) e alcuni omarelli. Per la verità non è molto e avessi motivato la sosta nel Damaraland solo per questo ne sarei un po’ deluso.

Pare però che lungo l’altro sentiero, quello del “Lion Man”, i disegni siano più numerosi, ma noi alla fine, causa Benedetta, non ci sentiamo di fare altro.

Tornati al centro visitatori, scopriamo che gli oggetti che Enrica aveva comprato e che aveva lasciato in deposito, sono saliti di prezzo. Anche qui, guai dell’inflazione! L’escursione a questo punto prevederebbe la visita anche della Burnt Mountain e delle Organ Pipes, a pochi chilometri di distanza da Twyfelfontein, ma il ritmo della nostra visita ai graffiti è stato molto blando e il tempo è finito. Per fortuna che non c’erano altri con noi! Rientriamo comunque con piacere al Mowani, abbiamo ancora solo poche ore per godere di questo posto straordinario e ce le gustiamo tutte. Difficilmente ci scorderemo questo lodge.

18/08: Swakopmund (Alte Brücke Resort) Dopo aver lasciato molto a malincuore il Mowani Mountain Camp, ci dirigiamo verso sud seguendo la D2612. Il fondo stradale è buono e in più ci godiamo dei bellissimi panorami.

Quando raggiungiamo la C35, lo sterrato è ancora migliore e si può viaggiare un po’ più veloci, tenendo circa gli 80 km/h di media.

Devo dire una cosa: nella scelta dell’itinerario da percorrere verso Swakopmund, avevo covato a lungo il dubbio se, anzichè prendere la C35 verso Uis, non fosse meglio (come panorami e paesaggi) riprendere la C39 e dirigerci verso la costa. In questo modo avremmo potuto percorrere quasi per intero la famosa Skeleton Coast, leggendario tratto di costa sull’Oceano Atlantico.

Alla fine avevo optato per il percorso verso sud e sono convinto, a posteriori, di avere fatto la scelta più giusta, per vari motivi:
1) scegliendo la C39 il viaggio si allunga di molto
2) la Skeleton Costa non è più così leggendaria: moltissimi dei relitti che si potevano trovare sulle sue spiagge sono stati, nel tempo, portati via dalle onde del mare
3) la C34 che scende verso Swakopmund in realtà non è proprio lungo la costa, ma qualche chilometro nell’entroterra, per cui se si vogliono vedere le spiagge bisogna fare continue deviazioni, rendendo ancor più lungo l’attraversamento
4) se non si pernotta dentro il parco della Skeleton Coast, a Torra Bay, dove arriva la C39 NON TI FANNO ENTRARE e questo l’ho saputo solo in seguito. Se avessimo preso questa strada saremmo dovuti ritornare indietro (credo…Anche se in Africa non si può mai dire).

Seguendo quindi la C35, dopo un po’ arriviamo ad Uis, che la Lonely Planet definisce quasi una città-fantasma. In effetti non dà l’impressione di essere particolarmente animata, ma almeno c’è un distributore di benzina ed un supermercato, per la verità anche piuttosto grande e rifornito.

Fermandoci proprio lì per prendere qualcosa da bere, si avvicina il solito ragazzo (bè, un po’ attempato…) che si offre per custodirmi la macchina, chiedendomi però contemporaneamente di comprargli da mangiare nel supermercato. Non faccio in tempo a rispondergli che una specie di vichinga, bionda, sulla cinquantina e alta come me (1.90 circa) lo apostrofa in malo modo, dopo essere uscita dal negozio. Dal tono e dai gesti (non parla inglese e nemmeno tedesco ma la lingua locale), intuisco che gli sta dicendo che non deve rompere le scatole, che è un fannullone e che guai a lui se chiede dei soldi ai turisti.

Intimorito, il ragazzo ovviamente si allontana, ma quando esco lo ritrovo ancora lì. Impressionato anch’io dalla vichinga, che non mi ha degnato di uno sguardo, non gli ho preso da mangiare, ma gli allungo qualche dollaro, facendo finta che mi abbia custodito veramente la macchina.

Riprendiamo la C35, in direzione Henties Bay; da questo punto in poi il panorama diventa piatto e oserei dire squallido. Di interessante c’è, per un po’, la vista del massiccio del Brandberg, il più alto rilievo della Namibia (circa 2600 mt.), ma per il resto la strada è tutta diritta e noiosa, anche se si riesce a viaggiare abbastanza velocemente.

A questo punto stiamo procedendo decisamente verso ovest e quindi diritto davanti a noi dovrebbe esserci il mare. Sullo sfondo, però, vedo il profilo di una massa scura e a lungo mi chiedo se siano delle montagne che però, secondo la cartina, non ci dovrebbero essere. E in effetti è così, non sono montagne, ma nebbia o comunque nuvole molto basse.

E’ un po’ quello che ci aspettavamo, in molti ci hanno detto che sulla costa avremmo trovato un tempo peggiore, umido e nebbioso, ma non avendo visto letteralmente una sola nuvola in 9 giorni, ne rimaniamo ugualmente sorpresi.

Arriviamo quindi in prossimità della costa, dove la C35 finisce nella C34 che è la strada costiera, per fortuna asfaltata. Prima di dirigerci a sud verso Swakopmund, risaliamo un po’ verso nord, perchè vogliamo vedere le famose otarie di Cape Cross. L’asfalto è buono, ma la sabbia portata dal vento lo rende sdrucciolevole e bisogna procedere con cautela, anche perchè ogni tanto entriamo in un banco di nebbia, per fortuna comunque rari. Siamo in una zona di lavorazione del sale marino e a bordo della strada troviamo diversi ragazzi che vendono dei cristalli salini dalle varie forme e dimensioni. Ovviamente finiamo per comprarne uno anche noi. 
MASSIMA DI ENRICA N: 3: QUESTO LO DEVO PRENDERE PERCHE’ POI NON LO TROVO PIU’.

Vabbè, una volta tanto questo è vero…

Cape Cross, sulla carta dovrebbe distare 46 km da Henties Bay, in realtà i chilometri sono 55. Questa discrepanza, intendiamoci limitata, l’ho trovato anche in altri frangenti, per cui spesso i chilometri che dovevamo percorrere si sono rivelati di più di quelli previsti e calcolati guardano le cartine stradali.

Alla riserva di Cape Cross, quando arriviamo (in pratica nel primo pomeriggio), troviamo che le otarie sono tutte in mare e quindi non riusciamo bene a percepire quante siano. Qualcuno ha parlato di 100.000, in realtà i conteggi ufficiali parlano di circa 25.000, ma non ne ce rendiamo conto.

L’altro elemento caratteristico descritto da molti resoconti di viaggio è…La puzza. In effetti l’aria non è delle migliori, ma, forse per il fatto che siamo in inverno e le foche sono tutte in acqua, l’odore non è così insopportabile come raccontato da tanti. Peggio sicuramente le concerie di Fez in Marocco! Perchè ci sia questa puzza è abbastanza chiaro: la stretta fascia costiera (alcune decine di metri) dove risiedono le otarie quando sono a terra è tutta ricoperta di escrementi e ossa di foca morta. Vediamo diversi crani e scheletri semisepolti nella terra e non è un bello spettacolo. Intorno ci sono molti sciacalli ed è comprensibile. Addirittura ne vediamo uno che si è spinto fino sugli scogli a filo del mare, che sta cercando di insidiare il piccolo di un’otaria che alla fine decide di portarselo in mare. Questa volta è andata bene, ma quante volte sarà successo il contrario? Insomma, alla fine ce ne andiamo un po’ rattristati da quanto visto e certo il cielo grigio, l’umidità e l’aria decisamente fresca non aiutano a risollevarci un po’. Ci aspettavamo di più da questa riserva che non ci sembra particolarmente ben tenuta e conservata. D’altra parte è noto che periodicamente vengono compiute vere e proprie stragi autorizzate, atte, così dicono, a mantenere gli equilibri naturali, ma che in realtà favoriscono l’industria ittica locale.

Quando arriviamo a Swakopmund, la troviamo seminascosta nella nebbia, con l’aria triste e grigia delle città di mare in inverno. Prendiamo subito “possesso” della nostra stanza, che in realtà è un mini-appartamento con cucina attrezzata e quattro posti letto, presso l’Alte Brücke Resort ai margini sud della città, vicino all’Aquarium, in buona posizione per raggiungere rapidamente il centro, sia pure in auto.

Come prima cosa ci preoccupiamo della cena e qui, per la prima volta in tutto il viaggio, ci scontriamo contro l’affollamento di agosto e con il fatto che siamo nel fine settimana. Dopo molti tentativi infruttuosi, tutti i migliori ristoranti risultano fully booked (completi) e riusciamo a trovare solo al Napolitana, specialità…Pizza! Vabbè, ci può anche stare, dopo dieci giorni in Namibia e se ho mangiato la pizza, peraltro buona, a Lusaka, in Zambia o a Singapore e in Thailandia, la posso mangiare pure qui, anche perchè, di solito ci sono di mezzo degli italiani. In realtà, in questo caso i pizzaioli sono veraci ma nel senso che sono del posto. D’altra parte, il titolo di miglior pizzaiolo del mondo, qualche tempo fa, non è andato ad un filippino o qualcosa del genere? E la pizza che mangiamo è buona, segno che ormai la possono e la sanno fare tutti! Swakopmund, a detta soprattutto della Lonely Planet è una città che, come Windhoek, richiede una certa cautela nell’andare in giro, quanto meno di notte, però non vale la stessa cosa, e in misura ben peggiore, nelle nostre città? E’ vero, in giro notiamo alcuni personaggi dall’aria poco raccomandabile, ma vediamo anche molti turisti (e turiste) in giro da soli e in luoghi non particolarmente illuminati.

E’ logico, una certa cautela ci vuole sempre, ma ho l’impressione che queste indicazioni della Lonely Planet siano esagerate. Secondo me, rischiamo di più dalle nostre parti! 19/08: Swakopmund (Alte Brücke Resort) E’ domenica e dedichiamo la mattina ai negozi di oggetti etnici, dato che comunque non tutti sono aperti e lo sono solo fino a mezzogiorno o poco più. In effetti ci siamo un po’ dimenticati del trascorrere dei giorni, non tenendo conto dei problemi di apertura/chiusura di negozi, banche e agenzie varie e questo ci spiazza un po’. Domani però vogliamo dedicarlo tutto ad un’escursione a Walvis Bay/Sandwich Harbour e quindi affrontiamo oggi lo shopping.

Enrica fa altri acquisti, favorita dai prezzi che, come previsto, sono più bassi rispetto a Windhoek (ma non sempre). In particolare compra due statue molto belle in legno nero e vetro raffiguranti un uomo e una donna. Sono esili ma alte e sul momento ci chiediamo come faremo a portarle in aereo, ma il commesso del negozio ci dice che non ci sono problemi, basterà darle al pilota (!) quando saliremo a bordo. Non siamo ovviamente convinti di questa affermazione, ma sono molto belle e le compriamo ugualmente, vedremo poi come risolvere il problema.

La giornata sembra migliore di ieri e man mano il cielo si pulisce fino a rivelare un bel sole, anche abbastanza caldo.

All’Ufficio del Turismo incontriamo due del gruppo delle coppie milanesi/romane che avevamo incrociato al Mowani Mountain Camp. Stanno organizzando la trasferta in Botswana e ci dicono che la signora che li sta aiutando è molto efficiente. Scopriremo il giorno dopo quanto questo sia vero.

Per il pomeriggio stiamo pensando di percorrere il Weltwitschia Drive, che attraversa il famoso “Moonlight Landscape” (paesaggio lunare) e dove si trovano piante e licheni millenari. Ci rechiamo perciò al vicino ufficio del NWR, per i necessari permessi.

Prima di partire per il Drive, mangiamo qualcosa al bar dello Strand Hotel, vicino al Museo di fronte al mare. Sulla spianata, un gruppo di bambine sta offrendo uno spettacolino di canti e danze locali, vestite di semplici gonnellini e magliette. E’ molto divertente, alcune di loro sono anche brave e non ci accorgiamo del tempo che passa.

Partiamo così un po’ tardi per il giro che dobbiamo fare. Sempre tenuto conto che in questo periodo il sole tramonta alle 17,30/17,40 circa.

Faccio benzina e l’addetto del distributore si compiace di dirmi che i nostri pneumatici sono piuttosto brutti (lisi) e che l’agenzia di noleggio ci ha fregato! Ovviamente faccio i dovuti scongiuri, ma esco da Swakopmund non molto convinto di quello che stiamo per fare, dato che, come al solito, ci aspettano solo delle strade sterrate.

Sarà stata l’incombente preoccupazione o solo una momentanea distrazione ma…Sbagliamo strada! Dopo avere percorso parecchi chilometri, senza incontrare praticamente nessuno, ci troviamo all’ incrocio con la C14, con l’indicazione da una parte Windhoek e dall’altra Walvis Bay. E’ chiaro che abbiamo saltato l’imbocco per il Weltwitschia Drive, ma a tutt’oggi non mi sono ancora spiegato come! Visto che ormai siamo lì, andiamo a Walvis Bay, anche per fissare la visita a Sandwich Harbour presso l’agenzia Mola-Mola, indicata in molti resoconti come una delle più affidabili per questo tipo di escursioni. Ma è domenica e ovviamente c’è chiuso!!! Come dicevo, abbiamo decisamente dimenticato questo fatto.

Giriamo un po’ per Walvis Bay, ammirandone la laguna e i fenicotteri, nonchè le belle case sul lungomare a sud della città, poi ce ne torniamo a Swakopmund, un po’ mesti perchè la giornata, acquisti a parte, non è stata molto fruttuosa.

Appena rientrati in stanza, guardando meglio il volantino di Mola-Mola che avevo trovato in un lodge, scopro che c’è il numero di un cellulare dove, dicono, si può chiamare a tutte le ore. Chiamiamo subito, ma ci rispondono che per l’indomani sono pieni. Peggio di così…

Decidiamo quindi che l’unica soluzione è andare domattina presto all’Ufficio del Turismo, a sentire se ci possono aiutare. Speriamo solo che sia aperto già dalle 8.

Per la cena, ieri, visto l’andazzo, avevamo già prenotato per tutte le tre sere in cui ci saremmo fermati a Swakopmund. Stasera tocca al Lighthouse, buon ristorante sul mare, con piatti a base di pesce. E la cena è in effetti buona e in tutto, concedendoci per la prima volta una bottiglia di vino, spendiamo poco più di 30 euro.

20/08: Swakopmund (Alte Brücke Resort) Alle 8 siamo all’Ufficio del Turismo e la solerte signora (quella vista il giorno prima) ci trova posto per l’escursione a Sandwich Harbour con la Turnstone Tours (www.Turnstone-tours.Com), per 950 NAD a testa, Benedetta esclusa. Ci sono solo due posti, quindi dovremo tenere Bibi in braccio, ma pazienza, è l’unica soluzione.

Poichè dobbiamo pagare in contanti e non voglio prosciugare la mia riserva, devo andare a cambiare un po’ di soldi, ma la prima banca dove vado ha il sistema informativo bloccato. Per uno che come me che è del settore è il colmo. O sarà questo il primo indizio di una giornata poco fortunata come ieri? Puntuale, alle 8,45 viene a prenderci Ernst, che ci dice che nel frattempo ha cambiato macchina per averne una con un piccolo sedile davanti anche per Benedetta. Veramente gentile e premuroso, anche se Bibi starà comunque sulle ginocchia di sua madre per tutto il tempo! Però questo è il prologo di quello che sarà il servizio e l’andamento di tutta l’escursione: Ernst si rivelerà come una guida attenta, generosa di spiegazioni e buon autista.

Dato che siamo i primi, mi posso sedere nel posto migliore, cioè davanti di fianco al driver e questo mi permette di fare molte riprese mentre ci muoviamo.

In pochi minuti raccogliamo gli altri partecipanti, quasi tutti italiani: Elena e Lorenzo, Carmen e Diego, Eva e Thomas (tedeschi). Quanti italiani in giro per la Namibia in questo periodo! D’altra parte non per niente viene ormai definita come la Spaghetti Season! Completato il “carico” ci dirigiamo verso Walvis Bay. Sulla strada passiamo di fianco a Long Beach (!) il quartiere residenziale sul mare, pochi chilometri a sud di Swakopmund, dove Ernst ci dice che soggiornarono Angelina Jolie e Brad Pitt, quando l’attrice venne da queste parti per partorire la sua terza figlia (in realtà la prima non adottiva). Per la cronaca, affittarono un intero hotel per essere sicuri di non essere disturbati e in effetti riuscirono a procurarsi un po’ di privacy. Problemi da superstar! Ernst ci porta a vedere la zona di raccolta del sale, poi attraversiamo la foce del fiume Swakop. A Walvis Bay sostiamo a lungo nella laguna, piena di fenicotteri, come avevamo visto per altro anche il giorno prima.

Il tempo oggi però è molto umido, c’è nebbia e la temperatura non è delle più gradevoli, più fredda che non.

Proseguendo verso sud, viaggiamo lungo la riva del mare, lambendo le onde che arrivano sulla spiaggia. Arriviamo così a Sandwich Harbour e lo spettacolo delle dune che calano quasi direttamente sul mare è impagabile, anche perchè nel frattempo il sole comincia a fare capolino qua e là.

Ad un certo punto vediamo alcune casupole in legno, semisepolte dalla sabbia e dalla vegetazione. Ernst ci dice che lì una volta c’era un piccolo insediamento di pescatori con le loro famiglie. La spinta costante del deserto del Namib verso il mare ha alla fine avuto la meglio sulle intenzioni di questa povera gente, che ha dovuto abbandonare il posto in cerca di migliore fortuna.

Vediamo pellicani, cormorani e ancora fenicotteri. Troviamo anche lo scheletro di una foca e la vista di uno sciacallo ci fa capire la presenza di questi predatori che, dice Ernst, mangiano di tutto anche perchè non possono permettersi di andare tanto per il sottile.

Arriva il momento del pranzo, direttamente on the beach: è un bel momento, anche se fa ancora un po’ freddo. Nella pausa, conosciamo un po’ meglio i nostri compagni di viaggio e Benedetta, ancora una volta visto che ha trovato degli italiani, non smetterebbe più di chiaccherare con loro.

Cominciamo a tornare indietro, perchè la marea sta salendo e alcuni tratti del bagnasciuga stanno diventando sempre più stretti. Ernst è molto bravo a guidare e calcola rapidamente e accuratamente il momento giusto per passare, rallentando o accelerando a seconda del movimento delle onde.

Finalmente spunta il sole e appena riusciamo ci fermiamo per fare una mini-scalata delle dune prospicienti il mare. Anche Benedetta tenta di salire, ma dopo pochi metri si ferma e non sa più cosa fare, se andare avanti o tornare indietro. A fatica la convinciamo a scendere, anche perchè dobbiamo proseguire.

Poco dopo Ernst abbandona la spiaggia e si sposta un po’ più verso l’interno, dove le dune sono più alte, Seguendo un copione sicuramente sperimentato più volte, ci fa salire su di una duna particolarmente ripida fermandosi improvvisamente sul ciglio di essa, con le sole due ruote dall’altra parte. L’effetto è inaspettato e tutti abbiamo un balzo! Poi, Ernst ci dice che farà la discesa senza accendere il motore, per farci sentire il rumore della sabbia sotto l’auto. I granellini di sabbia, sfregando l’uno contro l’altro generano una vibrazione particolarissima, quasi un rombo e il risultato è piuttosto singolare.

Ernst si sbizzarrisce facendoci fare qualche saliscendi sulle dune, con grande gioia di Benedetta che non ha per niente paura e si diverte un mondo.

Sul finire, tornati vicino alla riva, troviamo due pescatori piuttosto infreddoliti (il sole è di nuovo sparito) a cui chiediamo di farci vedere il loro bottino, abbastanza consistente. Poi ritorniamo a Swakopmund, praticamente al calar del sole.

E’ stata un’escursione veramente bella, Ernst, bravo e professionale, ci ha dato molte informazioni interessanti fermandosi più e più volte.

Su consiglio di Carmen, nostra compagna della giornata, portiamo un po’ di roba in una lavanderia, a pochi passi dall’Alte Brücke, ma che non avevamo notato perchè in un strada che non facciamo mai per spostarci in centro. Con qualche piccolo extra riusciamo a farcela lavare rapidamente.

La serata di questa che è la nostra ultima giornata a Swakopmund, si conclude al Brahaus Restaurant, in pieno centro città. Il posto, lo si intuisce dal nome, è assolutamente in stile tedesco, menù compreso ed io mi mangio un’ottima wienerschnitzel (cotoletta alla viennese) e un delizioso apfël strüdel (strudel di mele).

Uscendo dal ristorante, poichè siamo in una zona pedonale, noto una cassetta delle lettere e vi infilo le cartoline che avevo preparato nei giorni precedenti. Lo ammetto, dopo tre settimane, ho pensato che non sarebbero mai arrivate, poi, allo scadere esatto di un mese dall’invio, sono giunte a destinazione.

21/08: Sesriem/Sossusvlei (The Desert Homestead and Horse Trails) Partiamo da Swakopmund con calma verso le 9, ma prima di arrivare a Walvis Bay facciamo un rapido giro a Long Beach (vedi 20/08). E’ un quartiere indubbiamente upper-class, anche se in questo momento non c’è praticamente nessuno. Però c’è pochissimo verde e facciamo fatica a capire cosa possa avere attratto la famosa coppia Jolie-Pitt a venire proprio qua, se non la voglia di non avere troppi curiosi intorno.

Superata Walvis Bay ci fermiamo praticamente subito per dare un’occhiata alla Duna 7, una duna molto alta qualche chilometro fuori città, campo di esibizioni di sandboarding. Sul posto gli immancabili giapponesi che già dal mattino presto vanno su e giù dalla duna, per la verità cascando ripetutamente. Verrebbe voglia di provare, ma, a parte che non abbiamo proprio tempo, Ernst ieri ci ha detto che è un’attività pericolosa e i rischi di farsi male sono elevati. Non me ne intendo, ma evidentemente la sabbia è più dura della neve! Fatto questo, imbocchiamo la noiosissima C14, ancora una volta di solo sterrato. Il panorama migliora un po’ in prossimità del passo Hauseb, dove passiamo tra strette gole e belle montagne, poi proseguiamo sulla C19 altrettanto noiosa e per niente liscia, per cui subiamo un lungo tratto di bumping (saltellamento dell’auto).

Anche se ormai siamo abbastanza vicini alla nostra prossima meta, la sosta a Solitaire è quindi particolarmente gradita. Solito rifornimento di benzina, ma qua attendevo con curiosità l’assaggio di quella che resoconti vari e la Lonely Planet definiscono la miglior torta di mele della Namibia.

Che dire: l’aspetto è un po’ grezzo, ma il sapore è comunque piuttosto buono. Per dire se sia effettivamente la migliore mi mancano dei termini di paragone sufficienti, ma dopo 270 km di sterrato è stato comunque un gradevole diversivo.

Riprendiamo la strada e dopo aver percorso 360 chilometri da Swakopmund (sempre più di quelli calcolati a tavolino), arriviamo al nostro lodge, il Desert Homestead and Horse Trails, 24 chilometri a sud del bivio per Sesriem.

Il lodge, piuttosto bello, è in pratica costituito da un corpo centrale e da 20 bungalow tutti rivolti ad ovest, verso la piana desertica e le colline che la circondano.

Intorno…Nulla! Tutti i lodge della zona sono infatti molto isolati e quasi nascosti nella natura circostante, prevalentemente desertica.

Il nostro bungalow è l’ultimo a sinistra, proprio il numero 20. All’interno non ci sono prese elettriche e questo ci pone qualche piccolo problema: come faremo a scaldare il latte per Benedetta? E se dobbiamo ricaricare le batterie della fotocamera e della videocamera? In effetti, per tutto questo bisogna spostarsi nella hall del corpo centrale, dove ci fanno vedere una rastrelliera con tutte le spine e gli adattori. Per il latte…Bè, diventiamo degli habituè della cucina, dove tutti sono molto gentili.

A circa 100 mt. Dal nostro bungalow notiamo le scuderie, perchè, come dice il nome, la caratteristica principale del lodge sono le escursioni a cavallo, uno dei motivi per cui l’avevo scelto. Abbiamo infatti in programma di fare salire Benedetta su di un cavallo, per la prima volta nella sua vita.

Dopo una doccia tonificante, torniamo al corpo centrale per fissare le escursioni per i due giorni successivi, quella a Sossusvlei e quella a cavallo. Intendiamoci, Benedetta ha solo 4 anni e non vogliamo fare nulla di impegnativo e soprattutto rischioso. Non trovando però l’istruttrice dei cavalli rimandiamo a domani gli accordi in proposito.

Lasciamo finire il pomeriggio con calma, godendoci il tramonto del sole che cala dietro le colline di fronte a noi. Più tardi la cena, dove anche qui viene dato spazio alla fauna locale, in questo caso orice. Buonissimo il pane fatto in casa che arriva caldo sul tavolo. E poi presto a letto, domani ci aspetta una levataccia, si parte alle 6 per Sossusvlei.

22/08: Sesriem/Sossusvlei (The Desert Homestead and Horse Trails) Per potere essere pronti alle 6, avendo già fatto colazione, ma soprattutto per convincere Benedetta a svegliarsi, dobbiamo essere in piedi sin dalle 5 (!!!) e così è. Raggiungiamo così la nostra guida, Alex, con giusto un paio di minuti di ritardo, ma comunque insieme agli altri partecipanti all’escursione.

Che non sono molti: siamo solo in sei in tutto, infilati in una Toyota Condor in versione 4 ruote motrici. A noi tocca il sedile posteriore, da tre, quindi teoricamente più comodo per avere Bibi vicino a noi, ma scomodissimo per me, perchè essendo posto sull’assale posteriore, ho le ginocchia praticamente in bocca. In più, la visibilità esterna è quella che è, per cui non riesco a fare delle gran riprese.

A Sesriem arriviamo dopo circa mezz’ora e ci fermiamo per i permessi per entrare nel parco, poi ripartiamo, questa volta su strada asfaltata, la bella strada di 60 km circa che porta fino a Sossusvlei.

Durante il percorso ci fermiamo più volte, o perchè ci sono animali in giro, springbok e struzzi, o in coincidenza delle dune più importanti e spettacolari, la Duna 1 e soprattutto la Dune 45. Quest’ultima, forse la più famosa e sicuramente una delle più fotografate, la vediamo rapidamente, Alex ci consiglia di proseguire fino a Sossusvlei, per salire, fin che non c’è troppo caldo, su Big Daddy, la duna più alta del mondo.

Mentre ci muoviamo, conosciamo meglio i nostri compagni di escursione, una neozelandese e due tedeschi di Monaco. Lei, di cui non ricordo il nome, si distingue per la raffica di domande che pone ad Alex, ma ci spiega che, essendo giornalista, le viene automatico, non ne può fare a meno. Ci tiene a dire che la Nuova Zelanda è molto meglio dell’Australia (per noi quasi un’eresia), perchè è più civile, più attenta a problemi sul nucleare, sulle minoranze etniche e via dicendo, oltre che più bella naturalisticamente parlando. Sono convinto che la terra dei kiwi sia veramente bella, però, non toccatemi l’Australia! Loro sono invece Armin e Marlis, nostri vicini anche di bungalow, perchè stanno al 19, giusto prima di noi. Sono di Monaco e si rivelano presto due tedeschi un po’ atipici, perchè molto cordiali e amichevoli. In realtà credo che questa sia una caratteristica dei bavaresi, un po’ diversi dai conterranei del nord. Con Armin e Marlis anche Bibi stabilisce subito un rapporto diretto, loro l’italiano un po’ lo capiscono, perchè, ci dicono, sono spesso in Italia in vacanza. Per contro, Armin, che è professore in un istituto di moda di Monaco, è molto interessato ad Enrica, che lavora, come me ma in un ruolo più direttamente coinvolto, in una grande azienda del settore abbigliamento femminile. Alex, la guida, non è della zona, ma viene dall’Etosha e appartiene alla principale tribù namibica, gli Owambo. Quasi divertito , ci racconta un certo numero di storie macabre, anche se l’ultima è decisamente triste visto che lo riguarda direttamente. Nell’ordine:
1) cinque turisti francesi e la loro guida, morti fulminati per l’attacco di un black mamba, nel quale si erano sfortunatamente imbattuti; questo tipo di serpente, oltre ad essere velenosissimo, è molto veloce e aggressivo e quindi i poveri malcapitati non avevano avuto scampo;
2) due turisti tedeschi si erano accampati lungo il letto di uno dei piccoli fiumi che attraversano la piana desertica e, giunta la notte, si erano ritirati nella loro tenda, sotto un magnifico cielo stellato; durante la notte, però, sulle montagne era piovuto abbondantemente e l’acqua, scendendo rovinosamente e infilandosi in quel fiume momentaneamente in secca li aveva travolti;
3) un turista tedesco di circa 65 anni, dopo una giornata passata sotto il caldissimo sole di Sossusvlei (uno dei luoghi più caldi del mondo), rientrato al lodge si era immediatamente tuffato nella ben più fredda acqua della piscina. Risultato: stroncato da un attacco di cuore!
4) il padre di Alex con amici, stava rientrando a casa, in auto,mentre già era calata la notte; purtroppo la macchina aveva investito un kudu, quindi un antilope di una certa taglia e il padre e due suoi compagni erano morti in seguito a quest’incidente. Questo mi conferma quello che pensavo: è assolutamente sconsigliabile viaggiare durante le ore notturne, dato il rischio di vedersi attraversare la strada da qualche animale.

Alla fine della strada asfaltata, inizia il tratto di circa 4 chilometri che porta a Sossuslvei. Questo tratto, molto sabbioso e difficoltoso, può essere percorso o a piedi (c’è chi lo fa) o solamente con un fuoristrada. Chi giunge lì con una macchina normale può parcheggiare e prendere i fuoristrada navetta che fanno la spola avanti e indietro da Sossusvlei. Noi siamo “attrezzati” e proseguiamo per conto nostro e in più di un momento Alex si dimostra un valente autista, superando molti punti piuttosto impegnativi.

Non così capita ad una famiglia di spagnoli che dobbiamo soccorrere due volte, perchè piantati nella sabbia con il loro fuoristrada. Questo mi conferma un sospetto: se non sei già pratico di guida fuoristrada, averlo noleggiato non ti fa diventare automaticamente un esperto e rischi di andarti ad infilare in situazioni molto precarie. Per fortuna qui siamo in una zona molto frequentata e gli aiuti non mancano, ma in altri frangenti la cosa potrebbe diventare anche pericolosa.

Arrivati alla piana di Sossusvlei, cominciamo la salita di Big Daddy. Noi capiamo male le indicazioni di Alex, per cui facciamo più strada del dovuto, anzichè seguire la scorciatoia che ci aveva suggerito Alex per arrivare alla spianata di Deadvlei. Visto che ad un certo punto Benedetta si rifiuta di proseguire perchè stanca, la devo prendere sulle spalle.

Quando si tratta di scendere dalla duna la storia è invece ben differente e tenendoci per mano tutti e tre, scendiamo in pochi secondi, questa volta con grande divertimento di nostra figlia.

Raggiunti i nostri compagni che ci aspettavano nella bianca enclave di Deadvlei, ci facciamo fotografare con la maglietta del viaggio, cioè la speciale maglietta che facciamo tutti gli anni, a ricordo del posto dove siamo stati in vacanza. E trovo giusta la scelta che la foto venga fatta qui, in quello che penso che sia senza dubbio il luogo più bello e rappresentativo del nostro tour in Namibia.

Alle 11.15 ci concediamo un sontuoso brunch. Siamo in movimento da ormai sei ore ed una sosta di questo tipo ci vuole proprio, anche perchè ormai il sole e l’aria si stanno facendo decisamente caldi.

Al parcheggio dei fuoristrada di Sossusvlei ci sono dei tavoli atti ad ospitare i turisti che si fermano qua per uno spuntino, più o meno veloce e all’ombra. Qui incontriamo un gruppo di italiani che hanno appena iniziato il loro viaggio. Sono arrivati direttamente da Windhoek il giorno prima, subito dopo essere atterrati sul suolo namibico. Un vero tour de force! La nostra escursione è ormai finita e con calma rientriamo al lodge, dopo una breve sosta al Sesriem Canyon che vediamo solo dall’alto. Ma non siamo preoccupati, come per la mancata salita della Duna 45: sappiamo che il giorno dopo torneremo per conto nostro.

. Per il pomeriggio non abbiamo programmi particolari e ce la prendiamo veramente comoda, in pieno relax, passando un po’ di tempo ai bordi della piscina.

Poco prima di cena, ci concediamo un aperitivo e vicino a noi si siede Armin, con cui parliamo in attesa di sederci a tavola. Armin ci racconta che aveva già visitato la Namibia dieci anni prima e che allora era piuttosto diversa: pochissimi turisti in giro e si poteva prenotare i lodge giorno per giorno. In particolare ci dice che che quando avevano visitato Sossusvlei c’erano giusto loro e un paio di altre persone e che la piana di Deadvlei era piena d’acqua, fatto che ci sembra straordinario, alla luce di quanto abbiamo visto oggi.

Tra le altre cose, ci rivela che l’Italia è una loro meta frequente e che alcuni mesi prima erano stati all’isola d’Elba. Ma questo, per dei tedeschi, è abbastanza ovvio, anche se forse non più come una volta.

Con una certa timidezza, ma stimolato in questo dalle attenzioni di Benedetta, ci parla della loro mancanza di figli, che avrebbero desiderato tantissimo. Purtroppo, dice, non ne hanno avuti e quando hanno pensato di adottarne uno si sono detti che ormai erano troppo vecchi.

Giunge così tranquillamente l’ora di cena, sempre a base di fauna locale. Il tutto risulta però allietato da un fuori programma veramente inaspettato, cioè lo staff della cucina e che serve ai tavoli, che improvvisa una spettacolino di canti e danze originali. Veramente molto molto gradevole, che ho filmato in buona parte.

23/08: Sesriem/Sossusvlei (The Desert Homestead and Horse Trails) Anche oggi ci alziamo prestissimo: se vogliamo fare delle fotografie con la luce migliore ed evitare il caldo, le prime ore del mattino sono le migliori.

Fatto curioso, noto un ospite del lodge che viene a farsi la barba con il rasoio elettrico, nella hall principale. Come avevo detto, la mancanza delle prese elettriche nei bungalow porta a queste necessità.

Prima di partire incontriamo finalmente la “signora dei cavalli” (così la definiscono) e prendiamo accordi per la mini-escursione del pomeriggio.

La nostra meta principale è la Duna 45, che ieri avevamo visto quasi di sfuggita. Dopo qualche fotografia alla base, cominciamo a salire, ma dopo aver raggiunto la prima “gobba” Benedetta dichiara di essere stanca. Nemmeno il fortuito incontro con Carmen e Diego che avevamo avuto come compagni di viaggio nell’escursione a Sandwich Habour (vedi 20/08), spinge nostra figlia a proseguire. Carmen è un’amante dei gatti, una “gattara “ come Enrica, con cui si scambia notizie sui gatti incontrati finora.

Vista l’impuntatura di Benedetta, Enrica decide di scendere con lei dalla duna mentre io proseguo ancora per un po’ fino ad arrivare alla seconda “gobba”. Non arrivo proprio fino al punto massimo, ma mi ritrovo comunque circondato da un panorama fantastico, tutto ocra e arancione, dove i connotati delle dune si sovrappongono e confondono tra di loro.

Dato che mi offro per fare la foto ad un gruppetto di italiani giunti come me a quel punto, questi mi rendono il favore e così riesco ad avere anch’io la mia foto-ricordo; poi, scendo per ritrovare il resto della famiglia.

Dopo la Duna 45 arriviamo fino a Sossusvlei dove però ci fermiamo solo al parcheggio delle auto normali. Non ho voglia di subire un altro sconquassamento come ieri, più vado avanti e più i chilometri di sterrato cominciano a farsi pesanti. Raccogliamo comunque nei dintorni un po’ di quei baccelli giganti che contengono una specie di fagioli.

Sulla via del ritorno, filmiamo un po’ la strada e il panorama circostante. Notiamo sulla pianura e sulle colline circostanti delle chiazze rotonde dove la vegetazione è completamente assente e ci chiediamo cosa possa essere. Simboli esoterici? Segni di visita di extra-terrestri? Scopriremo in seguito che si tratta in realtà dei posti dove, in precedenza, crescevano delle piante di euphorbia virosa. Si tratta di una pianta a sviluppo circolare velenosissima, che quando muore lascia il terreno talmente intossicato che per centinaia d’anni non vi cresce più niente.

Sentiremo poi anche la storia di quei turisti che, avendo fatto fuoco con alcune radici secche di euforbia e avendole usate per cuocere il loro cibo, ne rimasero avvelenati e morirono stecchiti. Questa sembra essere una storia molto nota, perchè l’ho poi ritrovata addirittura su di una guida. Non vorrei che fosse una storia inventata ad arte…

Una volta a Sesriem, visitiamo il relativo canyon, questa volta scendendovi fin sul fondo. La discesa non è difficoltosa, tutt’altro e anche qui Benedetta si sente scalatrice di montagne. Percorriamo poi il chilometro circa del canyon che porta fino alla pozza d’acqua, un po’ asciutta in questo periodo e non molto profumata, per via dell’acqua stagnante ma anche per il fatto che, temo, qualche turista ne usa i dintorni come toilette.

Il percorso fino alla pozza è comunque agevole e all’ombra. Mentre camminiamo osserviamo che le pareti del canyon sono tutte bucherellate. Probabilmente i fori sono tane di pipistrelli o di uccelli vari.

Notiamo infine la presenza di una troupe cinematografica che sta scaricando il materiale per le riprese. Li avevamo visti anche ieri a Sossusvlei e Alex ci aveva detto che appunto qualcuno avrebbe girato un film i giorni successivi.

Va detto infatti che la Namibia è, da qualche tempo, una location molto ricercata per film internazionali e l’industria locale ne sta ricavando un notevole impulso. Angelina Jolie si era innamorata della Namibia proprio in occasione delle riprese del film “Amore senza confini” (2003), da cui la sua decisione di andare a partorire a Swakopmund.

Ritorniamo infine al lodge, dove ci rilassiamo per un po’ in attesa dell’escursione a cavallo. Seduti nel corpo centrale del lodge, vediamo davanti a noi struzzi e molti springbok, mentre ci prendiamo con calma qualcosa da bere. Ne approfitto anche per telefonare in ufficio, dato che nel frattempo la nostra azienda ha riaperto dopo la consueta e breve chiusura estiva. Sono ancora i primi giorni post-ferie e la situazione è molto tranquilla.

All’orario stabilito, ci ritroviamo con la “signora dei cavalli” e ci dirigiamo verso il maneggio. Qua prima Benedetta e poi Enrica vengono aiutate a salire sul loro cavallo. A Bibi viene messo in testa un cappello da fantino protettivo ma decisamente largo. D’altra parte era la taglia minima disponibile. Lei è comunque fierissima del suo cappello e segue attentamente le semplici istruzioni che le dà l’istruttrice, in sintesi: “Tienti ben stretta alla sella”! Io, all’ultimissimo momento, mi rendo conto che se voglio fare fotografie e filmare questa prima (?) esperienza di Benedetta non posso salire a a cavallo con tutto l’armamentario foto/cinematografico e devo quindi rinunciare. Ho un bel da spiegare i motivi alla trainer, ma sono convinto che lei abbia pensato che avessi paura.

Quand’anche fosse, casco dalla padella alla brace perchè seguire a piedi, per più di un’ora, i tre cavalli dell’istruttrice, di Benedetta ed Enrica, che pure vanno solo al passo, in quel terreno molle, di sabbia mista a ghiaino e pieno di sterpaglie, non è per niente agevole. Il tutto però susciterà parole di complimenti della trainer, che solo alla fine si rende conto che volevo veramente fare fotografie e filmare l’escursione.

A titolo di cronaca, la “signora dei cavalli”, piacente amazzone sulla quarantina, è di origini inglesi, ma si trova in Africa da una decina d’anni. Sempre occupandosi di cavalli, ha vissuto prima in Botswana ed ora in Namibia e mi ha dichiarato esplicitamente di non avere nessuna intenzione di tornare in Inghilterra: troppa gente e troppo cara! L’escursione si conclude verso il tramonto e quando arriviamo siamo tutti contenti di averla fatta, nonostante qualche timore iniziale. I cavalli, cavalli veri non piccoli ponies, erano molto tranquilli e Benedetta è stata bravissima, molto conscia del suo ruolo di fantina.

Solita doccia prima di cena e anche solito aperitivo, poi ci gustiamo, chiudendo un occhio, il menù della sera, che prevede cotoletta di struzzo. Fossi altrove non la mangerei di certo (per solidarietà verso questi animali come per tutti gli altri), ma qua fa parte delle consuetudini locali.

24/08: Aus (Klein Aus Vista) La sveglia mattutina ma non troppo di oggi, ci consente di fare una super-colazione, sufficiente per farci carburare per il resto del giorno.

Al check-out parliamo un attimo con i due ragazzi che gestiscono il lodge: sono piuttosto giovani e sposati da poco, ma se la stanno cavando molto bene. Una caratteristica che abbiamo riscontrato al Desert Homestead è che tutti sono molto cordiali e gentili, come appunto sono i due ragazzi.

Cominciamo la nostra marcia verso sud con una breve scorciatoia che ci porta alla C27. Ci muoviamo su una pista abbastanza scorrevole, con un bel panorama tutt’intorno. Attraversiamo molte farms, con continui cancelli di confine , che in un caso dobbiamo anche aprire e richiudere.

Tra le fattorie più grandi c’è sicuramente la Sinclair Guest Farm, che attraversiamo per almeno 50/60 chilometri. E’ una delle fattorie che dà anche ospitalità e pare che le colazioni siano eccezionali. Altre ancora organizzano anche game drives nei propri possedimenti. Sarebbe bello fermarsi, ma questo purtroppo non rientra nei nostri programmi. Sarà per un’altra volta! Ad un certo punto le indicazioni si fanno un po’ confuse e temiamo di avere sbagliato strada, ma dopo alcuni chilometri capiamo che siamo sulla direzione giusta. Passiamo in mezzo alle montagne e il fondo stradale diventa scivoloso a causa della ghiaia fine, con continue curve e saliscendi. Guidiamo con prudenza, rallentando decisamente la marcia, il problema dei pneumatici consumati qui si fa sentire.

Dopo la C27 imbocchiamo la C13 che ci porta fino ad Aus, attraverso le Namib Plains. Anche qui il panorama è stupendo.

Aus è piuttosto piccola, l’immaginavo più grande, ma ha anche un bel ufficio del turismo, che sembra realizzato da poco.

Noi siamo alloggiati al Klein Aus Vista, un paio di chilometri ad ovest di Aus, sulla strada (asfaltata!) che porta a Lüderitz. Al lodge ritroviamo Armin e Marlis con grande gioia di Benedetta, che vede appunto due persone che conosce già e con cui può parlare. Ci raccontano che il giorno prima c’è stato molto freddo, la temperatura del mattino era addirittura intorno ai due/tre gradi. Anche in questo senso ci sembrano due tedeschi atipici: soffrono il freddo! Oggi invece si sta meglio, anche se non siamo ai livelli delle giornate trascorse a Twyfelfontein o a Sossusvlei. In camera troviamo addirittura le borse dell’acqua calda, tre, una per letto, anche se due di esse perdono e sono inutilizzabili. Ma non è un problema, tanto la usa solo Enrica.

Ci prepariamo rapidamente per un’escursione che avevo concordato sin dall’Italia, quella per vedere i famosi cavalli selvaggi (feral horses) di Aus.

Si tratta di un branco di cavalli, circa 200, che vivono allo stato brado e sulle cui origini ci sono alcune ipotesi di cui nessuna è certa. La più probabile è che si tratti dei discendenti di un gruppo di cavalli lasciato da queste parti dalle truppe tedesche quando, sconfitte da inglesi e sudafricani, se ne tornarono in patria agli inizi del ‘900, dopo un periodo di colonizzazione dell’area.

Questi cavalli si sono nel tempo adattati alle dure condizioni del clima e del territorio, diventando particolarmente robusti e in grado di resistere a lungo anche senz’acqua. Se non fosse per l’intervento dell’uomo comunque, forse questa specie unica al mondo rischierebbe presto l’estinzione. E’ stata però costruita da qualche anno una pozza d’acqua artificiale a cui viene garantita una presenza costante del prezioso liquido. In più, è sorto una specie di comitato di salvaguardia dei Feral Horses che sta tentando in tutti i modi di preservarne l’esistenza.

Va infatti detto che le autorità amministrative locali e governative sono state tentate di ridurre il numero di questi cavalli, adducendo improbabili problemi di danni alle coltivazioni e alla vegetazione del posto. Come sia possibile che questo sparuto gruppo di equini provochi tali rovine non si sa, ma è certo, al contrario, che per la loro unicità essi possono costituire un richiamo turistico di valore ben superiore al danno reclamato da quegli enti.

Per l’escursione ci accompagna Elias e siamo i soli a sfruttare questa possibilità. Va detto infatti che durante la giornata si è levato un forte vento e questo, ho visto, ha scoraggiato altri ospiti del lodge interessati al mini-tour.

Elias è in forze al Klein Aus Vista da solo un mese e si vede. Si profunde infatti in un sacco di spiegazioni delle cose più banali, tipo che ad Aus siamo a 1300 metri d’altezza e che per arrivare a Lüderitz si scende rapidamente al livello del mare. Questo significa che in un senso si consuma meno benzina che nell’altro (!).

E’ anche un appassionato della natura su i tutti i fronti, specialmente delle piante. E’ lui che ci racconta della storia dei turisti avvelenati dalla radici di euforbia messe sul fuoco, mentre stiamo davanti ad un esemplare della ormai nota pianta velenosa. Con costernazione ci accorgiamo con qualche secondo di ritardo che Benedetta ne sta toccando un ramo, ma per fortuna il problema del veleno è solo interno, cioè nel midollo contenuto nei rami della pianta. Benedetta si becca una sgridata, per il vizio di toccare sempre tutto, poi con un po’ di amuchina in gel le disinfettiamo le mani. Come previsto il fatto non ha nessuna conseguenza, ma per un attimo ci siamo spaventati.

Elias, una pianta dopo l’altra, ci porta infine in una radura dove c’è un piccolo gruppo di cavalli, circa una decina. Non sono molti e sono anche abbastanza lontani, ma quando chiediamo alla nostra guida di portarci nella zona della pozza artificiale dove Armin e Marlis ci hanno detto che se ne vedono tantissimi, ci risponde che questo non è previsto dall’escursione, che si limita alla zona appartenente al lodge, che è anche una farm di dimensioni ragguardevoli.

Un po’ delusi, cominciamo a tornare indietro, ma prima incappiamo nel cadavere di un’aquila. Non è chiaro come mai sia morta, forse ha sbattuto contro i cavi dell’alta tensione che passano sui campi sopra di noi. Ci sembra un evento poco probabile, d’altra parte non si vedono segni che facciano pensare ad altro.

Nella piana in cui ci troviamo, vediamo un po’ più avanti un bel gruppo di struzzi, probabilmente il più numeroso visto da quando siamo in Namibia. In effetti, un componente della famiglia proprietaria del Klein Aus Vista aveva intrapreso a suo tempo un’attività volta all’allevamento degli struzzi, che per un po’ aveva avuto un certo successo, salvo poi declinare per non so quali problemi di mercato. Di quella impresa sono rimasti al lodge giusto un paio di esemplari, maschio e femmina, a ricordo dei tempi passati.

Un poco più avanti ci fermiamo per il rito dei cold drinks al tramonto, come è avvenuto in tutte le escursioni fatte nel pomeriggio. C’è anche qualche snack, piuttosto gradito visto che comunque avevamo saltato il pranzo e ormai la fame comincia a farsi sentire. E con simpatia, facciamo finta di niente quando Elias finisce di nascosto i cubetti di formaggio rimasti. Anche in questo si vede che è un novizio, ma ripeto, troviamo la cosa divertente e molto, molto comprensibile! A cena ci uniamo ad Armin e Marlis, che però non mangiano dato che il freddo patito la notte precedente non li ha fatti stare bene. Questo provoca una certa confusione nei camerieri che da una parte non ci dicono che alcune portate ce le portano loro e dall’altra che il resto della cena è a buffet. Questo, insieme al menù stesso fa sì che la prima cena al Klein Aus Vista sia la peggiore di tutto il viaggio. Non che i cibi siano cattivi, ma, diciamo così, piuttosto incolori. Strano, perchè molti resoconti di viaggio avevano invece decantato le virtù gastronomiche del posto.

Con Armin e Marlis stiamo ormai diventando amiconi e ci scambiamo indirizzi e promesse di vederci o in Italia o a Monaco, prima o poi. D’altronde, ci dicono che sono appassionati di musica e vanno spesso ai concerti rock o simili che si tengono nella loro splendida città e scopro quindi che siamo stati insieme tra il pubblico nei due concerti del 2003 e del 2005 che Bruce Springsteen ha tenuto negli impianti della magnifica zona olimpica.

Ci diciamo che se questo capiterà ancora, ci metteremo d’accordo per andarci insieme! La coppia tedesca ha in programma di restare in Namibia per un’altra settimana e nei prossimi giorni visiteranno il Fish River Canyon che noi purtroppo abbiamo dovuto saltare. Il giorno dopo, ancora una fortuita coincidenza, si sposteranno a Lüderitz, che anche noi abbiamo intenzione di visitare, sia pure in giornata. Ci incontreremo quindi un’altra volta! 25/08: Aus (Klein Aus Vista) Se la cena era stata poco soddisfacente, il Klein Aus Vista recupera punti con un’ottima colazione, dopo di che imbocchiamo la B4 verso Lüderitz, un’ottima strada asfaltata.

Ci fermiamo però abbastanza presto, perchè dopo circa 20 chilometri c’è la deviazione per raggiungere il Garub, cioè la pozza articifiale dove i Feral Horses si abbeverano prevalentemente. La stradina sterrata sembra fatta ad arte perchè è solo dopo un’ultima cunetta che vediamo l’avvallamento con la pozza e settanta/ottanta cavalli tutt’intorno.

Addirittura, ce ne sono di fianco alla piccola struttura in legno che dovrebbe fungere da osservatorio riparato e dove ci sono alcuni pannelli informativi. Ci avviciniamo lentamente per parcheggiare e i cavalli si allontanano tranquillamente.

Lo spettacolo è quasi commovente, perchè, anche se un po’ sparuti, questi cavalli, dalla storia così particolare, sono comunque molto belli o almeno ci sembrano tali. A coppia li vediamo giocare e scambiarsi, maschio e femmina, dei timidi assalti amorosi. Scattiamo tante fotografie e filmiamo a lungo il branco, mentre Benedetta ci chiede in continuazione se ne può cavalcare uno.

Ci stacchiamo a fatica dal luogo, ripromettendoci di tornarvi nel tardo pomeriggio, al ritorno da Lüderitz, verso cui riprendiamo la marcia.

A fianco della strada notiamo la ferrovia su cui fervono, si fa per dire, dei lavori di manutenzione. Ad una piccola e caratteristica stazione intermedia notiamo la macchina di Armin e Marlis, fermi a rimirare la casupola. In effetti Armin ci aveva confidato una certa passione per treni e ferrovie. Noi passiamo oltre, certi di ritrovarli più avanti.

In prossimità della nostra meta, la strada, causa il vento diventa scivolosa per via della sabbia portata sull’asfalto. Poco prima di arrivare a Lüderitz vediamo sulla sinistra Kolmanskop, la famosa città fantasma. Non abbiamo tempo per fermarci, anche perchè le visite seguono orari ben precisi. Vediamo quindi solo dalla strada gli edifici abbandonati di quella che fu un importante centro diamatifero.

Giunti in centro alla città, ci dirigiamo prima verso un negozio di oggetti etnici in via Bismark, che funge un po’ anche da ufficio del turismo e, dove compro un paio di bei libri fotografici sulla Namibia. L’obiettivo in realtà sarebbe quello di vedere se è possibile prenotare un’escursione in barca per andare ad Halifax Island, dove vive una colonia di pinguini del Capo. Purtroppo queste crociere si fanno solo al mattino presto, dalle 8 circa in poi e noi quindi siamo arrivati troppo tardi.

Un po’ delusi ci spostiamo sul lungo mare, per andare a bere qualcosa e magari mangiare qualcosa di leggero, visto che nel frattempo è ormai passato mezzogiorno. Nell’unico bar-ristorante aperto degno di nota troviamo Armin e Marlis (!), che salutiamo, ricambiati, calorosamente.

Sono un po’ scontenti, perchè hanno fissato due giorni di permanenza a Lüderitz e la città, a ragione, non gli piace, la trovano brutta. E’ vero, o meglio, ha un’aria così surreale, con questa architettura coloniale tedesca, ma ovviamente piena di neri e con pochissimi bianchi. Essendo sabato poi, qua tutti sono in giro o meglio, fermi davanti agli edifici della strada principale o ai supermercati, a guardarsi intorno, con quell’aria un po’ indecifrabile che a volte hanno gli africani.

Per altro, la giornata è particolarmente calda, smentendo i miei timori che questo sarebbe stato uno dei luoghi più freddi e umidi che avremmo incontrato nel nostro viaggio. Salutati di nuovo, ma in questo caso per l’ultima volta, i nostri amici tedeschi, cominciamo a visitare un po’ i dintorni di Lüderitz. A detta della Lonely Planet, uno dei posti più interessanti dovrebbe essere Agate Beach, una delle spiagge nelle vicinanze. Per arrivarci si costeggia la zona di estrazione diamantifera e vari cartellini segnalano il divieto assoluto di andare oltre i limiti indicati. Tutta l’area di Lüderitz si trova infatti in un’importantissima zona di estrazione e guai a superare le barriere di recinzione, si rischia come minimo di trovarsi qualcuno che ti mette un fucile sotto il naso.

Agate Bay/Beach è una lunga, ma desolata spiaggia, formata dai residui della zona diamantifera prospiciente e composta da piccoli frammenti di mica grigia. Forse nei periodi giusti sarà anche affollata e piena di vita, ma qui non troviamo praticamente nessuno, solo un guardia-macchina che si offre, appunto, di sorvegliarci l’auto, mentre facciamo due passi sull’arenile.

Se fosse solo per quello, il suo guadagno della giornata sarebbe ben limitato, ma quando torniamo ci fa vedere che ha delle pietre d’agata, che, con un po’ di pazienza, possono essere trovate in discreta quantità sulla spiaggia, da cui appunto deriva il nome del litorale stesso. Visto che non ha il resto per 100 dollari namibiani (poco più di 10 euro) gli compriamo tutte le pietre che ha, che, ovviamente, valgono…100 dollari! Torniamo indietro e questa volta ci dirigiamo nella zona sud di Lüderitz, per portarci a Diaz Point e di fronte ad Halifax Island, l’isola dei pinguini.

Sulla strada sterrata costeggiamo dei tratti di laguna, dove gruppi di fenicotteri frugano alacremente il fondo sabbioso, alla ricerca di piccoli crostacei o molluschi.

A Diaz Point c’è una croce in metallo che ricorda l’analoga croce eretta dal navigatore portoghese quando attraccò qui nel 1487. Il luogo è certamente suggestivo ed ha una sua bellezza. Dal promontorio poi si vede piuttosto nitidamente una colonia di otarie sdraiate sugli scogli a godersi placidamente il sole. Nessuna traccia invece dei pinguini di Halifax Island, dalla spiaggia di fronte non riusciamo a vedere niente. Data l’ora, circa la tre del pomeriggio, forse sono ancora in mare a rifocillarsi.

Dopo quest’escursione auto-gestita, riprendiamo la strada verso Aus, perchè vogliamo tornare alla pozza del Garub, prima del tramonto, sicuri di trovarvi ancora molti cavalli. E così è e stiamo fermi a lungo a guardare questo bellissimo spettacolo, notando che il gruppo è ancora più numeroso di quello del mattino.

Questo mi convince ancora di più che l’escursione del giorno prima è stata abbastanza scialba e non valeva la pena che la facessimo, considerato anche che era a pagamento. Ma, come a volte accade, certe cose non sempre si sanno a priori.

Siamo invece molto soddisfatti di questa tappa ad Aus/Lüderitz, che sulla carta era quella che mi dava le maggiori incertezze. La vista dei Feral Horses merita assolutamente il lungo viaggio da Sossusvlei, anche se dopo non si prosegue per il Fish River Canyon e vale la pena di visitare Lüderitz, anche senza necessariamente fermarvisi per una notte.

Poco prima di rientrare al lodge, ci fermiamo all’Aus Info Center, dove riesco a collegarmi ad Internet per un rapidissimo controllo della mia posta elettronica. Uscendo, la simpatica ragazza che lo gestisce, gentilissima, ci chiede se la Namibia c’è piaciuta, come è andato il nostro viaggio e se abbiamo delle osservazioni (!) da fare.

Senza esitazioni le rispondiamo che è stato un viaggio magnifico e che la Namibia è veramente molto bella. Certo, se avesse un po’ di strade asfaltate in più non sarebbe male e non crediamo che questo rovinerebbe il paesaggio. Sicuramente sarebbe un fattore che potrebbe rendere ancora più visitabile questo paese, verso il quale l’interesse turistico sta crescendo a ritmi velocissimi e costanti.

A cena si scontriamo ancora, per così dire, con un cameriere non molto reattivo, ma in compenso, avendo segnalato sin dal nostro arrivo che Enrica preferisce il pesce alla carne, molto gentilmente le viene servito fuori menù un piatto a base di pesce e con questo trattamento di “favore” ci riconciliamo appieno con il Klein Aus Vista.

26/08: Marienthal (Anib Lodge) Dopo un’altra lauta colazione, imbocchiamo la B4 per quella che è l’ultima tappa del nostro viaggio. Più per stanchezza che per calcolo, decido di non riprendere la C13 per dirigermi a nord, ma opto per un percorso di solo asfalto, più lungo ma decisamente più scorrevole e meno faticoso.

Percorriamo la B4 in direzione est e attraversiamo dei bei paesaggi che in parte ricordano quelli americani della Monument Valley e dello Utah.

Abbastanza rapidamente arriviamo a Keetmanshop, a metà circa del percorso che ci deve portare poco sopra Marienthal, ai limiti occidentali del Kalahari Desert. Poco da segnalare su questa cittadina, se non un piccolo parco nel centro città, battezzato con una certa ingenuità Central Park e la presenza di una bella chiesa e di un centro missionario moderno ed esternamente ben curato.

Da qui abbandoniamo la B4 e prendiamo la B1, diretti ormai decisamente a nord. Il tratto però successivo è decisamente più noioso e siamo piuttosto disturbati dal vento che soffia forte e che crea dei continui mulinelli di vento, quasi delle piccole trombe d’aria in miniatura. Questo rende i (relativamente) numerosi camion che incontriamo piuttosto difficili da superare e dobbiamo essere molto cauti nei sorpassi.

Arriviamo comunque a Marienthal intorno a mezzogiorno e qua ci fermiamo in una megastazione di servizio posta poco fuori città. Mentre faccio benzina veniamo investiti da una tempesta di sabbia e per qualche secondo non vedo più niente, mentre Enrica e Benedetta se ne stanno al riparo in auto. Mi chiedo se questo è quello che dobbiamo aspettarci per i nostri ultimi giorni in Namibia.

Lasciata Marienthal, percorriamo altri 34 chilometri, prima sulla B1 e poi sulla C20 (tutti di asfalto evviva!) per arrivare all’Anib Lodge uno dei lodge più citati dai resoconti di viaggio, il più grande di quelli in cui ci siamo fermati nel nostro viaggio.

Dopo questo lungo tratto, oltre 450 chilometri, non abbiamo voglia di fare nulla e ci rilassiamo sulla veranda del nostro bungalow, dopo una doccia tonificante. Poco dopo, riesco anche a vedere gli ultimi giri del gran premio di Formula 1 di Instanbul, dove la Ferrari registra una magnifica doppietta.

La cena è discreta e fa sorridere la presentazione in tre lingue del menù: inglese, tedesco e nama (il dialetto locale). Benedetta viene favorita da un gelato extra, che accoglie con grande entusiasmo.

Poi, al solito, a letto presto.

27/08: Marienthal (Anib Lodge) Il nostro ultimo giorno (pieno) in Namibia è uno dei più tranquilli e questo, in certo senso, ci mette un po’ a disagio considerato quanto abbiamo fatto invece nei giorni precedenti, macinando chilometri su chilometri ed essendo sempre impegnati in escursioni o cose simili.

La mattinata la dedichiamo alla visita dell’Hardap Dam, un lago artificiale posto pochi chilometri a nord di Marienthal, sulla B1 verso Windhoek. Come è tale, è il più grosso bacino di tutta la Namibia, circa 25 kmq, inserito in una riserva naturalistica di oltre 25.000 ettari.

Il parco è gestito dalla Namibia Wildlife Resort (NWR), l’ente turistico governativo già incontrato sulla nostra strada (Etosha, Namib-Naukluft Desert, Sandwich Harbour, ecc…) e anche qui…Si vede! Quando facciamo i biglietti, alla nostra richiesta di un cartina del parco, le impiegate, dopo aver frugato con poca convinzione in cassetti ed armadi, allargano le braccia sconsolate: le hanno finite. Ora, è vero, che siamo in periodo di bassa stagione (ma l’Anib Lodge qui vicino è pieno), ma non avere uno straccio di piantina che indichi le strade del parco mi sembra una pesante mancanza.

Anche perchè, non è che le indicazioni, fuori, siano chiarissime ed io posso solo basarmi su quello che ho letto su guide (poco dettagliate) e resoconti vari: c’è un percorso circolare di 16 km, su strada sterrata.

Imbocchiamo così l’ingresso del Game Drive e passiamo sopra la diga che ha formato il dam. Lo spettacolo da lassù è notevole e vediamo alcuni pellicani di cui, si dice, che qua siano presenti in gran numero. Poi proseguiamo per le strade tortuose e con continui saliscendi del percorso di visita. L’incontro con un magnifico esemplare di kudu ci fa ben sperare per quanto potremmo trovare, ma dopo pochi metri ci dobbiamo fermare: davanti a noi una ripida e sconnessa discesa rischia di mettere a dura prova la nostra auto, non adatta a queste situazioni e che, dati i pneumatici ormai piuttosto consunti, potrebbe fare molta fatica a risalire.

Visto che non abbiamo una cartina, non sappiamo se dovremo ripassare per quel punto, e questa volta in salita, come d’altra parte non possiamo sapere se troveremo, come è probabile, altri punti come quello.

A malincuore decidiamo di tornare indietro e proviamo a seguire un altro percorso, anche questo con scarse indicazioni e che non sappiamo bene dove porti. Pure su questo, poco dopo, dobbiamo fare dietro front per lo stesso problema di prima.

Questa è l’unica situazione in cui la mancanza di un fuoristrada si è fatta veramente sentire, ma la mia fiducia a riguardo era stata corroborata da alcuni resoconti di viaggio che descrivevano questo luogo come tranquillamente visitabile anche con auto normali. Ora, non voglio dire che questo fosse assolutamente impossibile, certamente lo era per la nostra vettura, con le gomme ormai troppo al limite.

D’altra parte, non volevo rischiare di combinare qualche guaio proprio all’ultimo giorno, sarebbe stata una vera beffa! Ci accontentiamo quindi di visitare il resort, dove non troviamo nessuno. Il negozio è chiuso, il ristorante pure e l’aspetto della piscina vuota e sporca è deprimente. Di bello c’è solo la posizione, a nido d’aquila sul lago. Mi auguro che nell’alta stagione il posto si rivitalizzi decisamente, perchè comunque la vista da lassù è splendida e la struttura lo merita.

Rientriamo un po’ mesti all’Anib, dove ci sistemiamo a rilassarci (pure troppo oggi!) a bordo piscina, osservando nel frattempo i turisti che vanno e vengono.

Alle 15,30 partiamo per il sundowner drive, l’escursione del tramonto. Lo dico subito: per chi, come noi, ha ormai alle spalle tutto il viaggio questa è un escursione ruba-soldi, perchè la vista di qualche zebra e alcune antilopi di vario genere non la motiva a sufficienza.

Certo, per chi è al suo primo giorno in Namibia può costituire un primo, emozionante contatto con la natura, fermo restante che il ricordo di questo impallidirà nel confronto dei giorni successivi.

Ad ogni modo, almeno, vediamo un famiglia di splendidi orici e il tramonto è il più bello che troviamo in tutto il nostro viaggio.

Sulla jeep, con noi, quasi tutti italiani, in particolare Marco ed Enrica di Torino che (loro sì!) hanno fatto un tour avventuroso di tutta la Namibia dalle Epupa Falls a nord, al Fish River Canyon a sud. Con un fuoristrada dotato di aircabin, hanno percorso piste poco battute, trovando villaggi himba del tutto fuori dalle rotte convenzionali.

Però, loro sono esperti fuoristradisti e questo gli ha permesso di affrontare con consapevolezza situazioni piuttosto al limite.

Dopo l’escursione, ci ritroviamo a cena e scopriamo che conoscono il nostro piccolo comune di residenza, perchè, appassionati d’auto d’epoca (eh, l’ho detto che sono di Torino) tempo addietro sono venuti a visitare una collezione privata di un nostro concittadino, di cui noi a malapena abbiamo sentito parlare.

E’ proprio vero che il mondo, a volte, è piccolo! 28/08: Windhoek (Partenza per l’Italia) Eccoci qua, ormai questo è l’ultimo giorno del nostro viaggio attraverso la Namibia. Ci alziamo presto, dobbiamo percorrere ben 250 chilometri per arrivare a Windhoek e anche se la strada dovrebbe essere buona, preferiamo partire con un buon margine di tempo, visto che abbiamo l’aereo per Johannesburg alla 3 del pomeriggio.

Arriviamo senza intoppi nella capitale e prima di lasciare l’auto all’agenzia di noleggio, facciamo un salto in centro per farci fare una dichiarazione per il rimborso delle tasse presso i negozi dove Enrica, il primo giorno, aveva fatto alcuni acquisti. Con questa dichiarazione, infatti, presso un apposito ufficio dell’aeroporto è possibile farsi rimborsare la somma corrispondente alle tasse applicate sul prezzo di acquisto degli oggetti comprati.

Allo stesso tempo ne approfittiamo per salutare Kirsty all’ufficio della Cardboard Box Travel Shop e le diciamo che il nostro viaggio è andato veramente molto bene, non abbiamo neanche forato i pneumatici (!), nonostante non fossero nelle migliori condizioni possibili.

Portiamo infine l’auto all’agenzia di noleggio e, anche se ci lamentiamo delle condizioni delle gomme, ovviamente ormai quel che è stato è stato, spero solo che non abbiano dato la nostra auto nelle stesse condizioni a qualcun altro, anche perchè noi ci lasciamo alle spalle oltre 4500 km di strada, di cui almeno 2500 di sterrato.

La navetta (gratuita) dell’agenzia ci porta all’aeroporto e lungo la strada notiamo diverse scimmie. E’ singolare che gli unici esemplari di questa specie li abbiamo visti solo nei dintorni di Windhoek, vicino alla strada.

E alla fine partiamo, per il lungo viaggio di rientro in Italia. Ormai la vacanza è veramente finita, ma rimarrà nei nostri cuori e nelle nostre menti, come una delle più belle che abbiamo mai fatto.

29/08: Appendice (aeroporto di Bologna) Il viaggio di ritorno si svolge tranquillamente, senza particolari intoppi. Come ci accade altre volte dobbiamo rimanere fermi a lungo a Francoforte, in attesa del volo per l’Italia., ma questo ci permette di farci la solita colazione a base di salsicce/würstel locali! Alla fine, però, siamo colpiti anche noi dal malanno di quest’estate: a Bologna non arriva nessuno dei nostri bagagli! I tre principali arriveranno comunque direttamente a casa tre giorni dopo, ma del bagaglio speciale costituito da un paio di statue acquistate a Swakopmund e consegnate al momento dell’imbarco a Windhoek, non vedremo più traccia.

Un vero peccato, ma che sia questo un motivo in più per spingerci in futuro a tornare? Vedremo…

Ringraziamenti Anche se non posso citare tutti coloro di cui ho letto resoconti di viaggio analoghi (tanti!), non di meno voglio ringraziare alcune persone che mi hanno dato preziosi consigli e suggerimenti.

In primo luogo, il sig. Giovanni Porzio, inviato speciale della rivista Panorama. Di lui per primo ho letto di un suo viaggio con tre figli in Namibia e che mi ha cortesemente spronato a fare la stessa esperienza, perchè priva di rischi e molto gradevole. Avendo saputo, dopo, che per mestiere è abituato a viaggiare nei posti più pericolosi di questo mondo, qualche riserva sul suo metro di giudizio mi era venuta, ma a posteriori posso confermare che aveva ragione.

Altrettanto risoluto nei consigli, e dispensatore di tantissimi suggerimenti è stato Fabio B. Di Livorno, anche lui con moglie e due figli (5 e 11 anni a quel tempo), recente reduce di un viaggio in Namibia. Con Fabio ho messo a punto l’itinerario, più che con l’agenzia di Windhoek, e la sua esperienza ha contributo a far sì che le nostre tappe risultassero ben calibrate e organizzate. I suoi resoconti di viaggio sono una vera miniera di indicazioni e con me avevo sempre sottomano il suo racconto del soggiorno in Namibia.

Da ultimo, ma solo in ordine di tempo, perchè l’ho incontrato (su web) solo in prossimità della nostra partenza, Rick, la guida-per-caso che cura la Namibia sul sito di Turisti Per Caso. Un confronto con lui mi ha evitato di percorrere inutilmente la strada da Twyfelfontein alla Skeleton Coast.

E, infine, grazie a Benedetta che ha sopportato tranquillamente i lunghi momenti passati in automobile. Viaggiare con lei è un piacere e questo ci sprona a continuare su questa strada, magari barattando questi viaggi semi-avventurosi con qualche giorno al mare, a giocare con i propri coetanei e a sguazzare nelle normalissime acque della riviera adriatica.

Forse un giorno ci comunicherà, come abbiamo a volte pensato nei momenti più pesanti, che si è stufata di stare chiusa in macchina, in mezzo alla polvere, per tante ore o a guardare un panorama fatto solo di rocce e sassi. Per il momento, comunque, continuiamo a far finta di niente.



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