Il Messico secondo me un po’ diario un po’ guida

Ecco qui il resoconto del mio viaggio in Messico dal 9 al 19 aprile 2006. Sono stata – da sola – a Città del Messico fino al 13 e poi a Monterrey ospite da amici. È stato un viaggio che mi ha coinvolto molto dal punto di vista emozionale, soprattutto perché ho dovuto misurarmi con me stessa per il periodo in cui sono rimasta sola. Ce...
Scritto da: Vilma Moioli
il messico secondo me un po' diario un po' guida
Partenza il: 09/04/2006
Ritorno il: 18/04/2006
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Ecco qui il resoconto del mio viaggio in Messico dal 9 al 19 aprile 2006. Sono stata – da sola – a Città del Messico fino al 13 e poi a Monterrey ospite da amici.

È stato un viaggio che mi ha coinvolto molto dal punto di vista emozionale, soprattutto perché ho dovuto misurarmi con me stessa per il periodo in cui sono rimasta sola. Ce l’ho fatta e ne sono molto felice.

9 aprile 2006 si parte L’aeroporto di Linate, alle 6,30 di mattina, è praticamente vuoto. Nessun problema a checkin ed alle 8,30 puntuale il volo parte per Madrid, dove ci sono due ore di sosta prima della partenza per Città del Messico.

Puntualissimi arriviamo all’aeroporto Barajas. Il borsone a mano pesa un sacco, ora che ho aggiunto anche la giacca e l’impermeabile (la prossima volta userò il trolley!!!).

Guardo il biglietto: uscita S. Bene. Cerco i cartelli RSU con le frecce e sopra le lettere ci sono dei numeri, in particolare sopra la S c’è scritto 25 min.

25 min? e cosa vuol dire? L’aeroporto è molto grande, luminoso, nuovo, pulito. Continuo a camminare e ritrovo le indicazioni con un cambio: S 22 min.

Possibile che sia il tempo per arrivarci? Mi sembra così strano!!! Salgo e scendo da scale mobili finché non arrivo ad una navetta, che passa proprio in quel momento.

Quando scendo, ci sono solo altri 7 min. Vabbè, non ci ho impiegato 25 minuti, però 15 tutti. Ripenso a quello che aveva scritto un ragazzo riguardo al suo viaggio in Messico, dove diceva che a Madrid era impazzito per il checkin… Meno male che io avevo tempo! Finalmente arrivano le 12 e ci si mette in fila per salire sull’aereo; ho scelto un posto vicino al finestrino e vale davvero la pena passare il tempo guardando fuori dall’oblò: il paesaggio spagnolo è molto bello, ma anche l’Atlantico, così agitato da dare l’impressione che le onde siano pezzi di ghiaccio, per non parlare della costa americana e degli atolli… Uno spettacolo.

Abbiamo raggiunto il continente americano, ma per arrivare in Messico ci vogliono ancora tre ore. Mi aspettavo di vedere il golfo dall’alto ed invece voliamo troppo in basso perché ci possa essere tale visuale (“solo” 2000 metri)… E finalmente la terra! È diversa da quella spagnola, il colore predominante è il marrone chiaro, come di erba bruciata dal sole, tante montagne solcate da profondi canaloni che probabilmente un tempo ospitavano ghiacciai, dato che le vallate sono arrotondate e non scavate come quelle dei fiumi. Ma sono tutte congetture.

Superiamo città più o meno grandi adagiate nelle vallate e finalmente eccoci arrivati a Città del Messico: una città sterminata, case arrampicate fin quasi alla cima di montagne e giù lungo i fianchi, case, case, case di tutti i colori… Gialle, verdi, azzurre, rosse, arancione… Case basse ed in fianco le montagne, strade percorse da poche automobili, non pare di essere a 2230 metri.

Atterriamo puntualissimi alle cinque e mezza (mezzanotte passata ora italiana), però c’è chiaro e l’eccitazione dell’arrivo non mi fa sentire il sonno. Mi metto in coda – un serpentone lunghissimo… Ma quanti eravamo sull’aereo? – per passare la dogana, consegno il passaporto ed il visto di soggiorno che ho compilato sull’aereo. Raccomandano di non perderlo, in caso contrario si dovranno pagare 42 dollari americani di penalità! Oltrepassata la dogana, vado in cerca dei bagagli, ma il nastro è praticamente vuoto: che non l’abbiano ancora scaricato??? Poi mi guardo intorno e memore del racconto di qualcuno che aveva detto che i bagagli lo stavano aspettando, trovo la mia valigia. È rossa e si riconosce facilmente.

La prendo e mi rimetto in fila per l’ultimo scoglio: il famoso semaforo. Una ragazza, molto carina, mi invita a premere un pulsante, il semaforo è verde e posso passare. Per fortuna! Mi hanno spiegato che – probabilmente con la scusa della casualità – a volte fermano dei passeggeri con il semaforo rosso e perquisiscono i bagagli.

Mi trascino (letteralmente!) per l’aeroporto con le mie due valigie, compro una scheda telefonica e pago la corsa del taxi, sì perché prima dell’uscita dell’aeroporto ci sono dei botteghini dove si pagano i taxi che aspettano fuori, 127 pesos a persona. Nel mio caso l’autista ci ha perso… Dopo una ventina di minuti arrivo in hotel. Durante il tragitto mi guardo intorno: è pieno di cartelloni elettorali (a luglio ci saranno le elezioni) e di cartelloni pubblicitari… Come in Italia. Alcuni prodotti sono gli stessi, per esempio Philadelphia ed altro che adesso non ricordo.

L’hotel in republica de Uruguay, è una delusione… Sì, è come nelle foto, ma… Come dire… Mi aspettavo qualcosa di più. La camera è “sencilla” col doppio significato di “semplice” e “singola”: un letto matrimoniale nel centro e due comodini a lato, un tavolino con una sedia sulla sinistra e davanti al letto in alto sulla parete un televisore, moquette per terra.

Il bagno è ancora più deludente: lavello e grande specchio, un armadio a due ante ed una doccia… Non c’è neppure il phon!!! Mi faccio una doccia e con i capelli ancora umidi sistemo piuttosto velocemente la valigia, poi esco un momento. Non ho fame, dato che sono circa le otto di sera e piena notte in Italia, gironzolo per una strada ma poi decido che è meglio rientrare.

Alle nove spengo la luce. Non ce la faccio più.

Mi sveglio alle tre e mezza, pausa di un’oretta e mi risveglio alle sette e mezza. Tutto sommato non è andata male, come prima notte.

Lunedì 10 aprile 2006 Poco dopo le otto e mezza sono già in strada, pantaloni leggeri e scarpe comode, una maglietta ed il maglione… La mattina c’è freschetto.

Destinazione: Teotihuacan. Mi ero così agitata a casa per questa visita che l’unica cosa che mi ha fatto tranquillizzare è stata la decisione di evitare la metropolitana e prendere un taxi per arrivare fino alla stazione del norte, da cui prendere poi l’autobus per il sito archeologico.

Cammino un po’ e quando vedo un uomo scendere da un taxi mi avvicino e salgo io. È un maggiolino verde, il sedile di fianco all’autista non c’è per cui uno entra piuttosto comodamente e si siede dietro, mentre il tassista chiude la portiera aiutato da una lunga corda legata alla maniglia.

È un signore di una certa età, chiacchieriamo un po’. Mi chiede di dove sono, dove abito, se conosco il papa… J dice che in Messico amano molto Giovanni Paolo II. Mentre guida mi indica i monumenti più significativi… Il palazzo delle belle arti, il palazzo delle poste (che sulla guida segnalavano ma che francamente dal fuori non mi sembrava un granché…), piazza Garibaldi con ancora qualche mariachi che chiacchiera con altri colleghi. 30 pesos la corsa. Il viaggio verso Teotihuacan dura circa 45 minuti, lasciamo la città alle spalle per addentrarci nelle zone periferiche più povere della città, case di mattoni grigi, tetti in lamiera, strade sterrate e bambini – sporchi però sorridenti – che giocano. Un ragazzo ad una fermata sale sull’autobus per vendere qualcosa da mangiare. È una cosa che si vedrà spesso.

La zona archeologica è bellissima, un grande viale fiancheggiato da alberi conduce all’ingresso vero e proprio, alcuni negozietti espongono le merci, compro un libro del sito ed entro.

Sono circa le dieci di mattina e comincia a fare caldo, non c’è molta gente – ancora – e seguendo le indicazioni mi dirigo verso la piramide del serpente piumato, con qualche salita e discesa su piattaforme. In basso, prima della scalinata della piattaforma che dà alla piramide del serpente le guide invitano i bambini ma anche gli adulti a battere le mani: il suono è in qualche modo modificato e pare di sentire delle rane gracidare.

La piramide non è visitabile direttamente poiché ci stanno facendo dei lavori, però è molto bella ed i serpenti sono ben conservati.

Se salire è stato abbastanza faticoso, scendere lo è ancora di più. Alcune donne, dietro di me, scendono con il sedere perché i gradini sono stretti e molto alti, io non scendo col sedere ma come i bambini scendo un gradino alla volta. È con un certo sollievo che arrivo in fondo.

Mi siedo all’ombra, dopo aver gentilmente allontanato i primi venditori di oggetti in argento e ceramica. Mi sembra di essere in un altro mondo: alcuni venditori suonano delle ocarine e dei flauti ed il suono si diffonde nell’aria trasportandomi nel passato.

Vado verso la Calle de los muertos, un lungo viale che porta alla piramide della luna passando per quella del sole e per la cittadella, una costruzione posta nel mezzo del viale, un rudere ormai, che bisogna salire e scendere. I primi crampi alle gambe.

Compro dei braccialetti in argento, la signora che me li vende aveva anche degli oggetti in ceramica, bellissimi, ma l’idea che possano rompersi durante il viaggio non me li fa neppure prendere in considerazione, però li fotografo.

Il viale è lungo più di due chilometri, fa un caldo pazzesco – per fortuna ho il cappellino – non c’è un posto in ombra dove stare, guardo e saluto la piramide del sole e mi dirigo direttamente verso quella della luna, affiancata quasi continuamente dai venditori.

Qualche cane pelle e ossa se ne sta disteso nei triangolini di ombra che le costruzioni offrono. Mi ricordano quelli in Egitto nella zona di Luxor.

La piramide è altissima (almeno vista dal basso), fortunatamente lungo la scalinata sono stati messi dei corrimano che consentono di attaccarsi sia nella salita che – più importante – nella discesa, salgo fino a metà e con il cuore che mi scoppia mi riposo un po’, poi completo la salita fino alla prima piattaforma (sarà anche l’altitudine che mi fa ansimare così, ma credo che per lo più sia io che dovrei fare più attività fisica). Lo spettacolo è stupendo, disegno la piramide del sole, scrivo qualche appunto, mi lascio ancora una volta trasportare nel tempo, immaginando il luogo quando un tempo era abitato… Con tutta la cautela di cui sono capace ridiscendo la piramide, visito a lato un tempietto delle aquile (che fresco!), compro delle magliette e dell’acqua (la mia ormai era imbevibile), visito il tempo dei giaguari e riprendo il viale del ritorno.

L’ennesimo venditore si affianca, però stavolta mi siedo e chiacchieriamo. Mi vuole vendere le due statuette del sole e della luna, in ossidiana lucidata. Sono splendide… Ma pesantissime! E poi non ho portato troppi soldi… Mi mostra altre cose ed alla fine compro (da 40 euro a 100 pesos, cioè 8 euro circa) una specie di piccolo braciere con tre piedi e due uomini accovacciati ai lati. Mi dice che se voglio tornare mi aspetta e che sarebbe anche disposto a sposarmi… Alla mia risata di rifiuto, commenta che è proprio sfortunato con le donne (sua moglie lo sa che fa la corte a tutte le turiste???) La piramide del sole è grandissima, altissima, bellissima… Quasi come l’acqua della pubblicità… Non ce la faccio a salire… Le gambe già mi fanno male… Però la aggiro per visitare il museo. Non è molto grande però è carino. Vorrei comprare dei libri, ma o sono specifici (vedi Frida Kahlo o Rivera o altri) o sono pesantissimi od entrambe le cose.

Verso le due ho finito il giro e decido che mi merito qualcosa da mangiare, c’è un ristorante all’interno del sito, entro e mi siedo a tavola. Self service: spaghetti annegati in un sugo che non mi ispira neppure un po’, fettuccine vedi sopra, polpette di carne improbabile… Cosa mangio? Un’insalata. Insieme al pane portano dei crackers. Mi incuriosiscono e ne provo uno… Di una stopposità esagerata. Bevo subito.

Pago uno sproposito per aver mangiato solo l’insalata (la mancia era già stata calcolata) e mi dirigo verso l’uscita. Alle quattro sono di nuovo alla stazione del norte, telefono a Paolo e ci accordiamo per incontrarci la sera dopo, prendo un taxi (come all’aeroporto, di quelli prepagati, 85 pesos a persona. La differenza con quelli che prendi per la strada è che questi sono “sicuri”… Però costano tre volte tanto! Fa niente!) Mi faccio lasciare all’Alameda Central, traduzione “pioppeto centrale” con l’intenzione di prendere il turibus, un autobus scoperto che in circa tre ore fa fare il giro della città. Aspetto una decina di minuti e quando arriva è pieno e non ci stiamo tutti. Sono stanca, ho le spalle che mi bruciano per il sole, devo ancora comprare il phon… Me ne vado. Lentamente mi dirigo verso il Zòcalo, la grande piazza antistante la Cattedrale metropolitana. È grandissima! Faccio qualche foto ma sono davvero stanca e, piantina alla mano, torno verso l’albergo.

Le strade sono un susseguirsi di gioiellerie, negozi di ottica, librerie, posti dove mangiare – Mac Donald in quantità – e posti lunghi e stretti dove preparano tortillas. Le strade pullulano di persone e per fortuna che, dato che qui gli studenti sono in vacanza sia la settimana prima che quella dopo Pasqua e la gente si prende le ferie, la metà se ne è andata al mare, Acapulco in primo luogo che non è particolarmente distante.

E meno male che c’è solo la metà della gente… A volte non si riesce a camminare, anche perché lungo le strade ci sono i soliti venditori di dischi, magliette, cianfrusaglie varie, cose da mangiare e da bere. In alcuni banchetti vendevano succhi di arancia e di altri frutti, nonché dolci e tacos, frutta a pezzi… Ci sono delle ragazze che preparano dei dolci tipici di Pasqua, sono come dei biscotti rotondi cotti su delle piastre portatili che hanno con loro, che vendono in particolare davanti alle chiese, ma ci sono anche genitori che con i loro bambini di due o tre anni ti vendono caramelle e cicche in confezioni piccole, 5 ogni una.

Mendicanti ce n’è molti, donne con i loro bambini in braccio, spesso addormentati. Paolo mi ha detto che spesso danno loro qualcosa per farli dormire… Ai semafori, specialmente lungo le strade principali della città, ci sono bambini e bambine di 7-8 anni che lavano i vetri delle auto.

Lungo la strada entro in un grande magazzino “Liverpool” e trovo un phon portatile, 200 pesos. Verso le sei rientro in hotel. Sono distrutta, bruciata dal sole, con i piedi in fiamme e le braccia arrossate per il peso che portavo (avevo anche la guida del Messico…) mi stendo sul letto con l’intenzione di non alzarmi più!!! Invece dopo un po’ mi alzo e mi faccio una doccia, mi rilasso ancora un po’, faccio il programma per il giorno successivo e verso le otto esco per cercare qualcosa da mangiare. Nel locale non c’è molta gente, mi siedo in un angolo ed aspetto che qualcuno venga al tavolo, dopo poco si avvicina un cameriere che mi chiede qualcosa. Al terzo tentativo capisco “Quiere comer algo?” (vuole mangiare qualcosa?) Sì, ma non so cosa. Mi hanno sconsigliato di mangiare formaggi perché contengono batteri che nel nostro organismo non ci sono e che potrebbero causare infezioni. Diligentemente mi attengo al consiglio.

Sul menù nomi stranissimi si susseguono con altrettante spiegazioni ma non riesco a decifrare niente… Quando ritorna il cameriere mi faccio consigliare da lui e scelgo una ranchera, ossia della carne, tipo fiorentina, piuttosto piccante ma tenerissima e decisamente buona.

Di fianco c’è della salsa marrone (frijoles ossia crema di fagioli) con del formaggio grattugiato sopra in scagliette, che scanso dalla carne.

Rientro in albergo con una certa apprensione perché ormai non c’è in giro quasi più nessuno, tento di leggere un po’ ma non riesco a concentrarmi, riprendo in mano il programma per il giorno dopo: la mattina al museo di antropologia e di arte moderna, pomeriggio museo delle belle arti, sera con Paolo. Mi passa a prendere dopo le sette.

Martedì 11 aprile Ho il collo tutto rosso e le spalle uguali, mi metto una camicia con il collo per proteggerlo dal sole ed uno scialle sulle spalle per ripararmi un po’. Anche il solo sfregamento a volte è una tortura.

Prima di uscire mi metto la crema protettiva che mi ero portata… Lo so che dovrei portarmela dietro, ma mi secca.

E le gambe? Fare i gradini è una tortura maggiore dello sfregamento sulla pelle… Sono proprio messa male. Ignoro – con fatica, ma ignoro – tutti i miei dolori e mi preparo per una nuova giornata.

Ho con me solo una bottiglia d’acqua, la macchina fotografica e la piantina. Stavolta la guida rimane tranquilla in albergo.

L’aver parlato con una coppia italiana incontrata il giorno prima della metropolitana e dopo aver fatto un po’ di conti ed essermi resa conto che avevo speso già circa un terzo di quanto avevo cambiato in pesos, mi ha convinto a prendere la metro. Il biglietto costa due pesos, circa 15 centesimi. Il treno arriva quasi subito, è affollatissimo… Di donne, siamo tutte donne! Avevo letto infatti che in alcuni orari, quelli più affollati, ci sono vagoni solo per donne e bambini ed altri solo per uomini. Meglio così perché mi sento una sardina. Mi avevano detto che la metro era pericolosa, di non portare alcun tipo di gioielli ed altro… Ma mi rendo conto che lì le persone sono tranquille, non esitano ad indossare i loro gioielli ed ognuno si fa i fatti propri. I vagoni hanno i pneumatici, anziché le ruote del treno, e sono decisamente puliti.

Arrivo al bosque de Chapultepec (il bosco delle cavallette) e dopo aver chiesto varie indicazioni raggiungo il museo di antropologia. Il parco è molto grande e sotto gli alberi fa freschetto, uomini e donne corrono facendo jogging ed alcuni venditori stanno cominciando ad allestire le loro bancarelle lungo i viali.

Il museo esternamente ha un grande cortile, chiamiamolo così, sui tre lati del quale si aprono le sale e nel centro del cortile c’è una copertura grandissima da cui scende l’acqua a mo’ di fontana. Viene chiamato il grande ombrello.

Comincio la visita ed inaspettatamente sento parlare in italiano: una guida messicana che parla italiano con un gruppetto di persone, chiedo se posso unirmi, mi dicono di sì però… Va bè, un po’ ascolto, un po’ me ne vado per conto mio.

Non posso smettere di fare foto, ci sono delle cose meravigliose… L’unico neo è che all’interno del museo non si può usare il flash e non sempre la luce è sufficiente per fotografare. Quando arrivo nella parte centrale, c’è la pietra del sole che mi aspetta… La guardo da lontano, la fotografo e poi, come per assaporare di più l’attesa, giro per la sala e mi soffermo sugli altri pezzi. Uno non se ne vorrebbe mai andare da lì… Poi ritorno alla pietra, mi avvicino, la osservo, la fotografo.

È un’emozione forte.

Proseguo il giro per la sala che è davvero grande e certamente una delle più importanti, prima di uscire la saluto un’ultima volta e la fotografo ancora.

So che è un arrivederci.

Proseguo il giro, a volte spengo la macchina (la batteria si consuma a vista d’occhio) ma non riesco a fare a meno di continuare a fotografare… Se non fossi stata così distrutta dall’uscita del giorno prima l’avrei gustato ancora meglio. Il museo è grandissimo, costruito giusto una quarantina d’anni fa, le sale sono spaziose e danno il giusto spazio ad ogni opera. Ci sono delle collane di denti, monili, statuette in ceramica perfettamente conservate, armi in ossidiana, riproduzioni di pezzi delle piramidi, per esempio c’è quella del serpente piumato. E poi riproduzioni di interni dipinte, stele ed una testa gigante degli Olmechi.

Peccato per la guida, però – come sempre succede – il lato positivo di averlo visitato sola è che ho potuto soffermarmi quanto volevo in ciascuna sala.

Visito finalmente il reparto libri, ce n’è uno molto ben illustrato ma senza spiegazioni… Opto per uno più piccolo ma che dà indicazioni. Sempre in spagnolo perché in italiano non c’è. Esco che è mezzogiorno e mezzo, mi siedo un po’ all’ombra per riprendere le forze e mi dirigo verso il museo di arte moderna, che si trova dall’altra parte del parco. Mi sono persa per un soffio i voladores, quattro uomini che, legati con delle funi all’alto di una pertica, girano su se stessi. Riesco solo a fotografarli mentre si sistemano.

Ormai i viali sono pieni di bancarelle che vendono di tutto, dalle magliette, ai cappellini, ai ciondoli, portachiavi, paccottiglia varia… E naturalmente del cibo.

Cibo. Avrei quasi fame. Gli odori della cucina messicana non mi piacciono, ce ne sono alcuni che sono così aspri che mi si stringe lo stomaco, nulla di ciò che vedo attira il mio desiderio di cibo: ci sono tipo patatine ed altre sul rossiccio, poi una cosa gigante… Tipo una piadina ondulata ma cotta tipo patatine, c’è chi la compra e ci mette sopra delle salse… Poi ci sono dei biscotti e dei dolci ma anche questi non mi ispirano.

E naturalmente vendono le bibite, quelle sono normali: aranciate, coca cola, sprite e naturalmente acqua.

Appena uscita dal museo di antropologia avevo visto una bancarella che vendeva frutta in pezzi messa in grandi bicchieri, ma la vendevano due uomini… E se non si sono lavati le mani? Non ho preso nulla perché mi sono detta “Chissà quanti ne trovo poi…” Neanche uno!!! Visito il museo di arte moderna. La prima sala è temporanea… Per fortuna! Quadri di grandi dimensioni dipinti di rosso, azzurro ed a strisce multicolori… Sarà che non mi intendo, ma proprio non mi piacciono.

Passo all’altra ala del museo attraversando un grazioso giardinetto e qui i quadri sono davvero molto piacevoli: Rivera, Kahlo, Siqueiro, Tamayo, Orozco ed altri.

Tamayo non mi piace. Paolo mi aveva consigliato di visitare il museo a lui dedicato, ma a questo punto decido di non vederlo.

Quando esco sono ancora più stanca ed affamata, ritorno nel parco e rigironzolo in attesa dell’ispirazione, vedo che lì al parco c’è la fermata del turibus… Decido di fermarmi e di aspettare che passi. Fortunatamente dall’altro capo della avenida Insurgentes – trafficatissima! – vedo delle ragazze che vendono la frutta di cui sopra. Mi precipito e la compro: anguria a pezzi (sandìa) ed arance. Ottima! Mi sazio e nel contempo recupero un po’ di liquidi, tento di telefonare a casa ma nessuno dei telefoni funziona, mi siedo all’ombra ed aspetto il turibus che arriva dopo un quarto d’ora circa.

Mi legano un nastrino al polso, di cui rimarrà il segno la sera insieme a quello dell’orologio, e mi danno delle cuffie ancora incartate perché si possono ascoltare le spiegazioni nelle varie lingue. Per fortuna c’è anche l’italiano.

Mi siedo vicino alla sponda, cappello ben calcato sulla testa e scialle che mi copre le spalle… Un caldo pazzesco. Comincia il giro per la città. La vista dall’alto è inusuale e sicuramente piacevole: la colonia Condesa, bohemien, poi el Angel, avenida Insurgentes fino al Zòcalo – con una sosta di mezz’ora perché un altro turibus era appena partito da lì – la casa de los azulejos (che sono delle piastrelle), la casa museo di Mayer fino al palazzo delle belle arti.

Sono quasi le quattro e non sono neppure a metà giro. Per terminarlo dovrei tornare al bosque de Chapultepec e poi o rifare un altro pezzo di giro o prendere la metro… Opto per scendere e visitare il museo, che in fondo era già in programma.

Il palazzo delle belle arti è bellissimo, una costruzione di marmo bianco con una cupola colorata in tonalità del giallo, davanti ha una piazza con delle statue equestri. È il teatro della città e Paolo mi ha raccontato che il sipario è costituito di una parete in cristallo Tiffany anni ’20 che nasconde il palcoscenico fino ad inizio spettacolo.

Mi aveva anche consigliato una serata lì, qualora ne avessi avuto occasione, anche per poter osservare da vicino l’alta società messicana. Peccato… All’interno una grande scalinata che si divide in due laterali porta ai piani superiori, al piano terra c’è anche una mostra delle scarpe di Ferragamo nel corso degli anni, con foto delle più note star del cinema internazionale, da Sofia Loren a Audrey Hepburne riprese con lui.

Mi sento frastornata, probabilmente le due ore sotto il sole sul turibus non mi hanno fatto proprio bene… Al primo piano mi siedo e cerco di riprendere la mia abituale freddezza J Lungo le pareti artisti famosi (i soliti Rivera, Orozco, Siqueiro e Tamayo, con un altro che non ricordo) si sono cimentati in grandi affreschi di rivendicazione sociale.

Avrei dovuto prendere una guida! Invece mi sono soffermata a guardarli, lasciando che le emozioni che gli artisti avevano cercato di fermare nella pittura mi invadessero.

Lascio il palazzo ed ancora una volta mi dirigo lentamente verso l’albergo.

Lì c’è un messaggio per me: Paolo dice di chiamarlo: cambio di programma per un impegno di cui si era scordato, mi chiede se non mi fa niente cenare a casa sua. Sushi. Mi dà l’indirizzo dove raggiungerlo e ci diamo appuntamento a poco dopo le otto.

Accetto e verso le otto arriva un taxi chiamato dall’albergo, arrivo a casa sua verso le otto e mezza.

Le strade a Città del Messico, ma anche a Monterrey, sono tutte a senso unico anche se sono abbastanza grandi da avere due corsie, per cui se sbagli strada – come è successo all’autista – devi fare il giro e ritornare indietro.

Sto per suonare il campanello quando un uomo esce dal cancello d’entrata: è lui.

Paolo è il cugino di un amico che da un paio di anni abita e lavora a Mèxico. Lo avevo contattato via email – per mezzo dell’amico – prima di partire e mi aveva dato il suo numero di telefono perché lo chiamassi e ci potessimo incontrare una sera.

Verso le 11 mi chiede se preferisco che mi riaccompagni in albergo o voglia andare in un posto.

Rimane misterioso sul luogo però io naturalmente accetto, fa un paio di telefonate e dopo poco arriva un taxi che ci porta al World Trade Center, un grattacielo sulla cui cima c’è un ristorante girevole, Bellini si chiama.

Mi confida che si mangia da cani, ma che la vista stupenda fa passare tutto in secondo piano.

Saliamo al 45^ piano e ci arriviamo in pochissimi secondi, un pianista suona in un angolo, le luci sono soffuse, la vista della città è mozzafiato.

Le luci indicano le zone abitate e l’atmosfera è magica.

Ordina una tequila per entrambi, una tequila reposada ovviamente, la migliore.

Il cameriere ci porta tre bicchierini alti e sottili, nel primo – ci spiega – c’è la sangrita, del succo di pomodoro trattato in qualche modo (assolutamente vomitevole…), nel secondo c’è del succo di limone (asprissimo ed altrettanto vomitevole…), nel terzo c’è la tequila.

Prima bisogna bere un sorsino di sangrita e tenerlo per un momento in fondo alla lingua, poi bisogna fare la stessa cosa con il limone per terminare con la tequila che solo in questo modo si assapora nel migliore dei modi.

La tequila mi piace, ma gli altri… Che fatica! Mentre chiacchieriamo ogni tanto sorseggio il tutto ma alla fine preferisco bere solo la tequila.

E’ ora di andare e nel mio bicchiere ce n’è ancora metà. “Tutto d’un sorso” mi invita. “Tu sei matto” gli rispondo. “La bevo io, ti secca?” “Fai pure!” ed in un sorso la termina.

Un ultimo sguardo alla splendida vista e ce ne andiamo.

La serata è molto ventosa ed io mi stringo nella mia giacca, fa piuttosto freddo.

Il portiere ci chiede se vogliamo un taxi ed alla risposta affermativa ce ne indica uno in attesa ad un centinaio di metri.

“Lo faccia venire qui!” lo esorta Paolo, “la señorita siente frìo…” (devo dire che lì tutti mi chiamavano señorita, poi ho scoperto che fanno così con tutte… Ed io che confidavo nella mia faccia così giovane…) Finalmente il taxi arriva. Paolo è severo con il tassista, chiede che usi il tassametro e gli chiede quale strada vuole fare. Dice che bisogna fare così perché prendi certe fregature… Ed è esattamente la sensazione che ho provato quando il tassista mi ha lasciato sotto casa sua, però preferisco non dirglielo.

La prima cosa che i tassisti hanno fatto sia all’andata che al ritorno è stata quella di chiudere le portiere con le sicure. La sera Città del Messico è davvero pericolosa e ci sono zone dove neppure i tassisti vanno, macchine ce n’erano, anche se non molte, ma di persone nemmeno l’ombra. Nessuno, davvero nessuno.

Piuttosto velocemente arriviamo all’hotel, Paolo scende e mi accompagna fin dentro alla hall, ci salutiamo e se ne va con la promessa di risentirci.

Mercoledì 12 aprile Mi alzo un po’ più tardi del solito, ho ancora le spalle che mi bruciano e sono decisamente stanca: se non mi prendo una giornata più tranquilla non ce la faccio ad arrivare alla fine… E sono passati solo due giorni! Mi incammino verso il Zòcalo e decido finalmente di fare una colazione abbondante. Bar ce n’è, ma non sono come quelli italiani… E comunque non sono così numerosi come uno si aspetterebbe. Ad ogni modo entro in uno, mi siedo ad un tavolo ed ordino un cappuccino, poi scelgo una brioche… È grande quanto tre di quelle cui sono abituata.

Pensavo meglio… Aspetto qualche minuto per il cappuccino perché la macchina non era ancora calda e poi me lo portano al tavolo. C’è una bella schiuma, ma non ci sono paragoni… Ne bevo tre quarti e mi dirigo alla cattedrale, entro e la giro un pochino, poi mi siedo in un banco e mi guardo in giro.

La cattedrale è fatta così: appena davanti al portale d’ingresso ci sono dei banchi e quindi l’altare, in legno ricoperto d’oro, alla destra c’è un crocifisso con il Cristo nero ed un panno sui fianchi, sulla prosecuzione dell’altare ci sono due organi giganteschi. Purtroppo ci sono dei lavori in corso ed il resto della chiesa, verso l’altro altare, non è accessibile.

Rimango un po’ seduta e poco dopo comincia la messa. La prima cosa che il prete dice è “Buenos dias”. Mi piace, da noi nessun prete saluta prima di cominciare la messa.

È proprio uguale alla nostra, si capisce quando parla ed anche le risposte sono tradotte letteralmente.

Esco e vado al Palazzo Nazionale, che si trova su un lato della piazza, uscendo dalla chiesa a sinistra.

Per entrare bisogna produrre un documento (io consegno la fotocopia del mio passaporto) e mi fanno entrare senza pagare nulla. Una bella fontana fa da centro ad un cortile quadrato, su cui si affaccia il palazzo. Il primo piano è stato interamente affrescato da Diego Rivera.

Vedo una scritta che dice che ogni ora c’è una guida, guardo l’orologio: sono quasi le 11. Bene! Proprio in quel momento un giovane uomo con una targhetta sulla camicia attorniato da persone invita a seguirlo per iniziare il giro.

Perfetto.

È molto simpatico e parla – seppure velocemente – in modo chiaro e comprensibile. È messicano e spiega in modo fantastico gli affreschi che, enormi, si aprono alla nostra vista e svela mistero dopo mistero il groviglio di immagini che compongono il primo murale che ricopre l’intero muro davanti alla scalinata.

L’aquila al centro, la lotta fra Spagnoli e Mexica, le cose buone portate dagli Spagnoli e quelle cattive, poi le lotte per l’indipendenza, la costituzione, la guerra contro gli Stati Uniti e la Francia, la chiesa ed altro ancora.

Frida Kahlo compare in alcuni ritratti. Poi sulla destra comincia il primo di una serie di murales intitolati “nel corso dei secoli”, che partono dal mito, al mercato di Tenochtitlan, la tessitura, l’oreficeria, l’albero della gomma… E poi la conquista, la schiavitù, gli animali importati.

Peccato non ricordarsi tutto! Faccio amicizia con due donne peruviane, madre e figlia, che mi raccontano che l’anno precedente erano state in Italia. Scopro che il loro è un gruppo già fatto e la guida è la loro, non del palazzo… Fa niente, mi hanno accettato con piacere.

Li seguo fino alla Cattedrale e sento la storia del Cristo nero o del veleno. Si racconta che un vescovo, molto amato dalla popolazione ma inviso dal potere, aveva l’abitudine di baciare i piedi del Cristo prima di iniziare la messa. Decidono di ucciderlo spalmando del veleno proprio sui piedi del crocifisso ma quando il vescovo sta per baciarli ecco che il Cristo diventa tutto nero, assorbendo così il veleno e salvando il vescovo.

Interessante.

Usciamo e faccio una foto con le due donne, l’unica che ho a Città del Messico!!! Da non credere.

Ci salutiamo e baciamo (scopro che in America Latina ci si dà un bacio solo) ed ognuno per la propria strada.

Fuori dalla chiesa molte persone già vendono cose per la Pasqua; i lustrascarpe sono moltissimi ed anche ben organizzati: una sedia con una copertura sopra, un giornale per non far annoiare il cliente, il posto dove si appoggia il piede e davanti un seggiolino su cui si siede il lustrascarpe. Molti uomini se le fanno pulire, invece non ho visto neppure una donna.

Mi guardo in giro e vado al Monte di Pietà, sull’altro lato della piazza. È un edificio molto grande e certamente bello, intravedo in un antro una fila di persone che va a dare in pegno i propri gioielli. Mi hanno raccontato che è piuttosto abituale in Messico dare in pegno qualcosa per potersi pagare le vacanze piuttosto che la rata di qualcosa. Poi si hanno a disposizione trenta giorni per riscattare il pegno, se uno non si presenta perde tutto.

Giro fra le vetrine con gli ori esposti: gruppetti di collane con anelli, collane di perle, orologi… Di tutto. Costavano davvero poco perché con 500 pesos (40 euro) uno si poteva portare a casa un paio di anelli ed anche una collana d’oro.

Mi si stringeva il cuore a guardare tutti quei gioielli, che si vedevano usati… Uno avrebbe potuto costruirci sopra un libro.

Comunque non ho sufficiente denaro con me né ho la carta di credito… Se proprio trovassi qualcosa che mi piace dovrei tornarci il giorno dopo.

Esco e vado alla famosa pasticceria Celaya. È da ben 132 anni che esiste: non è molto grande ma gli specchi che la adornano completamente sono originali.

Ci sono molte cose, cosa scegliere? Opto per del torrone: sono dei quarti di cerchio, più alti al centro e sottili alle estremità, prima di comprarne un po’ ne prendo uno e lo provo. Ottimo! È morbido e più dolce del nostro. Ne prendo un po’ di pezzi, normale ed alla fragola più una cosa al limone. Abbastanza caro, però credo ne valga la pena.

Cammino per la calle 5 de mayo verso la Alameda central. Ci sono molte calles laterali che collegano le strade principali, sono solo pedonali e ci sono dei posti dove si mangia.

Mi siedo in un posto ed ordino, ancora carne con dell’insalata.

“Quiere un cafè?” mi chiedono. Da quanto tempo non ne bevo uno! “Sì, certo” Dopo poco me lo portano: una tazza, tipo quella del latte della colazione, colma fino all’orlo di un liquido che “sembra” caffè.

Lo zucchero non è bianco come il nostro, ne verso un po’ e assaggio la bevanda (bisogna sempre assaggiare tutto…) orribile! Assolutamente imbevibile.

Sono quasi le due, cammino un po’ e mi siedo su una panchina all’Alameda central e mentre lo faccio sorrido al signore che già stava seduto, mi risponde con un altro sorriso accettando la mia presenza.

Passò lì una mezz’oretta, scribacchiando e leggendo qualcosa, mi alzo e lo saluto ancora con un sorriso.

Ho deciso di andare alla basilica della Virgen de Guadalupe.

Chiedo informazioni circa la fermata della metro più vicina e la raggiungo. Devo cambiare un paio di volte e dopo circa una mezz’ora ci arrivo. Seguo il fiume di gente che si incammina verso la chiesa, fra bancarelle odoranti di cibi e venditori di cianfrusaglie.

All’interno stanno dicendo la messa, per cui non oso avvicinarmi al tappeto famoso su cui per miracolo è dipinta la Madonna. Mi hanno detto che Giovanni Paolo II ha fatto santo Juan Diego, l’indio che vide la Vergine.

La chiesa all’interno è molto grande ed abbastanza moderna, c’è poi un angolo molto illuminato dove ci sono delle bocce d’acqua che rappresentano le lacrime della Madonna ed altre cose fino a 7, che indicano i dolori.

In Messico il giovedì santo c’è l’usanza di visitare sette chiese ed infatti la sera dopo, già a Monterrey, mentre andavamo a mangiare in un posto in città siamo passati davanti a delle chiese piene di persone che poi ne giravano appunto sette.

Vado poi in un’altra chiesina lì a lato e dopo un po’ ritorno. Le bancarelle sono davvero piene di cianfrusaglie, cammino lentamente osservando tutto ma non vale la pena di comprare niente.

Una registrazione di un uomo che prega mi accompagna per quasi tutte le bancarelle… Un incubo lavorare lì e sentire tutto il giorno questo che parla… Riprendo la metro. Durante il viaggio donne ed uomini giovani vendono ghiaccioli (tipo i Polaretti, in bustine di plastica. C’è gente che li compra) e cd, che fanno ascoltare a tutto volume nei loro riproduttori stereo. Me ne ritorno in albergo, è abbastanza presto ma sono così stanca che mi stendo e mi addormento.

Dopo la consueta doccia, decido di uscire a cenare abbastanza presto in modo da rientrare verso le otto per evitare il buio. Rivado al solito ristorante e viene al tavolo il solito cameriere.

Insieme decidiamo per dell’altra carne, fatta a listarelle con dei peperoni, funghi e cipolla alla piastra. Ottima anche questa. È quasi un peccato che sia l’ultima sera…

Giovedì 13 aprile Ecco che inizia l’ultimo giorno a Città del Messico. La mattina è decisamente fredda ed il maglione quasi non basta. Mi dirigo verso il Zòcalo per visitare l’ultima cosa che mi ero prefissata: il templo mayor che si trova proprio a lato della cattedrale.

Una buona parte del tempio si trova proprio sotto la chiesa. È abbastanza presto, sono le nove del mattino ed hanno appena aperto. All’ingresso sono piuttosto severi: nessuno può entrare con la sigaretta e fanno buttare anche la cicca.

Mi aggiro sulle passerelle che sovrastano i resti del templo, un tempo interamente ricoperto di stucco e colorato, ora miseramente di pietre. Ci sono punti dove il terreno è sprofondato, ricordando che in quelle zone un tempo c’era un lago.

Immagini del tempio com’era un tempo si alternano a quelle attuali… Che tristezza! Alla fine del giro inizia la visita al museo. Anche questo è molto grande e bellissimo… Anche se non come quello di antropologia. Purtroppo anche qui la luce è fioca e non si può fotografare con il flash.

Alla fine del giro compro il libro del museo e – fatto un’ultima camminata per il Zòcalo – mi dirigo verso l’albergo. Ho l’aereo per Monterrey alle tre e voglio essere in aeroporto per tempo.

Lungo la strada compro un jugo de naranja (succo d’arancia, e non zumo come si dice in Spagna) e delle brioches, cambio strada e sbaglio. Uffa! Volevo fare prima ed ho allungato un sacco.

Ad ogni modo è ancora presto, pago l’hotel senza lasciare la mancia (la sera prima non mi avevano riferito di ben due messaggi lasciati!!!) e salgo per chiudere la valigia, quindi mi faccio aiutare a portarla nella hall e senza alcun rimpianto prendo un taxi per l’aeroporto.

Il viaggio è veloce e piacevole, ci portano qualcosa da mangiare e da bere e puntuale alle quattro ed un quarto atterriamo a Monterry.

Da giovedì 13 a martedì 18 aprile 2006 Monterrey si trova a circa 900 km a nord di Città del Messico, è una città industriale e non ci sono resti archeologici, ci sono però un paio di musei interessanti, il MARCO ossia il museo di arte contemporanea ed il museo di storia messicana, un centro cittadino molto grazioso e sicuramente un planetario fantastico.

La zona è abbastanza desertica però attorno ci sono molte montagne e sopra la città svetta la Silla, il simbolo di Monterrey, che ricorda la sella di un cavallo.

Consigliata dagli amici, mi tuffo anch’io nella cucina messicana. Da Sanborn’s, una catena che è molto diffusa in Messico, provo il chili ripieno: davvero ottimo! da bere prendo l’orzata (che non ha assolutamente niente a che vedere con quella che si beve in Sicilia…), provo il succo di sandìa (anguria) ma neppure quello è un granché. Di dolce c’è “nieve di naranja”, praticamente granita di arancia (non sapeva di niente), altre cose che non ricordo ma che sicuramente non mi ispiravano molto, e gelatine di frutta: bicchieri pieni di una sostanza gelatinosa. L’ho presa alla fragola e l’ho divisa moooolto volentieri con il bambino.

Mi portano a visitare anche il museo dello sport o per meglio dire del baseball. Prima, mentre andavamo in centro, mi hanno mostrato lo stadio del calcio ed accanto quello del baseball, di cui Monterrey vanta una squadra abbastanza forte. Non mi ricordo come si chiama, però ricordo che in passato si chiamava come la birra che viene prodotta in città, “Carta blanca”, in concorrenza con la più famosa “Corona”.

Non l’ho provata perché la birra non mi piace… Entriamo al museo, un sacco di personaggi assolutamente sconosciuti per me, poi si arriva alla parte interattiva, dove puoi giocare ed una parte dedicata ai bambini.

Usciamo di lì ed andiamo al museo dell’Obispopado, ossia del Vescovo. Ci sono anche cose esposte che vengono dalla Romania, vestiti tradizionali, oggetti artigianali… Mancava Dracula dalla Transilvania e poi c’era tutto.

Nel museo c’erano oggetti sacri ma anche divise e bandiere della guerra, foto e medaglie, armi e denaro.

Da lì si godeva una vista stupenda di tutta la città ma proseguendo per la strada, piuttosto in salita direi, si arrivava sul colmo di una collina, un prato ben curato attorno e vista ancora migliore della città. Neanche a dire che una bandiera grande come o poco meno di quella di Città del Messico sventolava nel centro della piazzola.

Mentre scendevamo, una ragazza vestita con un abito rosa si sta facendo fotografare vicino ad un auto, è radiosa e felice. Chiedo se è una sposa, nonostante mi sembri piuttosto giovane. No, ha compiuto 15 anni ed in Messico c’è l’usanza di festeggiare le ragazze, una specie di entrata in società. Nei negozi del centro avevo notato diversi negozi in cui erano esposti abiti da cerimonia in colori pastello e no, sul genere di quello che indossava la ragazza: voile e corpino aderente.

Verso mezzogiorno del giorno di Pasqua usciamo di casa ed andiamo in una chiesa distante una decina di minuti. Aspettiamo fuori all’ombra – 39 gradi, da morire!!! – che termini la messa precedente, quindi ci sediamo in un banco all’altezza di una uscita così da godere di un po’ di aria, oltre a quella dei ventilatori.

La chiesa è abbastanza recente e grande. Sopra il portone d’ingresso c’è una piattaforma dove si esibisce il coro… Chitarre elettriche e coristi e coriste vestiti di bianco che cantano, accompagnati dai presenti che leggono le parole su di uno schermo vicino all’altare.

Comincia la messa con il solito saluto di benvenuto “Buenos dias y feliz Pascua”, a cui tutti rispondono.

Ad un certo punto, il celebrante scende dall’altare e con un fascio di rami di olivo in mano comincia a benedire la gente, aspergendola con dell’acqua santa – credo – che prendeva da un bacile infilandoci dentro i rami. Bagno per alcuni, goccioline per altri. Va bene che fa caldo, però… Ad ogni modo è stato divertente.

In Messico a quanto pare le persone non hanno l’abitudine di asciugarsi i capelli – vedi hotel! – perché molte donne sono in chiesa con i capelli ancora bagnati, che comunque si asciugano piuttosto rapidamente dato il caldo. Se uno pensa di trovare la messa che incontra qui, beh, davvero si sbaglia. Lì è tutto meno formale: una mamma con un bambino piccolo ad un certo punto prende dalla borsa un omogeneizzato e glielo dà, seguito poi dall’acqua nel biberon, i bambini fanno un po’ di casino ma d’altra parte questa è la messa dei bambini e lo testimoniano due grappoli di palloncini colorati a lato dell’altare.

La messa procede e ad un certo punto, dopo il Vangelo, i bambini sono invitati ad andare tutti insieme vicino all’altare. Compare un teatrino con due marionette. I bambini ridono, però i due burattini dialogano fra loro, uno domandando e l’altro rispondendo: ecco che viene spiegato in modo facile e divertente il vangelo.

Durante l’offertorio tutti, dico tutti, si inginocchiano ed al termine della messa il sacerdote invita tutti i presenti ad andare nel cortile sul retro per un “pastel”, un pasticcino.

Ci mettiamo in fila, sempre all’ombra perché è l’una e mezza passata ed il caldo aumenta sempre più, e prendiamo la tortina, una specie di muffin con sopra dell’albume montato a neve. I bambini, oltre al pastel, sono invitati a prendere delle uova svuotate all’interno e riempite di “confetti”, cioè coriandoli e poi chiuse con un po’ di carta colorata. Sono state decorate dai bambini stessi, si vede, ed il divertimento sta nel rompere le uova sulla testa dei genitori… Non sempre ci si riesce al primo colpo e secondo me non sempre le teste hanno apprezzato il gesto… Però i bambini si divertono un mondo. Devo dire però che non solo i bambini si divertono… Dei ragazzi sui 15 anni si rompono le uova in testa fra di loro, correndo velocemente e cogliendo di sorpresa gli amici.

Come ultima cosa, prendono i palloncini colorati e li attaccano ad una grande croce di cartone, che prima in modo incerto e poi sempre più decisamente si solleva verso il cielo, accompagnata dalle grida gioiose di tutti.

Dopo la messa andiamo al Planetario Alfa, un grande centro con un parco attorno nella zona più “in” della città, con grandi case e parchi.

Questo è il posto – fra quelli visitati a Monterrey – il cui ingresso è stato più caro, credo 75 pesos a testa.

Ma ne valeva la pena! All’esterno un grande parco alberato con un laghetto per le anatre e delle voliere con dei pappagalli. L’interno – con l’aria condizionata al massimo che quasi faceva freddo – è disposto su cinque livelli, con scale per salire ma anche un ascensore a vetro. Al piano terra c’è una sala multiteatro, con uno schermo gigante a 180°, di quelli che ti mostrano le immagini e ti pare di essere dentro, dove hanno proiettato un documentario sulla barriera corallina e che ci siamo visti.

Al secondo livello c’era una esposizione temporanea, che non ho visitato, al terzo “illusione e ragione”, specchi deformanti ed un’area interattiva con fenomeni di ottica. Qui con i bambini ci siamo fatti una “foto” delle nostre sagome proiettata su un muro bianco. Fortissimo! Al quarto livello “fisica ricreativa”, con un sacco di giochi interattivi per la scoperta dei principi della fisica. Bellissimo e davvero interessante per i bambini che potevano provare e scoprire fenomeni fisici. Nell’ultimo livello c’era l’esposizione degli antichi messicani, cioè un museo in miniatura, molto bello anche quello e che ho visitato solo io in attesa che cominciasse il documentario sul rife, mentre gli altri facevano la fila.

Assistiamo anche ad una breve conferenza su Saturno. Il tipo che la teneva era davvero molto simpatico e, seppure parlasse velocissimo, riuscivo a stargli dietro. Spiegava in modo semplice e divertente, coinvolgendo anche il pubblico, gli aspetti di Saturno e Titano.

Un altro posto interessante dove mi hanno portato sono le cascate della “Cola del caballo”, cioè la coda del cavallo. Si trovano a circa un’oretta in macchina da Monterrey. Il paesaggio cambia.

Attorno alla città ci sono delle montagne, la Sierra Madre e la Silla, ma sono piuttosto spoglie, invece uscendo dalla città ecco che le montagne si rivestono di vegetazione, c’è anche un lago dove un sacco di gente fa il bagno. La temperatura è salita ulteriormente e siamo arrivati a 40 gradi… La cola del caballo si trova all’interno di un’area attrezzata per pic nic, tutto è molto pulito ed in ordine ed i bagni – anche qui, ma d’altra parte come in tutti i posti dove sono stati – sono assolutamente puliti ed ordinati.

L’unica cosa strana è il rubinetto dell’acqua: per farla scorrere bisogna spostare una specie di levettina che si trova sotto il rubinetto, il problema è che ti puoi lavare una mano per volta, perché con l’altra devi tenere spostata la levetta. E’ vero che ci si abitua a tutto, però sempre con qualche difficoltà… Inoltrandoci per questi sentieri con molta vegetazione, si arriva alle cascate. Sì, non sono altissime, però danno davvero l’idea di una coda di cavallo. Sulla via del ritorno ci fermiamo in un posto dove vendono prodotti artigianali e qui compro dei dolci da portare a casa: un cerchio di noci caramellate ed altri dolci di San Pedro. Vorrei comprare anche della salsa di chili… Ma il timore che il vasetto si rompa mi fa desistere.

Rientriamo in città e andiamo in un centro commerciale, molto bello – marmo in quantità – e certamente nuovo. Ah, a Monterrey, in altre parti non saprei perché a Mèxico non ci sono andata, il parcheggio nei centri commerciali si paga… Dal 10 ai 20 pesos per tre ore o più. In Italia ci sarebbe una rivolta… Anche qui, come a Mèxico, impazzano i negozi di Aldo Conti… Come chi è? Ma è lo stilista italiano che ha un sacco di negozi in Messico, il migliore stilista italiano in Messico.

Ma non è finita. Anche il caffè… Berdani… Boh, qualcosa del genere, il migliore caffè italiano in Messico… Peccato che qui non esistano! Il 19 aprile parto da Monterrey alle 16 ed arriverò a Linate il giorno dopo alle 21. Praticamente 24 ore passate in aeroporti e sugli aerei, ma con la gioia finale di riabbracciare i miei figli e mio marito.



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