Dogon Challenge

Rally solidale da Milano a Bamako per il "Team241"!
Scritto da: ale_cini
dogon challenge
Partenza il: 26/12/2009
Ritorno il: 15/01/2010
Viaggiatori: 3
Spesa: 2000 €
Partiamo da Milano il 26 dicembre, una giornata di gelo e neve, che dimenticheremo presto per il meraviglioso caldo africano. Dodici veicoli: auto e moto di piccola cilindrata, con la scommessa di arrivare nella capitale del Mali attraversando parte dell’Africa Occidentale su strade e piste, per essere poi donate ad una associazione locale che lavora per costruire scuole nei quartieri più disagiati di una città tanto affascinante e colma di suoni quanto drammaticamente povera.

E’ il Dogon Challenge 2009, alla sua prima edizione. Ogni equipaggio è libero di scegliere la propria strada, scopo della “corsa” è di arrivare a destinazione ma non vi è classifica di sorta, il premio è un giro nella scuola con i bambini e il poter vedere con i propri occhi quante cose si possano fare con le donazioni raccolte e la cessione della propria auto. Ed è un premio che vale cento coppe e medaglie.

Noi optiamo per la scelta più confortevole, un anno di lavoro si è fatto sentire pesantemente e prendiamo il traghetto per Tangeri da Genova. Il tempo di riposarsi due giorni in nave, poi ci sarà da farne di strada! La nave di Grandi Navi Veloci è nuova e comoda ma, su questa rotta, la politica della compagnia è di tenere aperti i servizi essenziali, mentre lounge, discoteche e altro rimangono a luci spente. Ma due giorni passano in fretta, tra partite a carte, cartine da consultare, anche con l’aiuto dei tanti commercianti marocchini che le strade le conoscono a memorìa, e libri che aspettavano da mesi di essere aperti. Oltretutto sulla nave a Barcellona veniamo raggiunti da due altri equipaggi di amici, con i quali condivideremo il viaggio verso la capitale maliana.

Il viaggio in nave ha il meraviglioso vantaggio di farci apprezzare a poco a poco il cambio di temperatura: facciamo rotta verso il caldo e si passa dalla giacca a vento con maglione per le escursioni sul ponte, alla giacca a vento senza maglione, quindi al maglione senza giacca a vento e ci troviamo davanti alle coste marocchine con una semplice maglietta a sentire il calore del sole che ci da il benvenuto: è l’inizio del viaggio vero e proprio.

Tangeri, il caos della dogana e il traffico impazzito nella zona del porto, siamo immediatamente proiettati in un mondo diverso dal nostro, un mondo apparentemente più anarchico, ma anche più caldo e denso di relazioni umane. Arriviamo a Mohammedia e contrattiamo con un ometto in motorino che vuole offrirci un appartamento ad un prezzo stracciato, ma nessuna delle persone che continua incessantemente a cercare al telefono arriva, per cui alla fine ci rifugiamo in un albergo non lontano dal mare e trascorriamo la prima notte marocchina dormendo profondamente.

La tempistica stretta di questo genere di corse impone giornate di viaggio pieno per raggiungere l’obiettivo entro i termini previsti, per cui vi sono tappe anche noiose in cui non ci si puo’ fermare a vedere tutto quello che si vorrebbe: Marrakech è un grosso rimpianto, anche se già vista in passato, la tentazione di tornare a sentire il profumo di spezie del mercato e perdersi per i suoi vicoli è davvero forte. Invece si va avanti, destinazione Agadir e poi ancora verso sud, Sahara Occidentale e Mauritania. La Mauritania è il punto della discordia: viaggiamo nei giorni immediatamente successivi al rapimento di 4 spagnoli lungo la strada costiera che dovremmo percorrere e di 2 italiani su una pista non lontano dal Mali, tutti apparentemente nelle mani del terrorismo islamico. Non è una prospettiva allettante! Per quanto mi riguarda parto senza pregiudizi, non ho sposato nè la causa del passare a tutti i costi nè la causa della rinuncia preventiva, ho intenzione di arrivare alla prima città mauritana, Nouadibou, e li decidere serenamente se procedere o tornare indietro. Altri hanno posizioni differenti, tra chi vuole proseguire e chi pensa di rientrare e l’argomento torna fuori spesso. Due equipaggi hanno già optato per il rientro senza entrare in frontiera, al momento rimaniamo in corsa in 10 equipaggi su 12, dei quali 4 sono moto.

Da Agadir ripartiamo il giorno successivo, prima dell’alba per poterci godere un po’ di oceano e risparmiarci il traffico in uscita dalla cittadina, ma già a quest’ora la città è viva e pullula di donne che camminano per le vie principali e simpatici taxi rossi che si accalcano nei benzinai per incominciare la giornata, vecchie utilitarie non dissimili dalle nostre, che si muovono disordinatamente tra marciapiedi, piazze e vie. Un ramo della strada principale che porta a sud si stacca in direzione del paese di Sidi Ifni: finalmente l’oceano, selvaggio e libero come lo vorremmo sempre. Poco prima della cittadina un cantiere con delle case in costruzione segnala l’accesso ad una cala meravigliosa con due ristorantini, una spiaggia di sabbia e un’isola poco lontana che pare abitata solamente dalle rocce. Avendo la pazienza di camminare per pochi minuti lungo la spiaggia appare un arco naturale sotto al quale si insinua il mare e che da lontano pare uno scherzo bizzarro della natura. Riusciamo a passare sotto prima che il mare si riprenda lo spazio, come accade ogni giorno, e – chi l’avrebbe mai detto – incontriamo i ragazzi di un equipaggio che partecipa al Dogon Challenge, il Team Buctu. Ogni equipaggio si da un nome, quasi sempre di fantasia o che evochi grandi fasti. Il primo mezzo a correre questa competizione è stato lo Scarabeo Verde, omaggio a corse del passato sempre nel deserto. Quest’anno abbiamo da sbizzarrirci, dal Diabolico Coupè alla Fata Granata, una sempregiovane Ax Rossa, fino alla Principessa Laetitia, Qwalahloa e Team Buctù, tanto per citarne qualcuno. Noi invece siamo il Team 241, dato che la prima corsa, 3 anni fa, la abbiamo conclusa con una Fiat Uno in 2: in inglese two For Uno.

Dopo la mezza giornata di svago si riparte verso Sud e si entra nel Sahara Occidentale, lo stato che non compare sulle carte geografiche. E’ curioso perchè ammetto che mi sarei aspettato una dogana, una linea di confine o un cartello: da profondo ignorante ero convinto che fosse uno stato a se e prima della partenza mi ero preoccupato per il visto ma, a quanto pare, il Sahara Occidentale è ora Marocco a tutti gli effetti. La storia di questa parte di deserto, prima possesso della Spagna e poi conquista del Marocco nel 1976, è la storia di una occupazione e di essere in una terra occupata ci si accorge, tra posti di blocco e “new town” sorte in mezzo al nulla. Fuori da questi paesi di case fotocopia pero’ si trovano i veri padroni di casa, i Sahrawi, che vivono nelle tende in campi regolari posti fuori dal perimentro del paese. Non abbiamo potuto avvicinarci alle tende e mi viene da chiedermi come siano le condizioni di vita di queste persone, che abbiamo visto su convogli militari marocchini fatti di vecchie jeep dalle ruote ovali avvolti in tessuti blu o neri da cui emergevano solo gli occhi.

La sera del 31 arriviamo a Dakla, reduci da due giorni di viaggio decisamente faticosi con notte semi insonne in una stamberga lungo la strada, gestita da un bizzarro spagnolo. Dopo centinaia e centinaia di chilometri l’arrivo a Dakla ha qualcosa di non troppo lontano dal sogno. La cittadina è situata su una lingua di terra che corre parallela alla terraferma, creando uno specchio di mare lungo una cinquantina di chilometri privo di onde in cui si specchia il Sahara con le sue dune e le sue piatte distese sabbiose prive di vegetazione, un quadro a tinte forti con il blu dell’oceano che riflette il giallo e un cielo africano che – non si riesce a capire il perchè – sembra quasi più alto che dalle nostre parti. Dakla non è Marocco, potrebbe tranquillamente essere Spagna, con i suoi hotel curati, le spiagge invase da kite-surfisti e da camper europei, se solo non avesse uno dei dannati posti di blocco proprio a metà della penisola che, in termini materiali, significa mezz’ora inchiodati a un passo da una agognata doccia e da una birra gelata, il sogno proibito di 3 giorni di caldo e sabbia .

Arrivati in paese troviamo il team sardo e i ragazzi che avevamo visto il giorno precedente al mare e alla sera ci raggiunge anche la Panda di Novi Ligure con i motociclisti. Siamo al completo, anche se i motociclisti sono privi del visto per la Mauritania e non sarà facile per loro procedere.

E naturalmente di Mauritania si parla, siamo a 300 Km dal confine, è ora di pensare seriamente al da farsi. La buona notizia è che i contatti che il team sardo ha in loco dicono che la polizia organizza “convogli” di auto scortati e che la strada verso la capitale è militarizzata, con posti di blocco e un cordone di sicurezza contro la possibilità di rapimenti da parte delle bande di disperati che girano armati per il deserto. A cio’ si aggiunge che siamo al completo e possiamo procedere compatti in gruppo, in modo da essere meno facilmente aggredibili, per cui, in buona sostanza, si va in Mauritania! Sono solo da cambiare i piani di viaggio: impossibile tagliare verso il Mali da Nouachott, capitale mauritana, come avevamo ipotizzato all’inizio, dato che la zona protetta è quella costiera e non l’interno del paese. L’alternativa potrebbe essere scendere fino al fiume Senegal, attraversarlo, abbandonare la Mauritania e scendere per St. Luis e Dakar: il Senegal non necessita di visti particolari e si puo’ attraversare senza pericoli di sorta, si tratta solo di allungare il percorso. E cosi’ aggiungiamo un altro paese da attraversare, si va in Senegal, la terra dei colori!

E’ il 31, non abbiamo le energie per grandi feste, ma per una cena con tutto il gruppo di viaggiatori…. Eccome! Solo che entrare in un ristorante in piu’ di venti da queste parti puo’ essere problematico, cosi’ la mezzanotte (a base di CocaCola) arriva in attesa della cena che ha tempi di preparazione molto dilatati e la cosa si ripercuote sui ragazzi che gestiscono l’hotel che avevano organizzato, a nostra insaputa, una festicciola di capodanno apposta per noi. Poveretti, hanno dovuto aspettarci fino alle 2! Un bel capodanno alla fine, tra l’ospitalità squisita dei padroni di casa, i racconti dei viaggiatori… E il brindisi clandestino con lo spumantino da casa sul pianerottolo alle 4 di mattina!

Mauritania, primo dell’anno 2010. La giornata trascorre alla frontiera, sotto un sole che picchia inesorabile e rende difficile credere sia gennaio. 5 ore di dogana, passaporti e documenti ricontrollati decine di volte… È difficile entrare da occidentali, i locali hanno tempi più ridotti, arrivano uno alla volta con vecchie auto occidentali da rivendere, e raccontano che si tratta di un affare molto proficuo. Tra il Marocco e la Mauritania ci sono una manciata di chilometri di nulla, sabbia, rocce e arbusti, un tratto di deserto dove anche la pista si perde e dove bisogna tenere l’occhio aperto a dove si va, con il concreto pericolo di finire su una mina. Difficile crederlo, ma in questa fascia di terra dimenticata da Dio esistono persone che vivono e che abitano, prendono una vecchia Mercedes e ti guidano nel fazzoletto di nulla per portarti alla seconda dogana e soprattutto ti tirano fuori dagli impicci se ti insabbi, cosa che puntualmente accade a due auto del nostro gruppo che si erano allontanate troppo. Gente che abita in tende tra auto ribaltate e distrutte, che forse non ha neppure un’identità e un passaporto e che arriva in un nuvolone di polvere da lontano non appena ti vede, naturalmente per racimolare qualche spicciolo.

Mauritania, ed è sera alla fine quando lasciamo i container scassati della dogana per muoverci verso Nouadibou, alla ricerca di un campment per la notte. I motociclisti invece non sono riusciti a passare: in dogana non hanno accettato i loro passaporti privi di visto e purtroppo li hanno respinti. Siamo all’improvviso catapultati nell’Africa nera, quella più povera e semplice, lontano da quella aria da spiaggia atlantica da surfista fighetto di Dakla, lontano dagli hotel a 5 stelle, si entra in un paese di casupole basse a un piano in un dedalo di viuzze che odorano di spezie e di pattumiera mai raccolta, linee infinite di negozietti con il fondo di terra battuta che vendono dalle cover dei telefonini ad arance e banane pesate con bilance anteguerra a due piatti.

Cammino per le vie di Nouadibou senza capire bene in effetti se questo possa essere il centro o la periferia, difficile avere un solo riferimento. Cerco acqua e un po’ di frutta la sera del primo di gennaio, scansato da auto puntualmente prive di qualche pezzo che suonano in continuazione per raccogliere passanti, tra l’occhio curioso dei mille volti neri che mi osservano passare. Mi rendo conto che adesso siamo noi i diversi, a tutti gli effetti, sensazione che hai quando sei finalmente in Africa, un’emozione forte che ti rimane dentro: gli occhietti curiosi del proprietario del negozietto di radio, lo sguardo fuggente da uno dei tanti ragazzetti che cerca di venderti schede telefoniche per la strada, gli occhioni maliziosi da un gruppo di ragazze dai lineamenti sottili e ed estremamente delicati in un parrucchiere buio sotto il livello della via.

C’è eccitazione al campment, domani si passa la zona calda e bisognerà organizzarsi bene per non correre rischi. Al campeggio grande pasta collettiva nella miglior tradizione italiana, si unisce anche un veterano della Parigi – Dakar in viaggio verso Bamako con la moglie su una 2 Cavalli, che ci rassicura sui rischi.

Così il mattino del 2 siamo sulla tratta di deserto tra Nouadibou e Nouachott, la capitale, in convoglio serrato di 6 auto, con l’ultima della colonna, la più esposta, che ogni dieci minuti si scambia con la precedente. Per il momento niente posti di blocco, solo deserto. Procediamo rapidi, guardinghi, in tensione.

Dopo due ore ecco il primo posto di blocco della polizia, il solito controllo di documenti e via, ancora deserto, molto più sabbioso questa volta, piccole dune in lontananza che degradano verso il mare o si perdono all’orizzonte. All’improvviso sopraggiunge un pick up blu a folle velocità in sorpasso, siamo gli ultimi della colonna, lo vedo dallo specchietto e riseco solo ad intravedere un mitra appoggiato al posto del passeggero, poi è già all’altezza della prima auto….. Tutto a posto, c’è “Gendarmerie” sulla portiera scritto con una bomboletta bianca, è la scorta che aspettavamo, possiamo procedere tranquilli. E la polizia, in effetti, non ci abbandona mai; un paio di soste ai posti di blocco e uno ad una stazione di carburante, si muove incessantemente avanti e indietro la colonna e allontana con modi bruschi veicoli che possano infilarsi. Procediamo veloci verso la capitale tra il sollievo della protezione e il rammarico di non poterci fermare nelle meravigliose dune che ci sono in questo tratto, una parte del quale è parco naturale, di incomparabile bellezza.

Nouachott non è una città facile da apprezzare, città nuova nel nulla del deserto, dove si rischia di finire insabbiati in una via del centro, un centro fantasma che pare una periferia abbandonata di una delle nostre città: quattro palazzi, due hotel di lusso, cento metri di viale alberato e una moschea ad identificarlo come tale, collocato al centro di un immenso bazar di vie polverose dove si vende di tutto e dove l’unica cosa che un occidentale riesce a fare è perdersi. E’ una città dove accadono cose strane. Dopo una doccia cammino la sera con i miei soci, cerco un posto dove cenare. Abbiamo smarrito gli altri equipaggi e i telefoni funzionano male quando, da una vecchia mercedes bianca, un ragazzo che mescola inglese e francese di chiede l’equivalente di un “cercate gli altri italiani? Siete gli amici di Chiara?”. Come dicevo, siamo dei puntini bianchi, tanto vale rassegnarsi, prendere le cose positive e saltare in macchina con lui per raggiungere la Penelope Pizzul del Diabolico Coupè e gli altri! Abdul è un o di quei ragazzi svegli che riesce a districarsi in questa città surreale, portando in giro con la sua mercedes bianca i pochi sparuti turisti. Andiamo tutti a cena in un piacevole ristorantino in una delle anonime strade del centro, spiedini di cane, patate e un via vai di giovani molto meglio vestiti di noi. Con qualche immancabile cinquantenne bianco con ragazze ventenni, che avrei preferito non vedere. Rientriamo a piedi con calma godendoci le strade e incrociando pochi passanti, alla sera siamo sempre cotti a puntino e non c’è molta voglia di tirare eccessivamente tardi: ci si raccontano le impressioni della giornata, tra una cola e l’altra, e si ascoltano le avventure degli altri, tra cui quelle boccaccesche di uno degli equipaggi che, questa sera. Ha tampinato la cameriera dell’hotel ed è riuscito ad invitarla fuori per poi prendersi un solenne due di picche da una delle più morigerate seguace dell’Islam, che dopo una cola li ha mandati a letto perchè al mattino dovevano partire presto.

Il giorno dopo si va in Senegal, tappa inattesa quanto affascinante del viaggio. Prima di abbandonare la strada asfaltata per imboccare la pista che ci porterà nel parco naturale del fiume Senegal sino alla diga a nord di St. Luis, evitando il traghetto di Rosso, da tutti descritto come inaffidabile, ci fermiamo. Una sosta in villaggio per un immancabile the alla menta, piacevole pausa distesi sui cuscini sotto una tettoia a lato strada, è forte e rinfrescante con la calura che opprime. Da queste parti lo servono ancora piu’ concentrato, quasi un espresso alla theina.

Un’ora dopo, sotto al sole che picchia inesorabile la Uno rimane ferma sulla pista, forse per una botta peggiore delle altre, che provoca un danno alla pompa della benzina. Il bello di viaggiare uniti è che in un’ora l’auto è riparata grazie ad un buon lavoro di gruppo, alla voglia di arrivare tutti a Bamako e di portare tutte le auto all’associazione. Sta a vedere che riusciamo davvero ad arrivare a destinazione!

Gli ultimi chilometri di Mauritania ci regalano un paesaggio che stacca completamente con il deserto che ci ha accompagnato per tutti questi chilometri: il parco del fiume Senegal, specchi d’acqua e canneti a perdita d’occhio, i fenicotteri e gli aironi che si levano in volo, un angolo di paradiso che piomba inatteso come una grande oasi e che ci preannuncia i colori e gli odori del Senegal. Meriterebbe molto piu’ di una semplice sosta di un’ora e un pranzo sul cofano, ma non siamo attrezzati per passare qui la notte e dobbiamo raggiungere St. Luis.

Ancora una dogana, questa volta più ostica, ce lo avevano preannunciato. La solerte e gentile polizia mauritana in Senegal è sostituita da una meno piacevole combriccola di ladroni, soprattutto nella zona turistica di St. Luis, che non perde l’occasione per spillare soldi. Ce ne accorgiamo già in frontiera, dove dobbiamo pagare una tassa di 50 € senza ricevuta, e ne abbiamo conferma nelle multe che ci appiopperanno senza motivo in questa area del paese e che dobbiamo pagare pena la confisca dei documenti dell’auto, senza i quali non potremmo espatriare. E’ un peccato in un posto cosi bello è doversi guastare l’umore, cerchiamo di goderci il paesaggio che dopo tanti toni di giallo ora vira verso il blu e il verde e tutto cambia nuovamente. Sant Luis è un tripudio di colori, a partire dai vestiti delle persone per finire alle barche, ai mezzi pubblici iperdecorati: ovunque c’è colore, un’esplosione di calore e di vita dopo tanto deserto e aridità. L’antica capitale dell’impero coloniale francese ci accoglie dal ponte di Eiffel e ci ingloba in un oceano di uomini e donne che si muovono tra i mercati e i negozietti delle vie decadenti del centro: bambini che giocano a pallone per le vie e che tornano da scuola, pescatori su lancie scolpite e colorate, qualcuno con la bandiera dell’Italia issata. Scopriamo che moltissimi parlano italiano, e hanno storie da raccontarci, storie da ascoltare che sono quelle dei nostri venditori senegalesi che incontriamo tutti i giorni per la strada o nei parcheggi, che ascoltate da qui hanno un sapore completamente diverso. Sono la storia di Ahmed, venditore di collanine e cianfrusaglie per le spiagge romagnole, poi cuoco in un ristorante, assunto in nero e senza permesso di soggiorno e mandato a casa senza piu’ la possibilità di tornare quando non serviva più, o la storia di un altro ragazzo che ha lavorato per 15 anni a Torino…. Tutti hanno qualcosa da raccontare sull’Italia, tutti hanno nostalgia di quando erano al freddo e con un lavoro precario ma almeno guadagnavano di che mantenersi e di che sostenere le famiglie qui. Qualcuno maledice le nuove leggi, qualcuno ringrazia gli italiani, qualcuno cerca di venderci altre collanine e bracciali e qualcuno anche di tirarci una sacrosanta sola, ma low cost, non ai livelli della polizia locale. E’ un mondo di persone che interagiscono, un continuo parlare e incontrare persone, tutto radicalmente diverso, nel bene e nel male, dalla riservatezza dei Mauritani. Siamo fuori dal pericolo e adesso possiamo viaggiare con molta più calma, le strade sono belle e, se riusciamo a farci rapinare troppo dalla polizia, potremo goderci i posti e la natura.

La notte di St. Luis ci fermiamo in una serie di bungalow lungo la costa atlantica. Finalmente una birretta gelata, del pesce e l’odore dell’oceano da godere appieno e la notte lo spettacolo di centinaia e centinaia di granchi che corrono sulla spiaggia a deporre le uova.

Rompiamo la carovana e procediamo liberi, ognuno con i propri ritmi e tempi. L’appuntamento per stanotte e Kaolack, in una missione cattolica, e così procediamo lentamente sulla strada che passa attorno a Dakar per poi abbandonare il mare e inoltrarci in una fascia di terra e baobab, lunga distesa pianeggiante che, con qualche eccezione , rimarrà inalterata fino al nord del Mali. A Kaolack riusciamo ad incastrarci in auto nel mercato locale, che i ragazzi del posto dicono essere il piu’ grande del Senegal, e alla fine ad arrivare alla missione cattolica per poi passare la serata con uno dei ragazzi locali a cena in un piacevole ristorantino sotto un pergolato. Ascolto con curiosità i commenti sulla politica italiana e mi rendo conto che, nel bene o nel male ma soprattutto nelle bizzarie della nostra politica, siamo sulla bocca di tutti e gradualmente si stanno sostituendo i tradizionali argomenti calcistici, sui quali non sono mai stato ferrato, a considerazioni sul nostro presidente del consiglio. Si parla di politica, di democrazia, elezioni, corruzione e della difficile situazione che il Senegal ha nel sud del paese, sotto alla Gambia, dove c’è una continua guerriglia per l’indipendenza con tutti i drammi che si porta dietro.

Da Kaolak saliamo a Tamabcunda per poi entrare nel parco naturale del Niokolo Kobe e spenderci la notte e tutto il giorno successivo: siamo in buon anticipo sulla tabella di marcia e sarebbe un peccato non visitare un luogo cosi’ affascinante. Ogni auto carica una guida e ci si inoltra per piu’ di trenta chilometri all’interno del parco, fino al campment principale, sulle rive del fiume Gambia. Incredibile come la piatta distesa brulla che ci ha accompagnato fino a qui ad un tratto si trasformi in un bosco tropicale con palme, alberi da frutto e una vivace popolazione di scimmie e babbuini. I veri protagonisti li incontriamo il mattino dopo. Su una lancia silenziosa che fluttua a pelo d’acqua arriviamo a pochi metri dai mastodontici ippopotami, sdraiati sulla riva a pennicare o più insidiosi in acqua: emergono all’improvviso con i loro testoni e sbuffano verso l’alto l’acqua che gli è rimasta nel naso… Osservare questi bestioni nuotare a pochi metri da noi e vederli poi sparire nel nulla desta qualche pensiero, anche perchè dal lato opposto del fiume scivolano, come tronchi in acqua, molti coccodrilli che non hanno l’aria di gradire la nostra incursione. Il pomeriggio ci godiamo una seconda escursione verso il campo dei leoni a vedere facoceri e gazzelle. I leoni non ci sono in questi mesi ed è una fortuna perchè il potente fuoristrada buca e siamo costretti a percorrere a piedi l’ultimo tratto di pista…. L’incontro non sarebbe poi cosi gradito. E’ pomeriggio inoltrato quando usciamo dal parco e le quasi due ore di sterrata drammatica per tornare al paese lasciano il segno sulla povera Fata Granata, o meglio, sul suo serbatoio, che inizia lasciare una poco simpatica scia lungo la polvere. Tappa forzata e notte all’uscita del parco quindi, con riparazione artigianale del serbatoio. Sistemata anche questa, ormai è deciso: si arriva a Bamako!

Duecento chilometri e l’ultima frontiera, una serie di baracche lungo la strada tra banchi che affumicano quarti di capretto. Qui avviene l’incontro con Giovanni, organizzatore della corsa e buon amico, che ha con se i “carnet de passage” indispensabili per poter entrare in Mali. Ancora qualche formalità, un caffè dal venditore ambulante che arriva con il suo termos al collo e le sue tre tazzine che dopo ogni uso riesce magicamente a “lavare” con un dito d’acqua, due parole con i vicini di coda senegalesi che cercano di capire cosa facciamo lì, e dopo tre ore siamo in Mali, tutte e sei le auto insieme.

Mancano 700 chilometri a Bamako, sono le tre di pomeriggio e…. Inevitabilmente parte il rush finale: nessuno vuole fermarsi in un altro villaggio, c’è la voglia di arrivare, riposare, vedere i progetti. Si parte! Imbarchiamo anche Giovanni e così siamo in 4 sulla povera 106, che finora ha fatto il suo dovere in maniera impeccabile. Sul rush finale posso solo dire che teniamo testa al gruppo nonostante il peso in più, anzi stacchiamo prepotentemente tutti gli altri, superando anche la velocista Uno in un passaggio che sicuramente i ragazzi del Team Buctù ricorderanno. Drammaticamente dopo trecento chilometri ci imbattiamo in un banchetto con delle birrette gelate…. E da lì perdiamo inesorabilmente posizioni. La notte africana vista da uno dei tanti gruppi di baracche improvvisate lungo la strada dove ci fermiamo poco dopo a comprare bottiglie di benzina, mercanteggiando per abbassare un po’ il prezzo, è una notte così carica di stelle che la volta sembra dover cadere, un momento di intimo raccoglimento di tutti i gruppetti di venditori che accendono il fuoco, si siedono intorno e rimangono ad ascoltare la musica di una radio scassata collegata ad una batteria di auto, parlando a bassa voce e con fare lento. La stessa lentezza con cui bevono the e con cui aprono il palmo della mano invitandoti a sederti con un gestio ampio e garbato. In quel momento sembra che il tempo si fermi e che non sia più dato di capire dove ci si trova, una specie di non luogo che profuma di menta e polvere nel quale sarebbe bello fermarsi e rimanere semplicemente ad ascoltare…. Ma ormai manca così poco e a malincuore si riparte, superati ormai quasi da tutti tranne che dalla Uno bianca. Ma ecco che accade l’imprevisto.

Siamo ormai a 150 Km da Bamako quando entriamo in uno dei tanti villaggi e troviamo uomini, donne e bambini che, nonostante l’ora tarda, ballano e suonano lungo la strada. Ci fermiamo e veniamo avvolti da una folla di centinaia di persone al cui centro svettano uomini più alti che suonano degli strumenti ricavati da corna animali, vengono verso noi e in poco tempo ci spingono al centro di uno spiazzo dove ci sono alcune sedie, in una sorta di surreale corteo trionfale. E’ una festa in nostro onore, organizzata a sorpresa anche di Giovanni dal responsabile dell’associazione con la quale collaboriamo, che ha la famiglia in questo villaggio. Si fermano i corni e Giovanni, insieme a Ballà, il responsabile, viene accolto da quelli che credo essere i due capovillaggi, che parlano in francese ma traducono immediatamente, ciascuno in una lingua tribale. Mi sembra di capire che rappresentano le due etnie principali e che nel villaggio buona parte della gente, non essendo andata a scuola, non parla francese. Dopo il discorso e i ringraziamenti partono a spron battuto i percussionisti e inizia una danza tribale con uomini travestiti e con costumi che rappresentano spiriti locali, seguendo quella che ha tutta l’aria di essere la narrazione di una storia, di quelle che si raccontano e tramandano non avendo modo di leggere e scrivere. Tra danzatori, bambini acrobati e musicisti sono ormai le 3 di notte quando entriamo a Bamako, stravolti e felici per aver avuto il privilegio di vedere uno spettacolo che sicuramente non è facile da trovare. All’ostello incontriamo anche gli altri equipaggi: ci siamo tutti e 6, dei 12 che erano partiti. La metà e non è una cattiva media, dato che 2 si sono fermati prima della Mauritania e 4 non avevano i visti in regola per entrarvi. Sei equipaggi, che sarebbero ridotti a 4 se non ci fossimo aiutati durante la corsa, che frutteranno all’associazione i soldi necessari per terminare la scuola di 300 ragazzi che andremo a vedere nei giorni successivi e daranno la possibilità di attivare un altro progetto. Così tanto si puo’ fare qui con poco, lo vedremo nei prossimi giorni e ci godremo Bamako per poi salire al nord nella terra dei Dogon, in onore al Dogon Challenge. Ma adesso siamo a Bamako, sono le 3 di notte e il racconto del viaggio finisce con tutti ruiniti intorno ad un tavolo, tantissime birre e una caciara che non finirà prima dell’alba, con la gioia di avercela fatta e di essere qui a raccontarlo.

Tutte le foto della competizione su www.241team.com



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