Il bue di Matera

Da luoghi abbandonati a Patrimonio dell’Umanità: le radici della cultura lucana
Patrizio Roversi, 17 Gen 2017
il bue di matera
Ho letto il bell’itinerario di viaggio a Matera dei nostri Turistipercaso, raccontato da Paola e pubblicato sulla rivista. È interessante e completo, eppure mi sento di aggiungere qualche cosa. E non per sopperire a eventuali carenze dei nostri amici, ma proprio perché ogni posto appare in ogni viaggio e agli occhi di ogni turista-viaggiatore diverso. Ogni località la puoi vedere da tante angolazioni, che assieme formano l’immagine sfaccettata di un posto. E più occhi vedono, più persone raccontano, più si definiscono i vari aspetti. Per questo, il nostro sito (www.turistipercaso.it), che riporta tanti diversi itinerari per ogni destinazione, rappresenta uno spaccato unico del panorama turistico. Uno degli elementi fondamentali riguarda poi le persone che si incontrano in un determinato luogo. Io a Matera ho avuto il privilegio e la fortuna di incontrarne tante di persone… E una delle osservazioni in cui mi riconosco di più di Paola è l’accenno all’ospitalità dei Lucani: semplicemente travolgente, affettuosa, ricca di sfumature e di attenzioni, sempre stimolante.

CRISTO È ANCORA FERMO A EBOLI?

Nello stemma di Matera c’è raffigurato un bue con una spiga in bocca. Io a Matera ci sono andato poco tempo fa per partecipare a una manifestazione dedicata appunto all’allevamento, una delle tradizioni più sentite della Basilicata: Alleva Expo Sud, organizzato da Augusto e dagli altri dell’Associazione Regionale Allevatori che hanno – letteralmente – portato in piazza, col benestare del sindaco e vincendo qualche resistenza dei cittadini, vacche podoliche, pecore, asini, capre, cavalli e maiali. E assieme a loro c’era una vasta gamma di prodotti tipici provenienti anche da Campania, Puglia, Molise e Calabria, con relative dimostrazioni di antichi, ma preziosi e rari mestieri, come ad esempio il fabbro che ancora fa i campanacci per le mandrie o il maniscalco. È stata una festa collettiva e anche una performance significativa, di carattere squisitamente e modernamente culturale. In Basilicata, l’alle­vamento ha determinato e determina ancora innanzitutto il paesaggio, ma anche l’economia e le relazioni socio-economiche (come si dice). Io personalmente, durante questa manifestazione, ho appunto incontrato un sacco di bella gente e forse ho capito meglio la Basilicata. Infatti, Matera è stata nominata Capitale Europea della Cultura 2019, ma le radici della cultura lucana sono decisamente agricole: è sulla base della sua cultura contadina che Matera è quello che è adesso. I Sassi di cui ci parla Paola erano case di contadini e stalle per il bestiame. Se volete saperne di più andatevi a leggere (o rileggere) il libro Cristo di è fermato a Eboli di Carlo Levi, o andate a vedere i suoi quadri. Levi era un medico, ar­tista e intellettuale antifascista, che è stato mandato in Lucania al confino nel 1935, e ha descritto in modo appassionato la civiltà contadina locale, raccontando la miseria dei braccianti. Nel 1979, dal libro, è uscito anche il film di Pontecorvo e Rosi, con Volontè.

DALLA VERGOGNA ALL’ORGOGLIO

Nel 1948 è scoppiato lo scandalo dei Sassi di Matera, in cui la gente viveva in condizioni insostenibili, sollevato da Togliatti e poi da De Gasperi: lo slogan era “Matera vergogna d’Italia”. Nel 1952 una legge ha deciso che i 15.000 abitanti dei Sassi andavano evacuati e collocati in quartieri nuovi. Per fortuna, almeno in quegli anni, i migliori architetti si prodigarono per costruire nuove case che in qualche modo rispettassero lo stile di vita dei materani-contadini, per cui Matera è bella anche nei suoi quartieri periferici, almeno quelli costruiti negli anni 50 (gli anni 70-80 non hanno avuto pietà, né a Matera né altrove). E i Sassi sono stati abbandonati fino al 1986, quando un’altra legge ha deciso il loro recupero, che in un certo senso non è ancora del tutto concluso. Poi nel 1993 è arrivato il riconoscimento dell’UNESCO, Matera è diventata Patrimonio dell’Umanità. E grazie alla bellezza del paesaggio, al coraggio dei suoi abitanti e al recupero della sua identità (urbanistica e culturale), Matera è diventata oggi appunto simbolo di un Sud che non si arrende. In effetti, a ben guardare la sua storia, tutto questo non è una novità: nel 1514 i Materani fecero una rivoluzione e ammazzarono il dispotico Conte Tramontano. E durante la Seconda Guerra Mondiale Matera fu la prima città del Sud a ribellarsi ai tedeschi, che il 21 settembre del 1943 fecero strage di 15 ostaggi innocenti: in mezzo alle case nuove c’è un cippo che ricorda il luogo in cui i nazisti fecero saltare un edificio dove erano rinchiusi, e non a caso lo stadio della città mi pare che si chiami “Ventun settembre”. E questo spirito è quello che si coglie di Matera, oggi che la città sta vivendo un momento magico, in funzione della nomina a Capitale Europea della Cultura, con un fermento palpabile. Questo è quello che viene fuori parlando con la gente, passeggiando per Piazza Vittorio Veneto o visitando i tanti monumenti a cui fa cenno Paola nel suo itinerario, dal Palombaro a Sant’Agostino, ma anche solo entrando in un negozio o visitando un’azienda agricola.

IL TRENO

Matera oggi appunto corre come un treno, dimostra di non aver perso il treno dello sviluppo, eppure… il treno non ce lo ha mai avuto! Se ci arrivi dalla costa tirrenica il treno da Napoli si ferma a Ferrandina, che dista 37 chilometri e 200 metri da Matera. Se arrivi dall’Adriatica e da Bari c’è un trenino a scartamento ridotto, pittoresco ma scomodo, sospeso la domenica. Restano le corriere. Quindi, ancora una volta, ha ragione Paola che nel suo incipit si lamenta che arrivare a Matera oggi è ancora un lungo viaggio. Se Carlo Levi tornasse al mondo scriverebbe certo “Un povero Cristo si deve fermare a Ferrandina”. Da un certo punto di vista, bisogna ammettere che l’isolamento di Matera e il fatto che non sia mai stato un posto ricco l’ha preservata da un turismo di massa e dalle attenzioni della malavita organizzata che imperversa nelle regioni limitrofe, facendone il paradiso che è ora, ma il prezzo da pagare è stato alto. E c’è voluta molta passione e molto orgoglio identitario per risalire la china. Ma adesso viene il bello: ora i Sassi sono recuperati, ma cosa diventeranno? Solo alberghi e negozietti per turisti? Diventerà un borgo magnifico, ma finto, come ce ne sono tanti purtroppo in Italia? Luca e Nicola mi dicono che per fortuna almeno 5.000 materani son tornati ad abitare nei Sassi. A proposito di ospitalità, a Matera mi faccio due amici: Nicola (promotore culturale) e Luca (imprenditore, e adesso anche assessore), che mi portano a casa di Mario, un signore che adesso si definisce pensionato, ma che ha fatto parte di una generazione che ha curato, restaurato e mantenuto le tradizioni e l’identità urbanistica della città. Se ho capito bene, è stato fra gli amministratori che a suo tempo hanno dettato le regole del recupero dei Sassi. La sua casa-torre (Torretta ai Sassi), che domina la valle della Gravina su cui sorge la città, è un esem­pio di recupero filologico. Tutto è stato ripristinato secondo il profilo e le dimensioni storiche e sono stati usati i materiali locali, che danno ai Sassi il loro colore splendido e tradizionale: il tufo locale, che poi è calcarenite (sabbia pressata dai secoli e dagli strati geologici).

IL VILLAGGIO NEOLITICO E IL PRIMITIVO

A proposito di calcarenite, Nicola mi porta poco fuori città e mi costringe a scendere in una profonda fessura del terreno scavata dal fiume, e poi ad arrampicarmi lungo la parete, fino ad arrivare a delle grotte che, attorno a 7.000 anni prima di Cristo, furono abitate dall’uomo. Avevo visto fenomeni del genere in Cappadocia, oppure anche in Sicilia, ma questo Villaggio Neolotico, con abitazioni scavate nella roccia friabile con camere, porte e passaggi sono impressionanti, soprattutto in funzione del paesaggio che si apre (anzi, che sprofonda) davanti. Siamo nel Parco regionale della Murgia Materana. Qui abitavano i primi allevatori-cacciatori-raccoglitori. Non è azzardato dire che qui, in un certo senso, è nata l’agricoltura! Poco più in là, l’agricoltura continua: in Contrada Pietrapenta, lungo la vecchia Appia, Nicola e Luca mi portano a conoscere i Dragone, una famiglia di produttori di vino. La loro azienda è di circa 30 ettari di vigne adagiate su un piano mosso da rilievi morbidi. Michele, uno dei fratelli mi racconta la storia di un altro riscatto: quello del vitigno detto “primitivo”. Fino a qualche anno fa, qui (e nella vicina Puglia) facevano un vino forte, con molto tannino e alta gradazione alcoolica, ma piuttosto rude: il Primitivo, appunto. Era un vino prodotto in grandi quantità e poi esportato, che serviva a tagliare altri vini più pregiati, e regalava loro corpo e alcool. Ovviamente era pagato pochissimo. Poi i contadini di queste parti hanno deciso che erano stufi di essere sfruttati e malpagati. Hanno cominciato a diradare i grappoli, ad affinare la qualità, a curare il loro prodotto: adesso il Primitivo è un signor-vino, forte e orgoglioso (come loro), che ha un grande successo internazionale. Ora da queste parti si produce il Matera Moro DOP, rosso, e il Basilicata IGP, bianco. E le vigne sono sincere, richiedono pochissimi trattamenti. Michele mi spiega che è merito del clima e del vento, che asciuga l’umidità e scoraggia i parassiti. Quindi, un posto ideale per coltivare la terra.

I CENTO SANTI

Mi guardo attorno nei pressi dell’azienda agricola e vedo altre grotte, anch’esse abitate in periodi anche molto più recenti del Neolitico. Qui, attorno all’800 dopo Cristo, viveva una comunità di monaci Benedettini e di contadini, che poi furono dispersi dall’arrivo dei Saraceni. E questi monaci, che dopo la caduta dell’Impero Romano erano i fedeli custodi di una cultura molto avanzata, un misto di tradizioni romane e poi longobarde, costruirono un mo­numento che – mi sento di poterlo davvero scrivere senza retorica – è unico al mondo nel suo genere: la famosa Cripta del Peccato Originale, o grotta dei Cento Santi, detta anche la Cappella Sistina Rupestre, che anche Paola ci ha descritto nel suo diario, perché è una tappa imperdibile di ogni itinerario materano. Come ci racconta Paola, è una grotta, scavata e rimodellata, lisciata e squadrata dai monaci, che hanno anche scavato alcune nicchie, nelle quali hanno appunto dipinto degli affreschi che raccontano le scene del Vecchio Testamento, che in questo modo diventava comprensibile a tutti. Ci sono appunto santi, apostoli e arcangeli, c’è la scena del Peccato originale che dà il nome alla Cappella, con la “rivelazione” che riguarda il frutto del peccato: non era una mela, ma un fico! Antonio, la giovane guida che è qui per conto della Fondazione Zetema (fatta a suo tempo da un gruppo di giovani appassionati, tra cui l’attuale sindaco e il Mario conosciuto in città) prima attiva una sorta di audiovisivo abbastanza suggestivo, con le luci che si accendono e spengono e ci mostrano i vari settori della Cappella, e poi per fortuna si ferma a chiacchierare e ci spiega tutto il resto, a partire dalla tecnica del colore, che mischia materiali naturali a pietre preziose, fino a ottenere un risultato incredibile, che dura brillante da 1.200 anni, nonostante le intemperie, nonostante la grotta sia stata ingombra di detriti, deturpata da muschi ed erbacce fino al suo recupero.

ATTENTI AL BUE!

Il recupero della Grotta è stato promosso da un gruppo di cittadini e appassionati che l’hanno ri-scoperta, ma poi è stato fatto a regola d’arte, con tecniche avanzate assieme ai tecnici dell’Istituto Centrale del restauro, e tutto è stato possibile anche grazie al fatto che i contadini proprietari del terreno (i Dragone, quelli della “riscossa del Primitivo”) l’hanno ceduto. E hanno fatto bene, anche perché adesso possono sviluppare un agriturismo per i tanti visitatori della Cappella. In più c’è una Cooperativa, Synchronos, a cui appartiene l’amico Antonio, che cura e gestisce le visite del sito. E il cerchio si chiude in bellezza. Non vi dice niente tutta questa vicenda? A me sembra molto significativa ed emblematica di un genius loci, di un carattere collettivo, di uno spirito comune. Matera riparte da storie come questa, credo. Ma del resto era tutto scritto, e non solo nelle pagine di Carlo Levi, anche nello stemma della città, che accanto alla figura del Bue con le spighe recita: “Bos lassus firmius figit pe­dem”. Il mio liceo classico è lontanissimo, arrivo a tradurre letteralmente che “il bue stanco ha il piede più fermo e sicuro”. In altri termini, “un bue che ne ha viste di tutti i colori, mezzo morto di fatica, perché ha lavorato e sofferto, non lo smuovi più e – dopo essersi fatto due palle così – è una forza della natura”. Come Matera, appunto: dopo decenni (secoli) di povertà, dopo essere stata l’emblema del Sud sottosviluppato, adesso si è svegliata e non la ferma più nessuno!

POST SCRIPTUM

Prima di lasciare Matera, faccio un ulteriore incontro, che comunque mi conferma la vocazione culturale e la nuova immagine della città: il Vespa Club ha deciso di fare di Matera la prima tappa di un lunghissimo Giro d’Italia (ovviamente in Vespa), dedicato alla raccolta di fondi ma soprattutto a creare informazione e conoscenza riguardo all’autismo, una patologia che investe più di ogni altra le relazioni umane. Matera, da luogo isolato a luogo di relazioni per eccellenza.

Patrizio