Mare…mma

Diario di viaggio in Toscana
Scritto da: cappellaccio
mare...mma
Partenza il: 05/04/2007
Ritorno il: 09/04/2007
Viaggiatori: 2
Spesa: 500 €
MARE…MMA!!! L’aria è tiepida, il cielo alto e sgombro di nubi, anche se una leggera foschia lattiginosa sfuma i profili delle due torri di avvistamento appollaiate sulle colline sotto di noi. Ai nostri piedi si scorgono la pineta scura, una sottile fascia di spiaggia chiara e il mare a perdita d’occhio, che si fonde in un abbraccio col cielo. Abbiamo raggiunto uno dei punti panoramici del sentiero A1 all’interno del Parco Regionale della Maremma, descritto dalle guide come uno fra i più impegnativi…Difatti stiamo schiattando. Il nostro figliolo non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe stramazzato già mezz’ora fa, durante la salita che ci ha fatto superare un dislivello di circa 300 metri. Mi pare di sentirlo: ci avrebbe implorato di farla finita, di lasciarlo lì a riprendere fiato e a mangiare e bere qualcosa. Invece adesso è spalmato sul divano a casa dai nonni, magari si starà ingozzando di tiramisù o di colomba pasquale, mentre noi smaltiamo i rotolini di ciccia avventurandoci nella macchia, cercando di non inciampare nei sassi che trasformano il percorso in un campo minato. Leo, il mio consorte, ha pensato bene di tendere un’ulteriore trappola agli incauti passanti: una volta terminato un frugale pasto ha gettato sul cammino una buccia di banana, che ha anche coscienziosamente fotografato. Adesso il fiatone è diminuito, perché il sentiero si è fatto più dolce. Il cellulare di Leo riposa in una tasca dello zaino potenzialmente accessibile. Arriviamo al pianoro disboscato di Poggio Lecci, la sommità più alta dei monti dell’Uccellina. Ed è proprio lì che, d’improvviso, ci sorprende un tirulì, tirulè, tirulà; tirulì, tirulè, tirulà. Leo lotta per estrarre il telefonino, ma non ci riesce. Un nuovo tentativo più deciso porta allo strappo della reticella che lo conteneva. – Pronto? (un resto di reticella gli penzola dalla mano: ha “sbregato” un pezzo di zaino per tirar fuori il cellulare!!!!). E’ un suo collega di Modena che sta rientrando dall’estero e che gli vuole fare gli auguri di Buona Pasqua. Segue conversazione. Aumentano le probabilità di Leo di ribaltarsi su qualche roccia, perché non fa per niente caso a dove mette i piedi. Termina la conversazione. La vegetazione ridiventa più fitta, lo zaino sembra sempre più pesante, sebbene sia un po’ più vuoto che all’inizio del viaggio –vari liquidi e alcuni solidi sono finiti nel nostro stomaco-. Anche i piedi sono ormai come mattoni. Tra un po’ ci servono le stampelle. Siamo persino superati da altri vacanzieri con bambini piccoli. D’un tratto la riconosco. E’ la svettante torre delle rovine di San Rabano che fa capolino tra le fronde. Leo è qualche passo dietro di me e non l’ha ancora vista. – Guarda! L’abbazia! Dovremmo essere circa a metà strada. Penetriamo in quello che resta dell’abbazia. Ciuffi d’erba s’insinuano qua e là fra le vecchie pietre che testimoniano del ritiro spirituale dei monaci. E’ un paesaggio ideale per soddisfare un certo gusto romantico per le rovine e le leggende: difatti sul sentiero c’è un cartello che riassume la leggenda del Tesoro dell’Abbazia, una storia di soprannaturali protettori di un tesoro nascosto e di un tagliaboschi soggiogato alla moglie, da lei costretto a cercare in una notte buia e tempestosa il misterioso bottino fra mura sbrecciate e fantasmi. Inutile dire che i custodi ultraterreni –incarnati in un ragno e in una strana figura incappucciata- fanno bene il loro lavoro: il pover’uomo finisce per lasciarci la pelle e il tesoro resta inviolato. Alcuni turisti che non sembrano essere venuti qui con lo stesso scopo del taglialegna –a meno che non ci riferiamo al patrimonio monumentale dell’abbazia come un valore in sé- fanno un pic-nic usando i ruderi come sedili o tavolini, ma non si può dire che ci sia una gran ressa. Anche se l’autobus navetta, ad Alberese, traboccava di gente -che poi si riversava ogni 30 minuti a Pratini, da dove partono tutti i sentieri-, pochi hanno imboccato l’A1 per San Rabano come abbiamo fatto noi; inoltre la folla in uno spazio così grande è ben diluita. Prima di rimetterci in marcia sorseggiamo un po’ d’acqua e Leo fa un primo piano a una lucertola che si crogiola al sole e sembra quasi che gli faccia l’occhiolino. Accipicchia che caldo! Si sta bene in maglietta! Adesso fino a Pratini è tutta una discesa, che passa sempre in mezzo agli alberi, eccetto gli ultimi due chilometri circa durante i quali trotterelliamo lungo una stradina asfaltata: è il seguito di quella che ha fatto l’autobus per giungere a Pratini. Quando arriviamo la navetta è proprio lì ferma, ma manco a dirlo parte esattamente mentre ci troviamo a 5 metri di distanza. Cominciamo a correre a perdifiato– Fermaaaaa!!! (Bastardo di un autista non ci vorrà mica lasciare a piedi così?) Frena e apre le porte. Ah, ecco. Volevo ben dire. L’autista di quest’autobus, come quello della navetta dell’andata crede di essere Alonso e si scaglia giù per la collina a tavoletta. Le carreggiate però, sono così strette che l’autobus le occupa tutte e due.. Anzi, si può dire che sembri un senso unico e si suppone anche che l’idea che un altro veicolo possa risalire dalla parte opposta sia da scartare… Sgusciamo fuori dal mezzo di trasporto sani e salvi in centro ad Alberese, dove inforchiamo il tandem che ci avevano prestato stamattina i proprietari dell’agriturismo Merano e, dondolando paurosamente, sempre cercando di coordinare le pedalate, rientriamo lungo la ciclabile al nostro appartamentino, costituito da camera da letto, cucina e bagno. In capo a 10 minuti Leo è già sprofondato nel letto. Lui è già da rottamare. – Sono solo le 4 di pomeriggio, che ne dici di prenderci una bici “vera” a testa e pedalare per la ciclabile fino alla foce dell’Ombrone? Un migliaio di pedalate più tardi ammiriamo il corrispondente delle “valli di Comacchio” qui in Maremma, con tanto di vacche e tori maremmani dalle corna appuntite allo stato brado che pascolano sui prati. In quest’area sì che c’è da schivare la gente –famiglie in bicicletta, comitive a piedi, file di automobili-; del resto è il sabato di Pasqua, tutti sono in vacanza e l’idea di fare una capatina a Marina di Alberese è venuta a molti. Difatti rischio di entrare in collisione con una bambina che sta offrendo del fieno a un cavallo. Ci spingiamo fino a un casotto per il birdwatching e poi insabbiamo un po’ le bici sulla spiaggia, ma ci areniamo: non è possibile andare oltre, come già ci avevano anticipato all’agriturismo il percorso ad anello presso la foce dell’Ombrone è interrotto. Le onde hanno eroso il sentiero, che per quanto possiamo vedere è ingombro di un ammasso contorto di rami e altri relitti. Dietro-front. Tornati alla pineta facciamo una tappa presso il piadinaro –dove però non compriamo niente-. Lì vicino scorazza anche una famiglia di cinghiali fotogenici, pronti a sgrufolare per i turisti a gratis. Sono le sette e mezza e siccome siamo ammazzati e non abbiamo voglia di uscire a cena: guizzo di genio! Compriamo provviste per un paio di giorni in un piccolo supermercato di Alberese preso d’assedio dai turisti, così almeno stasera possiamo stare in casa e prepararci le tagliatelle ai funghi “4 salti in padella” (confesso: la Findus mi dà una percentuale…). Adesso è ora di andare a letto: domattina ci attende la sbiciclata alla pineta di Feniglia, che si trova su uno dei due cordoni sabbiosi che collegano il Monte Argentario alla terraferma, quindi un giro panoramico in auto sul promontorio del Monte Argentario e infine un’altra passeggiata in bici da Marina di Grosseto a Castiglione della Pescaia. Prima di dormire do un’occhiata al libro sugli Etruschi a Populonia acquistato ieri al bookshop del Parco Archeologico. In realtà non è un vero libro, ma una riproduzione dei pannelli didattici del Parco. La mia attenzione è catturata da una piantina che rappresenta l’Italia ai tempi degli etruschi. Vengono segnalati i centri di Adria, Spina, Felsina e Marzabotto dalle nostre parti, poi scendendo sulla costa tirrenica, di fronte all’isola d’Elba spicca Populonia e poco più sotto ecco i centri di Vetulonia e Roselle, che andremo a visitare nel pomeriggio del giorno di Pasquetta. Poco a poco i nomi sulla cartina si trasformano in sgorbi indistinti. Meglio che spenga la luce. Appena chiudo gli occhi s’accendono i neuroni. La mia mente va di nuovo alla giornata di giovedì, in cui siamo partiti verso le sei e mezza di sera per raggiungere Populonia. Il traffico era intenso e fra Barberino di Mugello e Firenze abbiamo fatto una media degli otto all’ora. Facevamo ovviamente prima ad andare a piedi. Giovedì, tra l’altro, i TIR erano ancora in circolazione. Quando finalmente abbiamo smesso di muoverci alla velocità di un triciclo ci siamo diretti a Pisa e quindi, lungo la costa, siamo scesi fino a Livorno ed eravamo a Venturina a tarda ora, cioè verso le undici e mezza. Solo che non dovevamo andare proprio a Venturina ma in una località denominata “La Torraccia”, non pervenuta fra le destinazioni del navigatore. Ci siamo fermati a un bar per chiedere informazioni e appena Leo è saltato giù dall’auto il display ha segnalato “FORATURA” e la navigatrice ha candidamente annunciato “ruota forata, sostituire la ruota”. Simpatica!!! Non aspettava altro! Che Leo uscisse, per sussurrarmi la gradevole notizia. E infatti poco prima avevamo preso in pieno un chiodo che sporgeva da un segnalino di gomma rovesciato in mezzo alla strada. Bello che questa supertecnologia ti avvisi, ma se l’auto fosse davvero intelligente potrebbe anche fare lo sforzo di ripararsi da sola, no? Vabbé, adesso, almeno, avevamo le indicazioni che ci servivano: dovevamo prima tornare a San Vincenzo, poi svoltare a sinistra dove c’era un cavalcavia della stazione per imboccare la Strada Principessa e infine trovare l’affittacamere La Torraccia. Santa Pazienza! Attorno a San Vincenzo ogni dieci metri c’era un cantiere e c’era pure una deviazione che per un po’ allontanava dalla benedettissima Strada Principessa, tutta dissestata e per lo più senza illuminazione. Arrivati ormai nei pressi dell’ingresso del Parco Archeologico e quasi a Piombino ci siamo domandati se per caso non avessimo superato l’affittacamere e, come ultima risorsa, l’abbiamo chiamato al cellulare. Per fortuna, pur essendo mezzanotte, ha risposto, anche se poco dopo il telefonino è andato fuori copertura… Il proprietario aveva comunque fatto in tempo a dirci di tornare indietro e di trovare un parcheggio sulla destra. Finalmente abbiamo trovato la casa. Peraltro era ben celata all’interno, non era assolutamente visibile dalla strada e le indicazioni erano inesistenti. Nell’appartamento il letto era da fare, intendo dire che c’era solo il materasso. Ho dato una sbirciatina nell’armadio: coperte e lenzuola si trovavano lì. Inoltre il riscaldamento era spento. Il proprietario si è dato da fare per accenderlo, ma pare che non funzionasse. Io mi ero comunque armata di borsa dell’acqua calda e verso mezzanotte e mezza siamo riusciti a infilarci sotto le coperte, con il riscaldamento “on” e la sveglia puntata per le 8 (dato che oltre a prepararci la colazione dovevamo fare in tempo ad andare dal gommista prima di visitare il Parco Archeologico di Baratti e Populonia, che apriva alle dieci). La mattina di venerdì ci siamo svegliati un po’ stanchi, con i cani che abbaiavano. Dopo aver aperto il gas –non per farla finita, per preparare la colazione-, ho scaldato l’acqua, ho preparato un cappuccino istantaneo per Leo; ho tirato fuori pastine, biscotti e yogurt e ancora in pigiama e ciabatte mi sono ustionata il palato con il té bollente. Quando ho messo il naso fuori dalla porta ho notato la famigerata Torraccia, che si ergeva in mezzo alle erbacce e a qualche pino, a circa 150 metri di distanza, proprio a ridosso della Strada Principessa. Il mare sciabordava dall’alta parte della strada, ma non si vedeva perché era troppo lontano. Leo ha chiesto alla moglie del signore che ci aveva accolto giovedì sera se gli prestava un compressore per gonfiare la ruota e, una volta espletato questo ultimo compito, dopo aver sganciato 70 euro per il pernottamento, siamo andati in paese a San Vincenzo per trovare qualcuno che potesse riparare la ruota bucata, così non avremmo dovuto usare la ruota di scorta. Non lontano dalla ferrovia abbiamo trovato ciò che cercavamo: il gommista. Siccome l’officina si trovava in una via in pendenza Leo ha dovuto tirare il freno a mano. Non l’avesse mai fatto! – Manu, c’è qualcosa che non va. Non senti anche tu una puzza da strino? – Non saprei… Sembrava quell’odore di bruciato da frizione in salita ma… Quando eravamo già tranquilli e pronti per affrontare il programma del giorno -ingresso al Parco Archeologico e visita guidata alle necropoli- ci siamo dovuti fermare ancora una volta perché il freno a mano rimaneva tirato. Leo ha riversato un’intera bottiglia di acqua minerale –che faceva parte della nostra scorta di bevande- sul disco del freno arroventato. Il metallo friggeva e sfrigolava, rilasciando, mentre si raffreddava, un fumino nauseabondo. Dopo vari tentativi il freno si è sbloccato e abbiamo potuto proseguire. Il parcheggio del parco archeologico era dotato di sbarra. Altri potenziali visitatori ci hanno avvisato che il pulsante non erogava il biglietto e, di conseguenza, la sbarra non si alzava. Abbiamo cercato un posto dove lasciare la macchina un po’ più lontano, ma sulla stessa strada che costeggiava il golfo di Baratti. Poi abbiamo camminato fino all’entrata dell’area archeologica, dove l’impiegata che ci ha fatto il biglietto ci ha anche spiegato quello che c’era da vedere e come spostarsi da una necropoli all’altra attraverso diversi itinerari. Prima di tutto siamo entrati nella Tomba dei Carri della necropoli di San Cerbone accompagnati da una guida. Per penetrare nel tumulo bisognava percorrere un bassissimo e angusto corridoio d’accesso, che sboccava in una camera centrale, con la copertura ricostruita in resina. All’interno mi è giunta alle narici una zaffata di odore sgradevole. C’erano ancora cadaveri in decomposizione? S’era scatenata una nuova iattura? (della serie adesso anziché la ruota, mi friggeva una gamba?) Ma no, era una delle turiste che aveva con sé un cane dall’alito pestilenziale… La guida ci erudiva sul fatto che la tomba si chiamava così perché nelle celle laterali del tumulo erano stati recuperati i resti di alcuni carri risalenti al VII sec. A.C., mentre un’anziana signora si impegnava in domande non del tutto intelligenti. Comunque sul posto non si poteva ammirare nessun corredo, ma solo qualche altra tomba a tumulo e qualcuna a edicola, come quella del bronzetto offerente. Quindi ci siamo inerpicati su per la via delle cave, un sentiero circolare immerso nella vegetazione, che percorreva la parte alta del parco, alla scoperta di antiche cave etrusche poi trasformate in tombe a camera. Lungo la via abbiamo goduto della suggestiva visuale del Golfo di Baratti e della Val di Cornia dal “belvedere”, un punto panoramico che permetteva anche di ammirare dall’alto la cava delle grotte. Più tardi, sulla panchina di fronte alla cava stessa, abbiamo consumato un pasto a base di insalata di tonno, frutta e yogurt, leggendo qualche pannello illustrativo che mostrava l’attività dei cavatori. La seconda tappa all’interno del Parco Archeologico era accanto all’attuale borgo di Populonia, dove un tempo si ergeva l’acropoli etrusca. Stavolta ci siamo spostati con l’automobile, perché i piedi cominciavano a far male. Lì un’altra guida ha speso una decina di minuti per parlare della fortuna e decadenza della città e delle strutture rimaste a testimonianza della sua antica importanza. Anche lì un breve percorso circolare sulla sommità della collina portava a conoscere il cuore dell’antico nucleo urbano. Lo spettacolo più attraente non era la pianura sottostante, ma i meravigliosi affacci sul mare, con l’isola d’Elba in primo piano, parzialmente velata da una foschia sottile. Prima di ripartire ci siamo addentrati nel borgo dell’odierna Populonia, con il complesso difensivo della Rocca e i negozietti per turisti che si aprono sull’unica via che attraversa il paese. Alcuni bambini giocavano sul prato attorno al torrione della fortezza e fra i visitatori abbiamo notato che c’erano molti tedeschi e austriaci. Il pomeriggio è stato decisamente più rilassante del mattino, dato che ci siamo tuffati nelle tiepide acque del Calidario di Venturina, un laghetto termale a 37°, con il fondo ricoperto di ghiaia scura e alcune docce in cui l’acqua usciva da tegole posizionate nel muro di mattoni. Si accedeva al lago da un arco in pietra a vista, dopo aver sostato in un’anticamera estremamente suggestiva, illuminata da faretti. Il lago, poi, era suddiviso in due zone da un cordone che si stendeva da una colonna in mattoni all’altra, punteggiato da boe gialle, che separava la zona sicura, per bamini, dalla zona più profonda, dove non si toccava. Passando sotto a un ponticello si raggiungeva una piccola cascata, pattugliata da nugoli di zanzare, che serviva da idromassaggio. L’odore di primavera era intenso e la collina di fronte mostrava un pendio tondeggiante ricoperto di cespugli e pini. Purtroppo Leo non era altrettanto entusiasta dell’amenità del luogo e dopo essersi asciugato è andato ad aspettarmi prima su una sedia a sdraio e poi in macchina. 8/04/07 E’ il giorno di Pasqua. Ci dimeniamo nel sonno con i rumori degli uccellini che razzolano sul lucernaio. Dopo colazione impostiamo il navigatore e ci dirigiamo alla pineta di Feniglia, che in fin dei conti ricorda molto la pineta di Volano. Oltre allo stradone centrale ci sono dei sentieri laterali: quelli di sinistra portano al mare, quelli di destra si affacciano sulla laguna di Orbetello, che a dire il vero è un po’ maleodorante. All’andata tutto bene, perché ci manteniamo sempre sullo stradone principale ma poi al ritorno costeggiamo la laguna di Orbetello fino a un punto in cui, avendo da poco tagliato degli alberi, il sentiero è scosceso. Cerchiamo di tornare alla strada centrale ma è proprio nell’eseguire questa operazione che mi perdo. Leo è stanco ed è dietro di me. Lui imbocca il cammino giusto, mentre io proseguo per un viottolo laterale e non capisco più dove sono finita. Infine torno sui miei passi e imbocco di nuovo lo stradone centrale. Trovo Leo che sta caricando la sua bici sull’auto e mi immaginava già preda di ladri o omicidi… Adesso si fa una passeggiata in macchina sul promontorio del Monte Argentario ovviamente preso d’assalto da una folla smisurata di turisti, tanto che a Porto Santo Stefano è impossibile parcheggiare. Scopriamo che c’è una strada panoramica e la percorriamo, scattando innumerevoli foto, anche se non è sempre facile rimettersi in carreggiata dal ciglio della strada, perché ci sono molti tornanti e a volte non si vede se sta arrivando qualcuno. Nel pomeriggio ci spostiamo a Marina di Grosseto, dove una pista ciclabile costeggia la strada principale che unisce Marina a Castiglione della Pescaia. La pista non è un granché perché ci sono le auto alla nostra destra. A Castiglione finiamo nella zona naturalistica della palude della Diaccia Botrona. Presso la Casa Rossa, una sorta di chiavica, chiediamo informazioni sull’esistenza di un percorso alternativo per il ritorno, più suggestivo rispetto a quello dell’andata. Una ragazza mi spiega, usando la piantina, che è possibile girare attorno all’argine della palude. Saliamo sull’argine. Solo che sembra una giungla: l’erba è altissima e si impiglia immediatamente nella catena della mountain bike, rendendo impossibile l’avanzamento. Ok, meglio lasciar stare. Ritorniamo per dove siamo venuti. 9/04/07 Oggi è il lunedì dell’Angelo e ci aspetta una nuova scarpinata su per il sentiero T2, del versante di Talamone. All’inizio non troviamo l’acquario, che sarebbe anche il centro visite di questa parte del Parco della Maremma. Leo è già parecchio spazientito, ma alla fine l’acquario salta fuori e davanti c’è anche un piccolo parcheggio dove lasciare la Renault. Facciamo i biglietti e cominciamo una salita, assai ripida, per una strada asfaltata, in cima alla quale sta un cancello –senza alcun controllo per i biglietti, era l’occasione per fare i portoghesi- e lì iniziano i sentieri, T1, T2 e T3. Qui la macchia è molto meno fitta rispetto a quella di San Rabano, inoltre il cammino permette di ammirare quasi sempre il mare, che è stupendo. A un certo punto, durante una discesa, ci facciamo da parte perché 2 ciclisti in mountain bike scendono rischiando l’osso del collo. Non sappiamo cosa ne è stato di loro. Forse li troveranno domani spiaccicati in fondo al burrone. Il cammino ci conduce fino alla spiaggia, che immaginiamo simile a quella di Paradise e accessibile solo a noi. Con nostra grande delusione è raggiungibile anche da un’altra strada e anziché un lido deserto ci troviamo marmocchi che giocano a pallone, genitori che apparecchiano il tavolo per il pic-nic e c’è persino un camion. Pranziamo con scatolette di tonno usando uno scoglio come sedile: qui ci sono i ciottoli, a differenza della spiaggia accanto a Piombino, brillante di sabbia frammista a particelle di ematite. Il ritorno è un po’ in salita, ma non troppo faticoso. L’ultimo tratto lo facciamo a manetta: è tutto in discesa fino a Talamone. Quando siamo in centro visitiamo le rovine del castello e ci piazziamo davanti al porticciolo a mangiare un gelato. Lì Leo riconosce il giornalista Giuliano Ferrara, che si rimpinza per non diventare anoressico. Nel pomeriggio andiamo prima a Vetulonia e poi a Roselle, che conserva quasi intatta la cinta quadrata di mura con rifacimenti romani e ruderi etruschi, ellenistici e romani. Come dessert facciamo una capatina anche a Grosseto, che ci mancava. Arriviamo all’osteria che sta a 200 metri dal nostro agriturismo con la faccia stravolta, i capelli infeltriti e lo stomaco vuoto. Anche se ci siamo sfiancati su e giù per i monti dell’Uccellina allo scopo precipuo di controbilanciare l’eccesso di sforchettate dei mesi scorsi, non resistiamo alla tentazione di una tagliata con rucola e peperoni, una patata al cartoccio e uno spezzatino del buttero. Il tutto annaffiato con vin santo e tre cantucci a testa. Per la cena i gestori si pappano una quarantina d’euro e noi trascorriamo una magica notte… Rotolandoci nel letto fino al mattino perché appesantiti dal cibo. E’ giunta l’ora del ritorno. Dopo un’altra cospicua dose di asfalto siamo alla Riviera, Leo ready per andare a fare un salto in Irlanda e io pronta per affrontare, a tonsille spiegate, il mio secondo lavoro di guida turistica (quasi per caso).


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