Lambratese in laos

29 luglio - Laos - Vientiane Dopo una decina di giorni nelle acque cristalline di Koh Chang, il mio spirito guida mi spinge verso nord, e decido di intraprendere il non facile tragitto verso il Laos. Attraverserò la frontiera dalla parte di Nong Khai. Un'alba terribilmente meravigliosa attraversa le sbarre del finestrino, mentre sono nel cesso...
Scritto da: shaobell
lambratese in laos
Viaggiatori: da solo
Spesa: 500 €
29 luglio – Laos – Vientiane Dopo una decina di giorni nelle acque cristalline di Koh Chang, il mio spirito guida mi spinge verso nord, e decido di intraprendere il non facile tragitto verso il Laos. Attraverserò la frontiera dalla parte di Nong Khai. Un’alba terribilmente meravigliosa attraversa le sbarre del finestrino, mentre sono nel cesso del treno a fumarmi una sigaretta. Ho dormito relativamente bene nella cuccetta, mi sento abbastanza riposato. I tagli che mi sono fatto sui coralli sembra stiano cicatrizzando bene, non voglio che facciano infezione come in Sudafrica. Fra un po’ dovremmo essere al confine laotiano.

L’ingresso nel Paese è un po’ uno sbattimento. Non avendolo fatto con nessuna agenzia, ho passato circa un’ora fra bolli, code, firme ecc. Tassa di ingresso di 35 dollari, che varia a seconda della nazionalità di provenienza secondo parametri difficili da capire. Cambio subito 200 dollari, mi danno qualcosa come due milioni di kip, un malloppo voluminoso di banconote. Oltre frontiera, ho preso un tuktuk-furgonato. Fare capire all’autista dove fosse la Syri guesthouse è stata un’impresa, gli mostravo la cartina ma non dava cenni di orientamento, neanche minimi. Non capiva una sola parola nè di inglese, nè di francese, italiano neanche ho provato. Alla fine ce l’ho fatta, fino a Vientiane, durata del tragitto circa tre quarti d’ora. Pochi sanno che Vientiane significa “città del sandalo”. Alla Syri mi danno una camera al primo piano, arredata con mobili coloniali tarlati. La guesthouse è dietro lo stadio, non lontano dal centro. Passo il pomeriggio in bicicletta, gestilmente messa a disposizione dalla sciura in reception. Devo farmi aiutare da lei per togliere il complicato cavalletto. La città non è grande, ma alcune salite sotto il sole cocente sono massacranti. Arrivo madido in cima ad una strada e mi trovo proprio davanti al Patuxai, una specie di arco di trionfo nerastro, costruito per festeggiare l’indipendenza della Francia. Non lontano c’è il meraviglioso Pha That Luang, uno stupa eccezionale completamente ricoperto di lamina dorata che scintilla nel sole tropicale. All’interno, due giovani monaci scambiano piacevolmente due chiacchiere, dicono che devono perfezionare il loro inglese. Vogliono che racconti loro dell’Italia, ma da come ne parlano ho il sospetto che non abbiano la minima idea di dove si trovi. Fuori dal tempio, trovo una gomma sgonfia, e guarda caso uno zelante guidatore di tuk tuk si offre di riportarmi indietro. Ho la vaga sensazione di essere vittima di una piccola “truffa”, ma il costo del passaggio è talmente irrisorio che decido di non pensarci. Qui in giro mi guardano con curiosità, non ci sono molti farang in giro. Solo i monaci parlano qualcosa di inglese, con gli altri mi esprimo a gesti o come riesco. Mi addentro, dopo avere legato la bici, in un mercato all’aperto. Le tende che lo ricoprono sono talmente basse che sono continuamente obbligato a chinare la testa, suscitando l’ilarità composta di alcune venditrici. Si vende di tutto, ma è la zona della carne a suscitare stupore e meraviglia. Ci sono ratti secchi, altri che sembrano cani scuoiati, la carne spesso si vede a fatica sotto i nugoli di mosche. Più tardi, mentre mi rilasso nel parco di un tempio all’ombra di alberi giganteschi, due donne, madre e figlia, mi offrono delle specie di involtini di mais avvolti in foglie di banano. Tentiamo di comunicare ma l’impresa è ardua. Dopo un po’ se ne vanno, salutandomi sorridenti. L’atmosfera di Vientiane è molto rilassata, coloniale e pigra. Alla sera, ceno in un ristorante francese pretenzioso in piazza Nam Phou, scambiando due chiacchiere con un panciuto ed ilare canadese che è qui per lavoro. Questa piazza dovrebbe essere il cuore pulsante della città, ma di vita sembra essercene ben poca. Durante la notte vengo molestato dalle zanzare e sono costretto a farmi una doccia di Autan. Domani compio 29 anni.

30 luglio – verso Vang Vieng E’ l’alba, fuori è ancora buio. Non sono sicuro se si tratti di sogno o realtà, ma sento una voce femminile che grida Hallo! Hallo! Quando mi sveglio completamente, mi affaccio dalla finestra e sento questa ragazza che racconta al gestore della guesthouse di essere stata derubata. E’ inglese ma dai tratti orientali. In pratica dei ragazzi in moto hanno offerto a lei ed al suo ragazzo un passaggio. Lei ha messo il suo marsupio nel cesto sul manubrio e non appena è scesa, quello è ripartito a tutta birra. Poverina, ha perso passaporto, soldi, cellulare, e non sa come fare; non fa altro che ripetere “I can’t believe it”, anche perchè dice che è stata anche in Cambogia e Birmania e non pensava che una cosa simile le capitasse nel pacato Lao. Dice ” a lot of money” e un sacco di sterline sono un patrimonio in questo Paese, penso che il motociclista ci vivrà per un anno almeno. Vabbè, già che sono sveglio mi faccio una doccia e vado a cercare qualcosa da mangiare. Mentre passeggio penso che in città ci sia ancora poco da vedere, e decido di proseguire verso nord. In una agenzia di autobus compro il biglietto a un prezzo abbordabilissimo.

La giornata, poi, è decisamente movimentata. Mi sono sparato tre ore di pullman per arrivare a Vang Vieng, e lottando duramente ho ottenuto un posto onesto, quello in mezzo in fondo, dove posso allungare le gambe. La strada per il primo centinaio di chilometri si snoda fra dolci pianure, lievi declivi e risaie. Qualche edificio coloniale, chioschetti ai lati della strada, laghetti in cui si rinfrescano dei bufali. Un contorno suggestivo, che diventa presto montagnoso, il bus tossicchia lungo le salite. La sensazione di lasciarsi alle spalle la civiltà assieme all’assonnata Vientiane. A colpo d’occhio sembra un paesaggio estivo alpino, solo le case su palafitte e le risaie, assieme alla vegetazione, mi ricordano di essere in Indocina. Quando passiamo su un ponte scricchiolante, io ed un ragazzo tedesco ci guardiamo e facciamo il segno della croce, sorridendo poi per il pericolo scampato. Arriviamo a Vang Vieng, che è un borgo appena poco più grosso di quelli che abbiamo attraversato venendo. Ha due strade principali, di cui una si snoda sul fiume. Prendo una camera al Thavisak Guesthouse per 5 dollari, pulita e con ventilatore. Il caso vuole che oggi compio 29 anni e mi diano la stanza 29. Sul soffitto si rincorrono decine di gechi. Mi aggrego ad una compagnia di australiani, sebbene spesso il loro inglese non sia proprio accademico, e giriamo la città. Quello che in controluce sembra un grosso pipistrello in realtà è.. Una farfalla! Si avvicina a me fin quasi a farsi toccare, poi vola via, verso il fiume. Il pranzo si trasforma presto in una festa non stop per il mio compleanno, e mi emoziono un po’ quando tutta la compagnia, che si è ingrossata fino ad una ventina di persone, mi regala una torcia per la testa e mi canta “tanti auguri” in quasi-italiano. In serata, un po’ brilli, andiamo a rilassarci sui comodi cuscini e tappeti di un baretto sulla strada principale, gli australiani si scatenano e ordinano special bread, tè ai funghi e altre pietanze vagamente allucinogene.

31 luglio – Vang Vieng Giornata all’insegna dell’ozio semi-avventuroso. Dopo una colazione sostanziosa, ci siamo organizzati per il tubing. In pratica, un furgoncino ci porta sulle rive del fiume, circa 5 chilometri a monte della cittadina. Lì ci danno delle camere d’aria di pullman e ci buttano in acqua. Lungo la discesa, diversi baretti di bambù lungo le rive, aggrappati ai margini, in cui non manchiamo di fermarci e ordinare “lam en cok” , una sorta di cuba libre fatto con un rhum terrificante. Ogni stop è un secchiello di questa bevanda, per cui dopo un po’ la visione della scena si fa vagamente confusa. Ci sono anche dei rudimentali alti trampolini e funi, che permettono di fare tuffi spettacolari nel Nam Song. Ci buttiamo più e più volte nel placido fiume marrone, che è in piena e dobbiamo affrontare solo un paio di rapide ridicole. Mentre ci lasciamo dolcemente cullare dalla corrente, ci scambiamo brindisi e tentiamo acrobazie sui pneumatici; sono l’unico che riesce a mettercisi in piedi, in una sorta di parodia del surf, e mantengo alto l’onore italico nel mondo. La ragazza inglese mi dice “What are you doing crazy italian!”. Posha, il cui succinto costumino è inaffrontabile senza mancamenti, dice che con la bottiglietta di rhum sembro un pirata. La montagna alla nostra destra, a picco e ricoperta di vegetazione, incombe solennemente su di noi. Mi spiace di non aver portato con me la macchina fotografica, per ovvi motivi, ma conservo dei ricordi meravigliosi della giornata. Arriviamo in città quando il sole sta ormai tramontando, spiaggiamo su un argine liberato da arbusti e bambù. Mentre torniamo alla base, sbircio dentro qualche casetta. Le famiglie mangiano su un tappeto per terra, guardando ipnotizzati la tv. Anche nei bar, i giovani avventurieri farang siedono su molli divani e guardano puntate dei Griffin. Mi chiedo che senso abbia venire in Lao per vedere la televisione. Serata solitaria in un baretto sul Nam Song, la cui presenza è invisibile nel buio ma imponente; decido che il fiume si chiama Song perchè quando scorre sembra che canti.

1 Agosto – Luhang Phrabang Partenza iperpiovosa verso Luhang Phrabang, cielo plumbeo. Il viaggio in minibus, di qualche centinaio di chilometri, attraversa montagne lussureggianti di verde ed incoronate da basse nuvole. Diversi villaggi, veramente rustici e di massimo una ventina di case, con sciami di bambini, vacche, oche eccetera. Sui terrazzamenti, la gente coltiva il riso in maniera tradizionale, con il tipico cappello di paglia a cono e la schiena ricurva verso l’acqua. Luhang Phrabang confonde le idee, disorienta, girandola in bici mi ci perdo piacevolmente. In verità avrei voluto noleggiare un motorino, ma deve essere successo qualche casino in passato perchè mi dicono che ai farang non li noleggiano più. LP E’ forse l’unica città in Lao in cui i turisti si notano, ristorantini e mercatini hanno un aspetto più moderno rispetto al resto del Paese. Mi inerpico per i 330 scalini che portano al That Wat Chomsi. Dall’alto del monte Phousi si può cogliere una visione d’insieme della città, che è su una lingua di terra alla confluenza del Mekong e del Nam Khane. Poi mi dedico a fare un po’ di compere, fra i prodotti più tipici ci sono delle larghe sciarpe di seta che sono stupende. Di solito non mi abbandono a shopping sfrenati, ma ci sono diversi oggetti notevoli ed è un piacere mercanteggiare pacatamente per comprarli. Compro anche un lungo portapenne di pietra intagliata, ne avevo già visti di simili a Vientiane e mi ero mangiato le mani per non averne preso uno. Più tardi rincontro Posha e i suoi due amici inglesi, ci ripromettiamo di vederci più tardi al Lao Lao Garden. Qui ceniamo e ci concediamo una bottiglia di vino bianco, che, pur essendo io abituato a bere vino, mi dà una mazzata allucinante, io e Posha siamo più che brilli. Fuori, ci avvicina un ragazzo per venderci dell’erba, che gentilmente rifiutiamo.

2 agosto – Luhang Phrabang Stamattina mi sono svegliato un po’ rintronato per via dei bagordi di ieri, con piacevoli seppur vaghi ricordi della serata. Decido di dedicare la giornata alle escursioni nei paraggi. Contratto 25 dollari (una cifra probabilmente enorme) per un minipulmino ed una guida che mi accompagnerà tutto il giorno. Prima andiamo al villaggio di Ban Xanhai, famoso per la preparazione artigianale di liquore di riso, ed altra oggettistica più tradizionale. Bottiglie di liquore di riso con serpenti, scorpioni e millepiedi. Poi, passando per una strada disastrosa, arriviamo al villaggio di Pak Ou; da qui traghettiamo con una piroga sull’altro versante del Mekong, per andare a vedere le sacre grotte in cui un tempo vivevano degli eremiti. Saliamo diverse scalinate. Dei bambini vendono degli uccellini in delle gabbiette di vimini, ripetono “uan dola! uan dola!” Nel buio di queste grotte l’atmosfera è surreale, i fasci di luce delle torce illuminano le migliaia di statuette di Buddha tutte diverse lasciate dai pellegrini. Dopo il pranzetto di pesce sul Mekong, la mia guida, che si chiama Dui e parla poco inglese, mi chiede se io voglia una ragazza lao per fare bum-bum. Declino cortesemente la sua offerta, e lui fortunatamente non insiste. Nel pomeriggio passeggio pigramente per traverse poco affollate di LP, tentando di rubare qua e là qualche attimo di pace e qualche scorcio suggestivo. Teli arancioni lasciati ad asciugare nel giardino di un tempio, anziani che chiacchierano seduti sui parapetti lungo il fiume, bambini che giocano a rincorrersi.

3 agosto – verso Vientiane Mi sveglio presto, all’alba, senza che mi vengano a chiamare. Ho il pullman per Vientiane alle 8, e ne approfitto per fare un ultimo giro della città. I monaci sfilano in processione per chiedere l’elemosina, li sento tintinnare e faccio appena in tempo ad affacciarmi e a vedere la colonna arancione. Quando scendo, però, sono già scomparsi chissà dove. Le strade iniziano a prendere vita, ronzanti di tuk tuk e di gente. Vado in un mercatino di strada dove vendono alimenti, tutto su semplici stuoie per terra. Le donne agitano grossi ventagli per scacciare le mosche, ma non sembra funzionare molto; mi guardano e ridacchiano, falang falang, mentre altri sono del tutto impassibili alla mia presenza incongrua. Spezie, rane a mazzetti legate per le zampe, anguille e giganteschi pesci gatto ancora vivi che si dimenano nelle ceste. E poi dei bozzoli che sembrano frutti, la venditrice li sbuccia e dentro ci sono delle enormi larve bianche che si agitano mollemente per la luce improvvisa.

L’autobus parte in orario; il viaggio massacrante, di fianco alla graziosa Nu, è addolcito da paesaggi splendidi, forse più che all’andata. La strada è tutta una curva, la vecchia che siede due posti davanti a noi sbocca e sputa dal finestrino ogni 10 minuti. Nu vorrebbe scambiare due chiacchiere, ma il suo inglese ed il mio stordimento ci impediscono di andare oltre poche frasi di cortesia. Mi offre una cicca. Poi le montagne lasciano posto alla pianura e ben presto siamo nella capitale, più caotica di quanto la ricordassi. Anche l’autista. Che vedo sbadigliare nello specchietto, accelera un po’ non essendoci più precipizi ai lati della strada. All’arrivo, saluto Nu e prendo un tuk-tuk per 7 dollari (prezzo farang) fino alla frontiera, in cui sbrigo velocemente le formalità, e corro in stazione. Acchiappo appena in tempo l’ultimo treno per Bangkok. Mangio riso scotto e maiale dolce che ho preso in stazione mentre il treno era già praticamente in movimento. Il convoglio, che purtoppo non ha cuccette ma solo rigide panche, si tuffa nella notte, direzione sud. Mi adatterò a dormire così, anche perché non ho alternative, tenendomi abbracciato ben stretto al mio zaino che contiene le mie cose, per evitare furti. Che dicono essere non rari in questi viaggi notturni.

Le foto di questo viaggio sono disponibili sul mio sito Il viaggio in Indocina non finisce qui! Consulta anche “Lambratesi in Thailandia – in Cambogia – in Malesia” che contengono anche il link alle foto e al documentario di un’ora “LAMBRATESI IN INDOCINA”.



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