Tra la cucina dell’inferno e le nevi del Kilimangiaro

Viaggio fai da te nei parchi del Kenya
Scritto da: glenngould
tra la cucina dell'inferno e le nevi del kilimangiaro
Partenza il: 24/03/2013
Ritorno il: 02/04/2013
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Per un divoratore compulsivo di documentari naturalistici il sogno di essere, almeno una volta nella vita, nella savana, seduti su un pulmino dal tettuccio apribile anziché sprofondati nel divano del salotto di casa, si materializza improvvisamente quando tra le pubblicità che saltano fuori mentre navighi in rete compare la magica promozione della Turkish che ti manda in mezzo mondo con appena 500 euro.

Dopo un rapido esame delle varie mete possibili, io e la mia compagna prendiamo un volo per Mombasa. Sogniamo l’Africa, siamo abbastanza al risparmio e crediamo che col fai da te ce la caveremo con un’inezia. Pensiero sconsiderato: se sei un turista e non sai come muoverti in Africa paghi anche per respirare; ce ne rendiamo conto quando, acquistato il biglietto, inizia su Internet la ricerca forsennata dell’itinerario migliore per i pochi giorni che abbiamo a disposizione. Vorremmo vedere tutto, e rilassarci anche un po’ al mare; motivo per il quale prendiamo anche un volo da Mombasa a Zanzibar, dove passeremo qualche giorno in un posto dove il mare, stando ai racconti di chi c’è stato, è molto meglio di quello di Malindi e Watamu.

L’organizzazione del safari è la cosa più difficile da qua, con quotazioni astronomiche, dovute anche alle altissime tasse di ingresso giornaliero ai parchi e alle sistemazioni nei resort, unica possibilità.

Alla fine si parte, con qualche prenotazione fatta su Internet e poco altro. Io sono soprattutto curioso di capire perché per spostarsi da un posto all’altro ci vogliono ore anche se sulla mappa i chilometri sembrano pochissimi.

24 MARZO

Arriviamo a Mombasa alle 6.00, in perfetto orario, e soprattutto in tempo per vedere il passaggio dal buio ai colori spettacolari dell’alba. Ci aspetta un autista, Mr. Francis, contattato da Roma via web, che ci porterà a Malindi dove saremo costretti nostro malgrado a passare la notte perché il safari parte da lì. Sulla strada ci fermiamo a Gede, dove siamo i soli a visitare le rovine di un’antica città Swahili sopraffatta dalla foresta, e abitata solo dalle scimmie. Posiamo i bagagli a Malindi e ci fermiamo a mangiare in un posto frequentato da locali, dove ci porta l’autista. Il cibo consiste, quasi ovunque, in qualche pezzo di carne accompagnato da une generosa porzione di riso. Dopo esserci rifocillati, partiamo alla volta di Marafa, una straordinaria sinfonia di roccia calcarea che da sola vale il viaggio. La chiamano Hell’s Kitchen, la ‘cucina dell’inferno’: un’antica leggenda racconta che una famiglia della zona, ricchissima, aveva così tante mucche che col latte ci si lavavano. Dio per punizione li fece sprofondare qui, in questa depressione dove le temperature sono torride anche per l’Africa equatoriale. L’arenaria è scolpita in meravigliose formazioni, guglie, pinnacoli, gole, burroni. La strada per arrivare è uno sterrato di chilometri, nonostante sulla mappa sia raffigurata come una vera strada! Quando piove sembra un miracolo che le ruote della macchina non rimangano impantanate. Scopriremo che la maggior parte delle strade, in Kenya, sono così.

Per arrivare l’autista deve chiedere informazioni ad ogni passante. E i passanti ci sono, tanti, coloratissimi, in mezzo al nulla, davanti chilometri di sabbia da percorrere. Le donne in particolare sfoggiano abiti meravigliosi, e vanno sempre da qualche parte, spesso con un grosso recipiente sulla testa. Anche l’autista è sorpreso da Marafa, che non aveva neanche mai sentito nominare. ci riporta a Malindi, lasciandoci in spiaggia. E’ pomeriggio, e approfittiamo dell’ultima luce per fare una passeggiata sulla spiaggia e un bagno. Io mi chiedo con quale faccia le agenzie confinino i turisti una settimana in un posto così. Sì, è la stagione delle piogge, ma persino ad Ostia l’acqua è più invitante. E almeno non va via la mattina con la marea per tornare poco prima del tramonto.

Dopo le 18 cala il buio. Siamo all’Equatore, il giorno dura pressappoco sempre così, e non sorprende che alle 6 i villaggi siano già in pieno fermento. Cerco di raggiungere un posto per mangiare qualcosa, visto che il posto dove dormiamo è un po’ periferico. Non riesco a fare più di tre passi senza che qualcuno mi fermi o mi chieda se voglio aiuto. Mi seguono anche, a piedi, in moto. E’ una cosa che non mi piace, alla quale non mi abituerò mai; desisto, e me ne torno in albergo a pancia vuota.

25 MARZO

Alle 4 siamo in piedi per il safari, alla volta di Tsavo Est. La precisione non sembra essere il forte della gente d’Africa, e aspettiamo più di un’ora l’arrivo dell’autista e della guida che ci porteranno nella savana, Kasungu (nome originale) e Leone (nome di battaglia italianizzato da beach boy con intensi rapporti con i turisti italioti). Il periodo non è dei migliori, dicono, ma il safari è indimenticabile. Vediamo di tutto, felini (il leopardo no, quello non si avvista se non lo attirano con le esche), ungulati, coccodrilli, ippopotami, scimmie, uccelli coloratissimi. Viaggiamo con una famiglia toscana, ci troviamo benissimo. Paolo, in particolare, è un patito di animali, si fomenta ad ogni avvistamento, e con competenza da National Geographic elenca i diversi tipi di antilopi, tra i quali predilige le gazzelle di Thomson. Indimenticabile vedere un branco di leonesse scendere imperturbabili da una collinetta e mettere in atto un lavoro di squadra per accerchiare dei bufali. Alcune avanzano sfrontatamente per farsi vedere dalle prede alle quali non sono realmente interessate, le altre avanzano di soppiatto strisciando nell’erba. Passano come se niente fosse in mezzo alle jeep, per attraversare la strada. Il safari, in Africa orientale, è una specie di circo. I conducenti dei mezzi si telefonano quando avvistano un felino; partono così delle incredibili corse attraverso le piste della savana, tra nuvole di polvere, all’inseguimento dei felini. Immagino che le prede ormai sappiano quando c’è un predatore nei paraggi: basta vedere jeep e pulmini. Piccola nota triste: meraviglioso vedere una coppia di leoni, ma al prezzo di un collettivo fuori pista (che causa l’erosione del suolo) di decine di vetture che si alternano per far fotografare ai clienti dei costosi safari (tra cui noi) gli stranitissimi felini.

Ero rimasto alle leonesse che avevano accerchiato i bufali; è il tramonto, time out, i cancelli del parco chiudono e i ranger sono autorizzati a sparare se trovano qualcuno all’interno del parco dopo il tramonto.

Il cielo nella savana è incredibile, a tutte le ore; all’alba e al tramonto il cielo si accende dei colori più intensi che si possano immaginare, la notte la volta celeste è una trapunta di stelle. Non riesco a dormire bene, c’è una specie di pozza davanti alla mia stanza, e ci hanno detto che spesso all’alba gli elefanti si vanno ad abbeverare. Ho paura di non essere sveglio all’alba, e perdermi lo spettacolo. Allora prima dell’alba io sono fuori, e quando il cielo comincia a tingersi di rosa gli elefanti arrivano, insieme ai marabù. Rimango estasiato a contemplare gli animali, intanto è ora di colazione e devo trovare un equilibro tra la voglia di rimanere a guardare e la paura che il succo di passion finisca.

26 e 27 MARZO

Mattina, Tsavo, poi ci trasferiamo ad Amboseli, sullo sfondo del Kilimanjaro. La neve che avvolgeva la vetta un tempo è quasi un ricordo. Il periodo, secondo le guide, non è propizio all’avvistamento di animali. Ma ne vediamo tantissimi, ancora più che a Tsavo, e non piove. Sempre secondo le guide, la cima del Kilimanjaro è quasi perennemente avvolta dalla foschia. Allora noi siamo fortunati, la montagna è sempre ben visibile. I colori di Amboseli sono completamente differenti da Tsavo: rossa la terra di Tsavo, rossi anche gli elefanti, per la terra che si deposita sulla loro pelle; verde Amboseli, e siamo nella stagione delle piogge. Proprio la vegetazione in pieno rigoglio dovrebbe costituire un ostacolo all’avvistamento degli animali, ma non è così.

All’alba del giorno dopo il circo del safari fa il tifo per tre giovani ghepardi, messi subito incredibilmente in scacco da un babbuino inferocito. Gli animali sono ormai tutti allarmati e quando, tra l’eccitazione del pubblico sugli ‘spalti’, l’animale più veloce del mondo si lancia alla caccia, non c’è più nulla da fare. Ritenteranno, ma il nostro tempo è scaduto. Dobbiamo andar via anche se è presto perché ci vogliono ore per tornare a Malindi. Noi ci faremo fermare sulla strada per raggiungere Mombasa e di lì proseguire per Diani.

Ci fermiamo in un autentico villaggio Masai. Ingresso solo dieci euro, ti danno il benvenuto, ti fanno danzare con loro, si fanno fotografare, poi ti prendono sottobraccio e ti portano al mercatino delle loro famiglie, dove sarai costretto ad acquistare oggetti di artigianato locale a cifre per le quali neanche se gli oggetti fossero d’oro avresti fatto un affare. 100 euro per due segnalibri di pelle e un pettinino d’osso sono decisamente troppi. Sono costretto a comprarli lo stesso per appena 10 euro (all’aeroporto, dove notoriamente le cose sono superprezzate, costano meno!), lasciando di malumore il mio anfitrione. Bene, siamo in due di malumore, abbiamo dovuto pagare lo scotto della visita al villaggio rinunciando a un’oretta di safari. Aiuta il pensiero che questa è una delle principali forme di sostentamento per la comunità Masai, ma io continuo a credere che siano i governi a dover sostenere certe realtà, e non i turisti. Riprendiamo il cammino, stavolta avvalendoci dell’autostrada Nairobi-Mombasa. L’autostrada è asfaltata, tutto qui. Per il resto è come una nostra strada di campagna, con la gente che attraversa e chioschi che vendono di tutto lungo il percorso.

Ci facciamo lasciare a Mariakane, un villaggio dove prendiamo un matatu per Mombasa. Kazunga, il nostro autista, ci dà il numero di telefono di suo fratello, almeno così dice lui, che ci porterà a Diani. Tungi, il ‘fratello’ di Kasungu che non gli somiglia per niente e che sembra anche di etnia diversa, viene a Mombasa senza la macchina, perché non ce l’ha, e prendiamo i mezzi per Diani. Ci vuole un traghetto per andare dall’altra parte del paese, un traghetto superaffollato, poi prendiamo un autobus, poi un matatu. Lungo la strada siamo oggetto delle attenzioni di numerosi individui poco raccomandabili, che cercano di attaccar briga nonostante siamo in compagnia di un locale. Confesso che ho paura, ho tutto addosso, bancomat, contante e due macchine fotografiche. Il matatu ci lascia a circa duecento metri dal nostro albergo, ma sono duecento metri pericolosi, è buio. Dobbiamo chiedere ad un matatu di darci un passaggio fino al cancello! Finalmente il cancello si apre, siamo accolti da due uomini, uno con arco e freccia, l’altro col fucile. Non deve essere il massimo della sicurezza, questo posto, pensiamo. Ci accordiamo con Tungi per un safari a Shimba Hills l’indomani, mentre io aspetto con ansia che il cancello finalmente si chiuda. Dentro è una specie di isola occidentale; i gestori sono un francese ed un canadese, Dave, che ha lasciato il Canada a 18 anni, ne ha quasi 40 e questo è il quarantaquattresimo posto dove vive da allora; e comunque è in partenza per il Congo, a breve. Ha appena pubblicato un libro, racconta i suoi viaggi in bicicletta; una volta, mente con una corda cercava di issare la bici su un albero per la notte, visto che si era accampato nel nulla, la corda si è rotta e la bici gli è piombata sul mento. La cosa più difficile, mi dice, è stata far capire al pronto soccorso come ha fatto a darsi una bicicletta sul mento! E poi non ha potuto bere birra fino al giorno dopo. La stanza che avevamo prenotato dall’Italia non è disponibile, alla fine alla meno peggio ci sistemiamo in una stanza on condivisione con insetti di varie specie e dimensioni, col bagno fuori e per lavarci dobbiamo attraversare un appartamento con una comunità di giovani che devono appena essere arrivati da Woodstock. Al bar ci rilassiamo, ci raccontano storie dell’Africa, la famosa malaria che tutti loro hanno avuto – non si può mica prendere il malarone tutti i giorni se ci vivi, in Africa! Io, dopo l’estenuante viaggio, e assecondato dall’infaticabile Dave, che evidentemente bilancia la sua attività fisica con delle pantagrueliche bevute, bevo qualche birra di troppo, e non riesco a ritrovare la stanza. Zuzana dorme, per fortuna il canadese giramondo mi aiuta a ritrovare la strada…

28-29 MARZO

Al mattino presto facciamo una nuotata, prima che il mare scompaia. La spiaggia è senz’altro più bella di quella di Malindi, i colori sono bellissimi e l’acqua meno torbida, per una nuotata va bene. Andiamo in spiaggia in costume, senza neanche la maglietta, per evitare che ci assalgano. Siamo fuori stagione, e le attenzioni dei beach boys sono tutte per noi. Nonostante non abbiamo nulla cercano di venderci di tutto. Uno mi chiede la maglietta, dico che non ce l’ho, si offre di accompagnarmi in albergo. Arriva Tungi, si è fatto prestare una macchina per portarci al safari, viene con la moglie ed il figlioletto. Mi chiedo se il rottame che ha noleggiato o si è fatto prestare ce la farà a percorrere i 20 km che ci separano da Shimba Hills. A calci, con numerose soste per guasti vari, alla fine arriviamo. Non ci sono i grandi predatori, c’è solo il leopardo, notturno ed elusivo, ma il posto è bellissimo e pullula di animali. Alcuni sono anche più facili da avvistare rispetto ai grandi parchi: i timidi facoceri, per esempio, riesco a scattare una foto di due che si azzuffano. Un ranger ci accompagna ad una cascata, dove facciamo il bagno. Torniamo in albergo, l’indomani dobbiamo tornare a Mombasa. La mattina dopo il viaggio è lungo, due autobus, il traghetto stipato di passeggeri, e non riusciamo a ripararci da un violentissimo acquazzone che ci bagna dalla testa ai piedi. Il traghetto sbarca un esercito di persone, migliaia di corpi accalcati in mezzo al fango, si fatica a rimanere vicini, travolti da ondate di persone che sembrano muoversi trascinati da forze che non si riescono a controllare. Prendiamo una specie di taxi e finalmente arriviamo in aeroporto, dove passiamo un’ora buona al bagno ad asciugare vestiti e borse con gli asciugamani elettrici. Ci aspetta il volo per Zanzibar. Ma questa è un’altra storia.

Lasciamo il Kenya pieni di sensazioni, sui posti, sui colori, sulla gente. Il mal d’Africa, prima di partire mi chiedevo se esistesse. Scettico di natura, continuo a dire di no, anche se la savana, dopo un anno, è ancora dentro di me. La gente d’Africa, che sui blog e i forum suscita meraviglie per il suo calore… l’impressione che ho avuto io è che noi per questa gente siamo soprattutto banconote che camminano, la cortesia è per lo più solo di facciata, se capiscono che non possono avere un vantaggio economico immediato non ti sorridono affatto. Ti chiedono dollari ed euro per tutto, e tantissimi, anche solo per darti un’indicazione o se fotografi la loro casa. Se sei un turista e stai pochi giorni non puoi pensare di allacciare un rapporto intimo. Gli unici con cui abbiamo potuto scambiare qualche opinione in maniera più approfondita sono stati i nostri accompagnatori: il nostro autista, che abbiamo poi rivisto l’ultimo giorno a Mombasa, di ritorno da Zanzibar, ha un’attività in proprio (la macchina è sua), dice che tutto va bene, che gli oppositori del governo mentono, che il Kenya è prospero e bello. Kazunga e Leone invece contestano il governo, antidemocratico e affamatore, con ferocia e amarezza, senza peli sulla lingua. Tungi non si è espresso, ma la sua disperazione pacata e e i suoi modi gentili mostravano una rabbia soffocata per forza. Un paese con tante risorse, i cui sono appena stati scoperti enormi giacimenti di petrolio, che sembra non investire assolutamente nulla per i suoi cittadini. Due mondi, i turisti ricchi agli occhi dei kenioti, anche quando ricchi non sono, e la popolazione locale oppressa e affamata, che vengono in contatto come in uno show. Gli stranieri che rimangono e mettono radici investono, e gli investimenti sono nel settore turistico, e dunque rivolti ad un pubblico non locale, anche se dell’indotto beneficiano anche i locali. Sono solo impressioni frettolose, ma la bellezza dei posti ha dovuto sempre lottare con una certa amarezza di fondo dentro di me…

Concludo con un consiglio pratico. Se state rispolverando il vostro inglese arrugginito perché avete letto sulle guide che l’inglese è parlato un po’ ovunque, lasciate perdere: per quello che ho visto io, dopo lo swahili la lingua di gran lunga più parlata e capita da tutti sembra essere l’italiano. Ho persino sentito un africano inveire in un colorito accento napoletano…



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