Viaggio nell’Oltrepò Pavese

Tra Voghera, le Valli Staffora e Versa, un lembo di Nord ricco di storia e personaggi straordinari
Patrizio Roversi, 31 Mar 2016
viaggio nell’oltrepò pavese
Questo itinerario potrebbe iniziare da Milano o da Genova, così come da Piacenza o da Torino. Sono queste infatti le stazioni ferroviarie da cui partire – magari con una bicicletta – per arrivare facilmente a Voghera, la prima tappa del mio giro in Oltrepò, provincia di Pavia. Ma dov’è l’Oltrepò? Sembra una domanda da seconda elementare, ma invece siamo in molti ad avere un’idea sfumata della collocazione geografica di questa zona. Avete presente la Lombardia? Il suo confine meridionale è segnato dal Po, ma la regione “sborda” rispetto al fiume in due punti, con due triangoli: uno è l’Oltrepò a Sud-Ovest, e l’altro è il Basso Mantovano a Sud-Est. L’Oltrepò (con o senza accento sulla O) è appunto un triangolo, stretto fra Piemonte ed Emilia, con la Liguria a un passo. E – a proposito di geografia, che hanno tolto dalle materie scolastiche – tutto o quasi dell’Oltrepò si spiega con la sua collocazione: era la via che dal mare (ligure) portava alla pianura (padana), passando per gli Appennini. Era l’antica Via del Sale, ma tutti i commercianti che arrivavano dal mare a portare questo alimento essenziale poi non volevano fare il viaggio di ritorno a vuoto, per cui gli antichi abitanti dell’Oltrepò si sono ingegnati a produrre vino, salumi e altro, per rifornire questo commercio. Da qui la vocazione economica agricola della zona e la sua ricchezza, favorita anche dalla varietà assoluta del territorio: l’Oltrepò parte appunto dalle rive del Po e arriva, verso Sud, a montagne anche di 1.700 metri, passando per tutta una serie di colline che, da 1.000 anni, sono la patria della vite.

[I video del viaggio di Patrizio sul sito della Fondazione per lo sviluppo dell’Oltrepò Pavese]

LA CASALINGA DI VOGHERA E I SUOI PEPERONI

Nel 1966 il Servizio Opinioni RAI commissionò un’inchiesta per sapere cosa capissero le varie categorie socio-economico-geografiche dei termini linguistici usati in TV. Quella che si classificò ultima, la più disinformata, risultò essere la “casalinga di Voghera”. Alberto Arbasino (che è di Voghera) e poi Beniamino Placido ci hanno ricamato sopra, e la Casalinga di Voghera è diventata emblematica, sinonimo del buon senso comune di bassa lega. In Piazza del Duomo (bella Piazza, bei portici, purtroppo piena di automobili) a Voghera ho preso appuntamento con Paola Zanin, che è appunto la Presidente delle Casalinghe di Voghera, che nel frattempo si sono organizzate e auto-rappresentate. Paola è esattamente l’incarnazione… della casalinga. O meglio, dell’evoluzione della casalinga: attivissima, spigliatissima eppure ben radicata ai valori basici della madre di famiglia. Il dato interessante è che se per anni la casalinga è stata sinonimo di arretratezza, di modello femminile perdente, adesso viceversa Paola è invitata dappertutto: all’EXPO, nei salotti e negli spignatta menti televisivi è invitatissima e valorizzatissima. È considerata un’esperta nella difficile arte del “fare la spesa” e la vestale dei buoni valori di una volta. Cicli e ricicli storici, flussi e riflussi (ideologici)…

E a proposito di riflusso (gastrico): a me i peperoni piacciono ma non li digerisco. Invece pare che il Peperone di Voghera sia ottimo e digeribile. Paola, fedele al proprio ruolo di cuoca provetta brava a fare la spesa (ha fatto libri sulla cucina tipica di Voghera) mi accompagna agli Orti Sociali della Caritas, dove un gruppo di ragazzi con qualche problema viene avviato alle pratiche agricole, con molto successo. Il coordinatore è Moreno, il quale ha messo a disposizione la sua terra, che era di suo nonno e che di mestiere faceva l’ortolano. È davvero una bella situazione, nella primissima periferia della cittadina che produce ortofrutta dove le casalinghe (e non solo) vanno a fare la spesa a chilometro zero. Lì c’è Gianluca di Slow Food, che mi racconta le caratteristiche del peperone autoctono locale. Piccolo, squadrato, trilobato sotto e quadrilobato sopra, verde e poi giallo quando è maturo, questo peperone ha una caratteristica principale: la polpa dolce e soprattutto soda, con pochissima acqua. Questo lo rende perfetto per essere messo sott’olio o sott’aceto (oggi) e lo rendeva ottimo per essere trasportato lungo la famosa Via del Sale.

ON THE ROAD BY BIKE

Scusate l’inglesismo, ma la pista ciclabile tra Voghera e Rivanazzano la chiamano Greenway, e forse è giusto così, perché qui si aspettano soprattutto i turisti stranieri. È recente, molto curata e bella. Si tratta di un ramo della ciclabile Lecco-Milano-Pavia, che ora continua fino a Varzi. Questo tratto è stato ricavato sulla sede della vecchia ferrovia Voghera-Varzi, inaugurata nel 1931 e assassinata (cioè tagliata siccome ramo secco) nel 1966, quando il boom economico aveva illuso tutti che fosse possibile andare in automobile. Comunque, dopo circa sette chilometri e una possibile sosta in un vecchio casello della suddetta ferrovia trasformato in bar-ristorante, si arriva lungo il corso del torrente Staffora (per i Romani stat foras, per la sua imprevedibilità) tra Riva e Nazzano, uno in alto e l’altro più in basso, che assieme fanno Rivanazzano Terme. Non si può sbagliare: il ristorante della signora Piera è poco dopo la Torre Pentagonale del 1300, dalla parte opposta della strada. Non lasciatevi ingannare dal nome, “Selvatico”, non servono selvaggina, è il cognome suo e delle sue figlie (una chiacchiera, l’altra lavora, cioè una serve in sala e l’altra fatica in cucina). La Piera non se la tira da chef, ma è davvero una vestale della cucina dell’Oltrepò: merluzzo in salsa agrodolce di cipolle con uvetta, torta di riso e torta di zucca (salate) e anche pesce agli amaretti (dolci).

[I video del viaggio di Patrizio sul sito della Fondazione per lo sviluppo dell’Oltrepò Pavese]

IL CASTELLO MALASPINA

Alla sera però, arrivati a Varzi, la digestione era felicemente ultimata, tanto da fare un salto al caffè del centro che non è un caffè, è proprio un ristorante, e anche molto buono. Dopodichè, belli brasati dal brasato presente dentro e fuori ai ravioli, abbiamo chiesto ospitalità al Castello Malaspina, in cui gli ospitalissimi proprietari (i Conti Odetti, discendenti dai Malaspina) stanno attrezzando un servizio di accoglienza, di cui siamo stati i primi entusiasti “sperimentatori”. La mattina dopo, Eleonora, che fa la guida turistica ma ti racconta la storia con la passione di una innamorata del suo territorio, ci ha portato a vedere Varzi. Ancora una volta la parola magica è la Via del Sale e naturalmente, la posizione strategica del paese: tra le provincie di Genova, Piacenza e Milano, lungo il percorso obbligato delle carovane di commercianti. Per questo Varzi è stata colonizzata (come del resto Voghera) da celti, liguri, romani e longobardi. Eleonora ci ha fatto fare una passeggiata lungo i portici, dove si svolgevano fino a poco tempo fa traffici e mercati, e poi a vedere la Torre delle Streghe, dove nel 1464 sono state rinchiuse dall’Inquisizione 25 disgraziate poi assassinate e – tanto per capire che aria tirava da quelle parti nel Medioevo quanto a divisioni e fazioni – la Chiesa dei Rossi e la Chiesa dei Bianchi, Porta Soprana e Porta Sottana.

Ma Varzi è famosa soprattutto per il salame. Pare che fosse già un vanto delle mense dei Malaspina (sempre loro). Vado a trovare i fratelli Ezio e Alberto Garabello nel loro laboratorio, che sta dietro al negozio, dove lavorano il salame e la pancetta. Ma come mai a Varzi ci sono molti salami e quasi nessun maiale? Innanzitutto mi dicono che, per il disciplinare di questa DOP, i maiali possono provenire anche dalle regioni vicine (in primis Emilia e Piemonte). In pratica loro usano gli stessi maiali del Prosciutto di Parma, solo che scelgono gli esemplari più grossi e meno giovani e soprattutto… non usano le cosce per il prosciutto. Ergo: il loro salame è fatto con le parti migliori del maiale. Dopodiché i due fratelli (animati da una passione davvero esemplare) usano ancora una serie di accorgimenti manuali per fare il prodotto migliore: ad esempio non legano a macchina, in modo che dopo la prima stagionatura la rete di corda che avvolge il salame (con budello speciale di scrofa danese!) si allenti quanto basta per lasciarlo respirare meglio. Hanno scavato il loro laboratorio sotto terra, hanno drenato l’umidità per creare l’ambiente adatto e – a differenza di quelli del Culatello di Zibello – non hanno climatizzato i locali, ma è tutto naturale. Poi c’è la pancetta, grossa, pulita, condita e legata a regola d’arte, che in realtà sarebbe “quel che resta” del maiale dopo aver saccheggiato le parti migliori per fare il salame. I risultati, naturalmente, sono in entrambi i casi strepitosi. In effetti la zona è popolata da cicloturisti, quindi l’itinerario sarebbe perfettamente ciclabile. Confesso che a un certo punto ho mollato la bicicletta, perché era troppo faticoso… Infatti l’Oltrepò continua a salire e ad arrampicarsi: dalla Valle Staffora alla Val Versa, fino alla Val Tidone.

IL FANTASMA DI PIETRO

Non sarà la Val d’Aosta, ma anche qui ci sono un sacco di castelli. Per esempio quello di Zavattarello, costruito poco dopo il Mille e poi ampiamente rimaneggiato. Da fuori è maestoso e soprattutto incorniciato da un parco di quasi 90 ettari. Dalla sua terrazza si può ammirare un paesaggio davvero bello, si intravede anche il Giardino Alpino di Pietra Corva, che conserva varie specie vegetali di alta montagna. Il “personaggio” del castello è naturalmente un fantasma, con una storia terribile, come tutti i fantasmi del resto: Pietro dal Verme (il castello è stato dei Dal Verme dalla fine del 1300 fino a 40 anni fa, quando i discendenti l’hanno ceduto al Comune). Corre l’anno 1485, Pietro è promesso a Chiara Sforza ma non la ama, vuole Cecilia del Maino e la sposa. Ma Cecilia muore e allora si rassegna a sposare Chiara, che però si è offesa e lo assassina… Il giovane sindaco, Simone, che al fantasma ci crede poco, giura che non è solo marketing territoriale e ha organizzato nel Castello un Museo di Arte Moderna. Proseguo per Canevino, un paesino arrampicato sulla collina, dove incontro la statua di un personaggio che da queste parti è molto popolare e importante: San Colombano. È arrivato qui attorno al 600 d.C. dall’Irlanda e ha fondato il Monastero di Bobbio (che adesso è in provincia di Piacenza) e un Ordine di monaci-lavoratoriagricoltori, la cui regola poi confluirà nei Benedettini. Nel Novecento il suo corpo fu disseppellito e trasportato dal Monastero di Bobbio a Pavia, in una specie di manifestazione di protesta contro il vescovo di Piacenza, che voleva interferire con le faccende di queste parti. Proprio qui a Canevino avvenne un miracolo: al passaggio del corpo del Santo un sordomuto guarì. Ma il bello è che si tramanda che, per festeggiare, i fedeli bevvero vino… E in effetti la vocazione del posto è proprio la coltivazione della vite e la produzione del vino: Moscato, Pinot, Bonarda, Buttafuoco etc etc. Da queste parti tutto parla di vino, anche il Museo del cavatappi di Montecalvo, una bizzarra raccolta di più di 200 cavatappi di tutti i tipi, unico nel suo genere: cavatappi a bilanciere, di legno, di metallo, di osso, con doppie ali, con spazzolino, a forma di Zio Sam, a forma di torchio, di colonna, a farfalla, da muro e da tavola… Abbastanza vicino, a Rovescala, abita Sergio, che coltiva una vite di croatina, il vitigno tipico della Bonarda, che a sua volta è il vino tipico della zona. La cosa eccezionale? La sua vite è vecchia di 109 anni e sembra rinsecchita, ma in realtà produce un’uva ottima: ne cresce meno di un tempo ma è sempre molto pregiata.

IL CASTELLO DEL PARTIGIANO

Il vino di Sergio l’ho solo assaggiato: in caso contrario non sarei riuscito ad arrampicarmi fino al Castello di Oramala, a 750 metri d’altezza. Anche questo è opera del Malaspina, e risale al 1000-1100. Il Castello poi ha vissuto anche le vicende della Guerra Partigiana ed è stato restaurato dal suo ultimo proprietario, Gigi Panigazzi, che è stato appunto partigiano. Se vi capita, cercate di visitarlo quando è animato da un simpatico gruppo di guide, appassionate e in costume. Le vicende del Castello sono legate alla vicina Abbazia di Sant’Alberto di Butrio. Poi nel convento, 900 anni dopo, ci sono stati Don Orione e Frate Avemaria a tenere alta la reputazione della comunità. Adesso tutti i fabbricati sono perfettamente restaurati, compresa la cappella con alcuni pregevolissimi affreschi e con la statua di cera in cui sono stati inglobati i resti mortali del Santo. I frati hanno quattro camere a disposizione dei pellegrini-turisti, oltre che un camerone dove le comitive di passaggio possono farsi il pic-nic da sole, purché alla fine puliscano bene. Il posto è ameno, e da lì si dipartono molti sentieri per gite e passeggiate.

LE STORIE DI STRADELLA

La prima cosa che si incontra a Stradella, in centro, è una torre, l’unico pezzo delle antiche mura, che ha resistito perché si è riconvertita a campanile. E lì sotto c’è il monumento al personaggio più famoso della cittadina: Agostino De Pretis, che dopo essere stato sindaco di Stradella è diventato per nove volte (quindi più di Andreotti) Presidente del Consiglio. Lui, socialista molto moderato, è stato l’artefice del primo compromesso storico – da cui il termine “trasformismo” – con il conservatore Marco Minghetti. Poi ha tolto la famigerata tassa sul macinato, ha istituito l’istruzione obbligatoria, gratuita e laica fino ai nove anni. Ma De Pretis non è l’unica personalità di Stradella, c’è anche Pietro Trespidi, un geniale inventore meccanico che ha trasformato Stradella nella capitale del motociclismo. È infatti per la sua influenza che sono sorte diverse marche di motorette, Ardito e Alpino ad esempio. Io ho avuto la fortuna di incontrare per strada una sorta di sfilata del Moto Club di Stradella, con una serie di modelli strepitosi, perfettamente conservati e funzionanti. Gli affari delle varie fabbriche andavano bene, purtroppo a un certo punto hanno spedito un intero bastimento di moto in Argentina, ma Peron ha pensato bene di requisirle per cui sono tutti andati in fallimento.

Ma il terzo personaggio è senza dubbio Mariano Dallapè, che ha una storia incredibile. Siamo nella seconda metà del 1800, Mariano è trentino, poverissimo, e parte a piedi per andare a Genova e da lì imbarcarsi per l’America. Qui lavora per guadagnarsi il viaggio ma si infortuna gravemente: resta zoppo e deve rinunciare al sogno americano. Torna tristemente verso casa, in Trentino, guadagnandosi da mangiare lungo la strada suonando un organetto. Arrivato a Stradella l’organetto… si rompe – roba che neanche il libro Cuore! – Mariano chiede di aiutarlo ad aggiustarlo, ma nessuno se lo fila. Allora ci prova lui, accrocca una cosa con tasti vari, molle, mantici usati e… inventa la fisarmonica! Dopodiché comincia a produrle, diventa ricco e famoso ed è chiamato in pompa magna all’EXPO di Parigi del 1900, per ricevere un premio. Negli anni seguenti Stradella è la capitale mondiale della fisarmonica: su 10.000 abitanti, 1.200 lavorano nelle varie fabbriche di questo strumento. A Stradella resta la fabbrica Dallapè, che ha funzionato fino a cinque-sei anni fa e ora è un meraviglioso esempio di archeologia industriale. Ma soprattutto a Stradella c’è un interessante Museo della Fisarmonica, dove è possibile conoscere la perizia artigiana dietro questi magnifici strumenti e dove c’è una raccolta di esemplari molto belli, prima fra tutti la capostipite di Dallapè, del 1876. A questo punto ho recuperato la mia bicicletta e ho ripreso il treno da Stradella per Milano…

Patrizio

[I video del viaggio di Patrizio sul sito della Fondazione per lo sviluppo dell’Oltrepò Pavese]