Cronaca di un breve viaggio… A Capraia di LI

Giovedì 12 Luglio 2001   Ore 2.00. Ci siamo svegliati dopo appena tre ore di sonno. La sera siamo andati da una coppia di nostri amici, Silvana e Fabrizio. Loro erano già stati a Capraia così ci siamo fatti dare un po' di consigli su cosa vedere e come organizzarci. Certo levarsi dal letto alle due è pesa ma si trattava in ogni caso di un...
Scritto da: Gianluca Fagioli
cronaca di un breve viaggio... a capraia di li
Partenza il: 12/07/2001
Ritorno il: 15/07/2001
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 500 €
Giovedì 12 Luglio 2001   Ore 2.00. Ci siamo svegliati dopo appena tre ore di sonno. La sera siamo andati da una coppia di nostri amici, Silvana e Fabrizio. Loro erano già stati a Capraia così ci siamo fatti dare un po’ di consigli su cosa vedere e come organizzarci. Certo levarsi dal letto alle due è pesa ma si trattava in ogni caso di un super fine settimana. Non avessimo sfruttato l’intera giornata ce ne saremmo pentiti!  A Livorno il traghetto è partito alle 4.50 e poco dopo era visibile il crepuscolo. Al largo della Meloria – le famose secche davanti al porto di Livorno dove i pisani son stati sconfitti dalla flotta genovese nel 1284 – il mare si è fatto agitato e malgrado fossimo su un traghetto per le auto, quindi abbastanza grande, tutto è iniziato ad ondeggiare. E più si prendeva il largo più il traghetto s’impennava contro le onde, lanciando spruzzi di acqua su tutto il ponte. Il mare colpito dai raggi del sole basso sull’orizzonte alle nostre spalle era nero come la pece. Le creste lontane erano quasi immobili, sembrava di non essere sull’acqua ma su un liquido vischioso come metallo fuso. Dal ponte superiore quando la nave s’impuntava riuscivamo a vedere la linea del mare, di solito coperta dal ponte di comando. Max ha avuto qualche problema con lo stomaco… Mentre io mi sono messo a chiaccherare con un marinaio della Toremar che raccontava dei venti e delle correnti di quel tratto di mare. Dopo due ore di traversata ecco apparire le scogliere di  Capraia, in pietra vulcanica rossa. A causa del vento abbiamo attraccato con mezz’ora di ritardo. Infatti, il porticciolo non è granché messo bene e spesso, raccontava l’ amico marinaio, d’inverno la nave rimane al largo ed una lancia trasporta merci e passeggeri da e verso il molo. Appena scesi ci si rende conto di essere in una parte di Toscana, d’Italia, lontana da tutto. Il silenzio. Ecco, è la prima cosa che si sente. L’assenza d’auto e di folla è la prima caratteristica che si scopre della Capraia. Ci siamo messi ad un tavolo del bar, fatto colazione. Lentamente Max riprendeva colore e forza. Il peggio era passato. Poi l’incontro col tipo dell’agenzia immobiliare, il quale, con una certa indolenza, ci ha indicato la casa che avevamo prenotato. Una strada asfaltata, l’unica di tutta l’isola, meno di un chilometro, porta a Capraia Castello dove la mole del Mastio, in parte crollato in mare, sovrasta il resto delle case. Ad unire i due paesetti c’è un autobus che per mille lire ti porta armi e bagagli in su e giù per la strada dalle sette del mattino all’una di notte. Povero autista, sempre la stessa strada! La nostra casetta è nel centro del paese. Dalle finestre della camera da letto si vede il mare, e la scogliera, sulla sinistra. Mi sdraio sul letto e la finestra è talmente bassa che riesco a vedere l’azzurro del mare. Perfetto!! Mi piace svegliarmi e vedere l’orizzonte dalla finestra. La stanchezza si fa sentire ma l’isola con i suoi sentieri e la sua natura selvaggia ci aspetta. Una breve visita al negozio d’alimentari sotto casa – Max non può farne a meno, anche se fossimo pieni di viveri un’occhiata al bancone deve sempre darla, deformazione professionale… – e le provviste son fatte. Affrontiamo il primo itinerario: ex colonia penale.

Ore 11.00, partenza. Ci mettiamo in cammino e dopo essere scesi di nuovo al porto per l’antica via romana, una scalinata acciottolata, iniziamo di nuovo la salita verso le strutture del carcere. La colonia penale è stata chiusa anni fa e tutte le strutture che la compongono, arroccate sulle colline intorno al porto, sono in totale abbandono. Tutto intorno possenti muri a secco testimoniano le coltivazioni che un tempo occupavano terreni che adesso sono solo macchia e sterpi. Panorama retrospettivo sul porto e sul mare. Via via che si sale per la strada sempre più ampio si fa’ l’orizzonte azzurro. A destra e sinistra ogni tanto una struttura, una garitta, le docce, le celle, la stalla, le cucine, strutture delle quali è più o meno riconoscibile l’antico uso. Arriviamo all’ultima costruzione  e ci fermiamo per mangiare. Il sole è implacabile, meno male che una brezza a tratti violenta rinfresca i nostri corpi accaldati, affaticati e stanchi. Siamo in piedi già da dodici ore. Dopo che ci siamo rifocillati e riposati, scattiamo qualche foto. Poi ci mettiamo su una vecchia struttura piana e prendiamo il sole, stesi sugli asciugamani. Ci assopiamo. Svegliati dal grido dei gabbiani e col sole di nuovo forte sulle nostre teste ci rimettiamo in cammino per arrivare in cima alla cresta montagnosa dove il sentiero finisce e la montagna cala a picco sul mare. Dopo un’altra ora di cammino lo stradello acciottolato – ma qui è tutto un ciottolo, tutte pietre appena sbozzate, dure, taglienti, scomode! – diventa un sentiero completamente invaso dalla macchia mediterranea. I profumi sono forti, da ogni parte escono uccelli d’ogni foggia e colore, i gabbiani ed i corvi strillano disturbati dal nostro arrivo. La cresta rocciosa è vicina, l’orizzonte si apre, la vista della scogliera che scende verso il mare quasi a perpendicolo è mozzafiato e vicinissimo si vede Capo Corso. France Telecom ci dà il benvenuto sui nostri cellulari. E’ come fossimo già in Francia! Ci spogliamo e tutti nudi ci mettiamo sulle rocce a prendere il sole. Con i nostri corpi al sole rendiamo omaggio alla terra, all’aria, al mare che ci circondano. (E’ come celebrare un rito antico in onore di fauni e ninfe che in questo scorcio di natura incontaminata sicuramente dimorano.) Saremmo potuti sprofondare in mare e non ce ne saremmo accorti. Ci svegliamo da questo sogno e la fatica si fa sentire. Le gambe tremano ma bisogna tornare al castello. Al ritorno decidiamo senz’altro di prendere una comoda scorciatoia: “Un po’ ripida, ma almeno ci risparmiamo un po’ di strada”. E finisce che ci ritroviamo in un ampia zona terrazzata, invasa da sterpi, corbezzoli, scope, spine, formiche, ragni, conigli selvatici. Tornare indietro neppure a parlarne, troppo ripida la strada. Niente. Si prosegue a colpi di machete – beh, in realtà sono le nostre mani, ma sai com’è, con la fantasia che ci si ritrova… Saltiamo i muri di sostegno e scendiamo verso delle case. Dopo mezz’ora di percorso accidentato eccoci alla civiltà. Siamo completamente coperti di polline polvere rgnatele e ragnetti incazzati. Veramente sudici e appiccicosi, sudati e puzzolenti! Casa, arriviamo! Scorciatoia? Abbiamo durato fatica per trovarci poco sotto a dove eravamo prima di prendere il sentiero nella macchia.

Ore 19 Arrivo a casa. Abbiamo percorso quindici chilometri e poco più di 400 metri di dislivello in salita e discesa. Non è molto, ma aggiungi dodici ore di veglia ed uno stomaco sottosopra! Doccia, la cena e finalmente il letto. Vedo con un occhio il faro nel mare, lo apro lo chiudo… Sonno profondo, mi sembra di ondeggiare. Max dormi? Che senti? E’ come se fossi ancora sul traghetto, mi sento muovere, ondeggiare… Anche io… Zzz…   Venerdì 13 Luglio 2001   Ore 8.30 Sveglia!!! Dai dormiamo ancora! No voglio uscire, dai muoviti. Vai tu a comprare il pane. No io preparo il resto, tocca a te stavolta. Che palle… Dove si va oggi? Il mare è mosso, non si può prendere la barca per fare il giro. Telefoniamo. “Sì, è troppo mosso, consigliamo di non uscire”. Piano B. Alle dieci mettiamo il naso fuori casa, diretti verso una delle cime più alte dell’isola: Monte Arpagna. Uno stradello sterrato conduce quasi in piano al vecchio sito del paese medioevale chiamato “Il Piano”. Poco prima di arrivare al lato dello stradello basolato con queste pietre aguzze, c’è un masso liscio chiamato “Descu du mortu”. Si tratta di un’antica colata lavica, forse utilizzata per esporre i morti durante il rito funebre. Arrivati al Piano s’intravedono tra la fitta macchia mediterranea i residui dei campi coltivati circondati da muri a secco e da qualche rovina, forse un tempo stalle e case. Al centro del sito troviamo la chiesetta medioevale di Santo Stefano, restaurata di recente, secondo la guida; di nuovo in rovina secondo noi. Una parte del pianoro è stata ripulita dalla macchia e secondo un cartello sembra che grazie ai contributi europei dovrebbero reintrodurre la coltura della vite. Infatti, sull’isola era prodotto un tipo particolare di vino bianco chiamato Rappo. Un’occasione per recuperare una tradizione antica in questa pietraia. Un piccolo sentiero conduce verso una cala., antico approdo al paese. In pratica, escluso il porto moderno, lungo tutto il perimetro dell’isola è molto difficile accedere al mare dall’interno, a causa delle ripide falesie e non si può certo fare del classico turismo balneare.

Lasciamo questo luogo e dopo un tratto di basolato molto suggestivo il sentiero comincia a salire. In questo tratto si marcia lungo una mulattiera in pietra, sollevata dal suolo di circa mezzo metro, folta macchia tutt’intorno. Una specie di antica superstrada. Sulla sinistra si scorge il tetto di una specie di piccolo nuraghe. La Sardegna non è poi lontana, chissà, forse il rifugio di un pastore. Di ombranon se ne parla ed il caldo si fa sentire. In tutta l’isola non c’è una sola sorgente perenne di acqua dolce. Anche l’acqua utilizzata in paese è portata da navi cisterna chiamate “bettoline”. Per questa ragione abbiamo con noi una certa scorta d’acqua, che appesantisce di molto i nostri zaini, rendendo il passo abbastanza faticoso. Dobbiamo ricordarci di essere parsimoniosi nel bere. S’imparano ad apprezzare molte cose in un posto come questo… Altro che drink colorati in mezzo alle palme! Il sentiero s’inerpica, troviamo deviazioni, indicazioni per altri luoghi suggestivi – Lo Stagnone, unica zona umida dell’arcipelago toscano, incastonato tra le montagne, che a primavera diventa una distesa omogenea di piante acquatiche in fiore – poi dei tornanti e miracolo, una fontana! Dai bagnamoci, finalmente un po’ di refrigerio! Apriamo il rubinetto ed esce un filino di acqua che ci precipitiamo a raccogliere con i berretti e le mani, ma è un attimo. L’acqua emana un fetore di carogna insopportabile! Si tratta di acqua rafferma, marcia. Il danno è fatto: i cappellini sono inutilizzabili, le mani puzzano. Ci tocca utilizzare una parte delle scorte di acqua potabile per darci una pulita. Che spreco e che leggerezza da parte nostra! Saliamo ancora, fa caldo, ma la brezza ci concede momenti di frescura. Ogni tanto qualche serpolina verde e nera attraversa la mulattiera molto lentamente, sono curiose, non hanno paura. Arrivati in cima alla cresta montagnosa siamo investiti dal vento proveniente dalla Corsica. Qualche coniglio selvatico sbuca dalla macchia per poi scomparire di nuovo. Qualche rudere di vecchi alloggi. I toponimi sono esplicativi: Casa dei Marinai, Casa del Capitano. Dalla cima vediamo in basso una piccola isola chiamata “dei Gabbiani”. Si notano, infatti, centinaia di gabbiani con i loro nidi. Se ne stanno placidamente al sole od occupati nella pesca in mare e ti fanno subito capire che questa è casa loro sommergendoti di grida acute. Questo tratto di mare è riserva integrale e non è permesso né l’approdo né la navigazione sotto costa di nessun tipo di imbarcazione. Proseguiamo e in vista del Monte Arpagna decidiamo di deviare per arrivare alla cala de Le Cote. Siamo a quota 350 metri, e con un cammino di  850 metri arriveremo a quota zero! Fai tu il calcolo della pendenza di questo sentiero! Iniziamo la lenta discesa tra la macchia. Poi il sentiero inizia a scendere rapidamente con ampi gradoni e scompare al di sotto della vegetazione. Si entra come in un tunnel formato da corbezzoli, rosmarino, scope ed altre piante tipiche della macchia mediterranea. Il sentiero scende come in un budello e le fronde sono così fitte che il sole passa a fatica. L’aria è freschissima in confronto a prima. Sembra di essere lungo un’antica scala azteca in una foresta centroamericana.

Dopo molto scendere – …Oddìo pensiamo già alla risalita – usciamo da questa foresta e davanti a noi si apre uno spettacolo mozzafiato. A destra, tutta la costa est dell’isola con le falesie rosse e i gabbiani di varie specie che volteggiano da ogni parte. Iniziamo la nuova discesa al mare lungo un sentiero appena tracciato tra i massi taglienti e segnati dal guano. Ci fanno da guida le montagnole di sassi chiamati “omini”, che indicano la strada. Ormai il mare è vicino. L’ultimo tratto è proprio una discesa sulle rocce. Lasciamo gli zaini in un anfratto e per gli ultimi dieci metri ci caliamo sfruttando gli appigli spigolosi della parete rocciosa. Eccoci arrivati alla cala delle Cote, un piccolo pianoro roccioso piatto dove si prende il sole benissimo ed è possibile tuffarsi nel mare. Il mare è subito profondo, di un blu cobalto, pesci in quantità, e le posidonie che ondeggiano lente. Ci rilassiamo dopo la faticaccia. Bagno, sole e… Il sole picchia proprio forte, le spalle bruciano. Risaliamo le rocce, le gambe non tengono. Prendiamo la via del ritorno. Non c’è un filo d’aria, da suicidio.. Prima di arrivare al tunnel ombroso mi verrà un infarto. Che fatica. Ma chi cavolo ce lo fa fare, per un bagno di mezz’ora! Ci fermiamo a riprendere fiato tre quattro volte. Arrivati in cima ci prendiamo una lunga pausa all’ombra di quel che resta della casa dei Marinai. Mangiamo i nostri panini e ci mettiamo a sonnecchiare. Nessuno in vista. L’isola è piccola ma ci si nasconde benissimo. Siamo al primo pomeriggio e ci incamminiamo per il ritorno. Arriviamo al paese alle 18.30. Doccia, la cena, un po’ di riposo e la sera usciamo per godere della vita notturna (!). Facciamo un giro al castello illuminato. Poi andiamo verso la torre della capitaneria di porto e lì troviamo un bel ragazzo che tutto solo suona la chitarra e ci fa da cornice musicale romantica. Una volta scesi al porticciolo, dritti verso un bar e giù roba frizzante ghiacciata tipo vodka al limone. Altre coppie di turisti. Qualche grande barca ormeggiata nel porto, a bordo danarosi signori con addosso vestitini da yacthing… Basta essere convinti… Ed i paesani, a giocare a briscola. Niente musica a tutto volume. Risate improvvise, qualche cane, qualche gatto sui muri più alti. E’ vita di paese. Ci si rilassa, non si pensa a niente e tra i pantaloni le erezioni si fanno frequenti perché è il ritmo del corpo e della natura che detta legge e non il lavoro e la nostra frenetica vita da continentali. Una sigaretta – sigh avevamo smesso ma la tentazione al rilassamento totale è troppo forte – e poi di nuovo a nanna.

Sabato 14 Luglio 2001   Ore 9.00 Ce la siamo presa comoda oggi. Un po’ perché è sabato un po’ perché non abbiamo in programma nessuna escursione terrestre. Mi affaccio al balconcino e vedo il mare calmo. Non c’è vento. Ottimo. Max telefona e prenota una barca. Oggi è il giorno della gita in mare. Dopo la colazione scendiamo al porto. Andiamo dal ragazzo che ci dà le istruzioni su cosa fare e come manovrare la barchina noleggiata per 90.000 lire – ma abbiamo scelto il modello con la tendina, nevvero. Aggiungi altre trentamila lire di miscela e sei pronto a scorrazzare per mare tutto il giorno. Poco prima di noi una coppia, ragazzo e ragazza, ha preso il mare a tutto gas, causando un gran casino nelle manovre e facendo spazientire i responsabili del noleggio. Max invece con fare calmo ed in perfetta sintonia con i comandi è partito senza fare alcun danno (sì, lo ammetto, temevo molto peggio, essendo la prima volta che ci si metteva in barca) Anche io sono salito sulla barca senza difficoltà, dal molo prima di saltar su pensavo già di finire in acqua. Presa confidenza col motore siamo usciti dal piccolo porto stando attenti agli scogli affioranti e poi in mare aperto abbiam preso velocità. A Max dicevo di dare gas. Devo dire che da subito ci è presa una gran risaiola per quello che stavamo facendo. A destra vedevamo il castello mezzo crollato in mare e, dietro la falesia, le case del paese e pure il tetto della nostra. Alla base della scogliera alcune rocce piatte occupate da bagnanti arrivati lì per una scalinata. Vicino a loro una vecchia torretta circolare che nasconde all’interno – lo si intuisce dalla disposizione delle finestre – una scala a chiocciola, antica discesa al mare ora in restauro. Il mare si fa subito profondo. Sono sessanta settanta metri di profondità e più ci si allontana, più aumenta. Viaggiamo a bassa velocità in direzione della prima caletta. Breve sosta sotto le rocce a strapiombo, gabbiani dappertutto. Getto l’ancora, anche per capire come funziona. Qui si può vedere il fondo, in parte sabbioso ed in parte roccioso. Un tappeto di alghe copre parte in sabbia, ci sono pesci in abbondanza. Ho quasi l’impressione che se ne stiano vicini alla barca come succede agli animali dello zoo, in attesa di pezzi di cibo. Mi butto in acqua… È fredda! Peccato non avere una maschera. Vado sotto, apro gli occhi e mi rendo conto che il fondo non è poi così vicino. Provo ad andare giù ma le mie orecchie non proprio in salute mi sconsigliano di insistere nella discesa. Mi faccio buttare il salvagente e vado in giro con quello… Divertente. Arriva un altra barca. Ripartiamo dopo aver levato l’ancora. E’ facile. Facciamo così per un paio di calette, alcune deserte altre no. E’ divertente ed i gabbiani in alto stanno attenti ai nostri movimenti. Provo a gettare un pezzo di focaccia in mare. Ecco che dall’alto si tuffano subito giù, cercando di afferrare il pezzo. E’ bello vedere questi uccelli in azione. Altre persone che han visto il mio gesto fanno lo stesso. Ecco, è il momento di andarcene. Dopo circa due ore arriviamo alla famosa Cala Rossa. E’ ciò che rimane di un antico camino vulcanico. L’ambiente è veramente suggestivo. Una parte della scogliera è completamente composta di pietra lavica rossa, mentre una parte è chiara, e così si crea un possente contrasto. Sulla sinistra, sul promontorio, una torre fa la guarda a questo luogo. Facciamo – nel limite dell’ondeggiare della barchetta – alcune foto. Proseguiamo il viaggio ed aggiriamo la Punta dello Zenobito, la parte più meridionale dell’isola. La scogliera è alta, la navigazione procede senza problemi. A sud si vede il monte Capanne, sull’Elba, a sud-est la Corsica. La giornata è limpida e sicuramente in alto mare tira vento. Ehi, sto diventando un marinaio. Speriamo di imbatterci in qualche cetaceo ma niente per adesso. Dai Max fammi provare a me, è tutto il tempo che guidi tu! Quello ci ha proprio preso gusto. Guido un po’ io ma preferisco fare il mozzo, ci si muove di più. Da una barchetta ancorata vicino alla costa due persone gesticolano. Dobbiamo andare a vedere, forse han dei problemi. Non si può fare finta di niente. Che palle! Ora magari ci tocca portarli indietro. Andiamo a vedere. Ci avviciniamo. Sono un uomo ed una donna – credo che Max ed io siamo gli unici maschi in coppia sull’isola. La loro àncora si è bloccata tra le rocce. Non è che uno di voi due si butterebbe a disincagliarla? Mmm, veramente noi non siamo esperti, anzi meglio che non ci proviamo neppure, meglio proseguire e se vediamo qualcuno ve lo mandiamo, ok? Provate di nuovo. Ripartiamo mentre i due si rimettono ad armeggiare… Qualcosa mi convince poco. Arriviamo finalmente, dopo aver oltrepassato la Grotta della Foca – antico luogo dove viveva l’ormai estinta foca monaca – alla cala de Le Cote, dove eravamo arrivati a piedi il giorno prima. Una bella differenza rispetto alla sfaticata di ieri. Al posto nostro erano arrivati fin lì a piedi tre ragazze ed un ragazzo. Buttiamo l’ancora. Il gruppo ci osserva, confabulano tra loro ma son lontani per capire cosa dicono. Noi ci mettiamo comodi per prendere il sole sulla barca, con la testa all’ombra della tendina – comodissima perché in mare non ci si accorge di quanto il sole sia forte. Poco dopo sentiamo un tuffo e vediamo avvicinarsi il ragazzo. Arriva alla barca, ci saluta e chiede se può salire. E’ piuttosto carino. Sui trent’anni. Spiega: “ragazzi, abbiamo un problema. Una ragazza del nostro gruppo ha messo un piede su un riccio ed adesso non può rifare la strada del ritorno.” Eh si, lo sappiamo bene, per noi non ci son problemi a riportarla al porto solo che torniamo verso le sei del pomeriggio per cui dovete aspettare. Ok adesso le dico che siete disponibili e poi vi faccio sapere. Intanto prendi il giubbottino salvagente, glielo porti così se vuole, può nuotare fin qui senza durare troppa fatica. Il ragazzo torna dalle sue amiche. Max si rimette a prendere il sole, mentre io troppo curioso mi butto in acqua e vado da questo gruppetto.

Arrivato a riva mi sono presentato al gruppo ed abbiamo fatto un po’ di chiacchiere come accade in circostanze del genere. I quattro vengono da Sondrio. La ragazza che si stava togliendo le spine dal piede era veramente carina, alta, belle gambe, la modella, l’oca del gruppo. La più grande, abbastanza carina, era l’intellettuale. Appassionata della Toscana mi ha chiesto subito notizie sui monumenti di Pistoia. La più giovane ed anche la più bruttina era la classica valtellinese, un po’ scontrosa, burbera, diffidente. Ricordo solo il nome di lui: Alberto. E una sua domanda particolare. Ma siete colleghi? Riferito a Max e me. La domanda l’ho trovata vagamente stupida. Che senso ha chiedere a due amici – è così che ci vede la gente che non ci conosce – se sono colleghi. Forse voleva chiedere altro ma non poteva farlo e le ragazze furbette qualche battuta sulla sua virilità l’hanno fatta. Poi mi han chiesto di Max. Lui non viene – ho detto – perché nuota male e vuol prendere il sole nudo. Le ragazze si son un po’ agitate. Mi sembravano più sveglie di quanto volevano farmi credere. Saluto tutti e torno da Max. Dopo poco è arrivata una barchetta, ma guarda sono i tipi dell’ancora incagliata. Ci fanno un gesto di saluto e gridano che sono stati aiutati da un tipo di passaggio. Poi l’uomo indossa una muta da sub e si tuffa! Ma allora perché poco prima ci hanno chiesto di tuffarci per aiutarli??? Mah, s’incotra proprio gente di tutti i tipi! Intanto continuo a fare dentro e fuori… Sguazzo come un pesciolino! Arriva il momento di ripartire. Salutiamo il gruppetto e prima di levare l’ancora lasciamo loro un paio di litri d’acqua. Sono rimasti senza nemmeno una gaccia e di sicuro alla fine della salita avranno bisogno di un sorso o due d’acqua ormai tiepida. Ci allontaniamo in fretta. Alle diciotto è prevista la restituzione dell’imbarcazione e siamo un po’ in ritardo. Il ritorno è duro. Il mare è leggermente mosso e il vento contrario. Andiamo piano, facendo a gara con le altre barche di ritorno. Una volta ormeggiato e scesi dalla barca mi sembra ancora di ondeggiare. E pensare che per tutto il tempo della gita in mare non abbiamo toccato cibo. Non so ma son stato tutto il tempo con un leggero fastidio allo stomaco. Bello quanto si vuole ma in fondo siamo uomini di montagna, meglio la terraferma. Al bar ci prendiamo la solita bibita frizzante e poi via a piedi verso il castello. Ci rendiamo subito conto di aver preso troppo sole. Mi scottano il collo, le braccia e le gambe. La testa è bollente. A casa doccia fredda e crema doposole in abbondanza ma la sgradevole sensazione non passa. Cena a casa e poi giù al porto per … “la solita bibita ecc ecc”, a sfoggiare le nostre ustioni. Cerchiamo i nostri amici del pomeriggio, avevamo fissato un mezzo appuntamento, ma non li troviamo. La strada del ritorno sarà stata fatale? Tutti morti per la strada? Ho sonno, ci penseremo domani. Che palle, è l’ultimo giorno. Sì, è già finita. Peccato. Per quest’anno le ferie son tutte qui. Certo ci siamo fatte delle minivacanze, prima a Venezia poi qua. Con quello che abbiamo speso avremmo fatto una crociera. Tutto vero, ma così è più divertente, originale. Sì, vero. Che caldo che fa stasera. Non è caldo è solo che ci siam presi un’insolazione. Domani mattina ci si alza quando ci pare, niente sveglia! Ok, notte. Notte. Troppo stanco per pensare a qualcosa… Alberto… Le ragazze… La barca… Zzz…   Domenica 15 Luglio 2001   Eccoci all’ultimo giorno, un po’ tristi, un po’ contenti. Capraia è un’isola molto bella ma come tutte le isole piccole dopo un po’ non c’è più niente da fare. Ma è strano non potersi lasciare andare al ritmo degli abitanti, al dolce far niente e lasciare libera la mente di spaziare ovunque. Non siamo abituati a dilatare con la mente questo spazio ristretto e renderlo infinitamente grande con l’ozio e la fantasia. Al mattino, dopo aver fatto le valigie prepariamo le ultime cose ed usciamo per andare a vedere e fare il bagno alla Torre del Bagno. E’ mattina inoltrata, sarà difficile trovare un posto libero sugli scogli. Dovremo sicuramente accontentarci. Dall’alto della scogliera non riusciamo a vedere giù. Un dedalo di sentieri si dirige disordinato verso il mare. Quale seguire? Proviamo e dopo vari tentativi andati a vuoto, indoviniamo e ci troviamo sul tetto della Torretta. In effetti l’interno è occupato da quel che resta della scala a chiocciola. Cartelli indicano i lavori in corso ed il divieto nonché il pericolo per chi prosegue! Max insiste per tornare indietro – l’Imprinting Svizzero è veramente fatale talvolta per il suo delicato cervellino – faccio finta di non sentirlo. Figurati se un cartello di divieto mi basta per desistere. Devo accertare per conto mio ed un divieto d’accesso ad un area naturalistica o archeologica è un invito aperto a proseguire. Ehi, vieni e vedrai qualcosa di bello, precluso ai più. Il sentiero arriva al mare attraverso vari tagli nella roccia. Arrivati sugli scogli piatti, è abbastanza facile salterellare tra un masso e l’altro e scansare la gente. Oddìo son già nervoso. Essere al mare ed avere gente a meno di cinque metri di distanza mi mette in subbuglio. Troppo geloso dello spazio vitale attorno a me! Scoviamo un angolo libero. Una coppia assortita di forse tedeschi da una parte – veramente curiosi ma mi ispirano simpatia: lei grassona ma soda con una faccia buona, lui piccolo magro, molto tatuato, un minivichingo, faccetta furba – e persone singole. Mi preoccupa solo un gruppo numeroso di ragazzi lì vicino. Aspetto poco simpatico, vedo troppe chiome di capelli appiccicaticci tipo rasta o come diavolo li chiamano. Ed infatti dopo poco uno stronzetto inizia a suonare un tamburello simil-etnico a modo di africani nella savana. Cazzo se c’è una cosa che odio – ma forse oggi son più incazzato del solito – è questo rumore in questo posto così fuori luogo. Max ed io iniziamo una dissertazione sul ritmo e sul fatto che le sette note per me son peggio del cinese. Mi distraggo guardando il mare e pensando a come fare a buttarmi – facile – e risalire sugli scogli – difficile. La cicciona – Max assicura olandese o tedesca – mi viene in aiuto. Si tuffa e risale da quelle che sembrano delle scalette naturali nella roccia. I ragazzi con i loro schiamazzi iniziano a disturbarmi notevolmente, ma di molto!! Sono sul punto di esplodere ma tanto so di non aver il coraggio di dire niente. Un colpo di vento un po’ forte getta due bottiglie vuote verso di noi, una mi sfiora un piede, l’altra colpisce il tedesco che la ferma. Porca mad…, possibile che ‘sti burini devono venire finquà a rompere i coglioni col loro sudicio?!? E sta’ zitto mi fa Max. I ragazzi non mi han sentito ma la mamma di uno di loro sì ( forse è più appropriato dire “la guardiana”, ma lasciamo stare). Si alza a raccogliere la bottiglia e le carte che i ragazzi hanno lasciato in giro. Mi guarda male. Va verso i ragazzi e poco dopo aver confabulato se ne vanno tutti. Uno strano gruppo comunque. Ah, che pace adesso, la coppia tedesca mi lancia uno sguardo d’intesa. Decisamente meglio così! Mi tuffo. Mare blu cobalto come sempre. Acqua fresca – più corroborante che in spiaggia, di solito di questi tempi caldiccia. Mi ricorda il bagno nell’oceano a Lisbona, veramente una botta di energia. Ci rilassiamo. Il tempo sta veramente per scadere. Strada inversa e di nuovo, nel tentativo di prendere una scorciatoia, ci perdiamo per la brughiera. In quest’isola sembra tutto vicino ma come sbagli sentiero di ritrovi con la meta a portata di mano ma bloccato nei rovi. Casa, casa, una doccia ci aspetta, il pranzo e poi al traghetto. Chi fa la doccia? Io io io, va bene prima tu. Gianluca!? Vieni a vedere. Che c’è? ODDìO, non c’è acqua. Ma come? Proprio l’ultimo giorno? Senz’acqua!? Il cirivìddo ribolle ma poi pensi allo spreco, ai bambini poveri e tutto il resto… Sì cazzo ma io avevo bisogno di una doccia. Comunque sono più fortunato di Max, dal momento che almeno il bango in mare l’ho fatto. Pranziamo con i panini e ci avviamo mesti con i bagagli al traghetto. Domenica pomeriggio, al porto vediamo un sacco di gente che si appresta a tornare sul continente. Ma dove diavolo era tutta questa gente? Proprio su uno scoglio non siamo. Un’ultima bevuta e poi dopo aver fatto i biglietti ci prendiamo i posti sul ponte. Stessa nave dell’andata e stessi marinai. Ore 19 partenza per il continente. Sul ponte, gli ultimi sguardi verso l’isola solitaria. Il mare calmo ed afa nell’aria. Livorno non si vede. Mi sporgo dal parapetto per fumare una sigaretta ed ecco avvicinarsi un uomo basso, sessantenne con la voglia di chiacchierare. Uh che palle mi tocca far il ragazzo educato ma in momenti come questo io mi guardo l’orizzonte e penso e volo lontano. Non mi capita mai di annoiarmi quando sono da solo. Mi capita più spesso di esserlo quando sono in compagnia. L’ometto però mi risulta utile per aver chiarimenti su un paio di cose dell’isola che mi erano sfuggite. Mi racconta di essere un abituale ospite dell’isola perché appassionato di pesca. Mi spiega che il mare intorno all’isola è pieno di pesce e anche di aragoste, delle quali è ghiotto. Parliamo della situazione dell’isola, del turismo nascente. Della mancanza dell’acqua. Mi rivela che l’acqua sull’isola c’è ma preferiscono farla arrivare dal continente perché la paga la provincia e loro la rivendono – non tutti gli abitanti certo – a nero, al porto, alle grandi barche di passaggio. Ed essendo l’approdo al porto gratuito le barche dei ricconi che ne approfittano sono molte. Che dire, la solita furberia italiana. Il viaggio prosegue tranquillo. Nessun intoppo. Arriviamo a Livorno e sotto una cappa umida prendiamo l’auto e ce ne torniamo a casa. Sì a casa, dove mi aspetta la doccia nel capanno in giardino e le fresche lenzuola del mio letto. E’ piuttosto tardi, quasi mezzanotte e domani è già giorno di lavoro ma non è possibile rinunciare alla doccia. La doccia e poi di nuovo il mio letto. Mi accarezzo la pelle che col sole è vellutata, mi piace. Sono stanco, ci penserò domani. Notte…

Gianluca.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche