Antica Persia

Breve ma intenso tuffo in una civiltà millenaria che ha saputo piegare tutti i conquistatori assimilandoli nella propria cultura
Scritto da: mapko64
antica persia
Partenza il: 29/05/2014
Ritorno il: 08/06/2014
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
Questo racconto è il frutto di un viaggio nella Persia centrale, o meglio, come direbbero i locali, nel cuore della terra degli ari, un breve ma intenso tuffo nella civiltà millenaria di questo popolo.

Le vicende degli ultimi decenni sembrano avere cancellato, nell’immaginario comune di noi occidentali, il ricordo che l’Iran è l’erede dell’antica Persia. Durante il mio viaggio invece ho avuto modo di verificare come l’attuale repubblica islamica non sia riuscita a scalfire più di tanto una civiltà millenaria, condizionando solo in parte la vita di tutti i giorni: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’elemento religioso è presente, ma appare spesso in secondo piano, meno pressante che in altri stati islamici. Il governo teocratico sembra avere allentato la presa sulla gente; in giro non si vede polizia, le moschee sono luoghi nei quali pregare, ma anche cercare un riparo nelle ore calde e passare una serata in compagnia. La ritualità, con le abluzioni, e l’architettura, con gli ampi spazi ombreggiati, sono elementi funzionali alla necessità di offrire ristoro nel clima infuocato del paese: la moschea diventa quindi copiosa dispensatrice di preziosi beni terreni, quali l’acqua e l’ombra, oltre che spirituali.

Salendo su un autobus pubblico, diviso in settori separati per i due sessi, di fronte alle nere figure delle donne avvolte nei chador, la laicità dell’Iran tuttavia mi è sembrata crollare come un castello di carte. La repubblica islamica torna prepotentemente a rimarcare la sua presenza, obbligando tutte le donne ad avvolgere il volto in un fazzoletto e spingendo molte, per scelta o costrizione che sia, ad indossare il chador. La paura del proprio corpo sembra poi un’ossessione che riguarda anche gli uomini, tutti rigorosamente con pantaloni lunghi nonostante il clima torrido del paese.

La gente non sembra comunque avere perso la gioia di vivere, che mi è parsa quella di un’indole mediterranea; in nessun altro posto al modo lo straniero viene accolto con tanto calore, fermato per la strada come ospite insolito e gradito. Chiedendo a un passante dove si trovasse un posto per effettuare chiamate internazionali, ho dovuto respingere con fatica l’offerta del suo cellulare per telefonare in Italia; un giovane, vedendomi passeggiare da solo, mi ha fermato e dopo pochi minuti già mi abbracciava felice, come fossi stato l’amico di una vita. In Iran basta sedersi in una piazza e subito qualcuno, desideroso di fare conversazione in inglese, verrà a farti compagnia; molto spesso sono proprio le studentesse che cercano di stabilire il contatto. Nelle chiacchierate emergono personalità interessanti, curiose di conoscere il mondo e morbosamente interessate al giudizio dell’Occidente sulla propria nazione. I commenti sullo stato e il governo sono sempre molto critici, mentre l’orgoglio per la propria civiltà è profondamente radicato. Niente sembra farli più felici di qualche apprezzamento alla loro nazione.

La civiltà iraniana del resto ha prodotto capolavori universali. A Isfahan mi sono sentito parte di una civiltà che potrei definire umana, al di sopra di popoli e nazioni, nella quale il gusto del bello trova terreno nei sensi di ogni uomo, a prescindere dalla sua estrazione e cultura. Nelle classiche geometria delle architetture, il Rinascimento sembra essere arrivato ad Isfahan con qualche secolo di anticipo, mentre il lussureggiante gusto per gli schemi decorativi richiama l’immagine di un Oriente da Mille e Una Notte.

A Persepoli il mondo antico ci ha lasciato interminabili sequenze di bassorilievi, che oltre a proporre la ripetizione codificata delle immagini dei dominatori, medi e persiani, ricordano l’incredibile varietà di popoli della prima entità transnazionale della storia, l’impero achemenide. Stupisce l’attenzione ai particolari, dai tratti somatici delle tante razze fino ai minimi dettagli del loro abbigliamento. A Pasargadae la tomba di Ciro, fondatore di questo impero, appare, oggi come in passato, un isolato sarcofago nella piana bruciata dal sole, tanto da indurre già gli antichi a riflessioni esistenziali sulla condizione umana.

La civiltà iraniana non si ferma comunque ai grandi monumenti: l’uomo ha saputo domare da tempo una terra ostile, grazie a ingegnose tecniche naturali valide ancora oggi, come le torri del vento e i canali sotterranei per l’approvvigionamento idrico. Come si può poi non amare un popolo che venerà ancora i suoi poeti dei secoli passati: a Shiraz la gente si accalca attorno al sepolcro di Hafez, il poeta nazionale, e recita estasiata i suoi versi.

Le tappe del mio tour iraniano sono state Teheran – Kashan – Isfahan – Yazd – Shiraz – Teheran; ed ora il diario di viaggio.

Giovedì 29 maggio: Roma – Teheran – Kashan

Un volo notturno mi porta direttamente a Teheran. Sono le sei del mattino e sbrigo rapidamente le formalità d’ingresso, grazie al visto che ho già sul passaporto. Per acquistare la valuta locale, i Rial, mi consigliano di evitare le banche, che applicano un cambio molto sfavorevole, e ricorrere al chiosco nella hall degli arrivi. Una ragazza con un cerotto sul naso (in Iran scoprirò che rifarsi il naso è uno status symbol) mi comunica però che sono ancora chiusi. Mi rivolgo allora all’ufficio informazioni, dove mi segnalano altri chioschi ma “dentro” gli arrivi, così mi rimandano al primo annunciandomi con l’altoparlante; la ragazza con il naso incerottato mi concede il cambio di cinquanta euro. Una corsa in taxi mi porta al Terminale Sud dei bus, passando davanti al Mausoleo di Khomeini in costruzione proprio lungo l’autostrada. Subito mi intercetta un giovane che si offre di accompagnarmi alla biglietteria dei bus per Kashan. Pochi gradini e raggiungo il mezzo.

Alle sette e mezzo sono di nuovo in viaggio lungo l’autostrada per l’aeroporto, che prosegue verso sud con tre corsie per carreggiata. Il paesaggio è decisamente brullo e monotono. Alle nove l’autostrada lambisce la periferia di Qom, impedendomi la visione del santuario dedicato a Fatima, sorella di Reza ottavo imam, centro teologico sciita e luogo di irradiazione della predicazione di Khomeini. Avvicinandoci a Kashan, il paesaggio si fa meno piatto, ma sempre brullo, con colline di pietra e terra; alcune, piene di ondulazioni come dune di sabbia solidificate, mi ricordano Zabriski Point nella Death Valley americana. Sul bus vengono distribuiti un succo e una merendina a ciascun passeggero.

A Kashan ho prenotato una stanza al Khane Ehsan, ospitato in una casa storica restaurata e dotata persino di una torre del vento. Nella bella corte centrale sono disposti i profondi divani di legno, caratteristici dell’Iran. Inizio subito l’esplorazione della città, raggiungendo la moschea Agha Bozorg. Si dice che la porta d’ingresso abbia un numero di borchie pari ai versetti del corano; ai lati si ergono due torri del vento. La struttura del complesso è particolare: il cortile centrale, infatti, è più in basso rispetto al livello dell’ingresso e della moschea; in mezzo si trova la fontana per le abluzioni, tutto intorno le porte delle celle della madrasa. Dietro sorge il santuario dominato dal grande iwan, sormontato dalla cupola. La sala centrale è aperta su tutti i lati da archi a punta che creano una piacevole corrente di aria fresca; sopra gli archi corre un fregio con iscrizioni coraniche, più in alto la cupola. In un angolo della galleria è collocato il mihrab, in posizione insolitamente decentrata. È molto bello: presenta in basso una fascia di decorazioni a piastrelle, sopra una cornice di pietra con versetti coranici e poi la nicchia con le tradizionali muqarnas. Si tratta del mio primo incontro con questo genere di soluzione decorativa propria dell’architettura musulmana, nata proprio in Iran ed originata dalla suddivisione della superficie di uno spazio concavo in numerose nicchie più piccole, disposte secondo vari schemi tridimensionali. Lo troverò ovunque, oltre che nelle cupole, anche nelle volte e nelle nicchie dei portali.

Nel cortile subito dietro la moschea, anche questo più in basso, è collocata una rete da pallavolo, destinata evidente ai giochi degli studenti della madrasa. Le loro moto sono parcheggiate qua e là nel complesso. Dal retro la cupola di mattoni appare in tutta la sua bellezza: il bulbo si eleva sopra un tamburo con finestre ad arco ogivale, cieche ed aperte alternate, che a sua volta poggia su un grande ottagono. La massa dei mattoni è ravvivata dai due minareti, decorati con piastrelle colorate e culminanti con una loggia che li fa assomigliare ai nostri campanili.

Uscito dalla moschea, raggiungo subito la tomba di Ghotbs Kashani, un mistico vissuto nell’Ottocento. Il mausoleo è una sala quadrata dall’interno immacolato, coperta da una bella cupola a muqarnas interrotta da una calotta centrale con maioliche. In una seconda sala, che risale ai periodi safavide e qajar, due tombe sono coperte di banconote, mentre un’isolita rappresentazione di personaggi umani include anche Maometto.

Uno dei motivi d’interesse di Kashan è rappresentato dalle ricche abitazioni dei mercanti, costruite per lo più nell’Ottocento, durante la grande fioritura dei commerci. Molte si trovano in un quartiere, una decina di minuti a piedi dalla moschea. Ne inizio la visita con la casa Abbasian, formata da vari edifici su più livelli, disposti attorno a tre corti. Sul cortile con fontana al livello più basso affacciano pareti piene di finestre e archi, con decorazioni di stucco. La seconda corte, a croce, è molto più raccolta, con una piccola fontana ottagonale nel mezzo, mentre la sala dell’acqua ha una vasca per immersione che sembra un fonte battesimale. Un terzo grande cortile con fontana presenta un iwan che si leva sopra una struttura leggera di sottili colonne, creando uno strano contrasto; le decorazioni si estendono su vaste superfici. Scesa una scala raggiungo una sorta di cantina estiva. Le sale del livello superiore che affacciano sulla corte sono decorate con specchi e vetrate colorate; in quella centrale, collocata tra i due cortili principali, le finestre, lavorate in pietra e vetro, si fanno raffinatissime. Salgo infine al terzo livello: nella piccola terrazza spicca la torre del vento che arieggia i locali sotterranei dove ero stato prima.

Nella casa Boroojerdi l’elemento più caratteristico è la sala dei ricevimenti, aperta dietro l’iwan in fondo al cortile con lunga vasca: su uno sfondo intonacato bianco, spiccano le decorazioni colorate di nicchie e muqarnas. Gli affreschi alternano rappresentazioni astratte e personaggi, in qualche caso privi dei lineamenti nel volto. Non mancano alcune curiosità, come diavoletti che reggono colonnine. L’effetto è insolito: i ritratti sono di stampo europeo, con uomini in uniforme e donne eleganti, ma l’architettura è persiana. Il bassorilievo con un cavaliere che trafigge un leone ricorda San Giorgio e il drago. La casa è affollata da visitatori iraniani; molte donne sono avvolte da vesti nere, alcune giovani hanno volti bellissimi.

Interrompendo la visita delle abitazioni dei ricchi del passato, raggiungo un antico hammam, recentemente restaurato. Le pareti bianche, decorate con stucchi dai colori delicati, formano un bel contrasto cromatico con le vasche dal fondo azzurro. Un grande ambiente ottagonale, con fontana al centro, è coperto da una cupola a costoloni; seguono una serie di sale caratteristiche delle terme, inclusa una per farsi la barba. Salendo sul tetto, posso ammirare il panorama sulla città e la selva di cupolette delle terme.

Una moschea reca due grandi foto di Khomeini e Khamenei: l’attuale Guida Spirituale della Repubblica Islamica è rappresentato sempre insieme al suo predecessore, per sottolinearne il legame. Khan Tabatabei è un’altra magnifica abitazione. Gli edifici che si affacciano nel grande cortile sono tutti stuccati, con giochi di “trifore” dalle varie forme e dimensioni; magnifici i lavori di specchi e le vetrate colorate. Nel piano superiore bisogna fare attenzione a non cadere, poiché le stanze spesso si aprono nel vuoto e per proseguire la visita si deve tornare sui propri passi. Un secondo cortile non è stato restaurato e le mura di fango mostrano la loro struttura nuda. Negli ambienti di servizio, anche questi dalle pareti di fango a vista, si sono conservate le stalle con le mangiatoie.

L’ultima casa, Khan e-Ameriha, non può essere visitata, perché sono in corso dei restauri. Posso solo affacciarmi in una corte, dove le nude pareti di fango, con una torre del vento sullo sfondo, creano un’affascinante atmosfera di maggiore sobrietà.

Tornato in centro, mi avventuro nel bazar, uno dei più pittoreschi in tutto l’Iran. Il lungo serpente di gallerie coperte ha un aspetto abbastanza moderno, con la caratteristica architettura di cupolette ottocentesche, ma ogni tanto si aprono scorci più antichi. Il fascino dei commerci è rimasto; forse anche il bazar di Istanbul aveva questo aspetto prima dell’avvento del turismo di massa. Prendo quindi a vagare al suo interno; improvvisamente si apre un grande spazio sormontato da una cupola a muqarnas, con un oculo nel mezzo dal quale sbuca il cielo azzurro. Si tratta del magnifico Timche Amin al Dowleh: all’ingresso sorge una casa del tè, tutto intorno altri negozi, ma il caldo delle cinque e mezzo sembra giustificare l’atmosfera di indolenza che regna sovrana. Proseguendo il mio giro, raggiungo un antico caravanserraglio ormai cadente, una corte quadrata circondata da un porticato con due livelli di archi, che deve avere vissuto chissà quante vicende. La vicina struttura, coperta da cupola a muqarnas, è occupata dai ponteggi del restauro, ma non si vede nessuno al lavoro, anche perché oggi è giovedì giornata semifestiva.

Mi rifugio per una pausa nell’Hammam Khan trasformato in una casa del tè. Al centro l’acqua spruzza nella vasca da un’anfora, sotto gli archi sono collocati divani, tappeti e cuscini. Il cameriere con una brocca pesca dalle vasche l’acqua per il tè e i narghilè. Arriva il mio tè, insieme a datteri, frutta secca e un dolcetto; rinuncio invece al narghilè (che in Iran ha un altro nome). Nel locale siedono alcune famiglie e anche le donne non disdegnano una fumatina.

Nel bazar sorge la moschea Soltaniyeh, rifatta in gran parte nell’Ottocento. Posso accedere al cortile, ma non nella sala della preghiera che è sbarrata. Al suo interno si dovrebbe conservare una bella muqarnas, mentre il mihrab è stato traslato in un museo di Berlino.

Uscito dal bazar, raggiungo l’imamzadeh Habib Ibn Musa. Il grande shah Abbas I volle essere sepolto a Kashan vicino al riverito Habib Ibn Musa, ma oggi la tomba del santo è stata inglobata in un gigantesco complesso dominato dalla mole della cupola. L’architettura è quella classica, ma l’effetto decisamente kitsch. È giovedì sera e il complesso è affollato di gente; alcuni pregano, ma per la maggioranza il cortile non è che uno spazio dove sedere a chiacchierare, mentre i bambini giocano. Tutte le donne sono ammantate di nero; all’atmosfera di festa ogni tanto si aggiunge la voce della preghiera. La vicinanza alla tomba del santo sembra garantire comunque la sua protezione, anche se non si bada troppo alla funzione religiosa. All’interno del santuario è curioso vedere i bambini che giocano correndo intorno alla tomba, senza che ciò infastidisca nessuno, nemmeno chi si avvicina a toccare il sarcofago attraverso il reticolato che lo protegge. Arriva un anziano con barba e turbante, uno dei primi finora incrociati; i fedeli portano in mano le scarpe, anche loro preoccupati di perderle nella confusione; una donna siede su un tappeto con a fianco la foto di un congiunto.

Più tardi, quando ripasso nel bazar, molti negozi hanno chiuso i battenti, ma non le gioiellerie affollate di donne avvolte nel chador insieme ai loro uomini. La sera ceno nel bel cortile dell’albergo, seduto su uno dei profondi divani di legno tipici dell’Iran e dell’Asia Centrale (per la verità duri e tutt’altro che comodi, specie per mangiare). Peccato che la scelta del cibo sia molto limitata.

Venerdì: 30 maggio: Kashan – gita a Abyaneh

Giornata dedicata a un’escursione con auto privata al villaggio di Abyaneh, organizzata tramite l’albergo. La mattina si presenta Mehdi, un giovane studente che subito si dimostra disponibile e socievole, accompagnandomi al sito archeologico di Sialk, alla periferia della città, non incluso nel giro concordato. Il sito comprende due colline e altrettanti cimiteri. L’insediamento risale fino a 8000 anni fa ed è uno dei più antichi al mondo, tanto che sono stati individuati sei distinti periodi di occupazione; nel più antico i defunti erano sepolti direttamente nelle case. Si può visitare solo il south mound, il più antico ziggurat scoperto in Iran, alto sedici metri e realizzato in fango e mattoni. Nel piccolo museo sono esposti grandi vasi di terracotta decorati con disegni neri, frammenti di piccoli bassorilievi con animali (leoni, gazzelle), vasetti dalla bella forma con il becco lungo.

I giardini persiani, inclusi dall’Unesco nel patrimonio dell’umanità, sono sempre stati oasi di pace e ristoro nel clima caldo del paese, una versione terrena del Paradiso. Alla periferia di Kashan i Giardini Fin furono costruiti per lo shah Abbas il Grande. Oggi è venerdì, giorno di festa, e l’affollamento di visitatori iraniani è incredibile. Nel complesso recintato il vialetto centrale, ombreggiato da alti cedri del Libano, è percorso da un canale nel quale l’acqua gorgoglia. Subito dietro, oltre una vasca, il Safavid Kooshk, è un padiglione di epoca safavide, più volte distrutto e ricostruito. L’acqua lo attraversa, proseguendo dalla vasca centrale, lungo canaletti, in tre direzioni ortogonali, secondo il gusto per le geometrie tipicamente persiano. Sempre lungo l’asse centrale, sul lato meridionale del complesso si trova un bacino alimentato da una sorgente sotterranea attraverso centosessanta orifizi. Subito dietro un altro padiglione, questa volta di epoca qajar, presenta al suo interno una grande stanza con nicchie, lavori a stalattite e porte di legno con vetrate colorate. L’edificio più interessante è comunque il Ghajarid Kooshk, finalmente dall’aspetto antico, con la volta decorata da scenette blu su sfondo bianco che ritraggono battaglie, dame e palazzi. Alcune nicchie recano dipinti di regine coronate, con o senza lineamenti, una ha un grande spadone ricurvo. L’acqua è ovunque, mentre le guide con altoparlante sono decisamente fastidiose.

La massa dei visitatori si affolla nell’Hammam, costruito in epoca qajar, tanto che è quasi impossibile visitarlo per la calca, in particolare di fronte ai manichini che ricordano la vicenda di Amir Kabir. Il primo ministro dello shah Nasir-od Din promosse un’importante politica di modernizzazione, ma la sua popolarità gli suscitò molte gelosie. Fu destituito ed esiliato a Kashan, finché lo shah, facendogli credere di volerlo riabilitare, organizzò il suo omicidio proprio in questo hammam (1852).

Concludo la visita con un’occhiata al piccolo museo, ospitato in un moderno edificio. L’esposizione comprende ceramiche e collane trovate a Sialk, oltre a una statuetta di Ishtar (II millennio a.C.), la dea babilonese dell’amore, rappresentata con una gonna gonfia. Seguono reperti del periodo islamico, ceramiche e tessuti lavorati.

Terminata la visita dei giardini, partiamo finalmente alla volta di Abyaneh, meta principale della giornata, imboccando l’autostrada per Isfahan, che lasciamo proprio in corrispondenza dei giacimenti di uranio di Natanz. Mehdi si raccomanda di non fare foto; tutta l’area è sorvegliata da torrette e armamenti. A una mia domanda sul costo della benzina, risponde che il prezzo è mezzo dollaro al litro, ma prima che il governo togliesse le sovvenzioni era di soli dieci centesimi! Puntiamo poi verso le montagne in un paesaggio semidesertico, caratterizzato come unica vegetazione da bassi cespugli. Superato un bivio, appare la kasbah diroccata di Hanjan; proseguiamo tra monti rocciosi, fino a raggiungere Abyaneh.

Le case in terra e mattoni formano un’affascinante macchia color ocra, conferendo al paese un aspetto veramente caratteristico. Molte sono coperte da lamine argentate, alcune recano piccole finestre quadrate chiuse da graticci. Le tradizioni del villaggio risalgono a un’epoca pre-islamica: gli abitanti parlano una lingua simile all’antico farsi di Achemenidi e Sassanidi, mentre i costumi tradizionali delle donne risalgono all’epoca safavide.

Siamo a oltre duemila metri di quota e l’aria è fresca; il paese è affollato dai gitanti del venerdì, alcuni indossano vesti tradizionali broccate. Percorro la strada principale che attraversa tutto il paese, con qualche puntata nelle viuzze laterali dove molte case appaiono diroccate. La moschea Porzaleh presenta un portico al primo piano con due colonne di legno e tetto di travi. Un passaggio coperto è segnalato come tempio di Zoroastro. Alcune case hanno alte verande di legno, una reca sopra la porta una luna scolpita con schemi vegetali. Una scalinata coperta conduce fino all’acqua che scorre sotterranea (ieri a Kashan avevo osservato analoghe strutture, ma spesso piene di spazzatura). Non riesco comunque a visitare nessun interno: anche la piccola moschea Jameh è chiusa e dalla porta intravedo solo i pilastri di pietra con capitelli.

Finalmente raggiungo il santuario principale di Abyaneh, l’imamzadeh ye-Yahya. La corte è quasi interamente occupata dalla vasca, che sembra una piscina, coperta da un alto pergolato. Un lato si apre sulla vallata con un bel panorama. Dietro spicca una cupola conica coperta di maioliche colorate. Un tizio mi spiega che il santuario comprende diversi imamzadeh, luoghi di culto dedicati alla venerazione di un imam. Uscendo dall’entrata posteriore proseguo per un breve tratto fino a raggiungere due enormi alberi dal grande tronco bianco, con i rami piegati verso il basso.

Completata l’esplorazione di Abyaneh, visito il piccolo museo all’ingresso del paese, nel quale sono esposte porte, finestre di legno a reticolo, lucchetti, pipe ad acqua, arcolai. Un gruppo di boemi è alla ricerca di un passaggio: li accompagniamo al bivio per Kashan, mentre noi proseguiamo fino a Natanz. Prima di dedicarci alle visite, Mehdi vuole assolutamente accompagnarmi in una sala da tè, in un grande parco affollato di locali. Approfittando del suo aiuto, sperimento per la prima volta il narghilè: mentre aspiro il fumo aromatico, l’acqua gorgoglia nell’ampolla. Sono ospite e Mehdi paga il conto, ricordandomi, quasi a scusarsi, che in Iran tutto è molto economico. È molto gentile, più tardi mi offrirà anche uno squisito melone.

Le due attrazioni di Natanz, sono una a fianco dell’altra in una piazzetta ombreggiata da grandi alberi. La moschea Jameh è uno dei monumenti più significativi realizzato in Iran dagli Ilkhanidi, la dinastia di khan mongoli che governò il paese (1256-1335). L’accesso avviene attraverso una piccola porta di legno chiaro con raffinate decorazioni vegetali: intrecci con fiori, in parte conservati in parte levigati dal tempo. Si tratta di una moschea a quattro iwan collegati da due livelli di archi, che mantiene intatto il suo fascino nonostante le spoliazioni subite. Nella corte le balaustre sono formate da semplici schemi di mattoni. La sala principale appare come se fosse stata depredata, con le strutture architettoniche messe a nudo: la cupola è priva di decorazioni, il mihrab è stato asportato, il minbar conserva solo i gradini. L’imamzadeh Abd al-Samad, a fianco della moschea, ospita la tomba di un venerato sufi vissuto nell’XI secolo. Purtroppo è chiuso e devo limitarmi ad ammirarne l’esterno. L’alta cupola piastrellata a punta, una piramide a sei facce, si leva sopra due tamburi, un primo di mattoni e un secondo più piccolo, piastrellato. È veramente imponente specie se confrontata con la bassa cupola di mattoni della moschea. L’alto minareto, sempre di mattoni, è decorato da inserzioni di maioliche colorate. Il portale presenta una magnifica muqarnas piastrellata, una fascia di scritture coraniche attorno alla porta e due nicchie laterali anch’esse tutte decorate con maioliche. L’effetto è ottenuto con tre soli colori: il beige di pietre e mattoni, l’azzurro e il cobalto delle maioliche. Mi siedo sotto i grandi alberi ad ammirare la muqarnas, mentre il mio driver si riposa sdraiato all’ombra. La cornice del portale è movimentata da colonne, nicchie, fasce e tutto intorno un’iscrizione coranica che sembra il negativo di quella interna. Per completare la visita, Mehdi mi accompagna dietro la moschea, fino a un edificio in rovina che mi segnala come un tempio di Zoroastro; solo un arco è rimasto ancora in piedi. Da qui la visuale sulla moschea e il mausoleo è magnifica.

La sera a Kashan per cena raggiungo il locale ospitato nella casa Abbasian. La grande sala è occupata dai soliti divani persiani coperti da tappeti, attorno a una fontana. L’atmosfera è incantevole; il soffitto di travi di legno, altissimo. Dopo cena torno alla moschea Bozorg. Non c’è quasi nessuno e regna una grande pace, accompagnata dal cinguettio degli uccelli. Le folle e il caldo della giornata sono solo un ricordo. L’illuminazione aggraziata esalta l’architettura del complesso. Mi siedo ad ammirare lo spettacolo: il bulbo della cupola, i due minareti colorati con le lanterne, il grande iwan, gli archi delle gallerie; più in basso il cortile della madrasa. Terminata la preghiera, diffusa da un megafono, compare un giovane mullah con un turbante bianco.

Sabato 31 maggio: Kashan – Isfahan

Il bus per Isfahan parte alle otto e mezzo. Attraversiamo di nuovo i paesaggi desertici di ieri, per poi lasciare l’autostrada puntando verso sud. Sulla sinistra compaiono brulle montagne. Dopo un’ora di viaggio siamo a Natanz, che riconosco dal santuario collocato sopra la montagna, nonostante le tendine abbassate del bus impediscano quasi ogni visuale. Ripresa l’autostrada saliamo dolcemente, fin oltre duemila metri di quota, per poi ridiscendere in un’altra vasta pianura. In giro non si vede nemmeno una coltivazione. Dove produrranno il cibo per settanta milioni di iraniani?

Alle undici e mezzo giungiamo a destinazione a Isfahan. Preso possesso della mia stanza d’albergo, raggiungo subito Piazza Imam, cuore della città, affrettandomi a visitare la moschea dell’Imam, prima della sua chiusura per l’ora di pranzo. La struttura è quella classica a quattro iwan, ma nel grande cortile assurdi teli, pur concedendo l’ombra ai fedeli, impediscono di godere a pieno lo spettacolo dei magnifici portali. Il santuario principale si trova dietro l’iwan settentrionale, nel quale è stesa una rete di protezione, forse per proteggere la gente dalla caduta di mattonelle. La sala quadrata è vastissima, con la cupola che si libra leggera come sospesa nel vuoto. La calotta è sferica, mentre all’esterno ha una forma allungata; per questo le cupole in realtà sono due e lo spazio tra esse produce un incredibile effetto di eco. Superata la sensazione di vuoto per il grande spazio sgombero, l’occhio si perde nel groviglio delle decorazioni a maiolica che ricoprono ogni superficie. La combinazione di tre soli colori, giallo, blu e bianco, produce effetti meravigliosi. Solo guardando con attenzione le parti più basse si nota come le decorazioni siano formate da mattonelle quadrate, piuttosto che da mosaici, per la fretta dello shah Abbas di completare la costruzione. Il minbar è un pezzo unico di marmo. Mi soffermo ad esaminare l’architettura della sala: dal basso una prima fascia di marmo, sopra due livelli di nicchie cieche o aperte, poi una fascia di versetti coranici; seguono i quattro pennacchi angolari, necessari per trasformare la geometria quadrata della base in quella circolare della cupola, le finestre ogivali su tre lati e il portale sul quarto; infine un grande anello con iscrizioni coraniche sul quale si leva la cupola, decorata con intrecci concentrici di rose dorate nella parte più alta e losanghe a goccia che si fanno sempre più piccole salendo, tutto intorno.

Ai lati della santuario principale, le due sale per la preghiera richiamano le nostre architetture gotiche, anche se le volte rette da colonne sono coperte da maioliche, come se qualcuno avesse piastrellato un refettorio medievale. Sulle pareti lo schema decorativo cambia, con grandi fiori stilizzati e una selva di realistici girasoli. Volgendo lo sguardo indietro, scorgo i due svettanti minareti del portale d’ingresso, culminanti in verande aperte di colore giallo, in contrasto con l’azzurro e il celeste delle maioliche. Da questa visuale appare evidente l’angolo di quarantacinque gradi tra la moschea e il portale d’ingresso, necessario per riportare verso La Mecca l’orientamento nord sud della piazza.

Ormai l’orario di visita è terminato, ma nessuno si affretta a cacciarmi e così rimango l’unico visitatore, accompagnato dal canto del muezzin. Mi sposto in una delle due madrase a fianco del santuario centrale; il cortile è circondato dalle celle. Da qui posso finalmente ammirare la cupola e i due minareti del santuario senza l’ostacolo dei teli. Il retro della struttura mostra i mattoni con cui è costruita, che esaltano ancora di più lo splendore dei colori delle maioliche. I minareti riprendono la veranda di quelli del portale d’ingresso, ma sono più vicini e non mi sfuggono le muqarnas subito sotto.

Nel santuario orientale mi siedo su un tappeto arrotolato. Lo schema ripete in scala ridotta quello della sala principale. Ormai però la mia presenza non passa più inosservata e sono invitato a uscire. Prima riesco comunque a gettare uno sguardo all’iwan meridionale, un intreccio di viticci sul quale sembrano galleggiare grandi foglie.

All’esterno mi soffermo ad esaminare con calma il portale della moschea sulla piazza. I grandi pannelli non sono formati dalle solite piastrelle quadrate, ma da tarsie più piccole e irregolari, tanto che è difficile individuare le giunzioni. Il soffitto a nido d’ape presenta muqarnas veramente elaborate ed irregolari, tanto da fornire l’impressione di una grotta naturale. Jason Elliot nel suo libro “Specchi dell’Invisibile”, una lettura illuminante per un viaggio in Iran, sostiene che è proprio questa la loro fonte naturale d’ispirazione.

Volgendo lo sguardo verso la piazza dell’Imam rimango stupito dalle sue dimensioni: si tratta di una delle più grandi al mondo e i monumenti che vi si affacciano quasi si perdono in tale vastità. È interamente circondata da un porticato, occupato da negozi, con arcate cieche al piano superiore. Ancora oggi la piazza è meglio nota come Naqsh-e Jahan, “Immagine del Mondo”; fu realizzata nel Seicento come centro monumentale della nuova capitale voluta da Abbas I, lo shah più importane della dinastia safavide e del Terzo Impero Persiano (dopo quelli achemenide e sassanide). Sul lato corto opposto alla moschea dell’Imam, lontanissimo, sorge il portale di accesso al bazar. Lo raggiungo per ammirare gli affreschi: a sinistra sono riprodotte scene di battaglia dello shah contro gli uzbeki, con cavalieri armati di archi e spade che indossano bei turbanti piumati, mentre a destra le scene di corte richiamano l’Europa, con musicisti dai larghi pantaloni e colletti a gorgiera. Al centro non può mancare un bel soffitto a nicchie, questa volta color ruggine. Nel mezzo della mischia della grande battaglia l’esercito esibisce gli stendardi al vento.

Dopo pranzo visito quella che secondo me è la gemma più preziosa della piazza: la moschea Sheikh Lotfollah. Superato il portale, si percorre un corridoio che, dopo la luce abbagliante dell’esterno, abitua gli occhi all’oscurità. Improvvisamente dietro un gomito appare la meraviglia: una sala quadrata dalle pareti come oro, sormontata da una cupola leggiadra. Il colore dominante, questa volta il giallo, conferisce all’ambiente un gran calore, nonostante la luce filtri solo dalle finestre a graticcio. L’equilibrio tra gli elementi geometrici e decorativi produce il capolavoro. La sala quadrata presenta in basso una struttura ad arco per ogni lato e angolo. Le quattro angolari a pennacchio consentono la transizione verso l’anello con l’iscrizione coranica, sormontato da una fila di leggiadre finestre traforate, alternate a pannelli di uguale forma. Sopra poggia la cupola, che ancora una volta stupisce per la sua larghezza, più che per l’altezza, e per l’essere collocata tanto in alto. Al mio arrivo sono solo e il luogo sembra avvolto dalla magia. Mi soffermo ad ammirare la cupola: i motivi a foglia blu si allargano dall’alto verso il basso, come a guidare l’occhio verso lo stupefacente intreccio centrale, che mi ricorda certi mosaici delle nostre chiese (in particolare l’abside di San Clemente a Roma). Con il binocolo osservo i viticci, un intreccio di foglie e fiorellini delicati; sembra di essere in uno scrigno d’oro! Nelle maioliche del mihrab spicca la riproduzione di un kashgul, la ciotola usata dai dervisci per chiedere la carità.

Tornato all’esterno mi dedico alla visione del portale, non facile per la luce accecante. In basso la fascia di marmo color crema con venature rosse sembra di alabastro. Sopra, a fianco della porta, meravigliosi intrecci floreali escono da vasi verdi sul consueto sfondo blu. Le muqarnas del soffitto completano l’insieme. La cupola si può ammirare solo retrocedendo un po’ e presenta insolite piastrelle dallo sfondo color crema; la scritta nella fascia del tamburo è fittissima, un intreccio bianco su sfondo cobalto.

Allineato alla moschea, sul lato opposto della piazza, sorge il palazzo di Ali Qapu, un padiglione alto sei piani, costruito per consentire allo shah di assistere a spettacoli e parate. L’edificio all’esterno non appare molto aggraziato; visto da dietro mi ricorda una stazione ferroviaria. Salendo una scala, raggiungo subito la terrazza coperta da un tetto di legno sorretto da alti pilastri che si stringono verso l’alto fino ai capitelli a stalattite. La vista spazia sulla piazza, anche se i restauri consentono di affacciarsi solo dal lato della moschea dell’Imam. Il soffitto di legno intarsiato sarebbe bisognoso di un restauro. La moschea Lotfollah, proprio di fronte, mostra l’evidente disallineamento tra il portale e la cupola, spiegato da Jason Elliot non come un errore ma come una precisa scelta per rispettare le geometrie della piazza, basate sulla sezione aurea. Nel mondo classico un rettangolo era considerato dalle proporzioni perfette se costruito dividendo un quadrato a metà e costruendo un arco di cerchio dal centro del lato con raggio pari alla diagonale fino all’angolo del quadrato. Proseguendo la visita del palazzo, entro nella sala del trono affacciata sulla terrazza; gli affreschi sembrano riprodurre una carta da parati rococò, con scenette nelle piccole nicchie. All’ultimo piano la Sala della Musica è una vera sorpresa: lavori a stucco ricoprono tutte le pareti, creando curiose cavità dalle svariate forme che probabilmente funzionavano da casse di risonanza: vasi dal collo lungo, ampolle, porta profumi.

Completata la visita degli edifici affacciati sulla piazza, raggiungo un altro padiglione che un tempo faceva parte del complesso reale safavide. Il Chetel Sotun, immerso in un giardino, deriva il suo nome, “Quaranta Colonne”, dalle venti colonne del talar che si raddoppiano riflesse nella grande piscina di fronte. Il talar è una terrazza porticata, tipica dell’architettura persiana; il soffitto lavorato a cassettoni con stelle e motivi geometrici, è retto da altissime colonne con capitelli a stalattite, le quattro centrali collocate sopra un basamento con quattro leoni, attorno a una vasca oggi vuota. Dalla terrazza si passa alla sala degli specchi; collocati anche nelle muqarnas creano un insolito effetto. La grande sala all’interno del padiglione presenta sei imponenti affreschi storici, risalenti alle epoche safavide e qajar. Sul lato verso la terrazza si inizia con lo shah Ismail in guerra contro gli uzbeki: il re con turbante piumato cavalca un cavallo bianco e infilza il nemico in fuga. Si prosegue con Nader Shah a cavallo, in una grande mischia nella quale si distingue il sultano indiano Mahmud su un elefante bianco. In una festa di corte, i musici suonano chitarre dal lungo manico e le danzatrici ballano, mentre lo shah Abbas II e il suo ospite Nader Khan del Turkestan siedono accovacciati su un divano davanti alle vivande. Proseguendo nella visita, passo in stanze più raccolte ma ugualmente affrescate. In quella intitolata allo shah Abbas, gli affreschi sono stati riscoperti solo nel 1955 sotto uno strato di intonaco: si tratta di scenette di una grazie estrema, che riproducono momenti della vita privata di corte, incluso un picnic.

Di ritorno su piazza Imam mi accolgono i colori caldi del tardo pomeriggio. Posso quindi finalmente sedermi davanti alla grande vasca, ravvivata da spruzzi d’acqua, ed ammirare l’Immagine del Mondo. I pali in pietra davanti alla moschea dell’Imam costituivano una delle due porte per le partite di polo che si giocavano in piazza. Le curiose simmetrie si ripropongono ai miei occhi: la moschea dell’Imam di sbieco dietro la piazza, la cupola della moschea Lotfollah, che ha assunto tonalità più dolci, disallineata con il portale. Le carrozze sferragliano correndo nella piazza, due bambini fanno il bagno nella vasca richiamati dalla mamma, una donna avvolta nel chador siede sull’erba. Man mano che le ombre si allungano, gli spazi aperti si animano di gente seduta a chiacchierare.

La sera dopo cena, i bambini sono gli unici a potersi rinfrescare i piedi nella fontana, visto che tutti gli adulti, uomini e donne, indossano vesti lunghe. La piazza è affollata di gente che si gode il fresco dopo l’arsura della giornata. Sotto i portici i negozi sono tutti aperti: accanto alle botteghe di articoli dozzinali per turisti, si trovano i laboratori degli artigiani che martellano per ricavare splendidi manufatti sbalzati. Una donna s’inoltra in acqua per recuperare la figlia. Finora ho avvertito gli effetti della repubblica islamica solo nell’abbigliamento femminile, per il resto l’atmosfera mi è sembrato molto rilassato, anche all’interno delle moschee. Le luci della sera aggiungono ulteriore fascino alla piazza; la sua dimensione distanzia quasi le moschee, un po’ come nella vita di tutti i giorni della gente. Gli archi ciechi del porticato sono nicchie di luce nella sera, non più gli abbaglianti sprazzi bianchi del giorno.

Domenica 1 giugno: Isfahan

La mattina per raggiungere la moschea del Venerdì attraverso tutto il bazar, un dedalo di stradine coperte da cupolette con oculi che lasciano filtrare la luce. I negozi sono ancora chiusi e in giro si vedono solo i mullah diretti alla scuola coranica. Portano valigette in pelle, come uomini di affari, ma indossano turbanti bianchi e svolazzanti mantelli marroni. Davanti alla madrasa Nimurvand, un giovane studente mi invita ad entrare e mi presenta al suo maestro. Parla un buon inglese e fa da interprete. Per rompere il ghiaccio mostro le foto dei miei due bambini, che il mullah guarda a lungo ammirato. Mi chiedono cosa penso dell’Iran; rispondo che la gente è “very friendly” ed Isfahan bellissima. Poi la risposta si fa più difficile, perché vogliono sapere cosa pensano gli italiani del loro paese. Ribatto che in Occidente l’immagine negativa dell’Iran è dovuta a una visione superficiale, influenzata dai governi e dall’America. Sono molto contenti della mia affermazione, ancora di più quando riconosco una muqarnas; non li disturba il fatto che sia cattolico, mentre tengono a precisare di essere sciiti, citando persino un terrorista sunnita.

La Moschea del Venerdì è una specie di summa dell’arte persiana, a partire dal primo piccolo edificio del 772. Il periodo costruttivo più importante risale comunque all’epoca dei Selgiuchidi (XI secolo), la dinastia turca che fece di Isfahan la propria capitale. Dopo essere arrivati in Iran, adottarono cultura e lingua persiana, giocando un importante ruolo nello sviluppo della tradizione turco-persiana; sono ricordati come grandi patroni di cultura, arte e letteratura.

Visito la moschea seguendo un giro orario. Dal corridoio di accesso passo in una sala angolare, caratterizzata da una selva di tozzi pilastri, basse volte a quattro facce e archi ogivali. Tutto è di mattoni e risale all’epoca selgiuchide. Raggiungo poi il santuario meridionale, che trasuda antichità ed è coperto dalla grande cupola voluta dal visir selgiuchide Nizam al-Molk, impressionante nella sua nudità. Sotto la cupola la zona di transizione tra il quadrato della sala e il cerchio della cupola reca otto spazi veramente aggraziati, quattro angolari e quattro frontali. Quelli frontali hanno due nicchie intorno a una finestra con archi ogivali e un grande arco cieco che li racchiude; quelli angolari sono un’elaborata composizione di quattro nicchie sormontate da spazi a nido d’ape. I pilastri sono veramente massicci, dalla forma di quattro colonne addossate. Nel mihrab di marmo è rappresentato l’albero della vita.

Uscendo dall’iwan meridionale, profondo e decorato con muqarnas, abbandono il mondo del buio e dei mattoni, per quello delle maioliche e del sole. Nel grande cortile si aprono i soliti quattro iwan, collegati da due livelli di archi; al centro la fontana per le abluzioni è ispirata alla Kaaba di La Mecca. Dall’iwan si levano due alti minareti. I pannelli di maioliche sono realizzati con mosaici a tarsie piccole, nei quali riconosco meravigliosi particolari con fiori; una guida mi segnala i nomi di Allah e Maometto.

A destra dell’iwan occidentale, caratterizzato da muqarnas e decorazioni geometriche, una porticina da accesso a una sala nella quale si conserva una meraviglia, il mihrab di Oljeitu (1317). Il sovrano mongolo probabilmente lo fece realizzare quando ancora non si era convertito all’islam; il suo nome, infatti, ricorre nelle iscrizioni, invece delle consuete invocazioni ad Allah. Mi soffermo ad ammirare l’incredibile intreccio di motivi floreali e calligrafie, particolarmente fitto nella lunetta ogivale. Ritornano in questa opera i tre elementi decorativi caratteristici dell’arte islamica: geometrici, vegetali e calligrafici. Attraversando una porta si cambia di nuovo epoca, raggiungendo la sala d’inverno timuride formata da basse navate intonacate di bianco.

Tornato nel cortile, mi rendo conto come ogni iwan sia diverso: quello settentrionale, molto profondo, è stato restaurato nel Seicento dai Safavidi e si presenta come una lunga navata di mattoni con archi laterali, decorazioni geometriche a stucco e una fascia con iscrizioni coraniche. Sembra essere molto gradito agli uccelli che vi volano dentro. La sua architettura ricorda una piccola cappella occidentale con l’abside sostituita dalla muqarnas.

Una porticina nell’angolo nord-est della corte riporta all’epoca selgiuchide. Si attraversa un’altra sala con colonne di mattoni, finché dietro l’iwan settentrionale si raggiunge un vero gioiello, la sala fatta costruire da Taj al-Molk, rivale di Nizam al-Molk. Un tempo esterna alla moschea, è coperta da una cupola più piccola di quella meridionale, meravigliosa per grazia e proporzioni; attraversata da una rete di fasce di mattoni, conserva qualche motivo a fiorellini bianchi. Sulle pareti le decorazioni sono ottenute disponendo i mattoni in vari modi. La zona di transizione è caratterizzata da trentadue archi ciechi. Le strutture angolari ripetono lo schema della sala meridionale. Jason Elliot nel suo libro racconta di essersi sdraiato per terra sotto la cupola per ammirarne le forme. Anch’io non resisto alla tentazione: l’equilibrio di linee e forme mi ricorda il nostro Rinascimento, ma la cupola è in piedi da mille anni. La geometria è un elemento fondamentale nella cultura persiana e questa sala presenta un equilibrio di linee e proporzioni che nella civiltà occidentale arriverà solo con il Rinascimento. Sono solo; la pace del luogo e il pensiero della sua antichità mi danno un brivido, mi fanno sentire più vicine le generazioni passate. Ancora una volta la bellezza mi appare un valore universale che trascende il tempo e lo spazio.

Tornato nel cortile, a fianco del quarto iwan, denominato degli studenti, una madrasa opera di un sunnita, forse proprio per questo è piuttosto malridotta anche se sembra che qualche restauro stia per iniziare.

Ormai è tempo di lasciare la moschea, non senza dispiacere. M’incammino quindi di nuovo verso il bazar. Dopo una grande piazza dall’aspetto moderno, raggiungo il santuario di Harun Vilayet. Nell’ampia corte spiccano i ritratti di Khomeini e Khamenei. Una porticina conduce a un’anticamera affrescata. Ai lati della porta di accesso al santuario, due rappresentazioni particolari: un personaggio barbuto tra due donne e altrettanti angeli coronati, in basso un leone e due gazzelle; dall’altro lato un personaggio velato con il rosario in mano, tra un guerriero e un tipo con una lunga veste a strisce. Nella sala successiva si trova la tomba del santo, circondata da uno scrigno reticolato con porticine dorate. Il sarcofago è coperto da un panno verde; tutto intorno le banconote lasciate dai fedeli. Il leone di pietra, che prima della rivoluzione si trovava nella corte ed era considerato in grado di curare la sterilità, è stato relegato nel portico sulla strada, faccia al muro. Sul suo fianco è scolpito un grande spadone. Di fronte spicca l’altissimo minareto della moschea Ali.

M’infilo nuovamente nelle stradine coperte del bazar, a quest’ora un formicaio di gente. Mi rifugio allora nella moschea Hakim. È l’una e il muezzin chiama per la preghiera, ma nel grande cortile loggiato non c’è quasi nessuno: fa caldo e i fedeli, tutti uomini, pregano all’ombra nella sala coperta, inginocchiandosi sui tappeti. La struttura attuale risale all’epoca safavide, ma la moschea era la più antica di Isfahan. Della costruzione originale, risalente al X secolo, sopravvive solo il portale settentrionale. Una porta secondaria reca una catena a metà altezza, per costringere i fedeli a chinarsi al loro ingresso.

L’Azadegan Teahouse è finalmente un locale caratteristico. Per raggiungerlo si attraversa un passaggio coperto dietro Piazza Imam, nel quale pende di tutto, in particolare molti lampadari. Si accede quindi a uno spiazzo occupato dalle botteghe dei fabbri; la casa del tè si trova in un angolo, divisa in due lunghi ambienti a volta, uno per gli uomini e uno per le donne. Appesi al soffitto una selva di lampadari e teiere, mentre alle pareti, insieme a piccole alabarde e scudi, non mi sfuggono le foto in bianco e nero di muscolosi lottatori. Mi siedo insieme agli iraniani che pranzano; io però ho già mangiato e mi limito a un tè. Molti fumano il narghilè.

Proseguo la mia visita di Isfahan raggiungendo il palazzo Hasht Behesht, costruito in epoca safavide. Il Padiglione degli Otto Paradisi sorge in un giardino dietro una lunga vasca, ripetendo lo schema del Chehel Sotun, anche se con dimensioni più piccole. Il numero otto ricorre in molti elementi architettonici, come la pianta e la vasca. Dalla veranda con due alte colonne di legno, che assomigliano incredibilmente ai tronchi dei pini subito davanti, si accede alla sala centrale aperta su tutti i lati e sormontata da una bella cupola con muqarnas dipinte. Al centro la lanterna, dalla quale pende il lampadario, è coperta di specchietti; peccato che la vasca ottagonale, subito sotto, sia priva dell’acqua. Ai quattro angoli si trovano altrettanti stanze ottagonali, basse, con due livelli di archi e nicchie, sormontati da muqarnas. Una è dipinta con motivi floreali su sfondo bianco che non so perché mi ricordano le nostre grottesche; un’altra reca un bel fregio con uccellini e fiori sopra due livelli di archi. La sala più bella reca l’affresco di un cavaliere in una nicchia e un soffitto rococò con fasce dorate, specchietti e disegni geometrici bianchi, rossi e rosa. Da essa di accede a un’altra stanzetta che sembra un salottino rococò. Magnifica!

Uscendo dal lato opposto del complesso, sbuco su Chaharbag, il viale lungo diversi chilometri, asse della capitale safavide. Il suo nome significa Quattro Giardini, ad indicare che un tempo era circondato dal verde ed era una vera meraviglia. Oggi invece è congestionato dal traffico; nel mezzo, il cammino pedonale ombreggiato non è che una blanda reminescenza del passato. Mi siedo su una panchina a fianco della statua di un uomo con turbante che regge un libro in mano. Una signora mi chiede se conosco il suo nome. Mi ricordo allora di aver letto la sua storia nel libro di Elliot e così lo consulto: si tratta della sceicco Baha’i, soprannominato Oceano di Conoscenza. La signora mi dice infatti che il marito professore le ha spiegato che fu proprio lui a stabilire la posizione ideale per i due ponti da costruire sul fiume. Anche Elliot conferma che fu un grande erudito che spaziava in vari campi del sapere, tanto da essere nominato responsabile del progetto della moschea dell’Imam.

Poco oltre sul viale affaccia la madrasa Chahar Bag, considerata uno degli edifici più belli della città. Purtroppo non si può visitare perché è ancora un’attiva scuola coranica; non mi resta quindi che ammirare la grande porta di legno, coperta di argento e oro con iscrizioni cufiche, insieme al portale con muqarnas e decorazioni di maioliche. Girato l’angolo appare la cupola maiolicata, mentre una serie di cartelli riporta i comportamenti graditi ad Allah. Poco oltre l’hotel Abbasi era l’albergo di lusso ai tempi dello shah; la hall ha mantenuto intatto lo splendore passato, con un cavallo rampante e un’aquila a fianco dello scalone.

I ponti sullo Zayandeh sono uno degli elementi più caratteristici di Isfahan. Purtroppo oggi il fiume è in secca e neppure una goccia d’acqua scorre sotto le trentatre arcate del Pol Si-o-Seh, costruito ai tempi dello shah Abbas, in fondo al Chahar Bag. Più che un ponte sembra una diga, della quale aveva infatti anche la funzione, con due livelli di arcate (quelle superiori avevano anche lo scopo di proteggere i cammelli dal vento). Il ponte è lungo 360 metri. In assenza dell’acqua si può tranquillamente passare sotto i possenti piloni, dove molte persone siedono al fresco; una voce maschile canta una dolce melodia. L’acqua era incanalata in stretti passaggi ed è facile intuire come il ponte potesse fungere da diga.

Passato sull’altra sponda, una piacevole passeggiata ombreggiata mi porta al ponte successivo, Pol-e Chubi, con un unico livello di ventuno arcate. Più piccolo, è lungo “solo” centocinquanta metri e risale all’epoca di Abbas II. Anche oggi, come ieri, dopo il caldo della giornata, il cielo si è offuscato di nubi; sullo sfondo tra gli alberi sbuca una montagna che risplende di bianco. Mi siedo e subito si ferma un ragazzo a chiacchierare. Mi spiega che il governo ha deciso di deviare l’acqua del fiume verso altre regioni più aride, senza curarsi dei danni per Isfahan. Anche in Iran la crisi economica si fa avvertire, soprattutto per effetto del boicottaggio internazionale. È molto curioso e mi chiede notizie dell’Italia. Ripresa la passeggiata, raggiungo il Pol-e Kahju, che rivaleggia per bellezza con il Pol Si-o-Seh. Fu costruito dallo shah Abbas II che riservò per i suoi svaghi il padiglione ottagonale al centro. È lungo centodieci metri con due ordini di ventiquattro arcate, questa volta decorate con maioliche che rompono la monotonia della massa di mattoni: sembra come se un pezzo di porticato di piazza Imam fosse stato spostato sul fiume e l’assenza dell’acqua rende ancora più remota l’idea che si tratti di un ponte. Anch’esso fungeva da diga, grazie a un sistema di chiuse, mentre oggi la gente siede a chiacchierare sotto i piloni. Sulla sponda meridionale un leone guarda il fiume, mostrando tra le fauci spalancate un volto umano. Sotto la coda non manca la testimonianza della sua mascolinità, mentre su un fianco sono incisi gli strumenti della lotta, tra cui una specie di arco con catena. Probabilmente segnalava la tomba di un lottatore. Ancora oggi la Zurkhaneh, disciplina tradizionale di lotta e ginnastica, è popolarissima in Iran, combinando elementi della cultura pre-islamica con la spiritualità del sufismo. Agli atleti si richiede purezza d’animo, sincerità e temperanza, solo dopo viene la forza fisica. Il principio di modestia è esemplificato dai versi che si recitano ad ogni incontro: “Impara la modestia se vuoi la conoscenza. Un altopiano non potrà mai essere irrigato dal fiume”.

La notte, dopo cena, i trentatre archi del Pol Si-o-Seh sono illuminati da luci gialle, conferendo ulteriore fascino. Mi siedo sull’argine, alto solo due gradini ad indicare che anche in passato il fiume non doveva essere molto profondo. Un altoparlante trasmette una preghiera, ricordandomi che sono in Iran, mentre la gente a passeggio sul ponte sbuca dagli archi aperti. Tira un certo venticello; chissà se le nuvole porteranno l’agognata pioggia?

Lunedì 2 giugno: Isfahan

La mattina, varcato di nuovo il fiume sul Ponte dei Trentatre Archi, raggiungo Jolfa, il quartiere armeno di Isfahan nel quale lo shah Abbas trasferì in massa la popolazione dell’omonimo villaggio nel nord ovest dell’Iran. Per usufruire della capacità di mercanti, interpreti ed artisti degli armeni, garantì loro libertà di culto, anche se dovettero stabilirsi in questo quartiere, lontano dal centro islamico della capitale safavide. Oggi la comunità si è ridotta ad appena settemila unità, ma si conservano ancora una dozzina di chiese.

Per prima raggiungo la chiesa di Betlemme. All’esterno la nuda cupola in mattoni si presenta con la caratteristica forma a bulbo dell’islam. La facciata si apre su una corte, con due livelli di archi come un porticato persiano. Unica differenza la scritta in armeno nella lunetta e qualche croce nel mosaico di tessere maiolicate; riconosco la data 1899, anno dei restauri finanziati da armeni indiani. All’interno invece tutto è coperto di affreschi, senza un centimetro libero. L’unico grande ambiente è diviso in tre parti: il nartece, la sala principale quadrata e il santuario con abside. La sala è sormontata da una grande cupola con affreschi decorativi che producono un bell’effetto. Nelle pareti in basso non manca una fascia di maioliche, sopra la quale corre una serie di crude scene di tortura: la testa di un martire viene schiacciata sotto una pressa, un altro legato viene trafitto da uncini, uno è bastonato appeso a testa in giù. La fascia superiore è formata da pannelli più grandi, con scene tratte dal Vangelo. Sopra i pennacchi che reggono la cupola, coppie di serafini con quattro ali e la sola testa. Nell’abside Cristo siede in trono con il Vangelo aperto, circondato da quattro angeli.

Nel vicolo appena dietro si trovano altre due chiese, Santa Maria e San Hangup, ma sono chiuse ai visitatori, come mi ribadisce una vecchietta che compare dopo che batto il batacchio della porta sbarrata. Riesco solo a sbirciare la struttura a tre archi persiani, sormontata da un piccolo campanile con cuspide terminale, tipicamente armeno, e dietro la cupola a bulbo con la croce in cima. Tutto appare in mattoni.

Raggiungo quindi la cattedrale Vank, il monumento più importante del quartiere. Nella piazzetta subito davanti una statua ricorda l’arcivescovo Khachatour Kesaratsi (1636), raffigurato incappucciato con una mano poggiata su due grandi tomi; il suo merito è quello di avere fondato la prima stamperia in tutto il Medio Oriente, come ribadito dai bassorilievi che riproducono i macchinari. Entrato nel complesso, mi trovo in un cortile recintato. Davanti alla chiesa sorge un baldacchino con due campane; le forme sono tipicamente armene: due livelli di archi tutti aperti, sormontati dalla torretta con piramide, come a Etchmiadzin, il “Vaticano Armeno”. Una tomba del XIX secolo, collocata sotto il baldacchino, reca un bassorilievo che racconta l’episodio del bagno della principessa armena Shirin, ammirata dallo shah sassanide Khosrow II. Mentre la principessa esce nuda dall’acqua e una serva le porge un telo, lo shah a cavallo, con un cappello cilindrico tutto decorato, porta una mano alla bocca. La storia del loro contrasto amore è molto popolare in Iran.

In un angolo della corte, un memoriale del 1975 ricorda il genocidio armeno del 1915 ad opera dei turchi, tema ripreso sulla facciata della chiesa da uno striscione: “Now after 99 years of denial, the silence must be heard”.

All’esterno la chiesa di mattoni si presenta come una tipica struttura persiana, con il parallelepipedo di archi ciechi sormontato dalla cupola; unica nota distintiva il piccolo campanile con lanterna a cuspide piramidale, decorata comunque con mosaici di maioliche. La costruzione risale al Seicento; l’interno è meraviglioso, grazie anche al recente restauro che ha restituito la brillantezza originale ai colori degli affreschi. La struttura ripete la partizione in tre ambienti, già osservata nella chiesa di Betlemme.

Lo sguardo viene subito attratto dal grandissimo Giudizio Universale che campeggia sulla parete sinistra e tradisce influssi della pittura olandese. L’angelo nel mezzo reca la bilancia per pesare le anime e schiaccia il demonio. In basso i dannati sono divorati nelle fauci di un mostro, bruciano nelle fiamme oppure sono torturati da altri mostri. I loro corpi nudi hanno muscoli stilizzati, con un effetto naif. Un diavolo arrotola l’intestino di un poveretto. Sopra una processione di uomini con candele converge verso la torre del Purgatorio. Più in alto ancora Cristo risplende su una nuvola, con Maria a fianco e le schiere degli eletti tutto intorno. In cima il Padre Eterno.

Anche tutte le altre pareti sono affrescate. La fascia di maioliche in basso è ricchissima. Sopra corre una striscia con le raffigurazioni delle torture subite dai primi cristiani in Armenia, tra le quali ritrovo alcune scene già viste nella chiesa di Betlemme. Le rappresentazioni però sono molto più raffinate, con le vesti dei personaggi trasportate al Seicento. Il re Tiridate III, con indosso un bel mantello dorato, presiede a vari episodi di tortura inflitti a San Gregorio Illuminatore, ma alla fine viene punito per avere concupito alcune suore e trasformato in un maiale (anche se sulla testa conserva la corona!). Sarà proprio San Gregorio a salvarlo: gli ultimi pannelli celebrano la conversione del re e il trionfo del santo, che ora appare come un vescovo con la mitra in testa e ricche vesti indosso.

Nell’ambiente centrale la cupola è ricoperta da magnifiche decorazioni oro e blu, con terne di serafini nei pennacchi. Sulle pareti sono rappresentati episodi dell’Antico e Nuovo Testamento, uno sotto l’altro per indicarne il parallelo. Le rappresentazioni sembrano veri e propri quadri: nell’Epifania le vesti dei Re Magi sono magnifiche, in Gesù che scaccia i mercanti dal tempio il pavimento a scacchi è rappresentato in prospettiva con gli sgabelli buttati per terra. Gli episodi della Passione nella controfacciata hanno uno stile diverso che mi ricorda Goya. Su tutto domina l’oro dello sfondo delle pareti.

Completo la visita del complesso con un’occhiata al museo. Sono esposte antiche presse per la stampa, costumi armeni di donne e mercanti di Jolfa, vangeli miniati. L’iscrizione su un capello (1974) riporta la prima frase di Mesrop Mashot, creatore dell’alfabeto armeno, tratta dal Libro dei Proverbi nella Bibbia: “per conoscere la sapienza e la disciplina, per capire i detti profondi”. Un quadro riproduce il monte Ararat, una grande cartina ricorda l’olocausto armeno insieme a impressionanti foto (teste conficcate in pali, disposte su scaffali, fosse comuni con cadaveri scheletrici, un bambino pelle e ossa). Belli i vangeli del XII/XIV secolo, provenienti dall’Armenia e dalla Cilicia.

Terminata la parentesi armena, una passeggiata di quaranta minuti mi porta a una torre dei piccioni, Kabootar Khaneh, individuata su Internet prima della partenza, grazie all’aiuto degli amici del “Forumsiran”. La costruzione si trova in mezzo a una rotatoria, ma la sorpresa si ha entrando: le pareti ospitano migliaia di piccole cavità, con lo scopo di attirare i piccioni e farvi depositare il loro prezioso guano. Attraversati vari ambienti, salgo in cima con una ripida scala. Dalla terrazza, in fondo alla linea del Chahar Bag, scorgo lontana la moschea dell’Imam, mentre sul lato opposto si levano montagne dalle forme curiose. Nella torre oggi ci sono solo pochi piccioni, ma la visita è comunque affascinante e la costruzione perfettamente conservata. Mi siedo sul prato che circonda la torre immacolata: esternamente si presenta con pareti di fango dalle linee ondulate, sormontate da un fungo di mattoni.

Ripenso alla lunga passeggiata che mi ha portato fin qui: non ho osservato neppure una cartaccia per terra, strade e marciapiedi sono tutti molto curati, differentemente da quanto accade a Roma. Questi giorni Isfahan mi è parsa una città ben organizzata, con viali alberati, unico problema il traffico incessante. Un economicissimo taxi collettivo mi riporta in centro. Lungo Chahar Bag gusto un ottimo beryani, arrotolando il sottile pane persiano per formare squisiti involtini di carne speziata.

Il pomeriggio mi dedico a un’escursione al Tempio del Fuoco, una decina di chilometri dal centro cittadino. Per raggiungerlo ricorro a un comodo autobus, nel quale gli uomini devono sedere avanti e le donne dietro. L’Atashgah risale all’epoca sassanide ed è situato sopra una collina rocciosa che si erge isolata nella piana; si tratta di un antico tempio del fuoco zoroastriano, attualmente non più in uso. In cima la torre circolare è una struttura di fango e mattoni, senza tetto, con otto finestre sormontate all’interno da nicchie cieche, conosciuta come Burj-i Qurban, “Torre del Sacrificio”. Subito più in basso si distinguono mura isolate, con porte ad arco, resti di antiche stanze. È impressionante pensare di camminare in un sito sassanide, frequentato da seguaci di Zoroastro. Spira un vento fortissimo e in lontananza si sente qualche tuono. L’ascesa è stata faticosa ma breve, una sorta di scala naturale tra le rocce. Dall’alto verso il fiume, vedo sbucare alcune torri diroccate. Più lontano, sul lato verso la città, inconfondibile una torre dei piccioni con il grande cilindro sormontato da uno più piccolo. Lo strapiombo della collina è impressionante, la città lontana dopo la grande macchia verde che accompagna il fiume. Intorno alla piana, isolate montagne beige dalle forme mosse. Vagando sul pianoro in cima, raggiungo il lato opposto alla strada, protetto da contrafforti e torrioni quadrangolari di mattoni e fango.

L’autobus per i Manar Jomban (Minareti Oscillanti), questa volta è inequivocabilmente diviso in due da una fila di sedili per separare uomini e donne. Il santuario sorge sulla tomba dello sceicco sufi Amu Abdallah (1317) e presenta due bassi minareti; la leggenda popolare vuole che quando si colpisce con forza la cima di uno, anche l’altro inizi a oscillare. Il fenomeno è stato riferito da vari viaggiatori del passato, ma oggi non noto nulla. Significativamente all’ingresso del sito, la scritta “minareti oscillanti” è stata cancellata! La tomba invece è un bel sarcofago di marmo con iscrizioni cufiche.

Sul bus di ritorno mi siedo spalle all’autista. Nel settore femminile le donne sono tutte avvolte nei neri chador; mi viene in mente per contrasto il trionfo di colori delle vesti femminili in Occidente! Qui gli unici colori sono quelli dei bambini che viaggiano con le mamme.

In centro eccomi di nuovo nella moschea dell’Imam, seduto su un rotolo di tappeti nell’iwan di destra. Sono solo e mi godo la pace, accompagnata dal canto degli uccelli. Quando alzo gli occhi la massa armoniosa della cupola sembra incombere sopra di me come una gigantesca ciotola rovesciata. L’intreccio di viticci e fiori è fittissimo, fino al cerchio centrale dove lo sfondo bianco chiude il fondo della ciotola. Seguo il canto degli uccelli fino agli alberi della madrasa di destra e subito la luce torna a dominare sul mondo. La cupola e i minareti del santuario principale si ergono alti e luminosi. La luce del tardo pomeriggio non devasta gli occhi, consentendo di ammirare le maioliche splendenti senza accecarsi. Un portico e sono di nuovo nella penombra della sala “gotica” della preghiera. La visione dell’iwan verso la piazza è rovinata, tagliata a metà dai teli installati nella corte; due grandi fiori bianchi spiccano in alto ai lati dell’arco.

Nel santuario centrale questa volta posso fare il confronto con quanto ho visto nella moschea del Venerdì. Tutto qui è enorme e le decorazioni a maiolica sono ovunque. Non c’è quasi nessuno: dove saranno tutti i turisti? Una bambina al centro della sala grida “maman”; qualcuno le avrà detto dell’eco. Il suo modo di fare mi conferma che siamo tutti uguali; chiamiamo tutti allo stesso modo colei che ci ha generato. Se lasciassimo fare alla nostra vera indole non ci sarebbero guerre! Il papà batte le mani e l’eco rimbomba molteplice dalla volta. Le finestre traforate lassù in alto sono magnificenze dorate attraversate dalla luce. La mia predilezione è per gli spazi stretti e le atmosfere raccolte, ma in questo caso la maestosità è attutita dal grande ambiente vuoto e non posso negare il suo fascino. Alzo lo sguardo verso la cupola: anche qui le decorazioni vanno rimpicciolendosi verso l’alto, come se l’altissimo fosse irraggiungibile. Ancora una volta mi stupisce come possa essere stata collocata così in alto una cupola tanto larga!

Attraversata la corte, volgo indietro lo sguardo verso l’enorme iwan del santuario principale. I suoi colori sono delicati, ora che il sole si è nascosto dietro una nuvola. Dall’alto dell’arco lo spazio si scompone in una rete di geometrie nella quale spiccano alberelli gialli e azzurri. Non ci sono colori che creano contrasti accesi, come in una vetrata gotica, ma tinte tenui che formano un groviglio inestricabile.

Piazza Imam è seconda per dimensioni solo a piazza Tienanmen, ma, mentre la piazza cinese è un luogo triste dove il regime ha stabilito regole anche per attraversare la strada, nella piazza persiana regna l’allegria. La sera si anima di gente: i bambini giocano nelle fontane e nei prati, le ragazze ridono e chiacchierano, le carrozzelle corrono tintinnando. Sembra come se ogni giorno la fine della calura fosse celebrata con una festa: la gente esce dal buio dei luoghi chiusi dove si è riparata, per godere il fresco venticello.

Il momento dello shopping si conclude rapidamente: al “Fallahi Miniatures” acquisto due magnifiche miniature su osso di cammello, una con due giocatori di polo, l’altra con due amanti. Il ragazzo mi spiega che sono opera di suo padre, il maestro Fallahi. Al Fereni Hafez gusto invece il fereni, una crema di riso al miele veramente squisita.

Quando mi siedo di nuovo in piazza , subito sono abbordato dalle studentesse. Una prima coppia mi chiede di compilare un questionario sul soggiorno in Iran; studiano nel campo del turismo. Poi arrivano quattro ragazze, che dopo avermi osservato a lungo, osano chiedermi se sono iraniano o straniero. Sono molto allegre, felicissime di parlare con me, anche se una sola conosce l’inglese. Il vento agita i foulard attorno ai loro volti; mostro le fototessera della mia famiglia, spiegando che al mullah avevo evitato di mostrare la moglie. Mi dicono che non ci sarebbero stati problemi. Stefania piace moltissimo. Sono molto simpatiche; mi spiegano i colori della bandiera iraniana, mentre io mi lancio ad illustrare la teoria di Jason Elliot sulla moschea Lotfollah e racconto i miei giri per Isfahan. Naturalmente riempio di complimenti gli iraniani e il loro paese.

Martedì 3 giugno: Isfahan – Yazd

Tramite l’albergo ho prenotato il biglietto del bus per Yazd che parte alle sei e mezzo. La mattina quindi mi alzo presto, raggiungendo in taxi il terminal principale della città. Subito sono indirizzato alla compagnia; la sala di attesa è a pochi passi e il mezzo aspetta nella piattaforma appena usciti. Tutto è curato e pulito. Il bus appartiene alla categoria VIP: i sedili sono reclinabili, unico problema per me l’aria condizionata eccessiva. Partiamo puntuali ma prima di lasciare Isfahan ci aspetta un’oretta di attraverso la città, anche per raggiungere l’altro terminal cittadino.

Puntiamo verso oriente. Finalmente si vede qualche campo coltivato, ma presto il paesaggio torna desertico. Alle nove facciamo una sosta alla periferia di Nain e alle undici e mezzo arriviamo a destinazione a Yazd.

Sono alloggiato al Fahadan Hotel Museum, ospitato in una magnifica casa antica di due secoli e perfettamente risistemata. La mia piccola camera singola si affaccia proprio sulla grande corte centrale. Attraversata la città antica e superata le moschea del Venerdì, raggiungo la piazza centrale di Yazd, chiusa dalla quinta scenografica dell’Amir Chakhmaq. Come il Palazzo dei Venti a Jaipur in India, in realtà si tratta solo di una facciata, con due livelli di archi ogivali che diventano tre al centro accompagnati da una coppia di minareti. Passando sul retro emerge la struttura di mattoni a vista ed appare evidente l’assenza di un edificio dietro la facciata. La sistemazione della piazza risale all’epoca timuride, ad opera di un governatore che fece anche costruire una moschea, un caravanserraglio, un pozzo, una riserva d’acqua e una scuola di danza. La moschea è chiusa e devo quindi limitarmi alla visione della cupola dall’esterno. Presenta una forma inconsueta: sopra un primo tamburo, si leva un secondo e poi la bassa calotta. In mezzo alla piazza si trova un grande nakhl di legno, rappresentazione stilizzata della barella utilizzata per portare il corpo dell’imam Hussein dal luogo del martirio alla tomba. La parola nakhl letteralmente significa “palma da dattero”; molti sciiti credono, infatti, che il corpo dell’imam, ucciso dai sunniti, fu posto all’ombra di una palma, e la portantina riproduce ai lati proprio le sue foglie. Il giorno dell’Ashura, anniversario del martirio dell’imam Hossein, ci vogliono settanta uomini per sollevarlo e portarlo in processione.

Nella galleria dietro l’Amir Chakhmaq, pranzo in un kababi ordinando spiedini di jigar (fegato). Sull’altro lato della piazza, il museo dell’acqua è ospitato nella casa di un mercante del XIX secolo. Nella corte si distinguono belle decorazioni a stucco, in particolare quelle della piattaforma rialzata, nelle quali sono stati incastonati piccoli specchi. Al piano sotterraneo una mostra illustra il funzionamento e le tecniche costruttive dei qanat. Si tratta di un sistema di trasporto idrico antichissimo, usato per fornire una fonte affidabile d’approvvigionamento in ambienti caldi e aridi: l’acqua, raccolta nelle montagne, viene convogliata in canali sotterranei lunghi decine di chilometri e fatta scorrere unicamente grazie alla pendenza. La tecnica fu sviluppata proprio nell’antica Persia, per poi diffondersi in altre culture, in particolare lungo la via della seta: qualche anno fa avevo visitato un qanat a Turpan, nel Turkestan cinese. La costruzione e la manutenzione tradizionalmente spetta a un gruppo di lavoratori esperti, i muqanni, ancora oggi molto ricercati. Il mestiere si trasmette di padre in figlio; gli abiti di lavoro sono bianchi per essere più facilmente visibili. L’acqua viene tenuta fresca e immagazzinata in riserve con torri di ventilazione. Gli strumenti utilizzati sono quelli del passato, come argani e bacchette di legno a L; l’esposizione comprende anche grossi rubinetti dorati e un orologio ad acqua utilizzato come sistema di distribuzione. Una foto e un modellino riproducono la casa del ghiaccio di Meybod, costruita di mattoni di fango e utilizzata per conservare il ghiaccio durante l’estate (la sua struttura ricorda un grande covone). Scendendo ancora più in basso, raggiungo prima una sala fresca dove convergono vari bassi cunicoli e poi un sardab, un passaggio tagliato in un qanat per sfuggire ai roventi giorni estivi e conservare il cibo; anche qui mi godo il fresco dell’ambiente ottagonale con una vasca centrale nella quale l’acqua confluisce da due cunicoli.

Una corsa in taxi mi porta al Bagh Dolat Abad, giardino persiano costruito nel 1750 dal reggente della Persia Karim Khan Zand. Un canale, circondato da pini, lo attraversa tutto; intorno si trovano alberi da frutta, ma l’erba spelacchiata tradisce lo stato un po’ di abbandono. All’estremità del canale, sorge un padiglione ottagonale sopra il quale si leva un badgir di trentatre metri, la più alta torre del vento in tutto l’Iran, ricostruita negli anni Sessanta dopo un crollo. La sua struttura con otto lati permette di catturare ogni minima brezza, da qualsiasi direzione, anche se oggi non ci sarebbero problemi visto che spira un forte vento, che ha offuscato il cielo. La parte più bassa della torre è in pietra, mentre quella superiore, con le alte aperture verticali, è in mattoni. Dalla costruzione spuntano innumerevoli pali, dei quali ignoro la funzione. All’interno del padiglione attraverso varie sale con vasche di pietra e finestre dai vetri colorati. Quella centrale presenta una bella vasca di alabastro e un soffitto con cupola a muqarnas che culmina in una piccola calotta ottagonale. Il vento fa sbattere le porte, mentre ogni ripiano è coperto da un velo di sabbia, a ricordarmi che il deserto è dietro l’angolo. La sala posteriore si trova subito sotto la torre ed è un vero piacere sostarvi per la corrente fresca che vi spira. Sopra di me, lo spazio ottagonale è diviso in otto altissime cavità triangolari che incanalano l’aria fresca verso il basso: un sistema veramente ingegnoso di condizionamento naturale. In Iran da secoli l’uomo ha trovato soluzioni ingegnose per superare le avversità della natura. Le case costruite con spesse mura di mattoni hanno un’ottima resistenza alla trasmissione del calore: così, mentre nelle nostre abitazioni moderne le notti estive si boccheggia oppure si installano condizionatori elettrici, in Iran ho sempre dormito al fresco con la finestra chiusa.

Di ritorno in centro, la luce bassa del pomeriggio consente di ammirare meglio la piazza Amir Chakhmaq. Al centro si trova una fontana con tre personaggi in bronzo lucido (o ottone?), che versano l’acqua in ciotole da grosse borracce a tracolla. Un’entrata laterale della moschea è aperta per la preghiera; ne approfitto per infilarmi nella corte e, tolte le scarpe, nella sala della preghiera. Il mihrab di marmo è ricoperto di decorazioni a bassorilievo con una brocca nel mezzo.

Finalmente raggiungo la moschea Jameh, principale monumento cittadino. Il portale d’ingresso è tutto proteso verso il cielo, stretto e alto con due svettanti minareti di quarantotto metri. Le muqarnas sono collocate molto in alto; la catena all’ingresso costringerebbe ad inchinarsi solo un gigante! Tutto è rivestito di maioliche, con fasce di caratteri cufici, intrecci geometrici e vegetali. Ancora una volta dominano il cobalto e l’azzurro. Passata la porta si entra in un piccolo vestibolo, coperto da belle cupolette con lanterna, dalle quali pende un grande catino. Attraversata la corte, raggiungo subito la sala della preghiera; mi siedo sul pavimento tutto coperto di tappeti, ad ammirare il meraviglioso mihrab del 1375, con incredibili mosaici di maioliche. Mentre un gruppo di turisti poco rispettosi fa un gran baccano nel cortile, esamino i grandi pannelli di schemi geometrici quadrettati sulle pareti; sopra corre una magnifica fascia di scrittura bianca su sfondo cobalto. Anche la cupola è coperta da maioliche, ma meno raffinate; una particolarità è rappresentata dalle gallerie laterali (per le donne?). Due fedeli pregano davanti a me, ricordandomi che sono in un tempio religioso tuttora in funzione. Lo sguardo comunque è magnetizzato dall’incredibile serie di mosaici del mihrab: i diversi schemi sono una vera magnificenza. La corte al contrario è molto semplice: un’unica fila di archi di mattoni. Anche il portale d’ingresso visto da dentro rivela la sua struttura di mattoni. La cupola del santuario appare come schiacciata dalle dimensioni del portale.

Attorno alla moschea, si estende la città vecchia, un dedalo di vicoli con archi e passaggi coperti, sul quale affacciano case di fango. Le città iraniane hanno ormai un aspetto moderno e gli antichi monumenti sorgono spesso isolati, al di fuori del loro contesto originario. A Yazd invece il quartiere antico ha mantenuto intatto il fascino di un’epoca passata. Le mura delle case sono senza finestre, per proteggere l’intimità della famiglia ma anche per ripararsi dal caldo; le porte, con due batacchi, uno per gli uomini e uno per le donne, sono tutte chiuse. Prendo quindi a vagare alla ricerca di angoli pittoreschi, incrociando badgir che si levano alte, nakhl “parcheggiati” in mezzo a piazzette. Una cisterna dalla calotta sferica è raffreddata da quattro torri del vento. Sulla deliziosa piazza del mio albergo, affacciano gli edifici più belli. Il mausoleo dei Dodici Imam è chiuso; nonostante il nome, al suo interno non è sepolto nessuno degli imam sciiti. Nella prigione di Alessandro, il santuario rovinato all’angolo della corte ha una cupola che si leva a grandi altezze. In mezzo al cortile, si scende in quello che era l’antico pozzo, nel quale ora sono stati collocati i tavoli di una sala da tè, attorno a una vaschetta ottagonale. Proseguendo la passeggiata raggiungo Khan-e Lari, la casa di un mercante vissuto nell’Ottocento. Nella corte affacciano finestre di legno lavorato con vetrate; una tradizionale piattaforma di legno per sedersi è decisamente malmessa. Completano l’insieme due badgir, un vasto iwan con un piccolo nakhl. Tutte le pareti sono di fango, con il caratteristico color terracotta di Yazd. Curiosa una stanzetta con stucchi bianchi, specchi e foto di donnine europee d’inizio Novecento nella volta.

Vicino alla moschea del Venerdì, il santuario Bogheh-ye Sayyed Roknaddin ha finalmente aperto i battenti. La sua magnifica cupola, coperta di maioliche, è uno degli elementi caratteristici del panorama cittadino. L’interno invece è deludente, con gli stucchi alle pareti ormai scomparsi e la cupola nascosta dai ponteggi. In mezzo la tomba del santo presenta uno stretto sarcofago, dietro una protezione a grata dorata.

Dopo la cena a buffet, il guardiano tuttofare dell’albergo, un tipo esuberante con folti baffi neri, mi accompagna in un giro attraverso lo storico edificio. È stato perfettamente restaurato. Il ristorante è ospitato nella corte degli uomini, mentre la sala da tè si trova in quella delle donne. La camera più lussuosa ha persino un suo badgir, oltre a un letto imponente, un grammofono e un televisore a valvole. Sotto l’albergo scorre un qanat, mentre dal tetto si domina l’incantevole piazzetta, con la prigione di Alessandro e il mausoleo dei Dodici Imam sapientemente illuminati. Dopo qualche foto con un gruppo di iraniani, mi siedo in piazza a godere il fresco della sera su una panchina. Il luogo è delizioso e subito giunge un giovane a fare un po’ di conversazione con me.

Mercoledì 4 giugno: Yazd – gita a Meybod

Oggi è l’anniversario della morte di Khomeini, giornata di lutto nazionale. La mattina attraverso la città vecchia, percorrendo scorci incantevoli fino alla moschea. Questa volta il sole è nella posizione giusta per gustare a pieno l’altissimo portale. Il bazar è la solita successione di gallerie, ma i negozi sono tutti chiusi per la giornata festiva.

Una passeggiata mi porta fino alle Shis Badgir: sei torri del vento ottagonali circondano una cisterna coperta da cupola, formando un quadretto incantevole. I due portali che consentono di scendere alla cisterna con una lunga scala, sono sbarrati. Si ferma un’auto e mi fanno cenno di andare sull’altro lato. Seguo le indicazioni e trovo il guardiano che sta aprendo il complesso a una famiglia iraniana. Posso così entrare in una badgir, vedere da vicino la calotta della cisterna e affacciarmi sull’immensa riserva per l’acqua (un grande cilindro coperto dalla cupola con oculo nel mezzo).

Proseguendo la passeggiata raggiungo l’Atesgah, il tempio del fuoco dei seguaci di Zoroastro. L’edificio è moderno, con un classico portico colonnato. Sopra l’entrata è rappresentato Fravahar, l’angelo custode della religione di Zoroastro, spirito guardiano custode dell’anima e protettore delle comunità: la figura umana, con due grandi ali aperte, tiene in una mano un anello che simboleggia l’eternità. Dal vestibolo, attraverso un vetro, si può vedere il grande vaso dorato nel quale arde la fiamma, accesa dal 470 d.C. nonostante i vari traslochi. Non è possibile entrare per non contaminarla. Il compito di tenere il fuoco acceso spetta a un hirbod, un prete speciale che aggiunge vari legni più volte al giorno. In realtà gli zoroastriani non adorano il fuoco, ma lo considerano un simbolo di purezza; il loro unico Dio è Ahura Mazda (“Spirito che crea con il pensiero”). La religione nazionale della Persia antica fu spazzata via dall’islam, ma non si estinse del tutto, e piccole comunità sopravvivono ancora oggi, oltre che in Iran anche in Tagikistan, Azerbaigian e India.

Per la prosecuzione della giornata mi sono organizzato con un’auto privata per una gita a Meybod. Prima però mi faccio accompagnare alle Torri del Silenzio, che sorgono sopra due colline alla periferia di Yazd, proseguendo l’immersione nella religione di Zoroastro. Nella piana subito sotto si trovano alcuni interessanti edifici, una cisterna e due badgir. Una costruzione quadrata, nella parte bassa di fango sopra di mattoni, presenta quattro braccia e uno spazio centrale senza cupola. Un altro edificio, rialzato su una piattaforma, ha un tetto di mattoni e quattro ingressi, uno per lato. L’interno è pieno di scritte, con quattro camere angolari dotate di nicchie. Altri edifici ripetono questa struttura. A questo punto decido di scalare la collina più bassa; il sole picchia forte e il termometro del mio orologio segna trentanove gradi. In cima si trova una grande torre: attraversata una porticina, mi trovo in un recinto circolare con una buca nel mezzo. I zoroastriani, per non contaminare né il cielo né la terra, esponevano i corpi dei defunti in torri come questa, affinché fossero divorati dagli avvoltoi, dopo averli trattati probabilmente negli edifici alla base delle colline. Ancora oggi per non contaminare il suolo, seppelliscono in cimiteri con camere di cemento. Sono solo, mi fermo a contemplare il luogo desolato: il fischiare del vento sembra riportarmi indietro di millenni, alla religione monoteistica più antica al mondo. Nonostante la vicinanza della civiltà moderna, regna il silenzio. Il sole è allo zenit; il guardiano siede sotto la porta d’ingresso, unico posto all’ombra. Gli edifici in basso appaiono tanti modellini, come un plastico nella piatta distesa desertica.

Arrivati a Meybod, ci fermiamo proprio davanti alla fortezza Narein, che sorge imponente su una bassa collina di argilla in mezzo alla città. Gli edifici di mattoni e argilla coprono una superficie di cinquemila metri quadrati. Nella sua storia la fortezza fu attaccata varie volte ma risultò invincibile; risale all’epoca sassanide ed è il più antico edificio di mattoni di fango in Iran, giunto fino ai giorni nostri. Superata una prima porta, dietro se ne trova una seconda protetta da una torre. È incredibile pensare che una struttura di fango sia ancora in piedi dopo millenni. Dall’alto la vista spazia sulla distesa di case di argilla della città, una visione incantata di altri tempi; molte hanno tetti ondulati. Compio il giro intorno all’edificio centrale, impressionante per l’altezza delle mura; si conservano anche i piccoli merli. Una piccola porta vi da accesso. Mi soffermo a guardare le mura da vicino: file isolate di mattoni separano grandi blocchi. Nel pianoro in cima la temperatura raggiunge i quarantadue gradi. Delle varie stanze sono sopravvissute solo basse mura. Una signora tutta vestita di nero si avventura sulla scala che porta alla terrazza più alta, ma rinuncia a metà. Ora la visione della case di Meybod è eccezionale, una della più belle del viaggio! Una grande abitazione presenta un cortile porticato, dotato di badgir. In lontananza scorgo la massa della casa del ghiaccio e la cisterna con i quattro badgir. Le finestrelle della fortezza che avevo visto dal basso si rivelano essere le feritoie del parapetto.

Ripresa la macchina, raggiungiamo subito lo Yakh Dan, un’enorme sala del ghiaccio. L’immensa sfera ho solo un piccolo oculo in cima. Lo spessore delle mura impediva al ghiaccio di sciogliersi d’estate. Veramente impressionante; il raggio di luce che filtra dall’oculo sembra magico! Sono fortunato: faccio appena in tempo a visitare l’interno che il guardiano chiude tutto (aveva aperto solo per alcuni turisti iraniani). Attraversata la strada raggiungo altri interessanti edifici: una cisterna circondata da quattro badgir e l’ultimo sopravissuto degli antichi uffici postali, oggi sede di un museo tematico. Sono esposti vecchie macchine da scrivere, cassette postali, manichini di ufficiali, francobolli da tutto il mondo; nella corte sono riprodotte le mangiatoie per i cavalli. Completa l’insieme degli antichi edifici, un caravanserraglio perfettamente restaurato che ospita negozi e persino un ristorante. Al centro una fontana ottagonale di mattoni.

Un altro tragitto in macchina ci porta fino alla Kabootar Khaneh. La torre dei piccioni di Meybod sicuramente è meno affascinante di quella di Isfahan: all’interno è troppo perfetta, persino con una balaustra di legno al primo piano. Il posto è comunque interessante. Mohammud, il mio driver, non parla inglese, così chiama al cellulare il fratello per farmi illustrare il posto, l’utilizzo del guano per i garden. I fori per i piccioni hanno piccole mensole, alcuni ospitano lanterne; in giro però non ci sono uccelli.

La sera a Yazd ceno in un locale ospitato in un antico hammam. Le due sale sono destinate una al tè e l’altra ai pasti. La scelta per mangiare è molto limitata. Ordino uno yogurt e un khorest, ma mi arrivano uno yogurt confezionato e un’unica polpetta con il sugo. Il conto poi è uno dei più salati del viaggio; ora capisco perché il ristorante è stato depennato dall’ultima edizione della Lonely Planet. Più tardi, piazza Amir Chakhmaq è animata di gente; molti siedono sull’erba a chiacchierare.

Il bus per Shiraz partirà solo a mezzanotte; mi siedo quindi di nuovo su una panchina nella piazzetta davanti all’albergo, per godermi lo spettacolo delle cupole illuminate e il vento fresco. Il momento di riposo, mi concede qualche riflessione sul viaggio. Le città iraniane che ho visitato hanno tutte un aspetto moderno: anche nel quartiere antico di Yazd le stradine sono asfaltate e le motociclette (se non addirittura le auto) hanno sostituito gli asini. Tuttavia la cultura millenaria ha lasciato ovunque il segno, non solo nei grandi monumenti. Ancora oggi le torri del vento sono un efficiente sistema per rinfrescare le case e i qanat continuano a rifornire di acqua le città nel deserto; solo le case del ghiaccio sono cadute in disuso per l’avvento dei frigoriferi. Oltre alla modernità, mi hanno colpito anche la pulizia e il perfetto stato dei centri storici, che avvicinano questo paese agli standard occidentali. Ieri sera ho chiacchierato a lungo con un ragazzo. Anche lui si è lamentato della crisi che incombe sull’economia, a causa del boicottaggio ma anche del governo che, ad esempio, non fa nulla per promuovere il turismo. La valuta locale si deprezza continuamente rispetto all’euro e al dollaro, rendendo del tutto irrealizzabile il sogno di un giovane iraniano di visitare l’Europa e il mondo. Eppure l’Iran avrebbe tutti i presupposti per diventare una grande meta turistica: strade e trasporti eccellenti, monumenti eccezionali. Il giovane mi ha citato con invidia l’esempio della Turchia, sarcasticamente sottolineando che le giornate soleggiate in quel paese sono citate come motivo di attrazione, mentre in Iran ci si preoccupa solo per il caldo. Probabilmente il governo conservatore e teocratico considera troppo pericoloso aprire del tutto il paese agli stranieri, per le conseguenze che potrebbe avere sulla mentalità della gente, e questa paura ha la meglio anche sulla preziosa valuta che potrebbe portare.

Insolitamente questa sera nessuno viene ad interrompere i miei pensieri. Alle dieci la piazza si è svuotata. Un ultimo saluto al cubo di mattoni del mausoleo dei Dodici Imam, con la cupola leggiadramente poggiata su un loggiato di otto lati di trifore. La luce che ne esce ha qualche cosa di fatato, al confronto con il candore lucente delle muqarnas nella prigione di Alessandro.

Alla stazione dei bus, il mezzo notturno per Shiraz appartiene alla categoria VIP superlusso: tappeto per terra, sedili larghi e avvolgenti; sembra la business class di un aereo. Il viaggio dura circa sei ora, ma il mal di schiena e l’aria condizionata mi impediscono di dormire quasi del tutto.

Giovedì 5 giugno: Shiraz

La mattina il tassista guida come un pazzo. Al Niavesh Hotel sembrano sorpresi del mio arrivo; la camera prenotata a quest’ora non è disponibile, ma più tardi “dovrebbe” esserlo! Lasciato quindi il bagaglio, un’altra corsa in taxi mi porta alla tomba di Saadi. Poeta amatissimo, visse ai tempi delle invasioni mongole; il suo aforisma più celebre è citato all’entrata delle Nazioni Unite.

Sono le sette e venti e il sito è ancora chiuso, ma continua ad arrivare gente per cui non mi preoccupo. Ormai ho imparato i numeri persiani; così scopro che il biglietto per i locali costa ventimila rial invece dei centocinquantamila che devono sborsare gli stranieri. L’attesa si prolunga, ma finalmente dopo le otto aprono. La tomba si trova in fondo a un bel giardino, ospitata in un mausoleo modernista del 1950 che non rinuncia comunque alle tradizionali maioliche. Il sarcofago con inscrizioni cufiche è protetto da un vetro. Una scala porta nel sottosuolo alla pozza dei pesci, risistema nel 1995 ma dalle origini molto più antiche. I pesci vi sguazzano da secoli, mentre l’acqua, considerata molto salutare, è piena di monete.

Una passeggiata mi porta fino alla tomba di Hafez, altro grande poeta, maestro del ghazal l’ode persiana, ancora oggi popolarissimo e amatissimo. Il suo stile ha fissato gli standard della poesia persiana, i suoi cinquecento ghazal, utilizzati come oracolo aprendo il libro a caso, sono imbevuti di significati mistici sufi ma non disdegnano toni erotici. I temi principali sono l’amore, la celebrazione del vino, la messa a nudo dell’ipocrisia.

La tomba è ospitata al centro di un grande quadrilatero porticato, dietro un giardino. La collocazione risale al 1773 ad opera di Karim Khan Zand, ma l’attuale padiglione ottagonale è stato realizzato solo nel 1938. Sotto di esso è collocato il sarcofago di marmo bianco lucente che reca incisi versi del poeta. La gente si affolla intorno toccandolo; un tizio si inginocchia con un libro in mano, bacia la tomba e prega. Il posto è affollatissimo, a dimostrare l’amore degli iraniani per Hafez. Una famiglia legge ad alta voce un libretto, immagino una sua opera. Purtroppo la dolce musica che faceva da sottofondo ai versi poetici al mio arrivo, ben presto viene sostituita da canti più scatenati. Mi soffermo a lungo a guardare la gente, mentre il seguace di Hafez è sempre lì inginocchiato che prega davanti alla tomba.

Ripresa la passeggiata, subito prima del fiume visito l’imamzadeh Ali Ebn Hamze, realizzato in epoca qajar, anche se la costruzione originale risaliva al IX secolo. Il cortile, lastricato di pietre tombali, è dominato in fondo dall’alta cupola maiolicata. È il mio primo incontro con le caratteristiche cupole a cipolla di Shiraz che mi ricordano quelle delle chiese ortodosse russe. Due ingressi separati al santuario sono riservati a uomini e donne. Nell’interno, interamente rivestito di specchietti, la divisione tra i sessi persiste; al centro la tomba dell’emiro Ali, parente del quarto imam.

Finalmente raggiungo il centro cittadino. Nel Settecento Kharim Khan della breve dinastia Zand fece di Shiraz la capitale della Persia, realizzando una serie di importanti opere architettoniche. Durante il suo regno si limito ad assumere il titolo di Reggente. L’Arg Karim Khan Zand è una cittadella protetta da alte mura di mattoni con quattro torri angolari circolari decorate da schemi geometrici, sempre di mattoni. Una appare pericolosamente inclinata. Sopra il piccolo portale un grande pannello maiolicato rappresenta un episodio dello Shahnameh (Il Libro dei Re), nel quale Rostam, il più potente eroe della mitologia persiana, combatte il demone bianco Deev. L’opera, realizzata dal poeta persiano Ferdowsi attorno al Mille, rappresenta l’epica nazionale persiana, il passato mitico e storico del paese dalla creazione del mondo fino alla conquista islamica. Varcato l’ingresso si accede a un’ampia corte, divisa in due da una vasca e occupata da un verde agrumeto. I numerosi visitatori iraniani sono attratti soprattutto dalla stanza con le statue di cera della corte Zand.

Su un lato della piazza, il piccolo giardino Nazar è un’altra opera di Kharim Khan. Il padiglione ottagonale doveva essere il suo mausoleo ma, alla caduta della dinastia Zand, Agha Mohammed Qajar ordinò che le spoglie fossero esumate, portate a Teheran e collocate nel Golestan, in modo che ogni volta che lo shah e i suoi ministri varcavano la soglia potessero calpestare Kharim Khan. L’esterno presenta decorazioni a maioliche con fiori, uccelli e scene di corte. All’interno, sotto una bella cupola a muqarnas dipinta con fiori, è allestito il museo del Pars, la regione di Shiraz dal quale discende il nome attribuito al paese dagli occidentali. Tra gli oggetti dell’epoca, due enormi corani e la spada ricurva del Reggente. Il soffitto mi ricorda quello dei padiglioni safavidi di Isfahan.

Poco più in là, vicino al bazar, la moschea del Reggente presenta un portale non particolarmente imponente, ma caratterizzato da una grande varietà di decorazioni a maiolica. Mi colpiscono in particolare i numerosi alberi pieni di grandi fiori colorati su sfondo bianco. È giovedì e purtroppo la moschea è chiusa, come anche il bazar subito a fianco.

Gli ingressi ai vari monumenti mi stanno svenando; approfitto quindi di un momento di distrazione dei guardiani, per infilarmi senza pagare nel Bagno del Reggente. La vasta sala ottagonale è affollatissima, probabilmente per la presenza delle solite statue di cera. Al centro la vasca, intorno un porticato sempre ottagonale. Ogni spazio è sormontato da una cupoletta; sotto le statue di cera riproducono personaggi nei costumi di un tempo (contadini, atleti). In una seconda sala figure di uomini intenti alle varie operazioni dell’hammam, tra le quali anche andare dal dentista!

Allontanandomi un po’ dal centro, raggiungo la moschea Nasir Al Molk. Il piccolo raffinato portale presenta nelle decorazioni a maiolica la particolarità di minuscoli ovali che ritraggono casette. La muqarnas è delicatissima grazie all’alternarsi di facce blu e verdi. Faccio appena in tempo ad affacciarmi nel cortile per ammirare il grande iwan, che il custode mi caccia perché deve chiudere, anche se gli italiani che sono già all’interno continuano a rimanervi per un bel po’. Mi suggerisce comunque di tornare nel pomeriggio.

Nell’Ottocento la famiglia Qavam ol-Molk si fece costruire una ricca dimora in stile qajar: sui lati di una stradina sorgono il buruni, destinato a ricevere gli ospiti, e l’andaruni, con gli alloggi privati. Inizio la visita da quest’ultimo, denominato Khan Zinat ol-Molok. La corte presenta un prato fiorito su cui affacciano un talar tutto decorato con specchi sulle pareti, finestre di legno e un grande frontone di maiolica con due leoni affacciati. La sala principale risplende tutta di specchi, questa volta anche colorati; nel soffitto di maiolica coppie di figure alate. Mi siedo nel talar per gustarmi un faludeh, una coppa di dolci vermicelli semi-congelati, innaffiati con succo di mirtilli. Si tratta di un dolce caratteristico di Shiraz, dalle origini antichissime che risalgono al 400 a.C. Il Narajestan (aranciera) oggi è chiuso e devo rimandarne la visita.

Tornando indietro, in un vicolo affaccia la madrasa del Khan con un maestoso portale a muqarnas del Seicento. La scuola coranica è ancora attiva, per cui posso affacciarmi solo un attimo e gettare uno sguardo al grande cortile, approfittando dalla porta socchiusa.

Dopo aver preso possesso della mia camera d’albergo, il pomeriggio visito uno dei luoghi più sacri per gli sciiti iraniani: il santuario Shah Cheragh (“Re di Luce”) commemora due tra i molti fratelli di Reza, ottavo imam sciita, unico a essere sepolto in Iran nella città santa di Mashhad. Ahmad e Muhammad si rifugiarono a Shiraz per sfuggire alle persecuzioni del califfo abbaside; Amir Ahmad morì o fu ucciso proprio a Shiraz nell’835 d.C. Il sito in cui erano stati inumati fu riscoperto solo più tardi, secondo la leggenda per la luce che scaturiva dalla sepoltura. Le tombe divennero meta di pellegrinaggio, in particolare dal XIV secolo quando la pia regina Tashi Khatun fece erigere una moschea e una scuola teologica nelle loro vicinanze.

Prima di entrare devo lasciare la borsa e la macchinetta fotografica al deposito. Attraversato un portale, accedo a un vastissimo spazio circondato da un porticato con due livelli di arcate. Sul lato corto dell’ingresso si erge il santuario principale, dedicato ad Amir Ahmad. La cupola a cipolla sembra poggiata sul tetto, per il suo collo stretto; sopra sventola una bandiera verde e a fianco tre sfere dorate coperte da un ombrellino. I minareti sono due birilli che si levano direttamente dal terreno; davanti un porticato di legno. Ciò che si vede oggi risale principalmente al XIX secolo, in particolare i giochi di specchi che vedrò all’interno. La cupola e i minareti sono ancora più recenti, costruiti nella seconda metà del Novecento. Uno degli inservienti mi consiglia di fare una foto con il cellulare, ma non oso e non ne ho neppure voglia. Il santuario sarebbe accessibile solo ai musulmani, ma m’infilo lo stesso. Depositate le scarpe con tanto di numero ricevuta, entro nella parte riservata agli uomini. Il muro divisorio è attraversato dalla tomba del santo, in modo da consentire ad entrambi i sessi di toccarla. La visione è un incredibile sfolgorio di specchi sfaccettati; dalla cupola pende un gigantesco lampadario a gocce. La tomba è protetta da uno scrigno di argento con la solita griglia, che tutti toccano pregando; un tipo seduto per terra vi si tiene avvinghiato. Molti prendono una specie di pedina di legno da un carretto e pregano, chinando la testa per terra fino a toccarla. Non tutti però sono impegnati in funzioni religiose: alcuni dormono al fresco, un mullah, terminata la preghiera, fa una telefonata con il cellulare. La mia presenza non sembra disturbare nessuno: gli inservienti mi guardano senza battere ciglio. Per non dare le spalle al santo, esco anch’io camminando all’indietro.

Tornato nella corte, mi siedo sotto uno dei pochi alberi nel grande spiazzo. Alcuni dormono sdraiati sui tappeti. Questa mattina un ragazzo mi ha spiegato che le tante lastre tombali nell’imamzadeh Ali Ebn-E Hamze sono dovute al desiderio di riposare per l’eternità vicino a un santo. Anche per i vivi deve essere un po’ la stessa cosa: schiacciare un pisolino al santuario restituisce le forze e rinfranca lo spirito. Lo stesso principio vale per chi beve l’acqua della fontana, fornita di dispenser con bicchieri di plastica.

Il secondo santuario, in un angolo in fondo alla corte, è dedicato a Mir Muhammad, fratello di Ahmad, ed ha mantenuto maggiormente la struttura del XVI secolo, anche se le decorazioni sono per lo più di epoca qajar. Molto più piccolo, mostra all’esterno anche elementi dorati, dietro il portico di legno. In alto la cupola con le tre sfere e la bandiera. All’interno l’atmosfera è ancora più rilassata: alcuni scattano foto ricordo con il cellulare, un inserviente mi saluta con “welcome to Shiraz. Nella sala in fondo molti leggono, altri scrivono come se stessero studiando. Gli ambienti ripetono lo sfolgorio di specchi, ma in maniera più sobria: questa volta il lampadario monumentale è nel settore femminile. Tornato nella corte, la luce accecante mi fa lacrimare gli occhi, mentre solo l’acqua della fontana può dare sollievo dall’arsura.

Terminata la visita e recuperate le mie cose al deposito, attraverso vicoli di misere case e grazie all’aiuto dei locali ritrovo la moschea Nasir al-Molk. La corte con due iwan ripropone le mattonelle con paesaggi dipinti. Su un lato, la sala d’inverno presenta basse colonne a tortiglione, analoghe a quelle della moschea del Reggente che ancora non ho visitato. L’ambiente ha tre navate con volte tutte maiolicate. La muqarnas del santuario principale mostra inequivocabilmente la sua ispirazione naturale a una caverna. Dalla sala sul lato opposto alla moschea d’inverno, raggiungo il pozzo della mucca, così chiamato perché un tempo per tirare su l’acqua venivano usati proprio i bovini. È profondissimo.

Concludo l’impegnativa giornata raggiungendo in taxi i Bagh Eram, che recano il nome di uno dei quattro giardini del Paradiso nel Corano. Sistemato in epoca qajar, ma un giardino già esisteva dai tempi dei Selgiuchidi, oggi appartiene all’università che vi ha installato un orto botanico. Il candido edificio centrale non può essere visitato. Passeggiando nei recessi meno affollati (si fa per dire!) apprezzo la musica classica diffusa dagli altoparlanti.

Venerdì 6 giugno: Shiraz – gita a Bishapur

Per visitare il sito archeologico di Bishapur mi sono organizzato, tramite l’albergo, con un auto privata. La partenza è fissata alle sei e mezzo del mattino, per evitare il più possibile le ore calde. Il driver Behrooz Miri conosce solo qualche parola di inglese, ma prima di lasciare Shiraz ci fermiamo a prelevare un altro passeggero, l’ingegnere Ali che parla invece un ottimo inglese.

Percorriamo la solita autostrada perfetta, dirigendoci verso Kazerun in un paesaggio di brulle colline. Superata una verde conca circondata da montagne, compaiono dopo tanto tempo gli alberi. Saliamo fino a 2100 metri di quota; in cima la vista si apre in lontananza su una vasta distesa, preceduta da un curiosa striscia di collinette dalle forme tutte uguali, allineate come soldati. Ci fermiamo vicino a una fontana per un picnic a base di formaggio, cocomero e pane, seduti su un telo steso per terra. Ali è ingegnere; ha studiato in America ed ha visitato due volte l’Italia, nel 1995 e 1996, ma non è mai stato a Roma. Parliamo dei nostri paesi e della loro situazione economica. Ripartiti, scendiamo in una vallata piena di alberi da frutta. In primavera per il Norouz, la festa del nuovo anno persiano, Ali percorre spesso questa strada con la famiglia per fare una gita. Una nuova discesa ci porta fino a 900 metri di quota; nella piana infuocata spiccano le torri di una centrale (?). Alle nove siamo a Kazerun, dove accompagniamo Ali a una casa. La vicinanza del Golfo Persico si avverte anche nella presenza di una pescheria con montagne di gamberetti e grossi pesci immersi nel ghiaccio. Proseguiamo poi in piano, attraversando qualche palmeto in un paesaggio ormai diverso dall’altopiano centrale che mi ha accompagnato per il resto del viaggio.

La città palazzo di Bishapur fu costruita nel 266 d.C. dall’imperatore sassanide Shapur I (Sapore I), grazie anche al lavoro dei prigionieri romani. Lo schema è quello di una griglia ellenistico romana, invece della pianta circolare preferita dai parti e dai primi sassanidi. Appena entrato nel sito, incrocio subito un lungo tratto di mura della città, conquistata dagli arabi nel 637. Sopravvivono per tre metri di altezza con una serie di torri circolari. Subito davanti i resti di un edificio con quattro ingressi e due corridoi a croce, esterno alla città; in giro non si vede quasi nessuno, anche il museo è chiuso. Terminato il tratto di mura, entro nella città palazzo, in gran parte ancora non scavata mentre molto di quanto è stato scoperto si trova ora al Louvre. Un edificio costruito con pietre a secco presenta quattro torri angolari. Anche in questo caso le mura sono conservate per un paio di metri, ma sono più alte attorno alla porta, formata da quattro grandi blocchi di pietra, uno per lato. All’interno rimangono solo le basi delle camere, affacciate attorno a una corte centrale con colonne (anche di queste sopravvivono solo le basi). Lo schema è quindi quello tipico delle abitazioni ellenistico romane.

La mia attenzione è subito attratta da un edificio molto più nobile, formato da grandi e raffinati blocchi di pietra. Tramite una scala in discesa, coperta in parte da una volta, attraverso un arco e raggiungo una corte quadrata. Gli stipiti delle porte, una per lato, sono formati da grandi blocchi. Tutto intorno corre un deambulatorio coperto da volta a botte, nel quale confluiscono alcuni canali per l’acqua. Chissà quale sarà stata la funzione dell’edificio? L’ipotesi più accredita è che si trattasse di un tempio di Anahita, divinità zoroastriana associata con la battaglia, la fertilità e l’acqua. Infatti sono stati ritrovati due capitelli a forma di toro, collocati ora in cima al muro di fronte all’ingresso ma quasi irriconoscibili. Sacrifici di tori erano offerti nei santuari di Anahita e i sassanidi si consideravano proprio discendenti di un alto sacerdote del tempio di Anahita a Istakhr, vicino Persepoli.

Proseguo la visita con una grande edificio caratterizzato da quattro ingressi, uno solo dei quali conserva l’alto arco, attraverso cui si accedeva a un vasto spazio. Probabilmente si trattava della sala delle udienze reali. La pianta è cruciforme con tre nicchie per ogni lato e quattro iwan. È difficile stabilire se lo spazio centrale un tempo fosse coperto oppure all’aria aperta. Di fianco, separato da una stradina, si trova un altro monumentale edificio, al quale si accedeva da un lato attraverso tre archi di cui rimangono solo le mura laterali riparate da una tettoia. Vi sono stati trovati molti mosaici. Proseguendo l’esplorazione, due archi gemelli formano un bello scorcio dopo la sala della udienze. Poco oltre un muro con grandi conci, che recano incise figurine umane, limita uno spazio sotto il livello del terreno. Gli archeologi francesi ipotizzarono che potrebbe trattarsi della prigione dell’imperatore Valeriano. Sconfitto a Edessa da Sapore, ormai in condizioni disperate, fu invitato a un incontro con il Gran Re persiano che lo fece prigioniero a tradimento.

Terminata la visita raggiungo il driver che mi aspetta all’ingresso. In macchina c’infiliamo nello stretto canyon tra le due montagne di fronte al sito, seguendo la riva destra del fiume. Subito incrociamo un grande rilievo scolpito nella roccia, in parte scomparso. La composizione comprendeva due figure a cavallo, ma di una si conservano solo le zampe dell’animale e dell’altra il cavaliere fino al tronco con la veste al vento. Si tratta di Ahura Mazda che investe Shapur I del potere. Sotto il cavallo dello shah, la figura distesa che poggia la testa su un braccio probabilmente è Gordiano III, ucciso dai suoi stessi soldati dopo la sconfitta sull’Eufrate; l’imperatore in ginocchio con gonnellino invece è Filippo l’Arabo che dovette pagare a Shapur un’ingente somma di denaro per assicurarsi la pace. Poco oltre, un altro grande pannello, meglio conservato, è ricco di figure: Shapur a cavallo con la corona in testa tiene per i polsi Valeriano prigioniero, Filippo l’Arabo si inchina davanti a lui, mentre Gordiano III viene calpestato dal cavallo; intorno file di soldati con elmetto che copre il collo, cortigiani con cappello a punta e lancia, cavalieri con cappello a cilindro. Tutti i personaggi, come sempre in questi bassorilievi, sono rappresentati di profilo. Una figura alata porta un drappo verso Shapur. Filippo e Valeriano indossano un gonnellino; Filippo ha un grosso spadone.

Tornando indietro, passiamo sull’altra sponda del fiume, dove nell’area di visita denominata Tang-e Chogan continua la serie di rilievi rupestri. Il luogo è apprezzato per i picnic; durante la visita incrocio diverse persone che procedono a piedi nel fiume. Il primo rilievo è stato rovinato dall’acqua che ha annerito molte figure ed è un vero peccato. Al centro Shapur con i soliti tre imperatori sconfitti. Ai due lati, nelle cinque file sono presenti circa duecento figure: persiani a sinistra, romani e arabi a destra. Riconosco soldati a cavallo, carri, fanti, figure togate; a destra, nella prima fila in basso, i cavalli rappresentati con i finimenti e allineati uno dietro l’altro, sono molto belli. Il successivo rilievo presenta un grande Bahram II a cavallo, con i lunghi riccioli al vento e un elmo piumato, mentre riceve i capi delle tribù arabe da lui sottomesse, uomini dal volto rude con elmetto a calotta e fazzoletto che copre la nuca. La guida del posto mi segnala alcuni particolari: la grande bolas che pende dal cavallo del re, i cammelli dietro gli arabi, il guardiano sassanide dai folti riccioli che li controlla con le braccia incrociate poggiate su uno spadone. Il terzo rilievo presenta due grandi figure a cavallo: Ahura Mazda consegna l’anello del potere a Bahram I. La divinità ha folti riccioli che sbucano dalla corona e il mantello al vento; il re protende il braccio destro e indossa una corona dentellata, stile re Artù, i suoi capelli sono lunghi ma lisci. Sotto il cavallo del re giace schiacciato Bahram III; nell’angolo in alto a destra Narseh, fratello di Bahram I, fece aggiungere un’iscrizione in pahlavi, il persiano dell’epoca sassanide. Il quarto e ultimo rilievo probabilmente non fu mai terminato. Due file di figure convergono verso lo shah nel mezzo, di difficile identificazione. Si tratta sicuramente di popolazioni sottomesse che rendono omaggio al re (Asia Centrale, Shapur I?). Alcuni si poggiano su grandi spadoni, altri procedono a cavallo; lo shah siede sul trono con uno spadone (o un lungo scettro) in mano.

Completata la visita, leggo sulle guide che nelle vicinanze, in prossimità di una grotta, si trova una statua di Shapur, alta più di sette metri. Per raggiungerla però dovrei farmi accompagnare in auto fino a un villaggio e camminare per un’ora, impresa che farebbe molto preoccupare il mio driver terrorizzato dal caldo! Tornati quindi a Kazerum e recuperato Ali, per pranzo raggiungiamo l’associazione degli ingegneri, dove servono a ciascuno una vaschetta confezionata con pollo, manzo e riso, accompagnati da una salsetta; concludiamo con yogurt e frutta. Siamo in quattro perché si è unito a noi un amico di Ali dell’associazione, forse il direttore. Per rompere il ghiaccio mostro le foto della mia famiglia.

La strada del ritorno è congestionata di camion, costringendo il driver a impegnativi sorpassi. Ci troviamo infatti sulla direttrice proveniente da Bushehr, importante porto sul Golfo Persico.

Il pomeriggio a Shiraz visito il Naranjestan, chiuso il giorno prima. La corte presenta un bell’aranceto, diviso in due parti da una striscia di fiori colorati attraversata da una canale; bellissimi i grandi fiori gialli con pallini rossi. In fondo si trova il padiglione con la terrazza centrale, un talar ricoperto di specchi secondo il gusto ottocentesco; la saletta subito dietro è ancora più sfolgorante. Alla base del padiglione, bassorilievi con leoni e soldati armati di fucile con baionetta, insieme a personaggi nello stile di Persepoli. Le sale laterali hanno soffitti di legno e pareti affrescate con motivi floreali. Nel piano seminterrato l’esposizione di oggetti antichi è frutto del lavoro del professore americano Arthur Pope, famoso orientalista che volle essere sepolto a Isfahan, dopo avere insegnato dieci anni all’istituto orientale di Shiraz ospitato proprio in questo edificio. Il pezzo più interessante è una ceramica del III millennio a.C. con uccelli stilizzati dalle code che sembrano pettini. Al piano superiore i soffitti di travi di legno sono dipinti con paesaggi e donne europee (stile figurine inizio Novecento), dentro piccoli medaglioni.

Più tardi, mentre cammino, un papà con una bambina mi rivolge le solite domande sull’Iran, per poi rivelare di essere un rifugiato afgano. Parla perfettamente inglese e sono dieci anni che vive in Iran. La sua pelle è scura, gli occhi due fessure; viene da una città vicino Kabul. Gli chiedo se vorrebbe tornare in Afganistan, ma mi risponde che per lui sarebbe difficile trovare lavoro perché nel suo paese c’è solo “gente semplice”. Vorrebbe però lasciare l’Iran perché la vita per gli afgani non è agevole. Ci sono molti rifugiati e il governo ha imposto loro svariate limitazioni: non possono comprare un’auto, fare certi lavori. Gli auguro di cuore buona fortuna.

Alla ricerca di un posto dove i locali si siedano all’aperto a chiacchierare, lo trovo nei prati davanti alla fortezza Zand. In questa stagione la sera si sta veramente bene. Il prato è pieno di gruppi: coppie, amici, circoli di donne con bambini, tutti si godono il fresco dopo il sole accecante del giorno, che ancora più del caldo rappresenta per me il maggiore problema.

Sabato 7 giugno: Shiraz – gita a Persepoli

Il driver di oggi, Habib Moousavi, parla molto bene inglese e si dilunga in spiegazioni. Guida un minivan con il quale porta in giro i gruppi di turisti, ma oggi io sono il suo unico passeggero. Ripercorriamo l’autostrada per Isfahan, attraversando una fertile regione con molte fattorie, sede anche dell’università dell’agricoltura.

A Persepoli gli immensi parcheggi sono quasi deserti, ma l’autista mi precisa che durante il Norouz erano stracolmi. Il sito si presenta come una grande piattaforma alta più di dieci metri, che si erge nella piana, limitata da un muro di enormi blocchi scuri, sopra la quale in controluce si ergono colonne e pilastri. La costruzione risale ai tempi di Dario e dei suoi successori, mentre gli scavi archeologici iniziarono solo negli anni trenta del Novecento.

Alessandro Magno, giunto a Persepoli da conquistatore, fece appiccare il fuoco ai palazzi, per vendicare il saccheggio e l’incendio dell’acropoli di Atene ad opera di Serse. Ancora oggi non è possibile stabilire se l’incendio fu programmato deliberatamente oppure fu il frutto di un “momento di follia”, successivo a una festa nella quale i macedoni ubriachi si lasciarono trascinare nella vendetta dalle parole di Taide, etera ateniese al seguito dell’esercito. L’episodio sembrerebbe un aneddoto, ma la successiva politica di Alessandro, rivolta all’integrazione con i persiani, non sembra conciliarsi con la distruzione programmata del loro sito cerimoniale più importante.

L’accesso a Persepoli, oggi come un tempo, avviene attraverso la Grande Scalinata; due rampe, una per i delegati delle nazioni sottomesse, l’altra per i nobili persiani, conducono alla terrazza. I gradini bassi servivano, non per i cavalli, ma per facilitare l’accesso a chi indossava nobili e lunghe vesti. Subito dopo si erge la grandiosa Porta di Tutte le Nazioni, costruita da Serse, successore di Dario. I due grandi quadrupedi con fasce di borchie hanno perso la testa umana; anche l’architrave è scomparso. Un’iscrizione in persiano antico, neo-babilonese ed elamita celebra la costruzione ad opera di Serse. Molti visitatori in passato hanno lasciato i loro graffiti, tra essi l’esploratore Henry Morton Stanley. Seguivano quattro alte colonne scanalate con capitelli compositi, ma una oggi non c’è più. La porta interna è meglio conservata, con l’architrave e due quadrupedi alati dai volti assiri. Una piccola deviazione dal percorso circolare mi consente di ammirare subito la scalinata settentrionale dell’Apadana. I bassorilievi riproducono alternati medi, con cappello a zuccotto e tuniche al ginocchio sopra pantaloni, e persiani, con cappello tipo corona, scudi e vesti lunghe. La figura centrale, il re in trono, non c’è più. Ai due lati un leone azzanna un toro, rappresentazione ricorrente a Persepoli. Ripreso il giro canonico supero un’altra monumentale porta, mai terminata. Un vetro protegge due grandi tori che si danno la schiena, un tempo costituivano un enorme capitello. La porta d’ingresso della Sala delle Cento Colonne, opera di Serse, reca nel lato interno dei profondi stipiti meravigliosi bassorilievi: il re in alto, sotto file di guardie mede e persiane alternate. La sala era immensa, seconda solo all’Apadana per dimensioni, ma non fu mai completata; oggi le colonne non sono più in piedi, ne rimangono resti rotti a terra insieme alle basi. Intorno le strutture isolate di pietra (finestre, porte, nicchie) un tempo erano collegate da mura di mattoni, distrutte dall’incendio appiccato dai macedoni. Nei passaggi delle porte laterali, anche se non è possibile avvicinarsi, non mi sfuggono due grandi figure, una per lato; in un’altra spicca una figura umana insieme a un’animale fantastico, incrocio tra un cavallo e un uccello.

Sono le nove e un quarto e giunge l’emozionante momento di visitare la scalinata orientale dell’Apadana, la composizione più celebre di Persepoli, costruita durante il regno di Dario. Purtroppo gli iraniani di oggi hanno avuto la bella idea di proteggerla con una grande copertura e l’ombra è già calata sui bassorilievi. A nulla è servito chiedere al mio autista di cambiare il programma e portarmi prima di tutto a Persepoli: mi sarei dovuto muovere prima per godere, la mattina presto, degli unici momenti della giornata nei quali il sole bacia la scalinata. Le sue pareti offrono comunque una spettacolo da togliere il fiato, un’interminabile sequenza di sculture. Inizio la visione dalla parete della terrazza a destra della scalinata, percorsa da tre file di personaggi. Nella prima in alto si riconoscono elamiti con carri, attendenti con cavalli tenuti per le briglie, un personaggio che porta un tavolo, altri con tappeti; davanti a loro le guardie persiane e mede. Nella seconda e terza fila le guardie sono seguite da nobili medi e persiani che indossano le loro vesti tradizionali. Lungo la scala le file si stringono e compaiono alcuni alberelli. Passo poi alla parete sinistra, un’incredibile processione di delegazioni che portano regali al re, provenienti da tutte le ventitre satrapie in cui era suddiviso l’impero. S’inizia all’estrema sinistra con le facce negroidi degli etiopi che conducono una giraffa. Le rappresentazioni, oltre a riprodurre i costumi dei vari popoli, sono attente a rappresentarne i tratti somatici e così i sarmati hanno il naso schiacciato. Molte offerte sono animali originari della varie regioni: gli indiani del Sind conducono un asino, i battriani dell’Asia Centrale un cammello con due gobbe, la gente di Gandahara, nell’odierno Pakistan, un toro con la caratteristica gobba dei bovini indiani, gli assiri montoni dalle corna ricurve; gli elamiti di Susa addirittura una leonessa, la sola forma femminile in tutta Persepoli, che si volge minacciosa verso chi porta in braccio i suoi due cuccioli. Gli armeni recano un cavallo e una brocca con due manici; il gruppo dei medi, con caratteristici copricapi che avvolgono la testa, portano in dono vari oggetti tra cui un’altra brocca con due manici; i personaggi con cappello a punta che offrono vesti sono sciti. Non mi sfuggono, oltre alla visione d’insieme, la raffinatezza di certi particolari: le teste degli arieti assiri e del cammello dei parti, il volto degli etiopi. Particolarmente ricca la delegazione dei lidi con oggetti di metallo, capeggiata da un nobile con un pugnale alla cinta, capelli ricci, orecchino tondo e cappello cilindrico, seguito da altri con cappelli a punta, naso schiacciato, barba e capelli ricci; alcuni hanno conservato l’originale lucidatura scura. L’ultimo sovrano delle Lidia, il mitico Creso, nonostante le sue incredibili ricchezze, fu sconfitto e fatto prigioniero da Ciro. La successione di popoli mi fa tornare in mente il racconto di Erodoto, Serse invasore della Grecia che passa in rassegna i contingenti del suo esercito, provenienti da tutte le regioni dell’impero.

Completo la visione dei bassorilievi con la parete esterna della scalinata a due rampe che consente l’accesso all’Apadana: sono rappresentati, secondo il solito schema, medi e persiani, mentre anche qui la figura centrale è scomparsa. L’Apadana era una gigantesca sala delle udienze che poteva ospitare diecimila persone; fu costruita da Dario e completata da Serse. Le trentasei altissime colonne erano molto distanziate perché il soffitto era formato da lunghe travi di legno ricavate da cedri del Libano; i capitelli erano enormi con animali accoppiati che si davano il dorso. Alcune colonne sono ancora in piedi ma il giro obbligato m’impedisce per ora di salire sulla piattaforma.

Anche l’accesso al piccolo palazzo del Trypilon, sulla sinistra dell’Apadana, è bloccato; come gli altri avveniva attraverso una doppia scalinata con il motivo del leone che azzanna il toro. Le guardie persiane con scudo, lancia e lunga veste, sono ritratte con dovizia di particolari incluso l’orecchino, la barba e i capelli ricci. Proseguo quindi la visita raggiungendo il museo, un’unica sala con pochi oggetti, tra i quali una stele di fondazione di Serse; l’edificio forse ospitava l’harem. Subito dietro si trova il Tesoro: sopravvivono solo bassi muri, ma vi sono state trovate migliaia di tavolette incise. Qui è stato spostato già in epoca achemenide il rilevo centrale della scalinata orientale dell’Apadana, con Dario seduto sul trono di profilo che impugna il bastone del comando. Purtroppo si può osservare solo da molto lontano e così non mi resta che ricorrere al binocolo per vedere qualcosa (belle le vesti). Alessandro per portare via il tesoro imperiale custodito a Persepoli e l’immenso bottino, secondo Plutarco organizzò una carovana con 20.000 muli e 5.000 cammelli.

A sud dell’Apadana si trova il palazzo di Serse: rovinato, aveva trentasei colonne. Molto bello è invece il Palazzo Invernale di Dario, più piccolo e intimo. Le superfici erano lucidate per ottenere una brillantezza particolare; questo trattamento, combinato con la pietra di alta qualità, è la ragione per cui l’edificio è il più integro tra tutte le rovine di Persepoli. Nella scalinata orientale guerrieri persiani e arcieri con faretra, arco a tracolla e lance convergono verso l’iscrizione cuneiforme centrale. Altre due iscrizioni ai lati completano il messaggio in tre lingue. Sopra, porte e finestre appaiono curiosamente isolate per la scomparsa dei muri di mattoni. Nei passaggi delle porte Dario combatte contro maligni mostri leggendari.

Il percorso obbligato mi conduce finalmente al grande spazio dell’Apadana: le colonne scanalate sembrano levarsi fino al cielo, le basi rivelano una chiara influenza egizia, i capitelli sono composizioni alte e complesse. Attraversata la scalinata settentrionale, sono di nuovo alla Porta delle Mille Nazioni. Per completare la visita mi resterebbero le quattro tombe imperiali rupestri, ricavate nella roccia delle montagne che dominano Persepoli. Tuttavia sono già in ritardo sull’orario che il driver mi aveva indicato e per non irritarlo mi limito alla tomba di Artaserse II, dietro la Sala delle Cento Colonne. Interamente scavata nella roccia, riproduce nella parte bassa un portico con quattro colonne sormontate da capitelli con due tori che reggono un grande architrave. Sopra due file di personaggi sostengono un baldacchino, sul quale il re regge un arco davanti a un braciere con il fuoco sacro, mentre il simbolo alato di Ahura Mazda si leva alto nel mezzo.

Lasciata Persepoli, riprendiamo la marcia verso nord, attraversando vaste distese coltivate in un’ampia vallata circondata da brulle montagne. A una mia domanda, il driver mi spiega che le tante Peugeot che vedo circolare sono fabbricate in Iran e alcuni modelli sono specifici per questo paese (la Pars ad esempio). Dopo circa un’ora di viaggio, appena il paesaggio si fa più brullo, raggiungiamo Pasargadae.

Nella piana si presenta subito isolata la tomba di Ciro, costruita in grandi blocchi di pietra chiara sopra un alto basamento a sei gradoni. Il parallelepipedo, sormontato da una copertura a due spioventi, mi ricorda le tombe frigie ammirate in Turchia. La piccola porticina si apre su un lato; Alessandro Magno, al ritorno dalla campagna in Asia Centrale e India, rimase molto turbato quando scoprì che la tomba era stata violata. Di fianco il caravanserraglio Mozaffarad, ormai in rovina, fu costruito con le pietre dei palazzi antichi.

Per proseguire le visita percorriamo un breve tratto in auto, fino ai resti di un gruppo di palazzi. Il Palazzo Privato aveva una corte con cinque file di sei colonne, circondata da portici e corti. Le basi delle colonne sono fatte di una bella pietra lucida. Nel pilastro angolare un’iscrizione cuneiforme recita: “Io sono Ciro, il Re, un Achemenide”. Nelle basi delle porte di accesso alla corte si riconoscono piedi e caviglie di figure umane. Dietro il palazzo sorgevano i giardini reali, tra i più antichi esempi di giardino persiano; si conserva un canale in pietra per l’acqua e piccoli bacini quadrati. Il sole picchia forte e un sentiero mi conduce alla Sala delle Udienze. Fusti di colonne giacciono per terra, una sola è in piedi. Nei bassorilievi di una porta si conservano piedi e caviglie, forse di un sacerdote; in un’altra un personaggio ha una caviglia nuda e l’altra coperta da una veste squamata, insieme a una figura con due zoccoli. Il sentiero termina alla Gatehouse (o Palazzo R), dove un pilastro reca una grande e strana figura: le quattro ali sono di influenza assira, il copricapo egizio (corna sormontate da tre dischi solari con due cobra) e la vesta elamita. Forse simboleggia la sottomissione di tutti questi popoli, appena sconfitti dai persiani.

Altro tratto in auto fino alla Torre di Pietra, nota popolarmente come la Tomba di Salomone. L’autista mi illustra le tre ipotesi sulla sua destinazione: tomba di Cambise, Tesoro o Tempio del Fuoco. Solo un lato, formato da grandi blocchi di pietra, rimane in piedi puntellato e sostenuto da una grande impalcatura. L’analoga struttura a Naqsh-e Rostam mi apparirà in condizioni decisamente migliori.

L’ultimo spostamento ci porta sotto la Cittadella. Sopra la collina l’imponente muro, formato da grossi blocchi, è pieno di buchi scavati per rimuovere i perni di ferro (come nel nostro Colosseo); in vari tratti è emerso lo strato più interno, meno raffinato. Il posto è noto popolarmente come Trono della Madre di Salomone; mi arrampico fino in cima alla terrazza, dove non c’è assolutamente nulla ma si gode un vasto panorama sulla piana.

Per pranzo non abbiamo molte alternative e l’autista mi porta al Pasargad Restaurant, dove mi tocca inevitabilmente offrirgli il pranzo. Assaggio per la prima volta la birra analcolica persiana, dolce ma gradevole. Al ritorno i campi di grano sono una macchia gialla, contro le grigie montagne.

La terza e ultima tappa dell’escursione giornaliera mi riporta vicino Persepoli, alla necropoli achemenide di Naqsh-e Rostam. Le quattro grandi tombe rupestri ripetono tutte lo stesso schema; purtroppo a quest’ora solo la prima a destra, quella di Serse I, è al sole. Si presenta perfetta. In alto nella parete rocciosa è scavata una grandissima croce, simbolo forse dell’impero che si estendeva in tutte le quattro direzioni del mondo conosciuto. Al centro della croce un portico con quattro colonne che reggono un architrave; la porta si apre tra le due centrali. Sopra due file di figure rappresentano i popoli sottomessi che reggono un lungo baldacchino con teste di toro sui lati; ancora più in alto il re reca un’offerta a un braciere con il fuoco sacro, mentre Ahura Mazda vola sopra. Le altre tre tombe sono dedicate a Dario, Artaserse I e Dario II; lo schema è lo stesso ma sono più rovinate, con i bassorilievi levigati dagli anni. Inoltre sono all’ombra; il sito andrebbe visitato la mattina e non come faccio io nelle ore più calde e accecanti della giornata.

Davanti alla montagna sorge un alto edificio di pietra senza finestre e con una sola porta, alla quale si accedeva da una lunga scala (in passato il livello del terreno era più basso). Conosciuto come Kaba di Zoroastro è una costruzione enigmatica, forse ispirata alla architettura anatolica urartu. L’assenza di pozzi di ventilazione lascia pensare che non dovesse trattarsi di un tempio del fuoco; forse invece era un archivio o una camera mortuaria. Le pareti presentano scanalature e quattro finte finestre per lato.

I sassanidi si presentavano come i restauratori dell’impero persiano e non si lasciarono quindi sfuggire l’occasione di lasciare il loro segno nella necropoli achemenide: sotto le tombe dei quattro imperatori fecero scolpire una serie di sette pannelli celebrativi delle loro imprese. Arrivato in fondo, torno indietro volgendo questa volta lo sguardo più in basso verso le sculture realizzate molti secoli più tardi. Nel primo pannello il fondatore della dinastia sassanide Artaserse I e Ahura Mazda sono rappresentati a cavallo con uguale dignità: la divinità consegna l’anello del comando al re, che con il suo cavallo calpesta l’ultimo re dei parti. Nel successivo Bahram II è rappresentato a figura intera, mentre i personaggi al suo fianco sono a mezzo busto dietro un recinto. Segue una scena di giostra veramente bella, per la resa del movimento dei due cavalieri che si affrontano. Il loro aspetto è quello di cavalieri medievali con armature, lunghe lance ed elmi con pennacchi. Uno lancia il cavallo al galoppo, l’altro cavallo si alza su due zampe. Dietro un altro personaggio tiene lo stendardo del re. Il personaggio lanciato all’attacco dovrebbe essere Shapur II, con una corona a tre punte, mentre l’altro potrebbe essere un cavaliere romano con elmetto piumato. Il quarto pannello si trova sotto la tomba di Artaserse e raffigura un’altra scena di battaglia tra cavalieri, ma più rovinata. Nel successivo rilievo un grande Shapur a cavallo, con il sole sopra la corona, tiene per un polso Valeriano prigioniero, mentre Filippo II in ginocchio supplica la pace, con mantello al vento e gonnellino plissettato. Si prosegue, sotto la tomba di Dario, con due scene di battaglia equestre, una sotto l’altra. L’ultima rappresentazione racconterebbe l’investitura di Narseh da parte di Anahita. La dea della fertilità è una grande figura femminile incoronata; il re con riccioli fluenti indossa una corona sormontata da un globo. Non tutti però sono d’accordo con questa interpretazione: il re riceve l’anello con la sinistra tenendo la destra sulla spada, mentre la figura femminile è rappresentata subordinata, per cui altri hanno ipotizzato che si tratti in realtà di Shapurdokhtak, moglie di Narseh. La rappresentazione è abbastanza lontana e per analizzarla devo ricorrere al binocolo.

Tornato al punto di partenza ammiro di nuovo la magnifica tomba di Serse. Anche da lontano si distinguono i particolari: il re con l’arco, Ahura Mazda alato con busto umano e zampe di uccello che porge l’anello, l’ara con il fuoco sacro. Il re e la divinità si salutano come due amici. Chissà cosa ci sarà stato un tempo all’interno della camera; gli uccelli continuano ad entrare e uscire dalla porta su in alto (una parte infatti è aperta, forse rotta in un’epoca successiva).

Il pomeriggio a Shiraz, riesco finalmente a visitare la moschea del Reggente, sempre chiusa i giorni precedenti. Dopo tante moschee l’Iran non finisce di stupirmi. Dal cortile a due iwan si accede alla sala della preghiera, una selva di lucide colonne a tortiglione! Il minbar ha quattordici gradini ricavati in un unico pezzo di marmo. I due iwan presentano decorazioni a piastrelle molto colorate, con un alberello centrale quello verso il santuario.

Il bazar a fianco della moschea è ordinatissimo: un’ampia galleria con belle volte, che risale sempre dell’epoca Zand. Tra la merce esposta dominano tappeti e stoffe di tutti i colori. Ne approfitto per un altro squisito faludeh, questa volta innaffiato secondo la ricetta originale con uno sciroppo all’acqua di rose, e per un’occhiata a qualche caravanserraglio sempre affascinante.

Domenica 8 giugno: Teheran

La notte un volo mi ha riportato a Teheran. La mattina, dall’albergo raggiungo la madrasa Sepahsalar, grande costruzione di fine Ottocento, cioè dell’epoca della dinastia Qajar che trasferì a Teheran la capitale. Da fuori scorgo la selva di minareti, ma l’ingresso è proibito ai visitatori perché la scuola coranica è ancora attiva. Significativamente il Parlamento, subito a fianco, appare minuscolo rispetto alla mole della madrasa. Mi cimento nel primo attraversamento stradale: a Teheran i viali hanno svariate corsie e nessuno si ferma o rallenta alle strisce pedonali. Poiché il flusso di traffico è ininterrotto devo affrontare una corsia alla volta, fermandomi sulla linee mentre auto e moto mi sfrecciano intorno da tutte le parti.

Tornando sui miei passi e superata la squallida piazza Khomeini, proseguo verso il bazar per raggiungere il Golestan. Il grande complesso di palazzi, realizzato a partire dall’Ottocento dagli shah, dovrebbe essere una delle attrattive di Teheran, ma purtroppo oggi è chiuso. Da fuori riesco solo ad intravedere la Veranda del Trono di Marmo, nel quale spicca il grande trono sorretto da figure umane.

Proseguendo la passeggiata raggiungo il complesso del Parade Ground, fondato da Nasserdin della dinastia Qajar, ma ricostruito dallo shah Reza Pahlavi. Ospita una serie di importanti edifici ed in passato era utilizzato per le parate militari. Subito a fianco si trova il Museo Nazionale. L’edificio di mattoni presenta un grande e profondo iwan a volta, ispirato alla famosa sala delle udienze sassanide a Ctesifonte, nell’odierno Iraq (la costruzione iniziò sotto il regno di Cosroe I nel 540, con l’arco di mattoni più grande mai costruito fino ad allora e una forma che si avvicina a quella della catenaria). Appena entrati nel museo, una grande cartina in rilievo consente di farsi un’idea della conformazione del paese. Il vasto altopiano centrale è limitato da due catene montuose, a nord sotto il mar Caspio i monti Elburz e ad occidente i monti Zagros che lo separano dalla Mesopotamia, l’odierno Iraq. Una guida sta spiegando a un gruppo di italiani che il nome Persia è occidentale, ma in realtà indica solo una regione del paese, il Pars. Fu Erodoto a chiamare persiani gli iraniani, perché gli Achemenidi erano originari di quella regione. Il nome Iran indica invece correttamente la terra di tutti gli ari. A sud oltre i monti, la regione confinante con la Mesopotamia e l’attuale Iraq ha sempre rivestito un importante ruolo strategico ed è stata teatro di molte guerre: si tratta dell’antica terra degli elamiti che stabilirono la loro capitale a Susa. Più a nord vivono invece i curdi. Le tre principali popolazioni ariane giunsero in Iran dal Caucaso o dall’Asia Centrale: i medi si stabilirono a occidente ponendo la loro capitale ad Ectabana (sepolta sotto l’attuale Hamadan), i persiani a sud nel Pars, i nomadi parti, a oriente del Caspio.

L’esposizione inizia con antiche ceramiche del VI-V millennio a.C., tra le quali spicca un’alta coppa dal Pars: nel becco sono raffigurati uomini che formano un circolo tenendosi per le spalle. Una coppa da Kashan con un cervo dalle lunghe corna risale al IV millennio a.C., un’altra con una capra dalle corna ad arco al III millennio. Dalla ziggurat elamita di Dur-Untash, la meglio conservata al mondo e una delle poche al di fuori della Mesopotamia, proviene una statuetta di toro (II millennio a.C.); un bel tripode dall’Azerbaijan reca incisa una capra (I millennio a.C.). Una vetrina è dedicata a Sialk che ho visitato a Kashan: vi ritrovo le brocche con il lungo becco. Ad Amarlu sono state ritrovate statuette di piccoli carri zoomorfi, formati da due animali affiancati dalla testa di cane: uno reca sopra una figura umana con un grosso spadone e il fallo eretto. La stele del re assiro Sargon II risale al 716 a.C. e celebra le campagne contro i medi, le conquiste di Arpad in Siria e Ectabana: su un lato la figura del re con il bastone del comando è poco distinguibile, mentre sull’altro si trova l’iscrizione. Un’altra stele con caratteri cuneiformi viene dal regno di Urartu, antenato dell’Armenia (IX-VI secolo a.C.).

Si passa poi al periodo storico, con magnifici reperti da Persepoli. La scena dalla Sala delle Udienze dimostra che i pannelli in origine erano lucidi e scuri, non chiari come appaiono oggi al sito. Un grande bassorilievo rappresenta il re al centro (Dario o Serse) che siede sul trono; dietro di lui il principe (Serse o Artaserse), i guardiani e un sacerdote con un fiore di loto (simbolo della regalità e stemma degli Achemenidi). Davanti al re, incensieri, un ministro medo seguito da due persiani. Come al solito i persiani, con lunghi abiti e cappello cilindrico, si distinguono dai medi, con cappello a zuccotto, giacca corta e pantaloni. La famosa statua di Dario in granito grigio priva della testa è stata ritrovata a Susa. Dario la fece realizzare in Egitto; i cartigli riportano le varie satrapie dell’impero; il Gran Re è rappresentato togato, con una mano sul petto e un pugnale alla cinta. Ai lati sono esposti due pannelli smaltati colorati: un arciere su sfondo azzurro con arco, faretra e veste elaborata, una coppia di “sfingi”, felini con ali e volto umano sormontati da Ahura Mazda. Il frammento di una zampa di leone con artigli fa capire quanto erano grandi i capitelli. Si prosegue con un’iscrizione di Serse in persiano antico e neobabilonese, un capitello con testa umana e la scalinata del Tripylon (all’esterno arcieri e lancieri, all’interno preti che recano animali e cibo per un rito religioso). Un capitello mostra chiaramente la sua elaborata struttura, che avevo solo intuito a Persepoli: partendo dal basso, prima un capitello a palma poi elaborate volute, in cima due tori che si danno il dorso con le zampe piegate.

L’epoca dei Seleucidi, eredi ellenisti di Alessandro Magno, comprende pochi reperti, tra cui inscrizioni in greco. Una statua di bronzo ritrae un principe parto, che sembra un guerriero mongolo, con larghi pantaloni, baffi lunghi e sottili e una fascia per raccogliere i capelli. L’uomo mummificato, ritrovato nel 1993, lavorava in una miniera di sale all’epoca dei sassanidi. Grazie al sale si sono conservati barba e capelli bianchi, e persino uno stivale con dentro piede e caviglia. I mosaici sassanidi di ispirazione romana provengono da Bishapur. Concludo la visita con una copia del codice di Hammurabi da Susa.

Proseguendo il giro dei musei, raggiungo quello dedicato al vetro e alla ceramica, ospitato nell’edificio in passato sede dell’ambasciata egiziana. I soffitti sono stuccati, lo scalone di legno “sospeso” molto bello. L’esposizione è molto curata, con raffinati oggetti di vetro appartenenti a varie epoche, tra i quali una bottiglia con mosaici risalente al periodo dei parti. Mi colpisce un rhyton del I millennio a.C. dalla forma di toro con grande gobba.

Al traffico assordante e allo smog che avvolge Teheran, oggi si aggiunge anche il cielo coperto. Per pranzo scelgo una delle poche oasi di pace in centro, il parco Shahr. Un monumento è dedicato alle vittime degli attacchi chimici di Saddam Hussein durante la guerra tra Iran e Iraq; un cartello spiega che si trattò del primo largo uso di armi chimiche dopo la prima guerra mondiale, in violazione a tutte le convenzioni internazionali. Davanti all’ambasciata tedesca, vicino al museo dei gioielli, un altro cartello ricorda che furono i tedeschi a fornire le armi a Saddam, ribadendo che il popolo iraniano non dimentica. La guerra tra Iran e Iraq è stata una tragedia nazionale che ha sterminato una generazione di soldati. Le città ancora oggi sono piene di foto dei martiri della rivoluzione, caduti durante la guerra. Il regime seppe sfruttare molto bene la “passione” sciita per il martirio.

Una della grande attrazioni di Teheran è costituita giustamente dal museo dei gioielli. Dalla sede centrale della banca nazionale si accede al caveau che ospita l’incredibile collezione appartenuta agli shah. Superara la porta blindata, mi accodo ai numerosi gruppi di turisti italiani per ascoltare qualche spiegazione. Al centro si trovano i pezzi più famosi; tre corone tempestate di pietre preziose sono ospitate in altrettante vetrine. La prima, a ziggurat, è stata utilizzata dall’ultimo shah per la sua incoronazione, lo scettro in oro per le celebrazioni dei 2500 anni dell’impero persiano. A fianco il Darya-ye Nur (Mare di Luce) è un diamante rosa di 182 carati, il più grande diamante grezzo al mondo. Il suo “gemello”, il Kuh-e Nur, oggi fa parte dei gioielli della corona reale britannica, ma lo shah Nadir invase l’India per entrarne in possesso. Durante la spedizione si impadronì anche del famoso Trono del Pavone, che però al ritorno in Persia fu smembrato da soldati ribelli. Nel museo è esposto un altro Trono del Pavone, spesso confuso con quello indiano, fatto realizzare dallo shah Fath Ali nel 1798. Si trova proprio davanti all’ingresso del caveau ed ha la tipica forma di un divano di una casa del tè. La seconda corona riproduce la forma di quelle sassanidi, con due piume di gioielli e un numero incredibile di perle. In fondo al caveau si trova il trono utilizzato dal primo Pahlavi per la sua incoronazione. L’altro pezzo famoso è il Mappamondo di Gioielli (1869), trentaquattro chili di oro con oltre cinquantamila pietre preziose: i mari sono di smeraldi, le terre di rubini, ma l’Iran e le due superpotenze dell’epoca, Inghilterra e Francia, sono di diamanti. A contorno di questi pezzi più celebri, si trova un’incredibile quantità di altri oggetti tempestati di gioielli. Alcune vetrine sono tematiche per pietra: turchesi, rubini, smeraldi sono conservati in scatole come fossero caramelle! Il turchese – spiega una guida a una coppia di italiani – nonostante il nome, proviene dall’Iran e non dalla Turchia. Un narghilè è tempestato di pietre preziose; una collana reca diamanti bianchi e gialli, disposti simmetricamente e sempre più grandi verso il centro.

Terminata la visita, raggiungo il bazar per un’ultima immersione nell’Iran del commercio. Nella piazza davanti all’ingresso principale ci sono solo capannelli di uomini che discutono animatamente. All’interno del bazar l’affollamento come il solito è notevole, con le donne attratte dalle numerose gioiellerie. La moschea Khomeini appare moderna, con la classica struttura a quattro iwan. Quello principale più che un luogo di preghiera, sembra un dormitorio, con gli uomini sdraiati sui tappeti a dormire. Stessa situazione nella sala della preghiera; nelle ore calde non c’è niente di meglio di un pisolino accanto ad Allah!

Grazie alla moderna ed efficiente metropolitana, raggiungo la torre Azadi. Costruita nel 1971 per celebrare i 2500 anni dell’impero persiano, unisce elementi del razionalismo moderno ad altri dell’architettura islamica tradizionale. Si presenta come un grande arco di pietra bianca a forma di Y rovesciata con lo spazio centrale ispirato a un classico iwan. Il monumento appare originale, nonostante sia stato un po’ trascurato dopo la rivoluzione. Per raggiungerlo dalla fermata della metro devo affrontare una gincana in mezzo a viali con svariate corsie. A Teheran i semafori sono pochissimi, anche agli incroci più trafficati, ed è incredibile come macchine, moto e pedoni si schivino uno con l’altro.

Una nuova corsa in metro mi porta fino alla periferia sud della megalopoli, dove ha avuto inizio il mio viaggio e la storia dell’Iran contemporaneo trova un punto di riferimento nel mausoleo di Khomeini. Il complesso è in costruzione; dietro una gigantesca bandiera dell’Iran si ergono svariati minareti e cupole, accompagnati dalle gru dei lavori. Non riesco ad individuare l’accesso alla corte centrale, forse per l’ora tarda forse per i lavori non terminati. All’esterno invece, nel porticato tutto intorno, i negozi sono già attivi. Mi dirigo quindi direttamente al santuario dove è sepolto l’Imam. All’interno la struttura ha l’aspetto di un capannone industriale, con grossi tubi sul soffitto e pareti coperte da teli di plastica che riproducono immagini di architetture islamiche. Su un lato quattro grandi foto, tra cui riconosco Khomeini e l’attuale guida spirituale Khamenei. Sul lato opposto la tomba: con i tempi moderni la griglia che racchiude il sarcofago si è trasformata in una triste struttura metallica a gabbia. Il sarcofago è coperto da un panno verde, tutto intorno i visitatori hanno lanciato banconote. Sarà una sistemazione provvisoria? Mi viene in mente il veneratissimo mausoleo Shah Cheragh a Shiraz; in quel caso il sentimento religioso si avvertiva forte, mentre qui la gente è intenta più che altro a scattare foto ricordo. Il complesso riflette una mania di gigantismo ed è attrezzato per ricevere un gran flusso di visitatori, con immensi parcheggi, anche se oggi a quest’ora non c’è quasi nessuno. Alla fine trovo un passaggio per accedere alla vasta corte. È quasi finita ma lo spazio aperto è tutto coperto da una oscena struttura a ponteggio (per fare ombra?).

La notte raggiungo l’aeroporto in taxi. Il giovane al volante mi spiega che a Teheran vivono dodici milioni di persone, ma la popolazione durante il giorno raggiunge i quindici milioni a causa dei lavoratori pendolari.

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