Orizzonti indiani

Un'India insolita, tra il Ladakh e lo Shekawati
Scritto da: giubren
orizzonti indiani
Partenza il: 01/08/2015
Ritorno il: 18/08/2015
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Il mese di agosto non è forse il migliore per andare in India, ma alcune regioni sono di solito risparmiate dal monsone e risultano più praticabili rispetto ad altri periodi dell’anno: il Ladakh, nell’estremo nord himalayano, avrebbe così rappresentato la principale meta di questo viaggio.

Raggiungiamo Delhi nel pomeriggio; la capitale è avvolta nella consueta cappa afosa che la contraddistingue durante l’estate. Il traffico è davvero notevole e le macchine sono quasi tutte appartenenti a nuovi modelli delle più note case giapponesi e coreane, tanto da far apparire il nostro vecchio taxi prepagato in aeroporto dai classici colori giallo e nero quasi un retaggio dei mezzi che ricordavo circolare nell’ormai lontano agosto del 1997. Arriviamo al nostro hotel a Connaught Place, nel cuore di Nuova Delhi, la capitale dell’antico Raj Britannico progettata dall’architetto inglese Lord Lutyens agli inizi del ‘900.

Connaught Place è una vasta area circolare con almeno tre strade concentriche, fiancheggiate da bianchi edifici di epoca coloniale. I porticati, sostenuti da candide colonne, riparano efficacemente dal sole e dagli improvvisi acquazzoni. La zona ospita numerosi ristoranti ed esercizi commerciali ed è affollata soprattutto da giovani studenti della classe media. Nelle vicinanze, si trova anche il noto Janpat Market.

Nuova Delhi si presenta sotto una veste decisamente più ordinata rispetto a quanto ricordavo e più ci si sposta verso sud, più sono evidenti gli sforzi che hanno reso le strade maggiormente pulite, con aiuole curate e dal verde lussureggiante. Raggiungiamo a piedi il Jantar Mantar, l’osservatorio realizzato nel 1724 dal maharaja di Jaipur Jai Singh, grande appassionato di astronomia, che ne costruì anche uno nei pressi del City Palace della propria città. Diversi strumenti, talvolta imponenti, incuriosiscono per la loro forma che avrebbe dovuto agevolare l’osservazione dei cieli rispetto a quelli più piccoli normalmente in uso all’epoca; oggi purtroppo non sarebbero più utilizzabili a causa degli alti edifici che circondano il parco dove vennero edificati.

Delhi è una città interessante e ricca di monumenti storici, essendo stata in passato la sede di governo del sultanato omonimo (che si estese per più di tre secoli nella parte settentrionale del Paese) oltre che dell’impero Moghul, per questo vale la pena dedicarle almeno due giorni di visite.

Dedichiamo la prima giornata alla zona sud della capitale, raggiungendo il celebre Qutub Minar che, con il suo complesso di edifici circostanti, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

Il minareto, alto quasi 73 metri, è molto impotente e originariamente era ancora più elevato se non fosse stato danneggiato a più riprese da fulmini e terremoti. Nei pressi sorge la moschea Quwwat-ul-Islam (la potenza dell’Islam) dalle elaborate decorazioni, così denominata per l’essere stata realizzata con materiale di recupero provenienti da preesistenti templi indù e giainisti appositamente distrutti. Non distante, rimane solo il basamento dell’Alai Minar, che nelle intenzioni avrebbe dovuto raddoppiare le dimensioni del Qutub, ma poi il progetto fu abbandonato. Tra le rovine del complesso è conservata nel cortile della moschea la famosa colonna di Ashoka, realizzata con una misteriosa lega metallica che non arrugginisce nonostante il trascorrere dei secoli. Si dice che riuscire a cingere la circonferenza della colonna con le braccia all’indietro porti fortuna: esattamente 18 anni fa ero riuscito in quella semplice impresa che oggi sarebbe impossibile per la moltitudine di visitatori, soprattutto locali, che affollano quest’area monumentale e che non osano scavalcare la ringhiera che la circonda per non essere ripresi dai numerosi vigilantes.

La tomba di Safdarjung è invece un luogo poco visitato, nonostante trattasi di un imponente edificio in stile Moghul. Fu fatta costruire in onore di un primo ministro imperiale ed i giardini che la circondano sono molto curati ed attraversati nei punti cardinali da canali convergenti sul mausoleo. Nonostante l’afa, l’ombra dei grandi alberi garantiscono una sosta rilassante in compagnia di una moltitudine di scoiattoli che si avvicinano alla ricerca di cibo. La tappa successiva è al mausoleo di Humayun, un monumento tra i più celebri di Delhi, in quanto si dice che la sua struttura architettonica costituì fonte d’ispirazione per il Taj Mahal di Agra, la meravigliosa tomba che l’imperatore Sha Jahan volle realizzare per la sua amata moglie Mumtaz. Il mausoleo rifulge nel colore rosso dell’arenaria con cui venne costruita e per l’imponenza della grande cupola. Nei pressi è anche degna di nota la tomba di Isa Khan, dalla caratteristica pianta esagonale, che un tempo era in totale stato di abbandono e circondata da erbacce, mentre oggi è stata interamente recuperata al suo splendore originario. Dopo una rapida occhiata al Gate of India e al Raj Pat (dove fervevano i preparativi per la grande sfilata militare celebrativa dell’indipendenza), ci ritroviamo nel Gurdwara Bangla Sahib, il grande tempio d’oro dei Sikh, caratterizzato da una grande vasca sacra in cui si riflettono gli ultimi raggi del sole calante. Termina così la nostra prima ed intensa giornata indiana, tra i canti religiosi e gli sgargianti colori dei turbanti e delle tuniche dei Sikh, dalle folte e lunghe barbe bianche, dove in parte si ritrova il fascino esotico di una capitale ormai sempre più globalizzata nei costumi.

Il secondo giorno lo dedichiamo alla visita della città vecchia, che rispetto a Nuova Delhi continua ad essere caratterizzata dal caos tipico di tutte le altre città indiane. Il Forte Rosso appare imponente dall’esterno con le sue lunghe mura vermiglie, ma gli edifici che custodisce appaiono oggi ancora più trascurati ed in molti di essi delle transenne impediscono l’accesso ai visitatori che li ammirano dall’esterno. La Jama Majid è il più grande edificio islamico dell’India: essendo venerdì, attendiamo che termini la preghiera per poter accedere al vasto cortile arroventato dal sole che rende difficile camminare a piedi scalzi. Nei dintorni della moschea si estende il grande bazar del Chandni Chowk, trafficatissimo di veicoli a motore e di insistenti guidatori di rickshaw che vorrebbero convincerti a fare un giro per una zona che ormai sembra aver perso gran parte del suo fascino passato. Concludiamo il tour con il Purana Bala Qila, il vecchio forte di Delhi, al quale si accede dall’imponente porta monumentale Bara Darwasa: all’interno della cerchia muraria è custodito un piccolo museo, un baorì (pozzo monumentale) e la bella moschea Qila Kuhna Masjid.

L’Imperial Hotel, d’epoca coloniale, con i suoi affascinanti interni, è un’oasi nel trambusto di Nuova Delhi dove ci siamo più volte recati nei suoi lussuosi bar e ristoranti dal deco’ nostalgico, con antiche fotografie in bianco e nero e gli stemmi dei vari stati principeschi dell’epoca del Raj appesi alle pareti.

Ci svegliamo prestissimo per raggiungere l’aeroporto. Già alle 4 di notte Delhi è avvolta da una cappa di umidità più densa del solito a causa di un recente temporale e gli unici svegli sono i cani randagi che riempiono le strade dall’aspetto spettrale. Il volo per Leh, capoluogo del Ladakh, parte alle prime luci dell’alba ed arriviamo a destinazione in circa un’ora.

La catena dell’Himalaya svetta tra le nuvole con le cime innevate e mentre atterriamo in questo luogo mistico osserviamo dagli oblò con una certa emozione il paesaggio del Ladakh, per certi versi simile a quello del Tibet con cui spesso questa terra viene confrontata.

Il Ladakh è una regione autonoma dello stato del Jammu & Kashmir ed è popolato prevalentemente da abitanti di ceppo tibetano e di religione buddista. La lingua ladakhi è simile al tibetano da cui ha mutuato l’alfabeto, anche se in realtà vi sono spiccate differenze dialettali. Non sembra di essere in India, tutto ricorda le atmosfere del vicino Tibet per lo stile delle costruzioni, i monasteri e le bandiere delle preghiere ma la regione è saldamente sotto controllo per ovvi motivi strategici e militari, oltre ad essere priva dei rigurgiti indipendentisti della vicina valle del Kashmir, di religione musulmana. Importante ricordare come l’India abbia accolto il Dalai Lama dal suo esilio nella non distante cittadina di Dharamsala ed abbia permesso di preservare la cultura di quello che oggi viene infatti definito il “Piccolo Tibet”.

Leh si trova ad oltre 3.500 metri d’altezza, per cui è necessario acclimatarsi all’aria rarefatta. Finalmente un clima secco e piacevole, mentre risplende un sole potente in un cielo azzurro ma solcato da grandi nuvole: siamo stati molto fortunati in quanto nei due giorni precedenti al nostro arrivo persino i voli erano stati cancellati a causa di alluvioni che hanno colpito la regione. L’estate è il periodo migliore per visitare il Ladakh grazie al clima temperato che dopo ottobre già inizia a scendere sotto lo zero, ma talvolta il monsone riesce a scavalcare la catena dell’Himalaya dando luogo a violenti ed improvvisi fenomeni temporaleschi.

L’edificio più rappresentativo nel centro storico è il Palazzo Reale, un tempo abitato dalla famiglia regnante dei Namgyal e venduto dall’ultima regina madre all’Archeological Survey of India. Lasciato per lungo tempo in stato d’abbandono, è stato restaurato di recente ed oggi è possibile accedere ai suoi 9 piani visitando delle stanze vuote che purtroppo hanno perso gran parte delle decorazioni originarie. La sua facciata tuttavia è ancora imponente e molti lo paragonano al Potala di Lhasa. Intorno al Palazzo, sorgono piccoli templi e monasteri, quello più significativo è lo Tsemo Gompa, praticamente visibile da ogni angolo della città per la sua posizione sopraelevata. Dall’alto delle sue terrazze si ammira un vertiginoso panorama di Leh, nel vento che fa ondeggiare i lunghi filari delle bandiere delle preghiere. All’interno della struttura, troneggia un Buddha seduto di 8 metri d’altezza.

Nella piazza principale, ai piedi della città vecchia, c’è la moschea sunnita, frequentata dalla numerosa comunità musulmana dei kashmiri che gestiscono gran parte dei negozi turistici nel bazar.

I kashmiri sono molto accoglienti e spendono volentieri il loro tempo con i turisti per cui ho conversato con loro per informarmi della situazione a Srinagar, che avevo rinunciato ad inserire nell’itinerario di viaggio visto che l’ambasciata indiana continua a scoraggiare le visite per presunti problemi d’ordine pubblico. I kashmiri, al contrario, mi hanno detto che la situazione è del tutto tranquilla per i turisti, anzi loro vorrebbero che ne venissero il più possibile affinché possano testimoniare i soprusi che quotidianamente la popolazione subisce dall’esercito indiano che loro considerano di occupazione. L’assenza di problemi particolari oltre che la bellezza di Srinagar mi è stata confermata anche da diversi visitatori stranieri giunti a Leh dalla Valle del Kashmir.

Posta al centro della valle attraversata dal fiume Indo, Leh è la base ideale per visitare i monasteri più importanti del Ladakh. Molti li giudicano ripetitivi, ma difficilmente l’atmosfera sospesa nel tempo di questi luoghi riesce davvero a stancare coloro che se ne lasciano coinvolgere. Affreschi alle pareti anneriti dal burro di yak delle candele, panorami mozzafiato sulle verdi vallate che contrastano con i brulli deserti d’alta quota, polverose statue del Buddha e dell’affollato pantheon tibetano sono il leitmotiv ricorrente anche se ciascun monastero merita di per sé nel riproporre l’arte e l’architettura tradizionale nei diversi contesti.

Se si ha poi la fortuna di far coincidere la visita durante la puja (la preghiera dei monaci), il misticismo dei mantra cantilenanti, il suono dei tamburi e delle trombe tibetane sembra quasi far prendere vita ai misteriosi volti dei Buddha che sembrano osservare silenziosi ai rituali ancestrali, tra le volute degli incensi.

Nella valle dell’Indo a sud di Leh c’è Hemis il monastero più grande del Ladakh, con il suo vasto cortile ed il museo ma senz’altro Chemrey e Tiksey, edificati su alti speroni di roccia e circondati dagli edifici ed i chorten del villaggio, sono quelli più suggestivi. In particolare, la statua del Buddha Matreya custodita nel gompa di Tiksey, con la sua altezza di 14 metri, affascina per lo sguardo severo e l’ampia corona tempestata di pietre preziose. La residenza reale di Stok, a differenza del Palazzo di Leh, è ancora di proprietà dell’ex famiglia reale e ciò spiega le ottime condizioni dell’edificio che saltuariamente è abitato solo nei mesi estivi, non essendovi un impianto moderno di riscaldamento: all’interno è ospitato un interessante museo dove si conservano il trono del Namgyal e gli abiti reali.

A nord di Leh ci sono altri interessanti gompa, tra cui Alchi che rappresenta un unicum per la sua architettura, gli interni affrescati e le pregevoli decorazioni in stucco delle tre grandi statue del Buddha (del presente, del passato e del futuro) fortemente l’influenzate dall’arte indiana. L’ultima tappa è il monastero di Lamayuru, che raggiungiamo attraverso la vecchia strada di tornanti che si affaccia su dirupi scoscesi e le imponenti vette himalayane, particolarmente impressionante la cosiddetta moon land, che ricorda il suolo lunare per il colore ocra della roccia e la sua conformazione.

La strada più emozionante in assoluto è però quella che conduce alla valle di Nubra, per visitare la quale occorre ottenere uno speciale permesso vista la vicinanza al confine con la Cina e la zona contesa del Kashmir con il Pakistan. Esiste un’unica via d’accesso che conduce al passo di Kardung-la di 5.600 metri. Si tratta in effetti della strada carrozzabile più alta del mondo e che abbiamo trovato in grave dissesto a causa della recente alluvione. La valle di Nubra prende il nome dall’omonimo fiume che l’attraversa e costituì per secoli un passaggio obbligato per le carovane che percorrevano la via della seta. Al centro della valle sorge Diskit, il villaggio principale dove ha sede il Lama capo della Nubra. Arroccato sul fianco della montagna, lo fronteggia una grande statua del Buddha Matreya alta 32 metri: il suo sguardo è rivolto verso il confine con il Pakistan per scongiurare un nuovo conflitto militare con quest’ultimo, ma la sua funzione è anche quella di proteggere Diskit e la pace nel mondo. Non lontano, si estendono le dune di sabbia di Hunder, un inaspettato angolo di deserto sahariano nel bel mezzo dell’Himalaya.

Dopo un’intensa settimana, siamo di ritorno all’aeroporto di Delhi dove ci attende il nostro autista che ci condurrà nello Shekawati. Questa zona situata nell’angolo nord-orientale del Rajastan, è nota per le haveli cioè le sfarzose magioni dei mercanti marwari, che sfoggiavano la propria ricchezza attraverso gli affreschi multicolori che ricoprivano le mura esterne ed interne degli edifici. Crocevia delle carovane che dal Gujarat raggiungevano più a nord la via della seta, lo Shekawati perse tale ruolo dopo l’apertura della Canale di Suez e la costruzione delle ferrovie, perciò i marwari si trasferirono nelle grandi città coloniali sulla costa che ormai offrivano maggiori possibilità di commercio, lasciando cosi chiuse o abbandonate le haveli.

Mandawa è senz’altro la cittadina più turistica, forse per il Forte del maharaja locale che in parte è stato trasformato in uno splendido albergo e che avrebbe costituito la nostra base per le escursioni nei dintorni. Nelle vicinanze del vivace bazar, il numero di case affrescate è molto alto e vengono aperte dai custodi non appena vedono avvicinarsi dei turisti stranieri. Non mancano rappresentazioni naif e curiosità come nella Murmuria Haveli, dove è rappresentato il viaggio in Europa dei proprietari, addirittura con scorci di Venezia. A 10 chilometri da Mandawa si raggiunge Fatehpur, con le strade parzialmente allagate dalle piogge monsoniche. Si tratta di una graziosa cittadina dimenticata dal turismo di massa, eppure le case affrescate sono molto numerose e talvolta abitate abusivamente, ma gli occupanti sono sempre lieti di accogliere i visitatori di passaggio e di mostrarle dietro il pagamento di piccole mance. Fa eccezione l’haveli di Nadine le Prince, un’artista francese che, innamoratasi di questa magione decadente trasformata in stalla, decise di acquistarla e di riportarla agli originari splendori. Ci vollero anni per recuperare gli affreschi ed i diversi ambienti, ma i risultati sono stati magnifici e la speranza sarebbe anche stata quella di incentivare i locali al recupero degli altri edifici al fine di incrementare il turismo e l’economia depressa della cittadina. Oltre ad ospitare interessanti mostre d’arte, l’haveli di Nadine le Prince sarà presto parzialmente trasformata anche in un’accogliente guest house, con poche stanze al piano superiore ben arredate. Altre haveli sono inoltre visitabili nella cittadina di Nawalgarh, con uno stato di conservazione decisamente migliore di quelle di Mandawa, a cui si aggiunge l’interessante mercato ortofrutticolo nei pressi del forte di Bala Kila. Dedichiamo una rapida visita anche alla cittadina di Dunlod e al forte del locale takhur (titolo nobiliare equivalente a quello di duca), che in parte è stato trasformato in un decadente albergo. Il custode ci mostra la sfarzosa Durbar hall (salone dei ricevimenti), la polverosa libreria e le stanze dei piani superiori dove sono conservati i numerosi trofei vinti dal takhur alle gare di equitazione.

Lasciamo l’ovattata atmosfera del Mandawa Castle e decidiamo di trascorrere la nostra ultima notte nello Shekawati a Mahansar, un villaggio più a nord a circa 30 chilometri di distanza. Il nostro autista fatica non poco per raggiungerla, a causa della strada interrotta per un sottopassaggio allagato, ma infine riusciamo a raggiungere il Narayan Niwas Castle, un decadente albergo che aveva attirato la mia attenzione. Si tratta di un forte suddiviso tra i discendenti del locale takhur, i quali si contendono gli avventurosi visitatori che si spingono in questa zona remota. L’ala occupata dall’albergo in questione è rimasta esattamente come in origine, senza cioè subire restauri o adattamenti di sorta, per cui appare piuttosto come una casa familiare dai percorsi labirintici, nella quale inizialmente si stenta ad orientarsi. Il proprietario riserva un’accoglienza calorosa ed ordina agli inservienti di trasportare i bagagli fino alla nostra stanza, la suite n.1. Sin da quando ho avuto l’occasione di vedere le foto di questo luogo, è subito emerso il fortissimo desiderio di pernottare in un posto così speciale dagli affreschi sbiaditi alle pareti, vecchi mobili e divanetti d’epoca, sfilacciati cuscini e nicchie dove cercare riparo dalla calura diurna, con piccole finestrelle dalle ante di legno che si affacciano su torri e mura merlate dal colore ocra. Il villaggio è di per se interessante e, dal tempio principale, spazia il panorama dei due distinti quartieri che lo compongono: quello musulmano con minareti e palazzi curati grazie ai finanziamenti dei ricchi Paesi arabi, e quello hindu, più genuino e che ospita una haveli straordinaria con dipinti sul Ramayana dove dominano i colori rosso e oro.

E’ tempo di tornare a Delhi, dove ci attende ormai il volo di ritorno… 18 giorni meravigliosi ma anche sfiancanti, tra climi asfissianti, mal d’altitudine ed imprevisti vari e forse inevitabili in un Paese come l’India, che ti mette alla prova, lasciandoti la malinconica sensazione di avercela fatta …



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