Italia – Guinea Bissau on the road

Sulle strade dell'Africa Occidentale con due moto ed un'auto medica da donare ad una comunità della Guinea Bissau
Scritto da: mronz
italia - guinea bissau on the road
Partenza il: 22/12/2009
Ritorno il: 10/01/2010
Viaggiatori: 6
Spesa: 2000 €
Due moto ed un’auto medica lungo le strade dell’Africa Occidentale

22 dicembre 2009 – 10 gennaio 2010 di Marco Ronzoni

Siamo sei amici lombardi, tutti legati attivamente all’Associazione Onlus “Amici della Guinea Bissau” di Busto Arsizio (Va): Alberto, Davide, Monica, Paolo, Paola (la mia compagna) ed io, Marco. Io, Alberto e Paolo eravamo già stati diverse volte presso la Missione Cattolica di Ingoré, un piccolo villaggio di quel piccolo stato dell’Africa Occidentale geograficamente nascosto a sud del più famoso Senegal. Da sempre sognavamo di potervi arrivare un giorno con un mezzo che non fosse l’aereo e quando il destino ce ne ha dato l’opportunità, a tutti noi già brillavano gli occhi. L’eterna e vitale necessità di un’unità mobile di soccorso che potesse garantire un’assistenza sanitaria anche nei villaggi più interni ed inaccessibili di quella parte della Guinea Bissau gravata, tra l’altro, di collegamenti stradali impegnativi (la maggior parte piste che, soprattutto nella stagione delle piogge, si trasformano in acquitrini fangosi), richiedevano la presenza sul territorio di un mezzo adeguato che implicava un impegno economico gravoso. La recente donazione all’Associazione di una fuoristrada TOYOTA 4runner usata ma in buone condizioni da parte di una sostenitrice, dava vita al progetto: trasformarla in auto medica e consegnarla alla Missione. Realizzarlo non sarebbe stato facile: la priorità assoluta era recuperare il denaro necessario senza pesare sulle casse dell’associazione o senza esorbitanti costi di autofinanziamento. Un modo poteva essere la creazione di una sorta di “evento” che tentasse di recuperare fondi ed attirare sull’associazione un po’ di interesse. Dentro di noi la volontà di realizzare qualcosa di importante, il forte impulso dell’avventura e la passione per le due ruote ci hanno suggerito la grande idea: condurre via terra l’auto medica fino alla missione, accompagnandola in moto attraverso Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania, Senegal, Gambia per giungere infine in Guinea Bissau. Era un caldo giorno dell’estate 2009. La rinnovata generosità della BTSR, un’azienda di Olgiate Olona (Va), ha messo subito a disposizione i fondi necessari alla trasformazione della Toyota ed alle spese di viaggio. Successivamente, a cascata, si sono aggiunti “sponsor” tecnici e finanziatori che hanno contribuito sostanziosamente al progetto. Il passo successivo è stata la lunga e laboriosa programmazione del viaggio, in tutti i suoi componenti tecnici, burocratici e logistici. Mentre le settimane passavano inesorabili, tutti i tasselli dell’organizzazione andavano al proprio posto e prima di potercene rendere davvero conto ci siamo trovati alla vigilia della partenza.

22 dicembre 2009 – ore 05:00 – Se proprio doveva cominciare male, certo non poteva andare peggio. Oltre 30 cm di neve caduta nella notte ci accompagnano sulla strada verso Genova verso l’imbarco dell’enorme traghetto della GNV per il Marocco. La nave è semivuota. Durante le oltre 48 ore di navigazione sfruttiamo la forzata inattività per accumulare un po’ di riposo. Finalmente, la sera del 24 siamo in Africa. Il sole sta tramontando su Tangeri; tutto si riempie di una luce calda e le ombre si allungano. Il tipico ed inconfondibile odore di questa terra ci avvolge mentre scendiamo dalla nave. Sul porto scende l’oscurità ed una fitta pioggia. Radunati i veicoli, recuperiamo le assicurazioni locali e qualche dirham per le prime spese e per il carburante. Le ruote incominciano a girare…

25 dicembre 2009 – Alle prime luci dell’alba, il vero viaggio inizia. E’ Natale. Di solito scartiamo i regali nel calduccio delle nostre case e ci soffochiamo di pietanze di ogni genere. Stavolta invece lo passeremo guidando sotto la pioggia sulla bella autostrada tra Tangeri e Casablanca. La temperatura è fredda. Noi motociclisti ammettiamo senza vergogna di essere ricorsi al tepore delle manopole riscaldate (grande accessorio delle nostre BMW GS) mentre Alberto e Paolo in auto godono di riscaldamento, finestrini e tergicristalli (che invidia…). Abbiamo in programma tappe giornaliere diversificate: distanze maggiori (fino a 650 km) per trasferimenti diretti e distanze minori (300/350 km) in presenza di dogane da attraversare o probabili numerosi posti di controllo. Il tutto, ovviamente, compatibilmente con la geografia del luogo e la distribuzione sul territorio delle città nelle quali poter passare la notte. Riempiamo subito le taniche supplementari che teniamo sopra la Toyota: 40 litri di gasolio e 40 di benzina verde ci saranno utili se e quando non dovessimo trovare carburante lungo la strada. Dopo una breve sosta nell’affascinante Rabat raggiungiamo l’aeroporto di Casablanca. Paola e Monica stanno arrivando in aereo da Malpensa ma il loro aereo è in forte ritardo. Paolo ed Alberto raggiungono subito Marrakech per trovare un albergo mentre io e Davide restiamo ad aspettarle. Il tempo continua a rovesciare pioggia e vento. Quando finalmente riabbracciamo le nostre compagne, si sta facendo buio e di conseguenza preferiamo sistemarci in un asettico hotel proprio fuori l’aeroporto, dispiaciuti per non poter vivere il calore ed il fascino della piazza Jemaa El Fna di Marrakech. Sarebbe stata una sera di Natale ancora più bella..

26 dicembre 2009 – Il gruppo si riunisce definitivamente in mattinata oltre Marrakech. Ha smesso di piovere ed è spuntato un tiepido sole. Ci muoviamo quindi in ordinata colonna verso Agadir. Il paesaggio è stupendo, arricchito dal rosso della terra e dal dolce saliscendi della strada. Grossi autocarri, stracarichi al limitedell’equilibrio, procedono a passo d’uomo arrancando sulle salite ed oscurando il cielo con nuvole di fumo nero dagli scarichi. Agadir, raggiunta nel primo pomeriggio, è una bella città affacciata sull’Oceano Atlantico, turistica ma con una propria identità nordafricana. Raggiungiamo il buon albergo prenotato dall’Italia e saziamo la fame con carne di manzo e di pollo comprata da dei macellai e cotta alla brace in un baretto del grande mercato del centro.

27 dicembre 2009 – Con la tappa di oggi varcheremo il confine virtuale del Sahara Occidentale. Inizia la parte dura del viaggio. Le città si diradano distanziandosi anche di centinaia di chilometri e l’offerta di sistemazioni per la notte o di rifornimenti di carburante sarà decisamente inferiore. Oltre Tiznit e fino a Guelmim si viaggia tra scenari incantevoli fatti di alternarsi di pianure e montagne, poi improvvisamente si apre davanti a noi un’immensa pianura desertica. Poco dopo Tan Tan veniamo fermati da un primo posto di blocco. Al controllo dei documenti, subito un militare marocchino nota sulla borsa laterale della mia moto la bandierina del Sahara Occidentale. E’ allineata con una quindicina di altre piccole bandiere che rappresentano le nazioni che io e Paola abbiamo visitato in moto durante le nostre vacanze e quelle che toccheremo in questo viaggio. Il Sahara Occidentale è il più grande territorio non indipendente del mondo. Ex colonia spagnola, attualmente è una “Provincia interna” del Regno del Marocco ed il militare, indicando con vigore lo stemma nazionale che porta sulla manica della divisa, ci rammenta che siamo a tutti gli effetti in Marocco. Il Sahara Occidentale non esiste e quella bandiera è un’offesa. Ricorrendo alle 10 o 12 parole di francese che conosco condite da frasi dialettali lombarde, chiedo umilmente scusa per il mio gesto irriverente. La tensione si placa e mi restituiscono il passaporto solo quando finalmente riescono a staccare l’adesivo dalla borsa. Da lì in poi iniziano una serie ininterrotta di controlli di Polizia ed Esercito che frammentano piuttosto regolarmente il nostro passo. Ci tornano utilissime le “fiches”, una sorta di scheda riassuntiva dei dati personali che abbiamo compilato in inglese, francese, spagnolo e portoghese, completate inoltre dall’arabo, dettaglio molto apprezzato. Molte volte sono state sufficienti tanto da non dover nemmeno esibire i documenti originali. La stupenda strada che passando da Tarfaya conduce a Laayoune lambisce la costa affacciandosi di sovente su scogliere a picco sulle onde dell’Oceano Atlantico. I chilometri passano regolari ed al tramonto arriviamo a destinazione. Laayoune, “capitale ufficiosa” del Sahara Occidentale, appare come una città di frontiera. Disordinata, piena di taxi e di mezzi ed uomini delle Nazioni Unite. Niente di bello da vedere, solo una città da sfruttare come ponte verso il profondo sud del Marocco. Troviamo alloggio proprio in centro, incastrati nelle strette vie laterali del corso principale.

28 dicembre 2009 – E’ ancora buio quando, nel freddo dell’aria mattutina, usciamo da Laayoune per immetterci su una monotona strada che per oltre 300 chilometri offrirà solo rettilinei di decine di chilometri. Intorno il nulla, una pietrosa distesa desertica punteggiata da dromedari semiselvatici ed ingentilita da qualche scorcio di azzurro del vicino Oceano. I colpi di sonno sia per noi motociclisti che per Alberto e Paolo alla guida della Toyota sono quasi insostenibili. Negli oltre 500 km tra Laayoune e Dakhla praticamente c’è solo Boujdour, un piccolo agglomerato di abitazioni posto a circa 1/3 del percorso. La presenza umana in tutto il resto della strada è rappresentata da rarissime stazioni di servizio e sperduti posti di blocco militari. Ad ogni controllo ti rivolgono qualche stupida domanda, da dove vieni, dove vai, quanto costa la moto, a quanto và e si stupiscono, o fingono di farlo, quando capiscono che siamo italiani. Avevamo deciso di mentire sistematicamente sia sulla nostra destinazione sia, soprattutto, sul motivo del nostro viaggio. Preferiamo spacciarci per un paio di moto scortate da una fuoristrada alla ricerca dell’emulazione di un mitico raid, piuttosto che per sei volontari che stanno andando in Guinea Bissau a consegnare un’ambulanza (le croci rosse erano state coperte da grossi adesivi bianchi). Qualunque forma di missione umanitaria presuppone il trasporto di generi di utilità riservati ad aiutare il destinatario e purtroppo in questo viaggio ogni paese attraversato ha o pensa di avere almeno le stesse necessità di quello d’arrivo. Ciò avrebbe comportato una serie ininterrotta di richieste di cadeaux o addirittura di sequestri di merce, oltre che attirare troppa attenzione su di noi. E ha funzionato. A circa 200 km da Dakhla ci fermiamo per fare rifornimento e per riprendere conoscenza dopo il torpore di troppi chilometri. La benzina verde incomincia a scarseggiare. E’ il primo di diversi rifornimenti fatti con benzina imprecisata di cui non si conosce bene “il colore” o gli ottani. Le moto continueranno a girare bene, nonostante il fastidioso tintinnio delle valvole ed i suoni rauchi emessi dai motori quando si chiede loro di riprendere da bassi regimi. Il gasolio invece non sarà mai un problema. Al massimo la Toyota la caverà con pestilenziali sbuffate nere dallo scarico. Dal rifornimento in poi la strada si fa un po’ più interessante. Straordinario l’incontro con un gruppo di dromedari selvatici che dondola sparpagliato lungo la strada. Rallentiamo e ci fermiamo. Uno di loro si avvicina lentamente alle moto. Si trattiene per alcuni secondi a pochi centimetri dalla nostra, allungando curioso il sottile collo verso quello strano essere giallo con in groppa degli umani con buffi copricapi. Poi si ritrae allontanandosi con indifferenza. La zona collinare che affrontiamo poco dopo ci obbliga finalmente ad utilizzare volante e manubri per seguirne l’andamento sinuoso. Formazioni rocciose che in scala ridotta ricordano quelle della Monument Valley in Arizona e la costa frastagliata del vicino oceano, arricchiscono il panorama. Dakhla è posta all’estremità della lunga e stretta penisola di Rio de Oro che si estende protesa verso sud parallela alla costa per circa 40 km. Per raggiungerla percorriamo un tratto di strada di straordinaria bellezza. Scavalcata una sella tra due colline, ci appare una visione mozzafiato a perdita d’occhio sulla penisola. La strada sembra il segno di una gigantesca frustata rimasta tatuata sulla pelle liscia del deserto. Le acque dell’oceano che la lambiscono sui due lati sono di un azzurro incantevole e decine di kite-surf colorano le spiagge affacciate sul porto naturale creatosi tra la penisola e la terraferma. Dakhla, capoluogo della regione Oued Ed-Dahab-Lagouira, è una cittadina abbastanza turistica, frequentata soprattutto da ogni tipo di surfista, con un piccolo “centro” dove fermenta un po’ la vita serale e dove si trovano i pochi ristoranti, semplici ma con ottima cucina. Offre poche sistemazioni alberghiere ma alcune di buona qualità.

29 dicembre 2009 – Lasciamo Dakhla mentre sta sorgendo il sole. I chilometri odierni non sono tantissimi ma dobbiamo entrare in Mauritania e non sappiamo quanto tempo ci costeranno i controlli in frontiera. Percorriamo a ritroso la stupenda penisola accesa dai colori dell’alba prima di affrontare la monotona discesa verso sud. Attraversato il Tropico del Cancro poco dopo El Argoub, ad un’ottantina di km da Dakhla, raggiungiamo finalmente la frontiera marocchina di Guerguerat. E’ quasi mezzogiorno ed ora fa davvero caldo. Affrontiamo il battesimo delle lungaggini burocratiche, spesso volutamente prolungate solo come dimostrazione di autorità o per richiesta di cadeaux, ma siamo preparati. Sulla Toyota abbiamo oggetti vari da utilizzare come omaggi “ufficiali”: scatolette di tonno sott’olio, penne a sfera, occhiali da sole, orologi, magliette, cappellini e sigarette (queste ultime comprate di contrabbando in Marocco). Alla fine del viaggio, tonno e sigarette risulteranno particolarmente apprezzati. Qualcuno, invece, si è accontentato di soldi, meglio se in euro… Le frontiere da qui in poi seguiranno uno schema preciso: uscita dal Paese, terra di nessuno, ingresso nel Paese. Il ricorrente rito delle formalità di frontiera comprenderà sempre tre controlli sia in uscita che in entrata: i primi due sui passaporti da parte di Polizia ed Esercito, il terzo sui documenti dei mezzi da parte degli Ufficiali della Dogana. Dopo un primo controllo abbastanza veloce, i nostri passaporti vengono “dimenticati” su una scrivania per mezz’ora prima di essere timbrati. Ispezione doganale al carico dei veicoli, distribuzione di sigarette e scatolette di tonno e via verso la Mauritania. Lasciato il territorio marocchino, attraversiamo la “Terra di nessuno”, un tratto sterrato di circa 5 km dimenticato dagli uomini e da Dio (chiunque esso sia), che assomiglia vagamente ad un campo di addestramento per carri armati. Gli inviti a non avventurarsi fuori pista causa la presenza di mine, retaggio bellico dei tempi tribolati di questa zona, suonano quanto mai insensati. Ma qual è la “pista”? Ovunque è terra, sassi taglienti, sabbia, buche, avvallamenti. Il tutto condito da decine di rottami di veicoli arrugginiti. In più, caldo soffocante e polvere: ottima miscela… La successiva frontiera mauritana., anche se un po’ complicata, si rivela inaspettatamente più veloce del previsto. Sul passaporto dei proprietari dei mezzi, vicino al visto temporaneo di transito ottenuto presso l’Ambasciata Mauritana di Roma, viene posto il timbro di ingresso ed annotati a penna tipo di veicolo, targa e numero di telaio. All’uscita dal Paese controlleranno che siano gli stessi e ne verranno nuovamente segnati i dati sul relativo timbro doganale. Anche per la Mauritania dovremo poi sottoscrivere un’assicurazione locale, ma potremo farlo solo una volta raggiunta Nouadhibou. Già, dimenticavo, tutti gli stati attraversati da questo viaggio non riconoscono alcuna assicurazione per i veicoli, italiana od internazionale che sia. Si è costretti ad acquistare, a costi abbastanza corposi, una polizza temporanea presso un ufficio assicurativo del luogo. Terminate le varie pratiche, finalmente si ricomincia a guidare. A conti fatti, il giochetto di uscire dal Marocco ed entrare in Mauritania ci è costato 3 ore totali. Niente male. Gli ultimi 40 km per raggiungere Nouadhibou, capitale della regione del Dakhlet Nouadhibou, sono su una buona strada che, come per Dakhla, percorre un promontorio. E’ la penisola di Capo Blanco. Tira un vento piuttosto fastidioso da ovest che solleva sabbia sull’asfalto. Corriamo paralleli alla linea ferroviaria dove transita il “treno più lungo del mondo”, centinaia di vagoni merci tutti uguali trainati da tre locomotori diesel. Il treno trasporta quì minerale ferroso da Zouerat e Fderik, città minerarie dell’interno. E’ un vero Guinness dei Primati, perché può raggiungere una lunghezza totale di 3 chilometri. E’ un po’ il biglietto da visita della città, seconda per dimensioni e polo commerciale del Paese. Sporca e disordinata, vive di pesca e della lavorazione del ferro, ed è una semplice tappa verso il profondo sudovest africano, spesso obbligatoria prima di affrontare il deserto. L’albergo che ci ospita è comunque accogliente. Siamo gli unici clienti e con molta cortesia ci preparano un’ottima cena a base di pesce. Cambiamo qualche euro in ouguiya, la moneta locale. Tocca a Paolo ed Alberto uscire dopo cena con un tizio che li porterà in taxi a fare le assicurazioni per i mezzi. Al loro ritorno raccontano di una viabilità pazzesca e della follia dei guidatori del posto. Una curiosità: sembra che tutte le Mercedes 190 del mondo, scomparse ormai da anni dalle nostre strade, si siano radunate in Mauritania…

30 dicembre 2009 – Questa sarà la tappa più impegnativa, almeno in teoria. Fino a Nouakchott, distante quasi 500 km di Trans Sahariana (fortunatamente completamente asfaltata dal 2007), praticamente non c’è nient’altro che deserto. Nessuna città che possa definirsi tale, solo una o due stazioni di rifornimento. La nostra sicurezza preoccupa un po’ tutti, chi più chi meno, dopo i rapimenti avvenuti in Mauritania nelle scorse settimane. Tre spagnoli di una ONG sono stati sequestrati proprio lungo la strada di oggi mentre un italiano e la sua compagna africana su quella tra la capitale ed il Mali. Speriamo. Facciamo il pieno appena fuori Nouadhibou ed iniziamo il lungo trasferimento. C’è vento che soffia sabbia sull’asfalto liscio come un biliardo. Solo in alcuni punti incontriamo delle buche, ma le condizioni generali ci permettono una buona andatura. Normalmente fuori dai centri abitati, dove possibile, viaggiamo al massimo a 100/110 km/h. Ciò ci permette di vedere e schivare eventuali ostacoli, buche ed animali di ogni genere (asini, dromedari, capre, pecore, galline, maiali, mucche e cani). Avvicinandosi ai centri abitati bisogna rallentare sempre. Oltre ai soliti animali, persone e mezzi invadono la strada senza regole o preavvisi. Il limite scende anche a 40 km/h ed invisibili cartelli arrugginiti ed ammaccati intimano l’ALT dei posti di controllo. Gli agenti sono solitamente fermi qualche decina di metri oltre il segnale di arresto, mischiati tra la gente che affolla la strada. E’ obbligatorio fermarsi all’altezza del cartello anche se non c’è nessuno ed aspettare che qualche divisa compaia dal nulla e ti faccia cenno con una mano di avvicinarti. Ma attenzione, uno alla volta, anche se si viaggia in comitiva, pena indietreggiare fino al cartello e ricominciare la scenetta. Lasciata Nouadhibou, incontriamo il primo veicolo solo dopo 136 Km, poco prima di una piccola stazione di servizio apparentemente abbandonata. Il paesaggio si trasforma lentamente intorno a noi. La sabbia è sempre più presente e le dune sempre più alte, affascinanti e colorate. Incantevoli giochi di colori accompagnano lo sguardo. A seconda della luce solare le tonalità delle dune cambiano dal grigio chiaro, al beige, all’ocra, al rosso mattone. Nient’altro che sabbia, poche piante scheletriche, cespugli rinsecchiti, dromedari e qualche tenda. Straordinario. Il vento è cessato e la strada è pulitissima. Dopo altri 100 km di nulla e di tutto, arriviamo ad una seconda stazione di servizio, decisamente più viva. Ne approfittiamo per piccola pausa: un doveroso rabbocco dei serbatoi dei mezzi ed un po’ d’acqua e due barrette energetiche per noi. Il gasolio è disponibile ma dato che la benzina è esaurita dobbiamo ricorrere alle taniche di scorta per rifornire le moto. Continuiamo verso sud letteralmente rapiti (forse da queste parti non è il termine più appropriato…) da tutto ciò che incontra il nostro sguardo. Ci stiamo avvicinando alla capitale. Sfiliamo un piccolo centro bitato, Tiouilit, ormai a circa 80 km dalla destinazione. Le dune sono quasi scomparse, lasciando il posto a una distesa arida e piatta. Entriamo in Nouakchott. Anche qui la prima sensazione è di decadenza, disordine e trascuratezza. Niente di bello o di attraente. Le modeste abitazioni della periferia ci accompagnano fino in centro. Marciapiedi invasi da animali e venditori di ogni genere, sporcizia, sabbia e polvere ovunque. La maggior parte dei mezzi che circolano farebbero inorridire uno sfasciacarrozze europeo. Sembrano usciti da un’enorme centrifuga dopo essere stati gettati da un aereo. I motori arrancano e soffiano putridi e maleodoranti sbuffi neri, gli interni sono devastati, la carrozzeria completamente arrugginita ed ammaccata. Niente luci, gomme usurate, finestrini bloccati o sfondati. Ma continuano a muoversi… La vita nelle strade di Nouakchott è un fermento. Il traffico è caotico e puzzolente, senza il minimo rispetto dei pedoni. Oltre ai mille volti caratteristici, agli abbigliamenti multicolori ed alla ruggine delle macchine, spicca solo una moschea con due alti minareti. Purtroppo i rifiuti sono ovunque. In un grande spiazzo sterrato alcuni bambini giocano a calcio dribblando sacchi di spazzatura. Come se non fosse già abbastanza l’essere arrivati in città con una macchina e due moto multicolori, giriamo armati di obiettivi fotografici superpotenti che assomigliano a piccoli cannoni minacciosi. La gente ci guarda come se fossimo extraterrestri alti 5 metri, verdi e con 8 braccia. La nostra fame di fissare in immagini la vita ed i luoghi, a volte ci fa oltrepassare la sottile linea del rispetto. Il nostro intento è sincero ma il nostro atteggiamento è abbastanza offensivo. Spesso non ci rendiamo conto, per preoccupante superficialità, che così facendo invadiamo la sfera privata delle persone solo per appagare la nostra voglia di ricordare. E di questo un po’ mi vergogno…

31 dicembre 2009 – I giorni passano veloci. Il 2009 sta finendo. Il programma odierno prevede l’ingresso in Senegal, dopo 200 km di asfalto (almeno speriamo che lo sia, perché la carta Michelin segnala quel tratto come “route fréquemment ensablée” ed anche se non so il francese qualcosa mi dice che non è buona cosa…). Usciamo da Nouakchott piuttosto facilmente, attraversando la sua periferia ridotta ad una discarica. Verso sud il paesaggio continua a mutare. Le dimensioni della vegetazione aumentano e si intravedono i primi baobab. Il deserto sta lasciando il posto alla savana, anche se qualche duna si rifiuta ancora di sottomettersi. Ad un posto di controllo della polizia, una baracca irriconoscibile a pochi chilometri dal confine, ci procuriamo le assicurazioni necessarie per Senegal e Gambia con l’aiuto di un personaggio sbucato dal nulla che se ne va con i nostri documenti e riappare dopo mezz’ora con tutto fatto. Arriviamo a Rosso, la frontiera col Senegal più nota, frequentata e diretta ma proprio per questo, pare sia simile ad un girone infernale dantesco. Una folla urlante assale l’inerme viaggiatore proponendogli di risolvere per lui ogni incombenza relativa al passaggio doganale, ovviamente a caro prezzo. Mille mani lo toccano, lo tirano e gli impediscono di fuggire da quella bolgia. La leggendaria corruzione dei doganieri completa il quadretto. Racconti in bilico tra mito e leggenda narrano di certi sventurati che hanno dovuto sborsare centinaia di euro prima di riuscire a passare la frontiera, dopo ore ed ore di angoscia. Inoltre, poco dopo, la strada è sbarrata dal fiume Senegal che deve essere attraversato con un lentissimo traghetto prima di affrontare gli ultimi chilometri verso Saint Louis. Un incubo. La faccenda era stata già valutata prima di partire, per cui avevamo deciso di affrontare l’unica alternativa: la frontiera di Djama. Facile, poco frequentata, controlli veloci, funzionari gentili, niente traghetto ma un bel ponte scorrevole che ti proietta direttamente dentro Saint Louis. Il pegno da pagare per raggiungere Djama sono “solo” un centinaio di chilometri di pista piena di sabbia, polvere, buche e, a seconda delle stagioni, fango tipo sabbie mobili. Ma è un dettaglio trascurabile, no? L’accesso è nascosto tra due baracche subito prima del confine ed è praticamente invisibile, quasi a costringerti ad infilarti tuo malgrado direttamente nelle fauci della belva di Rosso. La pista si rivela impegnativa fin da subito con un fondo costantemente di terra, sabbia e buche, terribili avvallamenti e solchi profondi decine di centimetri. Davide, con la sua grande esperienza da endurista, guida piuttosto spedito con Monica in sella dietro di lui, io procedo col mio passo sudando e bestemmiando come un ossesso confortato dalle parole di Paola dietro di me e la Toyota arranca come meglio può, sobbalzando e contorcendosi per cercare le traiettorie migliori. Sovente abbiamo preferito piste secondarie segnate dal passaggio di altri veicoli e rese carrabili solo dall’attuale stagione secca. A circa 2/3 di percorso il portapacchi della Toyota si accascia sul tetto. Un piedino si è spezzato ed un altro si è piegato sotto il peso del carico a causa dei continui scossoni. Poco dopo la pista inizia a lambire una zona paludosa, spettacolare e ricca di avifauna (pellicani e fenicotteri). E’ Il Santuario Nazionale degli Uccelli di Djoudj, inserito tra i Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, dove ci estorcono 60 euro come tassa di uscita. E’ una cifra a dir poco folle. Con quei soldi ci compravamo tutto il parco, compreso gli uccelli e quella specie di guardiano vampiro. La tortura dura ormai da quasi 4 ore ma il Dio della Polvere non è ancora sazio. Prima di giungere finalmente in Senegal affrontiamo gli ultimi 11 km sterrati, la maggior parte dei quali su un esasperante “tole-ondulee”, il massacrante fondo che letteralmente smonta i veicoli e toglie le otturazioni dai denti. Per fortuna, come sperato, la dogana è tranquillissima e superiamo i controlli senza problemi. Ci vengono consegnati i “Passavant de Circulation”, documenti di importazione temporanea dei veicoli stranieri. Non ci sembra vero di sentire nuovamente scorrere asfalto sotto le ruote, anche se dopo pochi chilometri, ad un posto di blocco, ci rapinano altri 30 euro per evitare di sequestrarci il televisore usato che trasportiamo sulla Toyota e che andava dichiarato in frontiera. Ancora una volta le circostanze ci portano a subire la sfacciataggine di certe richieste che ormai sono diventate una regola fissa in diversi paesi. Spesso i viaggiatori preferiscono pagare piuttosto che perdere tempo. E loro lo sanno. Approfittiamo della sosta per riparare il portapacchi con l’aiuto di una vicina officina, una specie di catapecchia con strumenti ed attrezzi paleolitici che farebbe venire un colpo ad un responsabile della 626. Arriviamo così finalmente nel tardo pomeriggio a Saint Louis, quinta città del Senegal dichiarata nel 2000 Patrimonio dell’Umanità dal World Heritage Commitee dell’UNESCO. Ci attende l’Hotel de la Poste, ex stazione di smistamento dei primi pionieri della Posta Aerea in Africa Occidentale. Superbo esempio di architettura coloniale, si staglia al limitare della zona storica della città. L’atmosfera che si respira è magica: la facciata in stile, il patio all’ingresso ed il cortile interno con le balconate su cui si affacciano le accoglienti camere. Siamo cotti, sporchi, stanchi, sudati ed impolverati da fare schifo. Ci dissetiamo con birra Gazelle e Sprite, bevendo avidamente. Non ci siamo mai fermati e siamo anche parecchio affamati, ma ci teniamo l’appetito per questa sera. E’ l’ultimo giorno dell’anno e vogliamo festeggiarlo. Ceniamo in un ristorantino semplice ma con ottima cucina e prezzi bassissimi, per poi brindare al 2010 nel patio dell’hotel con spumante rigorosamente italiano portato da casa.

01 gennaio 2010 – Il rito della sveglia nel cuore della notte e della partenza all’alba non risparmia nemmeno il primo giorno del nuovo anno. Scendendo verso sud, i posti di blocco continuano a frammentare la nostra guida mentre il paesaggio cambia senza sosta. Guidiamo paralleli alla costa in direzione Dakar via Louga fino a Thiés (a pochi km dalla capitale) e da lì verso sud-est via Djourbel fino a Kaolack, meta odierna in prossimità del confine con la Gambia. Col passare dei chilometri, i centri abitati si fanno più numerosi e la vegetazione più rigogliosa. L’asfalto sotto di noi però peggiora costantemente, costringendoci a bruschi rallentamenti. Spesso noi in moto ce la caviamo con uno slalom tra profonde buche, mentre la macchina è costretta a subirne inevitabilmente gli scossoni. Entriamo in Kaolack intorno alle 14:00. La città sorge sulla riva nord del fiume Saloum ed è considerata una delle peggiori città africane. Basata totalmente sulla lavorazione del sale e delle arachidi, versa in pessime condizioni igieniche. La disastrosa presenza di sporcizia e rifiuti e l’assenza di acqua potabile la mettono regolarmente a rischio di epidemie di malaria, febbre gialla o colera. Fa molto caldo. Essendo primo pomeriggio, cercheremo di passare in giornata la Gambia e dirigerci subito verso Ziguinchor, ultima meta prima dell’ingresso in Guinea. Fuori dalla pattumiera chiamata Kaolack, la strada corre diritta come un fuso. L’asfalto, sorprendentemente in ottime condizioni, da lì a poco si costella di buche che diventano sempre più numerose e profonde. La velocità media scende a 30 km/h e la Gambia diventa sempre più lontana. Arriviamo comunque alla frontiera in uscita dal Senegal. Solita procedura e solito esborso di soldi. L’asfalto scompare e lascia posto ad un liscio e polveroso sterrato, pomposamente indicato sulla cartina come “Trans Gambia Highway”. Sui mezzi e sugli abiti si depositano altri strati di terra rossa. Poco dopo, nel villaggio di Farafenny, ai controlli parlano solo inglese, tanto per ricordarti che sei già in un altro Paese. Abbastanza veloce il check dei passaporti, più complicata la dogana. Al “passavant de circulation” senegalese affiancano un identico documento gambiano in tre parti. Carta, timbri, timbri e carta. E soldi, un continuo stillicidio di soldi. Lo sterrato continua. Per attraversare la Gambia (che in questo punto è larga solo una quarantina di km), bisognerà anche superare il fiume omonimo, proprio a metà strada. Quando arriviamo all’imbarco del traghetto è il tramonto. Realizziamo che oltre a non raggiungere mai Ziguinchor con la luce del giorno, forse non riusciremo nemmeno ad uscire dalla Gambia e rientrare in Senegal prima che le frontiere chiudano. Il ferry è in arrivo e dopo le operazioni di attracco e scarico di persone e veicoli, tocca a noi salire. C’è posto per i nostri tre mezzi, un disperato furgone più ruggine che bianco ed un grosso autocarro. Le persone imbarcate sono poche, una ventina al massimo. Sta rapidamente diventando buio, al punto che, mentre arranchiamo verso la sponda opposta, la notte precipita su di noi. Il grosso faro del traghetto che dalla sommità della plancia di comando illumina le mangrovie della riva meridionale del fiume, crea un’atmosfera teatrale e avventurosa. L’approdo all’imbarcadero sud avviene senza troppe difficoltà. La perizia del comandante e la lentezza del ferry fanno un’ottima accoppiata. Scendiamo nel buio più totale ed imbocchiamo la pista davanti a noi. Precedo il gruppo, forte dei tre fari della mia moto anche se una fitta nebbia rossa lascia intravedere davvero poco dello sterrato che stiamo percorrendo. Dopo qualche km deboli luci ci indicano la meta. Siamo a Soma, ridente località gambiana in mezzo al nulla. Le baracche che ospitano gli uffici della Polizia e della Dogana sono mischiate alle altre lungo la via, quasi irriconoscibili se non per scritte sbiadite fatte a pennello sui muri. Fioche candele illuminano i davanzali delle finestre. I vari funzionari ci accolgono nonostante l’ora, sprecandosi in timbri e convenevoli alla luce delle nostre piccole torce tascabili. Dobbiamo cercare un posto dove passare la notte, visto che la frontiera senegalese è ormai chiusa. Un gentile poliziotto si stringe sulla Toyota con Paolo ed Alberto e ci guida attraverso un gruppo disordinato di abitazioni tra le quali serpeggiano bui e minuscoli viottoli sterrati. Dopo un primo tentativo a vuoto, giungiamo davanti ad una recinzione di muratura che abbraccia un cortile interno con due edifici disposti ad “L”. E’ il Kaira Konko Lodge. L’aspetto è istintivamente confortante ed il benvenuto della donna che con i figli gestisce la struttura è caloroso. Ha piccole camere, semplici, essenziali ed accoglienti. Bagni spaziosi e, tutto sommato, puliti. Niente acqua calda né corrente elettrica ma non ci lamentiamo. Accettiamo volentieri. La cordialità e la dolcezza della donna sono coinvolgenti. Ci mette a disposizione la cucina e tutto il pentolame necessario e così, grazie alle nostre provviste, riusciamo ad imbastire una buona cena.

02 gennaio 2010 – All’alba Soma si sta svegliando e con lei la dogana. Risolte con rapidità le incombenze ufficiali, imbocchiamo di nuovo la pistona sterrata verso sud. Di lì a poco giungiamo alla frontiera senegalese. Si ricomincia a parlare francese. Dobbiamo sprecarci per spiegare ai vari controlli cosa ci facciamo lì a quell’ora del primo mattino, ottenendo facce più stupite dal sapere che abbiamo dormito a Soma piuttosto che arriviamo dall’Italia con i nostri mezzi… In Senegal ritroviamo l’asfalto anche se terribilmente pieno di buche. Nell’aria c’è qualcosa di diverso e lo si può subito notare dai tanti militari armati lungo la strada distribuiti a stretti e regolari intervalli. Alcuni ci intimano l’ALT piuttosto bruscamente manifestando un certo nervosismo, altri ci lasciano passare salutandoci con un freddo gesto della mano. Ci appare subito chiaro che questa parte di Senegal, la Casamance, è piuttosto “agitata”. La regione, delimitata a nord dalla Gambia e a sud dalla Guinea Bissau, è una zona nella quale, da decenni, problemi sociali, economici e politici hanno portato ad attentati e scontri armati tra l’Esercito senegalese ed i ribelli che inseguono un’indipendenza nazionale. Ultimamente, inoltre, la comparsa sul territorio di bande di predoni che non temono di bloccare veicoli ed uccidere per rapina, ha ulteriormente teso la situazione. Dopo un po’ ci abituiamo alla presenza militare e fortunatamente l’asfalto migliora. Possiamo procedere con una buona media, rallentando solo avvicinandoci ai soldati. Il paesaggio è mutato notevolmente. La vegetazione è rigogliosa, arricchita dalla comparsa di alte palme. I villaggi si succedono più frequentemente. Passiamo il bivio di Bignona e ci avviciniamo a Ziguinchor alla quale si accede attraverso il ponte sul fiume Casamance (che dà il nome alla regione). Prima tappa il consolato della Guinea Bissau, dove recuperiamo i visti di ingresso obbligatori, ed a seguire il Kadiandoumagne, un buon albergo in cui tutti noi volontari prima o poi abbiamo avuto il piacere di soggiornare. E’ splendidamente affacciato sul fiume, con la suggestiva vista delle colorate barche senegalesi che sonnecchiano sulla riva. La cucina è squisita e sarebbe un peccato lasciarlo senza aver assaggiato il suo leggendario pollo alla brace.

03 gennaio 2010 – Il giorno tanto atteso è arrivato. Attraversiamo Ziguinchor nella penombra del primo mattino. Lungo i pochi km che ci separano dal confine, una nebbiolina suggestiva avvolge la boscaglia. Superiamo senza intoppi la dogana in uscita dal Senegal e poco dopo… non ci possiamo credere: siamo arrivati in Guinea Bissau. I controlli di frontiera sono alquanto “amichevoli”, grazie alla stima guadagnata dalla Missione e dai suoi volontari, e dopo le foto commemorative presso il cippo doganale che porta i colori della bandiera nazionale, varchiamo ufficialmente l’ultimo confine. Non ci resta altro da fare che togliere gli adesivi che coprono le croci rosse della Toyota e darle finalmente l’aspetto autentico che si merita. Il paesaggio verso Ingorè scorre familiare ed i km passano con serenità ed emozione crescente. Romana, una delle tre suore che gestiscono la Missione, ci è venuta incontro per darci il benvenuto nel villaggio di Sedengal, sede di un ”ambulatorio” che fa parte del progetto di salute della Missione. C’è un sacco di gente che aspetta lungo la strada e che applaude al nostro arrivo. In prima fila le donne incinta, con i loro pancioni colorati dai tessuti degli abiti della festa; poi tanti bambini e ragazzi incuriositi soprattutto dalle due moto che forse è la prima volta che vedono così da vicino. La sosta è breve. Ci aspettano in Missione per la Messa (oggi è domenica) e per darci il benvenuto ufficiale. Al cartello di Ingoré, la sirena della Toyota inizia ad urlare ed è un suono imbarazzante perché strazia la quiete del posto. Attraversiamo il villaggio ed entriamo nello spiazzo sterrato antistante la chiesa. Una piccola folla si raduna intorno a noi ed ai nostri mezzi sporchi di tanti chilometri. Tra le decine di facce che ci circondano vediamo Suor Ines, originaria della Guinea Bissau, che attualmente condivide la responsabilità della Missione con Romana ed Esperia, quest’ultima trattenuta in Italia da problemi di salute. Scendiamo dai mezzi tra i sorrisi e gli abbracci dei presenti e ci affacciamo nell’ordinato cortile della Missione. Il grande serbatoio si staglia ancora alto e sicuro, il vecchio pozzo con la sua suggestiva pompa eolica a pale è ancora lì come un monumento. Percorriamo il corridoio esterno dell’edificio principale, tante volte illuminato dalle sole luci delle torce portatili quando, di sera, il generatore si spegneva e tutto cadeva nel profondo nero delle notti africane. Entriamo nel refettorio, una piccola sala mensa dove un lungo tavolo è pronto ad accogliere gli ospiti. Ci coglie di sorpresa un piccolo vaso di fiori ed un foglio con scritto a penna “BENVENUTI – BEMVINDOS”… Ci viene offerto da bere e ci dissetiamo avidamente. Il caldo qui è davvero intenso. Si sfiorano i 40°. Dopo la messa celebrata in criolo, la lingua semi-ufficiale del Paese, macchina e moto vengono benedette tra la gente, ora davvero tanta. Poco a poco la festa si placa e possiamo incominciare a godere della pace della Missione mentre la soddisfazione si fa largo tra le emozioni.

04 – 05 gennaio 2010 – I giorni successivi vengono impegnati tra lavoretti di manutenzione in Missione e le centinaia di bambini accorsi per la ripresa della scuola dopo le feste natalizie. Poi arriva il grande giorno della consegna ufficiale dell’auto medica. La cerimonia avviene presso il “Municipio” del villaggio, alla presenza delle varie Autorità invitate per la grande occasione. La Toyota sembra uscita da un centro benessere da quanto è pulita e linda, liberata dalla sporcizia e dai vari accessori da “raid” che l’hanno caratterizzata fin quì. La folla aumenta, forse più curiosa che interessata. Attraverso un megafono si susseguono roboanti discorsi sul valore del gesto compiuto dai volontari della Missione, sull’importanza dell’auto medica per tutta la comunità di Ingoré, della speranza che serva sempre di meno in conseguenza ad un auspicabile miglioramento delle condizioni di vita della Nazione, ma anche che quando servirà possa essere di aiuto per salvare delle vite umane altrimenti condannate. E poi ringraziamenti, ammirazione, commozione, elogi. Ad ognuno di noi viene inaspettatamente donato n telo cerimoniale tessuto a mano riservato alle grandi occasioni. Adesso il sogno è perfetto… La gente incomincia a sfollare. Le celebrità, dopo le foto di rito alla consegna solenne delle chiavi della macchina, una ad una si allontanano ed il villaggio riprende a sonnecchiare. Per noi motociclisti è l’ultimo giorno in Guinea. Sentiamo l’avvicinarsi dell’inevitabile ritorno e la preparazione serale dei bagagli avviene in silenzio. Tutto trova il giusto spazio nelle borse e nelle sacche delle moto ma tanto di noi resterà qui….

06 GENNAIO 2010 – Ok, è ora di partire. E’ con un groppo alla gola che salutiamo i compagni di viaggio, Suor Romana e Suor Ines. Come da programma, il destino del gruppo si divide. Noi motociclisti risaliremo fino a Dakar ripercorrendo a ritroso parte dell’itinerario fatto all’andata. Rientreremo quindi in Senegal e via Ziguinchor e poi Bignona arriveremo al confine con il Gambia che attraverseremo sugli stessi polverosi sterrati e con lo stesso lento traghetto. Arriveremo poi a Kaolack, dove passeremo la notte. L’indomani ci staccheremo dal percorso dell’andata per salire in direzione nord-ovest verso Dakar. Nella capitale ci attenderà l’imbarco delle moto in un container navale per il rientro, mentre noi rimpatrieremo in aereo via Casablanca nella notte tra l’8 ed il 9 gennaio. Paolo ed Alberto invece resteranno in Guinea fino a domenica 10. Passeranno ancora qualche giorno ad Ingoré per portarsi poi a Bissau nella Casa Madre della Missione dove dovranno completare il grande lavoro di recupero delle fotografie dei bambini adottati. Il sogno è finito.

Sentiamo il dovere di ringraziare in particolare i nostri familiari e tutti coloro i quali ci hanno appoggiato e senza il cui aiuto non sarebbe stato possibile realizzare questo Progetto.

Per informazioni o contatti sul viaggio o sull’Associazione: Marco Ronzoni mronz@libero.it ASSOCIAZIONE AMICI DELLA GUINEA BISSAU ONLUS Via Maino, 2 – 21052 BUSTO ARSIZIO – Va Tel. +39 0331 677468 – 342895



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