Guatemala e Honduras 3 parte

VIII giorno – Mercoledì 2 luglio 2003 Dormo bene, con il ventilatore in moto, anche se poi lo spengo. Ho in carica sia la batteria della videocamere, sia quelle della fotocamera, quindi fatico a prendere sonno, perché aspetto che siano cariche per staccarle. Mi sveglio presto la mattina, per via degli ormai consueti galli, onnipresenti in...
Scritto da: geutimes
guatemala e honduras 3 parte
Partenza il: 25/06/2003
Ritorno il: 12/07/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
VIII giorno – Mercoledì 2 luglio 2003 Dormo bene, con il ventilatore in moto, anche se poi lo spengo. Ho in carica sia la batteria della videocamere, sia quelle della fotocamera, quindi fatico a prendere sonno, perché aspetto che siano cariche per staccarle.

Mi sveglio presto la mattina, per via degli ormai consueti galli, onnipresenti in Guatemala; questa volta, però, ho veramente sonno, ogni movimento mi pesa e me ne starei volentieri a letto, ma Claudia mi sprona.

Facciamo colazione in camera con i biscotti ed i succhi acquistati ancora ad Antigua.

Ci carichiamo le borse in spalla ed andiamo lentamente a piedi al molo per prendere una lancia diretta a Livingstone.

Di Puerto Barrios non abbiamo visto molto, se non il breve tragitto in taxi, col buio, e la camminata di qualche centinaio di metri adesso. La guido la dipinge come una città veramente pessima e malfamata; non posso aggiungere null’altro.

La barca pubblica per Livingstone salpa alle 10.00 e costa 10 Q a testa: ci sembra troppo tardi, quindi ci mettiamo in lista per una privata in partenza alle 7.30 per 25 Q ciascuno.

Manca una mezz’ora.

Ci sediamo vicino al molo e aspettiamo. Siamo gli unici turisti, anzi, direi che siamo gli unici non-Guatemaltechi. Qualcuno comincia già ad accomodarsi sui sedili dell’imbarcazione, la Veronica 2. Chissà che fine ha fatto la 1 ? Speriamo che non sia colata a picco ! Decidiamo di fare la stessa cosa anche noi. Sistemo alla buona le borse nella prua del piccolo natante, sperando che non imbarchi acqua, e saliamo. In breve la barca si riempie e le quattro panche trasversali accomodano ognuna quattro persone. Ci sono due tecnici con machete, barre di misura e altro materiale, ma scendono per far salire altre due persone, inspiegabilmete. Alla mia sinistra siede Claudia, e oltre un tizio giovane, ben vestito, con valigetta e cellulare.

Partiamo puntuali. La traversata è molto piacevole, la barca veloce, ed il vento fresco ci tonifica a dovere. Il mare è molto tranquillo e la barca va spedita. Fortunatamente non entra acqua.

Subito al largo del porticciolo è ormeggiata una grossa nave da carico rossa, di Monrovia, che noi sfioriamo. Noto che è circondata da un perimetro galleggiante, oltre il quale, immagino, non è possibile avventurarsi.

Navighiamo a breve distanza dalla costa, cosa che tranquillizza un po’ Claudia.

Faccio delle riprese, ma siedo sul lato opposto dell’imbarcazione rispetto alla costa. La riva è letteralmente invasa dalle mangrovie le cui radici si estendono sino in acqua. Di tanto in tanto si intravedono delle abitazioni, delle capanne o delle vere e proprie ville.

La giornata è molto bella, con un cielo azzurro intensissimo, che contrasta con il verde vivo della vegetazione. Qui i colori sono veramente accesi. Alcuni alberi hanno dei fiori rossi che creano quasi un’aureola sul verde delle foglie.

Le ritmiche oscillazioni della barca mi cullano ed il vento mi accarezza e mi agita i capelli. Alcuni grossi uccelli con il becco lungo svolazzano nel cielo e ogni tanto rasentano il pelo dell’acqua. Vedo anche un grosso pesce che spunta dal mare e poi ci si rituffa.

Il tragitto richiede circa mezz’ora di navigazione. Alle 8.00 arriviamo finalmente a Livingstone. Cerchiamo subito una sistemazione: visitiamo l’Hotel Rios Tropicales, sulla via principale e la Casa Rosada, ma scegliamo il primo perché costa meno (130 Q) ed è veramente bello. Una ragazza un po’ storditina o semplicemente molto scazzata ci da la stanza numero 4 al piano terra, rivolta verso un patìo interno.

Ci rifocilliamo un attimo e poi andiamo all’agenzia di viaggi, che è anche bar e ristorante. Prenotiamo la risalita del fiume Rio Dulce, fino all’omonimo paese, per domani (70 Q a testa). Ci propongono anche una escursione giornaliera ai Sette Altari per oggi, che accettiamo (50 Q a testa); parte alle 9.30.

Corriamo in camera a prepararci e a nascondere sotto al materasso, ossia nel primo posto in cui chiunque guarderebbe, soldi e passaporti. Indossiamo anche i costumi da bagno, usciamo, acquistiamo un pane di cannella, visto che ho fame, e ci facciamo trovare puntuali all’appuntamento.

Insieme a noi ci sono due Neozelandesi, oltre naturalmente alla guida, Cholo, un Garifuna tutto muscoli.

Ci avviamo a piedi verso la prima tappa del giro, la chiesa di Livingstone, che raggiungiamo dopo pochi isolati.Entriamo. Cholo ci dice che risale al secolo XIV, ma a me non sembra. Alle pareti sono appese delle statue bruttine ed un po’ angoscianti di santi e quant’altro: sono a grandezza naturale.

Ricomincia il cammino. Attraversiamo il cimitero. È un luogo non recintato, abbastanza incolto con erba alta ed un sentiero che percorriamo. Le sepolture ci circondano distribuite caoticamente e senza una apparente logica: si tratta di blocchi parallelepipedi di cemento di circa 2 x 1 x 1 metri, colorati di tinte vive: rosso, azzurro, verde. Non ne sono certo, ma credo che ogni famiglia abbia un colore peculiare. Su tutte le tombe, delle croci. I nomi, invece, sono molto rari. Il Garifuna ci spiega che per loro deve essere un posto molto allegro e che una volta all’anno si ritrovano tutti qui a festeggiare con cibo, musica e danze. Per loro, mi dice, prima del denaro viene l’allegria.

Continuiamo il nostro cammino lungo un sentiero tra l’erba e la vegetazione che porta verso la cima di un piccolo colle che funge da punto panoramico. Lungo la leggera salita vedo una pianta di ananas: non l’avevo mai vista ! Sostiamo brevemente. Si vede il mare, e all’orizzonte, da un lato, è appena distinguibile il Belize, dall’altro l’Honduras. Alle nostre spalle giacciono le montagne dell’entroterra coperte dalla verdissima e lussureggiante vegetazione di queste parti. Il Garifuna ci fa osservare che ci sono abitazioni in muratura e altre, più tradizionali, in legno. Aggiunge che fino a cinque anni fa c’erano solo le capanne, poi molti sono andati negli USA a lavorare, perché qui si lavora per i Quetzales, mentre lì si lavora per i dollari. Anche lui vorrebbe i dollari di Bush, “el presidiente loco” lo definisce, ma in America fa troppo freddo. Inoltre, conclude, le case in muratura sono molto più calde ed afose delle capanne in paglia e legno.

Ripartiamo. Presso il punto panoramico c’è una casa con appeso sulla facciata un manifesto del FRG, con la foto di Portillo (l’attuale presidente), Rios Montt, il famigerato dittatore degli anni ottanta, ed un candidato locale.

Procediamo in mezzo alla boscaglia e attraversiamo un villaggio di Garifuna costituito da alcune semplici capanne, tutte con frigorifero, radio e TV, e da alcuni spiazzi comuni in cui pascolano animali domestici, soprattutto polli, tacchini e maiali. Naturalmente ci sono anche donne e parecchi bambini, che ci salutano.

Passiamo oltre, incontrando di tanto in tanto qualche capanna isolata.

D’un tratto sbuchiamo su una strada sterrata che iniziamo a percorrere. Si tratta di una pista molto larga, circondata da qualche abitazione, percorsa da pedoni e da qualche raro ciclista, di tanto in tanto. Non vediamo turisti.

Dopo circa un chilometro lasciamo la strada per inoltrarci nuovamente nella foresta, lungo un sentiero artificiale, acciotolato, della larghezza di circa 1 metro, in mezzo alla vegetazione selvatica. Oltrepassiamo anche ruscelli torbidi, pullulanti di girini, su ponticelli di fortuna o semplici tronchi d’albero adagiati alla meglio tra una riva e l’altra. Questo sentiero termina repentinamente su un pontile, dove ci attende una canoa in legno.

Saliamo, eccitatissimi, insieme ad un altro gruppo, per un totale di circa 8 o 10 persone. È veramente emozionante. La canoa si stacca ondeggiando dall’ormeggio ed inizia a procedere lentamente. È molto profonda e noi siamo accovacciati in un’unica fila indiana al suo interno, tanto che lo sguardo è quasi allo stesso livello dell’acqua. Viviamo una scena da film, con l’acqua verdastra e la vegetazione fitta e rigogliosa immediatamente a ridosso delle due rive. Il tratto di fiume pare largo una decina di metri circa. Percorriamo in questo modo un altro chilometro fino ad attraccare presso la foce, sulla spiaggia.

Cominciamo quindi a camminare lungo la riva del mare, fino ad un locale dove sostiamo una mezz’ora e consumiamo il semplice pranzo. Il panino della schiscetta dataci dall’agenzia per il tour è praticamente immangiabile e lo lascio quasi tutto ad Claudia. Finisco, invece, l’ananas ed il limone dolce.

Ci sono dei moli. Raggiungo la fine di uno di essi per effettuare delle riprese. Il mare è calmo ed un po’ torbido; probabilmente il fondale è sabbioso. La spiaggia è disseminata di mangrovie, palme e vegetazione varia. Non vedo una nuvola nel cielo, ma il caldo è piacevolmente sopportabile.

Ci sono anche molti cani che gironzolano intorno, attirati dall’odore del cibo; comunque sono mansueti. Scorgo anche un tacchino che, inferocito, insegue un pollo.

Riprendiamo la scarpinata lungo la spiaggia, fin tanto che incontriamo un’anatra accompagnata dai suoi tredici anatroccoli. Sono veramente un bello spettacolo: non sembrano impauriti e si lasciano anche avvicinare, ma non toccare. Se la trotterellano allegramente sul bagnasciuga.

Li salutiamo e procediamo finché la spiaggia si chiude nella vegetazione e un sentiero che si inerpica verso l’interno ci consente di proseguire. Dopo un centinaio di metri ed una discesa ripidissima, giungiamo ai Sette Altares, dove una piscina d’acqua naturale è alimentata da un ruscelletto che scivola sulle pietre. È profonda circa 8 metri; ci sono dei pesci che vi nuotano dentro. Resto in costume e mi mmergo nelle acque fresche e tonificanti, mentre Claudia si appollaia su un sasso.

Stiamo ammollo una mezz’ora, per poi riprendere il tragitto di ritorno, questa volta interamente lungo la spiaggia.

Ad un certo punto un bambino garifuna seduto su un albero sopra le nostre teste ci saluta ed Claudia si esibisce in un “che bella scimmietta sull’albero !”. La cazzio.

Presso los 7 Altares abbiamo anche incontrato un Rasta dal Costarica che parlava Italiano, insieme ad una ragazza veramente molto bella.

Lungo la via del ritorno, ormai nei pressi di Livingston, un ciccione locale che ci sente parlare, mi guarda e mi dice: “Turista fai da te ? No Alpitour ? Ahi ahi ahi !”. Chissà come fa a saperlo ! Scambiamo quattro chiacchiere con i Neozelandesi: vengono dal Giappone, dove lui ha lavorato per un anno, sono scesi a Los Angeles e sono arrivati in Guatemala in bus, attraverso il Messico, dopo tre giorni di viaggio. Lui mi riferisce, inoltre, che lungo il lago Atitlan, mentre andavano a piedi da Panajachel ad un paesino vicino, sono stati oggetto di un tentativo di rapina, sventato dall’improvviso arrivo di un bus. Sono già stati a Tikal e ci chiedono notizie di Copan, loro prossima meta.

Torniamo infine a Livingston verso le 16.00, stanchi morti, ma soddisfatti della bellissima esperienza vissuta.

In camera dormiamo un po’, per poi lavarci ed uscire a cena verso le 19.00.

Facciamo due passi per Livingston per comprare uno spray anti-zanzare.

Livingston è una cittadina che mette veramente allegria: i ritmi sono blandi, musica caraibica da ogni abitazione ed una generale atmosfera di relax. I nativi Garifuna sono lenti ed allegri. È davvero piacevole passeggiare placidamente lungo la strada principale e le sue traverse. Andiamo a cenare al “Tilingo Lingo”, un ristorante in una capanna veramente delizioso; la cuoca parla Italiano, è Messicana di Veracruz, è stata sposata per due anni a Calcutta e poi si è stabilita qui a Livingston. Per 60 Q a testa ci porta del pesce ai ferri, ottimo, dell’insalata in mezzo guscio di noce di cocco, del pane con olio e aglio, tipo bruschetta e del riso all’Indiana, con curry, molto croccante; una birra e due limonate messicane completano il quadro. In attesa del cibo, vediamo un ragazzo uscire per andare a comprare il pesce ! C’è anche un gatto, piccolino e con il muso molto affilato, che gira tra i tavoli.

Dalla finestra vicino al tavolo, che dà sulla strada, vedo un animale che si muove lungo il marciapiedi, sull’altro lato della strada. Andiamo a vedere: si tratta di un grosso rospo che, spaventato, fugge saltellando.

Finita la cena, ottima, torniamo in albergo. Lungo la strada riusciamo a vedere e ad avvicinare un grosso granchio che si nasconde dietro ad un cancello.

C’è poca gente per la strada, ma, in compenso, ci sono alcuni cani randagi che si sono radunati nei pressi del ristorante dove abbiamo cenato, probabilmente attirati dall’odore del cibo. In Guatemala ci sono molti cani randagi, segno che, comunque, non li mangiano. Sono tutti estremamente tristi ed innocui, forse perché abituati a prendere legnate dagli umani. Vagano in cerca di cibo e, credo, anche di compagnia. Soprattutto gli occhi sono tristi e i loro sguardi trasmettono una mestizia che non credevo di poter trovare nell’espressione di un animale. Questo fatto mi ha proprio colpito.

IX giorno – Giovedì 3 luglio 2003 La notte trascorre tranquilla, in un sonno pesante, interrotto, come ormai d’abitudine, verso le 4.00 – 4.30 dai soliti rumori ormai molesti come il canto dei galli o i fischi incessanti degli uccelli sugli alberi.

Io ho sonno, ma Claudia ha voglia di uscire e di fare un’ultima passeggiata per le graziose stradine di Livingston. Vabbeh, tanto vale alzarsi, anche perché gli animali vari che ci circondano non mi sembra che abbiano la benché minima intenzione di ammutolirsi. Mi ricorda che ieri sera ho consumato la biro, quindi mi metto addosso qualcosa, esco dall’hotel e mi ritrovo sulla via pricipale.

Sono da poco passate le 6.00 e la maggior parte delle botteghe è ancora serrata. Entro nell’unica che trovo aperta e, per 1.50 Q compro la penna con la quale sto scrivendo ora. Poi ne approfitto per chiamare i nonni. Stanno bene. Mi credono negli Emirati Arabi Uniti ! Rientro in camera e ci prepariamo per l’ultima passeggiata a Livingston.

Usciamo nuovamente, questa volta assieme, e facciamo una “vasca” per la via principale, ora abbastanza animata. Compriamo del pane di cocco e di cannella nella panetteria della via principale, gestita da una grossa Garifuna. Il pane fa schifo ! Lo porteremo appresso per un po’, durante il nostro viaggio, ribattezzandolo affettuosamente “pan di merda”.

Lungo la strada mi avvicina un Garifuna ubriaco, con due conchiglie del golfo Persico, così dice, in una mano. Mi parla in Inglese e poi in Spagnolo, ma non capisco quello che mi dice, ma riesco a cogliere solo alcune frasi: mi urla che il problema del mondo è il razzismo e che Saddam Hussein è caduto perché era razzista e che il terrorismo … e Bin Laden … Non ricordo altro. E se avesse ragione ? Mi allontano infastidito, fino a confinarmi in hotel. Usciamo di nuovo per altri giri, evitando l’ubriaco, poi ancora in hotel fino alle 8.40, quando, dopo aver caricato parzialmente la batteria della videocamera, chiuso e caricato in spalla le borse, lasciamo l’hotel e ci dirigiamo un po’ barcollanti verso l’agenzia.

Lì, leggendo un giornale in Spagnolo e di ieri, scopro che in Guatemala verranno tenute le elezioni politiche tra meno di 6 mesi, di qui i numerosi manifesti elettorali e le scritte così diffuse negli altipiani, ma anche un po’ da queste parti; leggo anche che i sondaggi indicano tale Berger del MR come futuro presidente, mentre il candidato del FRG, l’ormai famoso Rios Montt è staccato in terza posizione. Mi ripropongo di seguire la cosa dall’Italia.

Andiamo al porto verso le 9.10, accompagnati dal solito Cholo, e poi, dopo una breve sosta alla casa Rosada, finalmente partiamo per Rio Dulce, lungo l’omonimo fiume.

A bordo, oltre a noi, ritroviamo anche il Costaricano rasta con la bella fidanzata, una coppia di Americani e una ragazza da sola, un po’ cicciotta.

È una splendida giornata anche oggi, senza una nuvola nel cielo azzurro intenso. Trovo che sia anche decisamente più caldo di ieri. Vediamo dei piccoli pellicani e siamo colti dal solito entusiasmo di tutti gli uomini urbanizzati che vedono un animale del quale sanno tutto, tranne che esiste veramente, in carne ed ossa. Il tragitto è decisamente bello e merita la fatica è la stanchezza accumulate per giungere sin qui. Il primo tratto del fiume, ossia l’ultimo secondo il suo flusso, è largo appena una cinquantina di metri. L’acqua verdastra è circondata da due rive fittamente ricoperte da una vegetazione verdissima, della quale le mangrovie fanno la parte delle protagoniste. La lancia è molto veloce e la brezza fresca, siamo seduti davanti, ci tonifica e allevia il tormento del caldo.

Dopo una mezz’ora o forse meno facciamo una prima tappa: l’imbarcazione lascia il corso principale del fiume per inoltrarsi in un ramo secondario. Qui, a bassa velocità, vediamo parecchie capanne di locali affacciate sul fiume, con l’ormai consueto contorno di bambini, donne che anche qui, come sul lago Atitlan, lavano e si lavano nelle acque del fiume. Talvolta, vicini alle capanne sono ormeggiate delle imbarcazioni, ossia semplici canoe. Immagino siano case di pescatori, o forse di uomini che magari lavorano a Livingston o Puerto Barrios, mentre le donne portano avanti la famiglia. Credo, comunque, che la loro occupazione principale sia la soddisfazione dei bisogni primari.

Giunti ad un certo punto il nostro timoniere fa “dietro front” e riprende a sfrecciare come una scheggia sulla superficie verdastra dell’acqua, per ricongiungersi al ramo principale del Rio Dulce.

Dopo breve tempo, un’altra sosta: lungo la sponda sinistra del fiume, in una piccola conca circondata da mangrovie, sfocia una sorgente di acque sulfuree, che fa sì che lì la temperatura sia molto alta e nell’aria ci sia un’atmosfera da “fialetta puzzolente” carnascialesca. C’è anche un’altra lancia ormeggiata con un paio di persone immerse nell’acqua. Affondo la mano nel fiume e quasi mi scotto: è veramente calda ! Gli altri nostri compagni di viaggio si immergono ma noi restiamo sulla barca. Dopo una ventina di minuti ripartiamo.

Lungo il percorso, sempre mangrovie da entrambe le parti e qualche abitazione isolata. Vediamo anche quella che i locali chiamano “Isla de flores”, ossia una distesa di ninfee su un lato del fiume. Non ho mai visto cose simili, dal vivo per lo meno.

Il fiume poi si allarga fino a sembrare quasi un lago.

Vediamo parecchi pescatori, sulle loro piccole canoe di legno. Mi colpisce, in particolare, la destrezza con la quale uno di essi getta la sua rete nell’acqua: rotea completamente su sé stesso per trovare lo slancio e poi allunga le braccia lasciando la rete; il tutto su una minuscola canoa oscillante: “se lo facessi io, mi troverei imprigionato nella rete ed in acqua” penso.

Uno di questi abili pescatori chiama con un gesto il nostro barcaiolo, il quale, fatta la manovra, si avvicina all’uomo, nel centro del fiume: questi ha una cesta di plastica piena di granchi vivi, anche grossi, che vuole vendere e che ci mostra; solita eccitazione ed abuso di macchine fotografiche da parte di noi animali urbani. La trattativa è rapida e va a buon fine: con 2 Q a granchio, il nostro timoniere si porta a casa l’intera cassa.

Ripartiamo divertiti.

Ora siamo prossimi a Rio Dulce e cominciamo a vedere belle ville sulle rive, con veri e propri yacht ancorati. Sono le seconde case di ricchi uomini di Guatemala City.

Accostiamo presso una pompa di benzina Texaco sulla riva sinistra, per imbarcazioni. Facciamo il pieno e ripartiamo.

Ormai siamo a Rio Dulce. Facciamo una picchiata al “Castillo”, un fortino costruito dagli Spagnoli per contrastare i pirati inglesi, in ottimo stato, con dei cannoni disposti ancora in posizione di difesa. Il barcaiolo ci chiede se qualcuno vuole scendere a visitarlo, accentuando il fatto che l’ingresso è a pagamento: silenzio, nessuno vuole scendere; credo che non vi sia da pagare nulla, ma che lui non abbia voglia di perdere tempo e sappia come scoraggiare i turisti randagi come noi.

Quindi ormeggiamo a Rio Dulce dove Claudia ed io scendiamo dalla barca e corriamo a prendere il bus per Flores proprio mentre sta partendo. Degli altri passeggeri del natante non sappiamo più nulla, tranne che, probabilmente ed inspiegabilmente sono rimasti a bordo.

Sono circa le 11.30. Non so esattamente che bus prendiamo, certo che ha l’aria condizionata e ospita anche altri due turisti, però ci costa la bellezza di 80 Q a cranio. Probabilmente è di I classe. Sicuramente ce ne sono di più economici, però non sappiamo da dove partano né quando. Inoltre ci promettono l’arrivo a Flores entro le 14.00.

Saliamo e partiamo.

Lungo il tragitto mangiamo dei nachos acquistati ancora ad Antigua, nel supermercato, mentre non ci sognamo nemmeno di toccare il pessimo “pan di merda” incautamente acquistato a Livingston e che continuamo testardamente a portarci appresso.

Ci accomodiamo vicino al finestrino, su file diverse, sul lato destro del pullman, per verificare ad ogni apertura del bagliaio che non spariscano le borse. Accanto a noi siedono un ragazzo credo Americano, che abbiamo già intravisto nel sito di Copan, e, dietro di lui, una signora Australiana, già di una certa età, che gli attacca bottone, anche se non capisco di cosa stiano parlando. Dopo un po’ lui si fa un panino con il burro di arachidi, mentre lei parla a mitraglia con un Guatemalteco che siede dietro di me, che, comunque, non pare infastidito. Claudia comincia a dormicchiare.

A circa metà strada il bus si ferma ad un posto di controllo e una guardia donna sale: cerca la frutta, che sequestra a tutti, anche all’Americano, che ha un mango o qualcosa di simile. Sembra che ci sia una mosca che porti malattie alle piante, trasmessa tramite la frutta. Noi non ne abbiamo e, se l’avessimo avuta, a questo punto l’avremmo mangiata ! Il bus ricomincia la sua corsa attraverso una regione, il Peten, che è quasi interamente ricoperta di foreste inospitali; è un’area collinare, in cui ogni colle è avvolto da vegetazione, ovviamente verdissima e rigogliosa.

Effettivamente arriviamo a Flores, o meglio a Sant’Elena, alle 14.15, ossia presto, in anticipo rispetto a quello che avevamo preventivato. Meglio.

Scendiamo dal bus. Sant’Elena è la cittadina sulla terraferma collegata con un ponte a Flores, che giace su un’isola, un po’ come Venezia e Mestre; secondo la guida gli hotel di Sant’Elena sono meno costosi di quelli di Flores.

Prendiamo un taxi che, per 10 Q, ci porta all’albergo che abbiamo selezionato, il Sac-Nicté. Fa veramente schifo: è squallido, fatiscente e con un gabinetto inguardabile, almeno per quanto riguarda la stanza che ci è mostrata. Il tutto per 80 Q. Rifiutiamo.

Siamo un po’ disorientati: su Internet ho trovato il commento di un Italiano che raccomanda un hotel inesistente a Flores: il nome, però, assomiglia vagamente al “Mirador del Lago”. Sarà quello ? Vaghiamo un po’, con le borse e sotto il Sole, e troviamo l’ufficio informazioni che, però, non ci dice nulla.

Entro in un hotel molto bello e chiedo alla ragazzetta alla reception il costo di una camera: mi guarda e, scuotendo la testa sconsolata sbotta con un 35 USD: sorrido e la saluto.

Ripetiamo ad un taxista il nome fantasma, ma anche lui non ne sa nulla. Per fatalità, passano accanto a noi quattro turisti, che successivamente scoprirò essere Israeliani, e decido di fermarli e chiedere loro dove alloggiano. Casualmente sono al “Mirador del Lago” di Flores e ne parlano molto bene. Vinciamo ogni indugio e ci facciamo portare dal taxista, per 15 Q. È una sistemazione veramente buona, per 80 Q; ci piace, anzi direi che è il miglior posto nel quale abbiamo soggiornato sinora in Guatemala; ironia della sorte, è anche il meno costoso.

Paghiamo subito due notti e prenotiamo presso la reception la gita a Tikal di domani, con partenza alle 5.00, per 40 Q a testa. Siamo proprio soddisfatti.

Usciamo a fare un giro. Flores è una città piccola, posta su un’isola collegata alla terraferma da un ponte. Complessivamente è molto ben tenuta e ci sono abitazioni anche decisamente belle ed eleganti, con grossi fuoristrada parchggiati di fronte. Altre, invece, sono restaurate di recente e verniciate con simpatici colori vivaci. Ho l’impressione che giri denaro e che il turismo sostenga massicciamente l’economia locale.

Troviamo un supermercato, dove acquistiamo succhi di frutta e biscotti per la colazione di domani, e una panetteria che ci fornisce pane per domani e degli ottimi panini con prosciutto e peperoni per questa sera.

Torniamo in camera e poi usciamo nuovamente.

Ceniamo al sacco, con i panini e anche dello yoghurt, nel Parque Central, guardando dei ragazzini giocare a pallacanestro e due bambini tirarsi il pallone. Uno dei due continua a prendere il palo ! Vediamo anche un Americano barbuto che gioca a basket: probabilmente l’abbiamo già incontrato dalle parti di Panajachel.

Torniamo in camera, la 14, e cerchiamo di dormire, vista la levataccia di domani mattina; puntiamo la sveglia per le 4.15 circa.

X giorno – Venerdì 4 luglio 2003 La notte passa bene, l’albergo, in riva al lago, è abbastanza fresco, sebbene non abbia aria condizionata. Comunque utilizziamo il ventilatore del quale la camera è dotata.

Mi sveglio, naturalmente, alle 4.00, anche per effetto del consueto concerto di galli, cani e gatti. Sono un po’ infreddolito.

Ci prepariamo, riempiamo le due bottiglie d’acqua dalla tanica e scendiamo, puntuali, per le 5.00. Però l’appuntamento è per le 5.00 guatemalteche, non nostre, quindi tra una cosa e l’altra, partiamo alle 5.30 – 5.45.

Ci sono due Italiani, ma vanno a Palenque, mentre molti turisti sono diretti in Belize. Sul nostro shuttle ci sono i quattro Israeliani che ci hanno consigliato l’hotel, l’Americano con l’Australiana e qualche altro.

Sono assonnato, ma l’emozione di andare a Tikal, tappa regina del nostro giro, mi eccita.

Passiamo l’aeroporto e costeggiamo il lago Peten per diversi chilometri. La solita vegetazione monopolizza tutto il paesaggio, però spesso è interrotta da case e piccoli villaggi, con animali domestici, cavalli e anche qualche maiale.

Dopo circa una mezz’ora di tragitto, durante la quale è salita sul bus una guida di Tikal, il paesaggio comincia ad essere ammantato dalla nebbia da umidità, che riduce la visibilità. Il pulmino, gremito, è abbastanza scomodo e non so bene dove tenere le gambe.

Arriviamo all’ingresso del Parco Nazionale di Tikal, dove facciamo il biglietto, 50 Q a testa, e risaliamo sul pulmino per percorrere i 17 chilometri mancanti all’area di accesso al sito vero e proprio. La guida che abbiamo a bordo ci fa delle raccomandazioni, tipo non dare cibo agli animali, non toccare le stele e gli altari, etc. Inoltre si propone come guida per 10 o 20 USD ciascuno, non ricordo bene.

Comunque sia, arriviamo finalmente a destinazione alle 6.30 circa.

C’è ancora un po’ di foschia. La maggior parte dei nostri compagni di viaggio va a fare colazione nel locale di fronte al centro di partenza delle visite del sito, o comunque si spargono per la loro strada. In sintesi, rimaniamo soli ed indecisi se prendere una guida o meno. Ci avvicina un ragazzo parlante Italiano: vuole 450 Q. Non se ne parla nemmeno. Vaghiamo un po’, incerti, finché incontriamo Israel Seguro, che, per 10 USD a testa, si offre di portarci in giro, insieme ad altri due Francesi che ha già convinto. Ci parlerà in Spagnolo. Accettiamo.

I due Francesi sono di Marsiglia e, ci dicono, hanno amici a Milano.

Alle 7.00 il giro inizia: partiamo dal gruppo Q. Questa parte del sito è ancora poco scavata. Lungo il tragitto Israel ci fa notare alcuni interessanti esempi della flora e della fauna locali del parco di Tikal. Vediamo il Ceibo, l’albero nazionale del Guatemala, che assomiglia ad un enorme tarantola che piomba minacciosa dal cielo.

Cominciamo ad intravedere anche qualche scimmia urlatrice, in alto, in cima agli alberi, in lontananza. Nella nostra semplicità, pensavamo che si avvicinassero sul terreno, non che fossero sugli alberi. Probabilmente, senza l’ausilio della guida non le avremmo viste.

Ci sono anche diverse varianti di uccelli, come i picchi, ed altri animali, il tutto in una moltitudine di suoni ed odori, gli odori della jungla. Claudia dice che le ricordano l’odore della minestra.

Tra un’area e l’altra del vasto sito bisogna percorrere veri e propri sentieri nella boscaglia più fitta, stretti ed accidentati. Incontriamo due stele, che la guida ci descrive. Sono interessanti ed in buono stato di conservazione. Poco oltre troviamo alcuni altari abbandonati tra gli alberi. Uno addirittura è spezzato in due da un albero che gli è cresciuto nel mezzo.

Ci rituffiamo nella boscaglia in direzione del maestoso Tempio IV, il più imponente di Tikal e, probabilmente, di tutto il centro-America. Ci fermiamo in corrispondenza di una liana che Israel ci dice che, se recisa con il machete, lascia gocciolare dell’acqua per l’assetato Indiana Jones della jungla. Ma non è il nostro caso, poiché ci siamo portati appresso due bottiglie d’acqua piene. Quindi non tagliamo la liana e procediamo fino ad incontrare un termitaio: non ne ho mai visto uno. Notiamo anche che in alcune aree della boscaglia le formiche creano dei veri e propri fiumi, interamente percorsi da questi insetti che si muovono rapidamente in gruppi compatti. Israel ci spiega che sono pericolose perché ti salgono addosso e cominciano a morderti. Claudia chiede notizie sui serpenti: ce ne sono ? sono pericolosi ? A questo punto la guida parte in quarta raccontandoci che ha fatto un corso di non so cosa e che è andato a caccia di serpenti e che ha preso un pitone, e così via. Non so fino a che punto credergli.

Torniamo al nostro percorso nella foresta, tra grida di scimmie urlatrici e canti di uccelli, avvolti nel dolce aroma di questa jungla. Si ha come la sensazione di essere completamente abbracciati da un unico organismo vivo e pulsante: c’è vita ovunque ed in ogni forma, tutto è vivo, tutto respira … Raggiungiamo il tempio IV.

È davvero alto. La guida ci dice che sono circa 70 m. Ci arrampichiamo lungo una via costituita da scale in legno ora quasi verticali, ora orizzontali. È stata restaurata soltanto la cima, quindi la costruzione si presenta come una cuspide boscosa con la sommità in pietra bianca.

Salgo a fatica gli ultimi scalini, roteo leggermente imperniandomi sul braccio destro, mi volto e … estasi ! Davanti ai miei occhi uno spettacolo assolutamente indescrivibile: una distesa di vegetazione fitta fitta, rigogliosa e vitale, dalla quale spuntano le cime immacolate di due, tre, quattro altri templi, come stelle splendenti in un cielo verde. La volta celeste che mi sovrasta, a chiazze di un blu carico e bianche per le nuvole, completa il paradiso in terra che mi si regala alla vista.

Mi appollaio su uno scalino del tempio e mi godo tutto questo, assorto. Penso anche a quanto sono lontano da casa, a che distanza ho percorso per arrivare a questo posto leggendario. Mi rilasso e respiro profondamente. Mi sento appagato.

Penso anche a “Guerre Stellari” che idolatro e che è stato girato in alcune scene proprio qui.

Dobbiamo scendere. È doloroso dover lasciare posti simili, dove vorresti restare sempre, posti così unici e rari ed evocativi e lontani che sai che non ci tornerai più.

Restiamo su circa 20 minuti, che passano in un lampo. Giusto il tempo per riprendersi e scattare qualche foto.

Meglio andare. Devo raggiungere ancora tanti altri luoghi di questo mondo, se Dio vorrà, prima di considerami soddisfatto, che non posso indugiare in alcuno di essi.

La discesa è agevole e alla base del monumento troviamo Israel con gli zaini che gli abbiamo lasciato.

Continuiamo in questo modo per tutto il sito, ora filmando, ora fotografando.

Attraversiamo il complesso del “Mondo Perduto”, dove scaliamo faticosamente la piramide principale, sulla cui sommità ci sono due Italiani che ci consigliano una tecnica di montagna per scendere incolumi, e l’area dei sette templi, con i tre giochi della pelota non ancora scavati. Ci trasciniamo poi, con estrema fatica, anche perché ho fame, sul Tempio V, lungo una scala in legno ripidissima. Lo spazio in cima è limitato ed io sto con la schiena appiccicata alla parete. Una ragazza seduta, vedendomi un po’ in tensione, si scosta dal muro per far sì che io possa continuare a rasentarlo. Saltelliamo giù senza mai guardare in basso.

Israel ci racconta che il tempio è stato appena reso accessibile dopo un restauro e che è stato inaugurato dall’Infanta di Spagna il 21 maggio 2003.

In questo modo, passeggiando attraverso la jungla tra un gruppo e l’altro, trascorre piacevolmente la mattinata.

Verso le 11.00 giungiamo finalmente alla piazza centrale dove si affacciano i famosissimi e maestosi templi I e II. Qui finiscono i servizi di Israel che fotografiamo e che ci saluta ricordandoci il suo nome: “Seguro, como la muerte”.

Ci rilassiamo una mezz’ora e mangiamo del pane che abbiamo appresso. Faccio un giro sull’Acropoli Norte e poi ci sbattiamo sul prato, alla penombra di un grosso albero, a piedi scalzi, nella piazza centrale di Tikal. È stupendo. Il suono degli animali ci culla e questo scenario straordinario è appagante.

Intorno mezzogiorno e mezzo o l’una ci avviamo verso l’edificio di ingresso. Occorrono circa venti minuti nella jungla, al termine dei quali giungiamo all’area di accoglienza ed entriamo nel Museo Litico, gratuito, dove non è consentito scattare fotografie. Sono esposte delle stele abbastanza rovinate e delle interessanti gigantografie dei primi del Novecento che mostrano come si presentò il sito ai suoi fortunati scopritori.

Poi ci rechiamo all’adiacente Museo delle Ceramiche, 10 Q a testa per gli stranieri e 2 Q per i locali, dove ammiriamo dei pezzi in ceramica e terracotta, la ricostruzione della tomba trovata all’interno del Tempio I, con gioielli in giada verde e conchiglie, e, soprattutto, la bellissima stele 31, in ottimo stato di conservazione e finemente lavorata, che riesco a fotografare di nascosto.

Stanchi ed esausti, ma assolutamente soddisfatti del luogo, della giornata e anche di avere ingaggiato una guida, vista la vastità dell’area, ci stendiamo come prima, a piedi scalzi, con le scarpe come cuscino, su un bel prato nei pressi del parcheggio. Decidiamo di rientrare a Flores con il bus delle 16.00, tanto non abbiamo alcuna fretta dal momento che qui è assolutamente fantastico rilassarsi.

Al parcheggio, poi, conosciamo due Italiani di Treviso, in viaggio di nozze, che domani vogliono andare a Palenque, poi a Campeche ed infine a Cozumel per una settimana già prenotata. Sono davvero simpatici e parliamo con loro lungo tutto il tragitto del ritorno. Dei nostri compagni di viaggio dell’andata, nessuno torna con noi.

Giungiamo, infine, verso le 17.30 in hotel, ci facciamo una doccia e usciamo poi per la cena. Attraversiamo la piccola cittadina ed andiamo al “The Mayan Princess” dove, per 111 Q in due, mangiamo messicano ascoltando gli U2.

Nella bottiglia di Coca Cola in vetro di Claudia c’è qualcosa di solido e scuro; ne ha già bevuti alcuni sorsi, ma se ne accorge solo ora e mi fa presente che anche il sapore pare un po’ strano. Lo facciamo notare e viene immediatamente sostituita. Non ho idea di cosa diavolo possa essere. (Al momento in cui scrivo, non ha avuto problemi; e nemmeno dopo diversi mesi).

XI giorno – Sabato 5 luglio 2003 Segue un’altra notte tranquilla, con il solito frastuono di animali vari prima dell’alba. Restiamo a letto in dormiveglia, visto che la giornata non prevede nulla di particolare, se non gironzolare per Flores e Sant’Elena. Sentiamo gli altri ospiti agitarsi, muoversi, andare e venire, docciarsi, penso in preparazione per Tikal o qualche altra spedizione. Infine ci alziamo verso le 8.00 e mangiamo dei biscotti acquistati ieri. Cerco di farmi la barba con il rasoio elettrico, ma viene uno schifo perché ho la pelle troppo umida. In effetti oggi fa molto caldo e si suda parecchio. Oltretutto non possiamo azionare il ventilatore perché con l’unica presa disponibile sto caricando le pile della fotocamera.

Usciamo e decidiamo di andare a Sant’Elena; però, arrivati a metà del ponte che unisce l’isola di Flores alla terraferma, pensiamo di tornare indietro e di lasciare in camera tutto, ossia passaporti, videocamera, fotocamera, zaini e soldi. Ne approfittiamo anche per fare un minimo di spesa e comprare qualcosa, del pane, per mezzogiorno. Claudia riesce anche a farsi scalare dal conto del supermercato i 4 Q dei succhi scaduti che abbiamo comprato ieri; noto anche che, a seguito della nostra lamentela di ieri, in frigo non ce ne sono più, ma sono stati tolti. Sono incredulo.

Andiamo poi, finalmente, a Sant’Elena a piedi. Lungo il tragitto noto il consueto simpatico andirivieni di bus locali polverosi e rumorosi: in questa zona sono tutti gialli, con tre strisce nere sulla fiancata e una scritta anteriore “School bus”: evidentemente si tratta di vecchissimi bus scolastici americani riciclati qui nel Peten. Ce ne sono veramente molti.

Oltrepassato il ponte mandiamo un pernacchione all’hotel Sac-Nicté e raggiungiamo la cima del paese dove passa la strada maestra. C’è molta confusione, tante macchine e bus che sfrecciano sfiorando quelle in sosta. Incontriamo anche molte persone a piedi, quasi esclusivamente locali. È una strada polverosa e caotica. La percorriamo in un senso, verso destra, in cerca di una bomboletta di Autan, che non troviamo. Torniamo indietro e proseguiamo oltre l’incrocio che porta a Flores, poiché una signora ci ha detto che probabilmente possiamo trovarlo in un supermercato in fondo alla via. Con calma e sotto il Sole, oggi fa proprio molto caldo, raggiungiamo l’esercizio. Si tratta di un ampio magazzino che ricorda i nostri più piccoli supermercati. Mi colpisce che alla cassa registrino i prezzi con il codice a barre, come da noi: è la prima volta che vedo una simile tecnologia in Guatemala. Non troviamo traccia di Autan, però compriamo dei nachos e una Pepsi al limone che trovo buona (da qualche settimana è disponibile anche in Italia). Alla cassa mi chiedono il nome, probabilmente per una raccolta di punti che non continuerò mai più.

Gambe in spalla, ci riavviamo lentamente verso Flores. Lungo il tragitto, poco prima dell’inizio del onte, sul marciapiedi opposto, vediamo un ragazzino sui 7 / 8 anni che sta picchiando violentemente con degli arbusti che ha strappato dal terreno una bambina più piccola, che piange accucciata sul marciapiedi. Accortosi della nostra attenzione, il teppistello smette ed ostenta indifferenza. Claudia mi dice che probabilmente il padre fa lo stesso con la madre e quindi il bambino copia.

Sul ponte, camminando, mi perdo a guardare la placida maestosità delle acque del lago Peten. Scorgo un palo, in mezzo all’acqua, sul quale è appoggiato pigramente un uccello che ho visto nella stessa posizione anche all’andata. Su una panchina giace un turista che prende il Sole.

Torniamo in hotel e sfruttiamo fino all’ultimo minuto, ossia le 11.59, la camera ed il ventilatore, mentre la ragazza delle pulizie ci ronza attorno. Infine siamo costretti a rendere le chiavi e lasciare i bagagli in entrata.

Andiamo a comprare un gelato e dello yoghurt, mentre i panini con prosciutto e peperoni, che ci siamo pregustati per un giorno intero, oggi non ci sono, e andiamo a pranzare su una panchina nel Parque Central. Colgo l’occasione per ammirare anche le tre stele maya che sono disposte attorno al gazebo centrale: sono di buona fattura ed in ottimo stato di conservazione. Mi colpiscono.

Tornati in albergo, ci sediamo placidamente sull’ampia piattaforma coperta frontelago. Ci sono anche due coppie che credo siano scandinave. Una ragazza è bionda, l’altra mora con occhi azzurri. Ad un certo punto Claudia borbotta che la bionda dovrebbe sedersi un po’ meglio: mi volto e le vedo le mutande. C’è anche un gatto che miagola.

Comincia a salire un forte vento che ci rinfresca e vediamo avanzare dal fondo del lago la pioggia, che, quando raggiunge Flores, ci costringe a rientrare in hotel. L’immagine del muro d’acqua che avanza verso di noi è davvero straordinaria ed indimenticabile. Dopo circa un’ora, smette e ne approfittiamo per correre ad acquistare del cibo per questa sera e tornare di nuovo nell’atrio della pensione.

Alle 16.30, puntuale, si presenta il taxista che abbiamo prenotato questa mattina. Per 20 Q ci porta in aeroporto.

Lungo il tragitto, un funerale, con tanto di carro funebre e corteo deambulante al seguito, ci costringe a cambiare itinerario.

In aerostazione facciamo subito il check in. L’addetto lo fa anche per i voli di domani fino a Roatan. Poi, inaspettatamente, ci chiede 34 USD a testa come tassa di uscita dal Guatemala, però applica un bollo da 30 USD, che è la cifra che indica anche la guida. Probabilmente ha fatto la cresta. Non ho tutti questi dollari nel portafogli, così mi rifugio nei bagni di fronte ai banchi di accettazione e recupero la cifra dalla saccoccia che tengo nelle mutande. Ho l’impressione che le banconote siano un po’ sudaticcie.

Ci controllano per accedere all’area di imbarco e cercano di sequestrare ad Claudia una bomboletta di Autan. Dopo le forbici di Parigi, sarebbe troppo: corre indietro e la fa mettere in valigia. L’altra passa invece inosservata sul fondo dello zaino.

Gironzoliamo nel piccolo aeroporto in attesa dell’aereo da Guatemala. Vedo una cassetta che mi interessa: “The sound of the forest recorded at Tikal”, ma l’unica bottega che la tiene è serrata (Il nastro mi verrà poi acquistato da Renzo a novembre). Mentre aspettiamo, decolla il volo Tikal Jet per Guatemala. Il pilota apre il gas, l’aereo, un MD-80, accelera repentinamente, poi, all’improvviso frena di colpo e si va a parcheggiare nuovamente. I passeggeri sono fatti scendere. Non so cosa sia successo, né che fine abbiano fatto quegli sventurati.

Faccio un altro rapido giro per il minuscolo aeroporto, per constatare con costernazione che il banco del controllo per l’accesso all’area di imbarco è del tutto incustodito e aperto per il libero passaggio di chiunque: evidentamente i solerti poliziotti di poco fa, concluso il loro turno alle 18.00, raccolte le loro cose, se ne sono tranquillamente andati.

Il nostro ATR-42 della Aviateca arriva vuoto, nel senso che non vediamo scendere nessuno, sì che siamo imbarcati e decolliamo alle 18.30, per atterrare a Guatemala city alle 19.15. I bagagli ci sono riconsegnati sotto l’aereo stesso. Entriamo nel terminal, che non è quello di Mercoledì scorso: questo è decisamente più grande e bello, ma credo che sia riservato ai voli nazionali. Attraversiamo un atrio tondo molto ampio, scendiamo le scale ed usciamo dall’aerostazione, dove vediamo un ciccione, bello paffuto, con in mano un cartello: “2 Lunas”, ossia il nome dell’hotel che abbiamo prenotato via Internet da Milano, per 240 Q. Dopo aver verificato che stia effettivamente aspettando noi ci facciamo accompagnare al mezzo: un pulmino di lusso, con sedili imbottiti, di un tipo che non ho mai visto, se non in TV.

Dopo cinque minuti siamo al bed & breakfast. Dico che ho i soldi in valigia e ci facciamo accompagnare alla camera. La sistemazione non è un granchè, anzi, però per poche ore, visto che partiremo di qui alle 4.30, può andare bene. C’è il moquettone anglosassone sul pavimento. La camera ha un accesso separato rispetto al corpo centrale, è ampia e spaziosa, con bagno e cucina.

Devo percorrere il marciapiedi da solo poiché Claudia rimane in camera. È buio e non c’è anima viva. Mi lancio a passo veloce, suono, dal bunker si apre uno sportellino e mi aprono. Pago e torno di corsa alla nostra camera.

Domani levataccia alle 3.30 e partenza alle 4.30 per l’aereo delle 6.00 per San Pedro Sula, in Honduras.

XII giorno – Domenica 6 luglio 2003 Mi desta di colpo la sveglia che ci siamo portati dall’Italia. Ci prepariamo in qualche modo e alle 4.20 siamo nel cortile davanti alla camera, a ridosso del cancello, in attesa del pulmino di ieri sera. Se non viene è un grosso guaio. Dobbiamo sperare che il ciccione si sia svegliato. Non c’è assolutamente nessuno. Ogni remoto rumore di automobile in lontanaza ci fa sperare, ma poi ci resta la delusione perché non è lui.

Finalmente, puntuale alle 4.30, come pattuito, arriva. Usciamo e cerchiamo di caricare le nostre mercanzie il più in fretta possibile. C’è un tizio in moto che gironzola per la strada in cui ci troviamo. Ci spaventa un po’, ma poi se ne va.

Partiamo. Svoltiamo l’angolo e siamo di nuovo fermi, di fronte al corpo centrale del bed & breakfast, dove l’autista scende. Restiamo soli sul pulmino. Spengo la luce interna e restiamo al buio. Spero che non passi nessuno. Si legge ovunque che la criminalità ha raggiunto livelli altissimi a Guatemala City, soprattutto durante le ore notturne. È notte e siamo a Guatemala City.

Dopo circa 5 interminabili minuti, il ciccione torna; noto che porta gli occhiali. Dietro a lui, un altro turista che sale sul sedile anteriore.

In meno di tre minuti siamo all’aerostazione, dove i check-in della TACA stanno aprendo. Noi siamo già in possesso della carta d’imbarco, emessa ieri sera a Flores. Qui non ne sembrano molto convinti e la signorina sparisce con i nostri biglietti per un po’. Cominciamo ad agitarci. Torna. Li ha fotocopiati e li passa ad una collega che risparisce, li rifotocopia e ritorna. Continuiamo ad agitarci. Alla fine riusciamo a lasciare giù le valigie. Sembra tutto a posto.

Altro problema: mi sono rimasti 224,5 Q, circa 28 USD, ma le banche aprono alle 6.00, ossia troppo tardi. Proviamo in alcuni negozi, tra i pochi già attivi a quest’ora, ma nessuno me li cambia, finché pattuisco con la cameriera di un bar di acquistare due colazioni per 30 Q, pagare con 100 Q e ricevere il resto in dollari. Non abbiamo fame, ma accettiamo. In questo modo raccolgo 8 USD. Mangio la brioche ripiena di omelette e prosciutto.

Facciamo qualche altro tentativo, vano, e poi, rassegnati, andiamo al gate. Ci viene controllato il passaporto e null’altro. Non viene effettuato alcun check sui bagagli. “I Talebani vanno al mare a Roatan” penso.

Torno indietro nella zona dei negozi per un ultimo tentativo e trovo una bottegaia gentile che, senza fare alcun acquisto, mi accetta i Quetzales residui. In questo modo raggranello altri 16 USD. Soddisfatto torno al gate, dove vedo che sono arrivati altri Italiani che vanno a Flores e una ragazza locale che fa interviste.

Finalmente ci imbarcano. È il medesimo ATR-42 che abbiamo preso ieri sera per arrivare qui a Guatemala City, parcheggiato nella medesima posizione. Avremmo potuto dormire qui ! A bordo siamo in cinque: una Giapponese, una coppia di presunti Francesi e noi. La Francese indossa la stessa camicia che ho comprato a Panajachel. Che sia da donna ? Decolliamo alle 6.00 e giungiamo a San Pedro Sula puntuali alle 6.50. L’aeroporto è nuovo e molto bello. Le formalità doganali sono elementari. Non ci è richiesta alcuna tassa di ingresso, segno che a Copan abbiamo versato un pizzo. Essendo Domenica, la maggior parte dei negozi è chiusa. Non è neppure possibile cambiare i dollari, né acquistare una tessera telefonica. Il tempo è abbastanza buono e soleggiato, e la temperatura esterna è mite.

L’unico esercizio aperto è un fast food nei pressi dell’ingresso dell’aerostazione. Verso le 8.00, con 4 USD vi acquistiamo un menù, poiché Claudia ha fame ed io sete. Consumatolo, gironzoliamo lungo tutto il piano terra dell’edificio, dove sono localizzati i punti di check-in e gli autonoleggi, chiusi.

Faccio anche due passi appena fuori, all’esterno, dove vedo una pseudo stele maya costituita da tre pezzi in pietra sovrapposti. Penso sia una copia.

C’è un andirivieni quasi frenetico di persone, tutte sostanzialmente Honduregne, ben vestite e dall’aspetto agiato, dirette a Miami, dove immagino facciano le vacanze. Si tratta di famiglie intere, con bambini. Dovessi giudicare l’intero paese da quello che vedo, direi che sono in una nazione ricca ed agiata.

Saliamo la rampa emicircolare che porta alle partenze.

Il nostro volo, quello delle 11.20 per Roatan via La Ceiba, parte puntuale. Si tratta di un SD-360 della Islena, sul quale ci sono anche i due Francesi che ci hanno accompagnato da Guatemala City. Durante il decollo noto lungo la pista un albero dalla forma curiosa, tanto da sembrare un profilo di Elvis Presley.

A sorpresa, giunti a La Ceiba siamo costretti a scendere e, dopo una breve attesa in una pseudo sala, ci viene data una sorta di carta di imbarco costituita da un foglio di cartoncino arancione e siamo invitati a reimbarcarci su un aereo lillipuziano, tale Garavan, diretto finalmente a Roatan. A bordo, oltre agli ormai familiari Francesi, anche due Americani. Abbiamo anche perso ogni traccia delle nostre borse, che non possono essere su questo velivolo.

L’immagine dello splendido mare azzurro intenso che iniziamo a sorvolare ci esalta, come pure l’inconfondibile tinta sfumata della barriera corallina che circonda l’isola di Roatan, che dopo circa 20 minuti di volo cominciamo a scorgere all’orizzonte. Che ci siano davvero i pesci a Roatan ? Ci gasiamo.

Atterrrati, troviamo magicamente i nostri bagagli, evidentemente caricati su un altro aereo giunto prima. Dobbiamo anche pagare 4 USD di tasse. Facciamo conoscenza con gli Americani: sono di Dallas, lui si chiama Darren, lei Lara. Quindi raggiungiamo il caotico ingresso dell’aeroporto dove conosciamo finalmente Pasquale, che è venuto a prenderci, e scopriamo che gli Americani saranno con noi al Las Rocas.

XIII – XVII giorno – Lunedì 7 luglio 2003 – Sabato 11 luglio 2003 Passiamo cinque giorni veramente piacevoli a base di mare e Sole; il tempo rimane bello, anche se ogni giorni dobbiamo sorbirci qualche mezz’ora di nuvole.

Il secondo giorno scopriamo il posto migliore per lo snorkeling, ossia in fondo alla West beach, dall’altro lato rispetto al nostro resort, oltre l’Henry Morgan. Obiettivamente non ci sono moltissimi pesci, meno che in Polinesia e sul Mar Rosso, però la barriera è un po’ più bassa, quindi è possibile nuotarvi sopra ed avventurarsi tra veri e propri canyons di coralli. Ci sono anche pochi bagnanti. Andiamo in questa zona tutte le mattine e anche alcuni pomeriggi, dopo una ventina di minuti a piedi lungo il bagnasciuga. Dopo i frugali pranzi “al sacco” in camera, invece, non riusciamo mai a non dormire per un apio d’ore buone, nonostante i nostri buoni propositi di avventura.

Andiamo anche al villaggio di West bay, sia con la barca dell’hotel, sia a piedi lungo la spiaggia. Lì incontriamo il curioso ragazzo inglese che è venuto con noi a Copan e del quale abbiamo perso le tracce. Chissà come è arrivato qui ! Comunque è sempre bianco pallido, per cui non capiamo cosa faccia tutto il giorno; l’ultima sera lo vediamo anche su una motoretta che deve aver noleggiato.

In paese ceniamo in un localino gestito da occidentali dove servono pollo allo spiedo condito con ottime salse in stile messicano e birra, il tutto per 9 USD in due.

Una sera, poi, Darren e Lara noleggiano una vettura, così andiamo assieme al villaggio e, controllata la posta elettronica nella pizzeria della quale il ragazzo inglese è assiduo frequentatore, ceniamo poi presso un ristorante argentino, decisamente caro (circa 40 USD in due).

Infine, al termine della vacanza, ci tocca a malincuore tornare a casa. Ci facciamo un Roatan – La Ceiba – San Pedro Sula – Miami – Parigi – Milano, per un totale di circa 21 ore di viaggio. Fino a Parigi voliamo con la ragazza francese dell’andata a Roatan, mentre il ragazzo l’ha semplicemente accompagnata all’aeroporto.

A San Pedro Sula mangiamo due menù al solito fast food e poi bivacchiamo al piano superiore in attesa del volo per Miami. Mi è rimasta qualche moneta locale che cerco di spendere, ma non riesco a comperare nulla. Claudia prende delle stecche di sigarette.

In aereo ci sono i soliti Honduregni ricchi che vanno al mare in Florida. A Miami l’immigration è la solita tortura. Al controllo bagagli mi tocca scaricare l’accendino per evitare che lo stesso poliziotto dell’andata questa volta me lo sequestri. Claudia riesce a comprarsi al volo una porzione di pizza da Pizza Hut, che consuma in aereo.

A Parigi giungiamo abbastanza stanchi e demoralizzati, mentre soltanto a Milano, sull’autobus da Linate a casa, ci accorgiamo che le nostre borse sono state aperte ed i lucchetti forzati. Chissà dove e perché ! Comunque non manca nulla.



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