Groenlandia: finalmente l’impossibile

La più peculiare vacanza che possa capitare di fare
Scritto da: Kingsize
groenlandia: finalmente l'impossibile
Partenza il: 19/07/2008
Ritorno il: 10/08/2008
Viaggiatori: in coppia
A spirale, un grande uccello nero sale, sale più su, verso lo stoico cielo grigio. La luce indifferente che ne filtra toglie il colore a tutte le cose. Il nebbione che ha impedito l’atterraggio del volo 785 da Copenaghen, deviato in Islanda, s’è dissolto al gentile soffio gelido che sale dal fiordo, e i turisti che oggi sbafano vitto e alloggio alle spese di Air Greenland salgono in irregolare fila indiana Signal Hill. In cima, l’immancabile pila di pietre. Forse chi ci arriva ha l’obbligo morale di aggiungerne una al mucchio, non si sa mai quali leggi tacite vigano in un paese straniero. E uno spesso disco di metallo, sorretto da tre colonnine e collegato a un grande cubo di legno contenente detriti industriali assortiti, fa la spia, nome per nome nella sua ruggine, a chi è passato in questo luogo-non luogo.

“Greenland – What a wonderful world”, annuncia ottimisticamente la pubblicità. Oggi, veramente, non si direbbe. Sotto Signal Hill, Narsarsuaq – un albergo, alcuni capannoni, e in ordine sparso parallelepipedi prefabbricati. E la pista d’atterraggio, lascito degli americani. Ormai se ne sono andati, ma la loro è stata una presenza importante per decenni, da quando Hitler invase la Danimarca, che chiamò in aiuto gli Stati Uniti. Di rimbalzo, dall’oggi al domani, in questa terra aliena a tutto ciò che accadeva allora in Europa, aliena a tutto ciò che accade ovunque nel mondo, sorsero le basi aeree di Narsarsuaq e di Kangerlussuaq. Contrariamente ai patti, alla fine del conflitto gli americani non se ne andarono: solo alla fine della guerra fredda venne completata la conversione delle installazioni militari a scopi civili. Le foto del museo documentano la vita spumeggiante della piccola colonia americana di 12.000 anime, ridotte ora a 190. L’emozione, considerando il vuoto attuale, è la medesima che Jack Nicholson provò in “Shining” davanti alle foto d’epoca dell’albergo in piena festa. Ma questa è solo la storia recente. Là, sull’altra sponda del fiordo, tra i campi verdeggianti – una vera rarità a questa latitudine – le rovine di Eric il Rosso, pluriomicida esiliato sia dalla nativa Norvegia che dall’adottiva Islanda, testimoniano l’arrivo dei vichinghi in Groenlandia più di 500 anni prima che Colombo rendesse di pubblico dominio l’esistenza di un altro mondo. Rimangono giusto le fondamenta in pietra di case di torba, di interesse storico più che turistico; eppure quelle antiche saghe sono quello che si respira, qui. Assieme all’onnipresenza, dal 1700, dei danesi, colonizzatori in apparenza più umani di altri ma che, come tutti i padroni, imposero la dipendenza economica. Difatti, per arrivare in Groenlandia, si passa per Copenaghen, e al supermercato si paga in corone danesi. Ma sulla cima di Signal Hill è un’altra storia quella che parla, quella appropriatamente definita “naturale”. Grandi ossa affiorano dalla pelle della terra: imponenti dorsali granitiche, giganteschi blocchi lavici che i millenni sono a mala pena riusciti a coprire di un velo di muschio. Muschi – che bel gioco di geometrie, ad osservarli! e quanti tipi, quanta fantasia! – e licheni, e betulle, ontani, frassini nani, senza tronco, che strisciano come i ginepri, piccoli e antichi, radicati, avvinghiati alla carne della poca terra disponibile, insistenti e caparbi come il freddo, come il vento, come il ghiaccio.

Dall’oblò di Air Greenland, l’isola più grande del mondo si presenta con fiordi scuri e spogli. Poi le valli si livellano di ghiaccio, come nelle Alpi, e infine anche i rilievi scompaiono interamente sotto una coltre perfettamente bianca e perfettamente immobile. Grande passione e grande perizia hanno permesso ad alcuni di attraversare, da una sponda all’altra, la distesa infinita di ghiaccio che copre più di tre quarti della Groenlandia. I loro nomi sono incisi sulle statue e ricorrono nei musei. Ma l’invito di questa natura indomabile è rivolto a tutti. E tutti rispondono: assieme agli esploratori di professione che si lanciano in traversate della calotta, dormendo in tende arrangiate su due slitte affiancate, alla ricerca del bianco assoluto, ecco i dilettanti dell’avventura prendere lezioni di kayak e scalare i rilievi rettificando di 33° l’indicazione della bussola per distinguere il Nord geografico da quello magnetico. E, più cospicue, famiglie con bambini, rilassate coppie di pensionati e stagionate signore in cerca di paesaggi pittoreschi, di passeggiate montane e di giri in barca in un contesto umano accogliente e discreto, che più che compensa le intemperanze del clima. L’avventura che la Groenlandia propone ha intensità graduate per soddisfare tutti, anche se non alla portata di tutti: il maggiore deterrente è il costo, stratosferico in quanto tutto qui deve essere importato, dalla frutta al carburante. E ci sono due canali d’importazione: quello carissimo, via mare, e quello follemente caro, per via aerea. E’ per questo che i turisti sono pochi, è per questo che, ad una mia ricerca su una rivista di viaggi, ho trovato, negli ultimi dodici anni, 95 articoli sull’India, 44 sul Perù, 29 sulla Namibia, tutte destinazioni di massa, e solo 5 sulla Groenlandia. Ma la curiosità può farsi intollerabile, e allora ci si organizza e si parte. Anche per la Groenlandia.

“Una destinazione inusuale” è stato il commento più cortese di parenti e colleghi, sottintendendo che solo chi si trovi a corto di migliori obiettivi possa pensare a un tour entro il circolo polare artico. Da qui, da sopra Signal Hill, la prospettiva è diversa e tutte le grazie di questa terra si susseguono, da sud-ovest a nord-est. I richiami di vari uccelli rimbalzano di versante in versante nella perfetta quiete. Un’anziana coppia di ornitologi francesi, sfogliando un manuale naturalistico, chiedeva l’altro giorno informazioni alla guida. Si sarebbero accampati per qualche notte per un giretto esplorativo, binocolo alla mano. Zucchetto di lana sul capo e lunghe dita ossute, hanno osservato con gli altri escursionisti il fronte del ghiacciaio Eqip Sermia sgretolarsi con grandi spari e rovinose cadute, scuotendo la piccola baia con onde giganti. Ma quando l’imbarcazione è approdata a Port Victor, incuranti del benvenuto offerto da stormi di zanzare, sono saltati a terra come cavallette e se la sono data a gambe tra le rocce: in un attimo erano fuori visuale. Oltre a rovinare le finanze pubbliche dell’occidente, l’allungamento della vita media ha anche alcuni effetti positivi…

Là, il fiordo con i suoi fantasmi vichinghi (i norvegesi scomparvero misteriosamente a metà del XV secolo) e gli iceberg. Stazionano in impercettibile deriva le torri, le cattedrali, le sculture moderne e le forme organiche di iceberg candidi come la neve – ma solidi come pietra –, trasparenti – quando il ghiaccio si risolidifica – o dai riflessi azzurri – quando la pressione del ghiaccio sovrastante toglie le minuscole bolle d’aria. O, anche, sporchi della fuliggine, della polvere di queste rocce macinate dai ghiacciai. Gli iceberg sono dappertutto, con concentrazioni massicce nei fiordi d’origine, dove la calotta si sbriciola in mare al ritmo di migliaia di metri cubi di ghiaccio al giorno, in blocchi alti anche 200 metri. La baia Disko ne è ingombra all’inverosimile, come il recinto di un infante è ingombro di giocattoli e, come in quello, le forme più fantasiose sono rappresentate: piramidi, castelli della strega, montagne scoscese, dune e caverne. E transatlantici. Di ghiaccio. Un mondo di ghiaccio. Quando il poeta giapponese Ryoi, nel XVII secolo, coniò il termine “mondo flottante” per la vita dei gaudenti del suo tempo, non immaginava che l’espressione avrebbe calzato a pennello a questo altro mondo sospeso e altrettanto transitorio e mutevole.

Uccelli artici sono posati su questi continenti di ghiaccio, una espressione impressionante del nostro pianeta rude, vivo, che qui esige rispetto. Ne sa qualcosa chi ci vive: quegli omini, là giù in basso, diretti all’ormeggio, quegli altri davanti al capannone adibito ad aeroporto, quello sul trattore il cui ronzio è l’unica nota artificiale tra queste colline, e anche i turisti delle cinque tende arancioni montate sotto Signal Hill. Ne sanno qualcosa gli uomini e le donne della cultura Thule, che dall’XI secolo è riuscita ad arrivare ai nostri giorni grazie a migliori tecniche di sopravvivenza e ad utensili più sofisticati delle altre quattro che l’hanno preceduta, e che si sono estinte. Si può voler vivere nell’impossibile, ma per riuscirci per più di qualche anno occorre avere i mezzi per farlo. Come non si conosce una persona fino a che non la si è osservata in situazioni d’emergenza, così non si può comprendere la forza del nostro pianeta fino a che non lo si è visto nelle sue espressioni estreme. In Groenlandia la natura è legge inderogabile e gli umani assecondano ogni sua variazione d’umore pena, spesso, la vita. Per ogni Knud Rasmussen che traversa con successo i ghiacci, c’è la foto di una escursionista, sorridente nel suo kayak, che non ha più fatto ritorno. La terra respira il mare in lunghi fiordi mai calcati da nessun piede, lo domina con montagne nude, estreme testimoni quando il gioco eterno degli elementi del mondo della dualità acquista una magnitudine planetaria, ignorando o annientando, ove possibile, quel parassita presuntuoso che è l’uomo. Ma è proprio l’onore di prender parte a questa sacra lotta che ha determinato alcuni a fare di queste distese inospitali il proprio sancta sanctorum. O, più correttamente, a decidere di servire le forze – qui quasi personificate – del freddo, del vento e dell’acqua. E’ qui, ignorando la sua fragilità per ingaggiare il meglio di se stesso in una lotta per la sopravvivenza che conta già quattro falliti tentativi, che l’umanità prova il suo valore. Ed è per un assaggio di questa grandezza, sopita in noi occidentali che da troppo tempo non conosciamo la fame e gli agguati della morte, che si viene qui. Per scoprire il piacere dell’impossibile. Per misurare la tempra della vita in noi, insignificanti semi eppure gli unici ai quali il nostro pianeta abbia affidato la fiaccola della consapevolezza. E’ per questo che quelle cinque tende arancione sotto Signal Hill suscitano simpatia. Dentro ogni uomo c’è il selvaggio, e basta una sfida degna della sua ambizione perché si manifesti la sua grinta. Gli ampi spazi lo inebriano di libertà e gli comunicano un senso di onnipotenza. In Groenlandia basta una tenda, una bussola e una lenza. Di fronte al bianco e al buio persistenti che dividono l’anno, l’uomo sfoggia i colori; alla faccia di questo silenzio e di questa solitudine, l’uomo mostra il coraggio; e a dispetto dell’impassibilità biblica delle colline e della sferza del vento, l’uomo soddisferà in qualche modo le proprie necessità, anche a costo della vita. Noi siamo irresponsabili, siamo eccentrici, e il nostro costume nazionale è tutto perline colorate. Questa è la logica ineffabile della gente che ha vissuto qui finora.

Adesso però è l’uomo bianco a definire le risorse – tra di esse, il turismo. Ilulissat è la New York degli iceberg e il periplo del vicino promontorio è una delle passeggiate più panoramiche che si possano fare: Ilulissat Kangerlua, uno dei ghiacciai più prolifici del mondo, scarica nel fiordo bianchissime montagne. Una di queste ha ucciso 1117 persone che viaggiavano sul Titanic. Le vere ragioni per la memorabile collisione dell’aprile 1912 furono che la nave viaggiava 80 miglia fuori rotta e quell’anno gli iceberg avevano iniziato a staccarsi con circa due settimane di anticipo. Viene raccomandato di non avvicinarsi alle spiagge: onde improvvise alte anche una decina di metri, provocate dallo spostamento di iceberg che si spezzano e cercano una nuova posizione d’equilibrio, costituiscono un rischio mortale.

Da Ilulissat le agenzie turistiche fanno a gara nel proporre escursioni. Si va ai villaggi di Rodebay e di Ilimanaq. Il primo, fortunato del doppio affaccio sul mare e su una piccola baia riparata, ha perfino un ristorantino, il secondo è più ruspante. C’è un cimitero, e in giro piccoli quad, gli unici veicoli in grado di arrampicarsi per gli accidentati sentieri che collegano le case. Si va al fronte del ghiacciaio Eqip, da cui lastroni di ghiaccio franano nelle acque del fiordo su cui affaccia Port Victor, una decina di minuscoli rifugi in legno che l’etnologo francese Paul-Émile Victor usò come base dal 1948 al 1953 per le sue esplorazioni. Da Ilulissat, in meno di mezz’ora un elicottero porta alla calotta, per vedere da dove abbiano origine gli iceberg che rendono la Baia Disko così pittoresca, tanto che la crociera per vederli al sole di mezzanotte (dalla fine di maggio alla fine di luglio) è molto popolare. E, anche se ce ne sono di apposite, in ciascuna di queste escursioni si è quasi certi di imbattersi in una balena di passaggio. I cani da slitta, invece, non vanno da nessuna parte: d’estate restano incatenati nelle ampie zone dedicate a loro ai margini della cittadina. Col caldo (recentemente si è arrivati perfino a 20 °C!) il ghiaccio perde la consistenza adatta e un giro in slitta è possibile solo a Qeqertarsuaq, sull’isola che separa la Baia Disko dallo Stretto di Davis. Si può dire che abitino Ilulissat più cani (6.000) che umani (4.500). Per organizzare albergo ed escursioni basta rivolgersi a Silver. E poi dicono che gli italiani sono disorganizzati! L’altra notte è rimasto fuori fino all’1, per andare a prendere i turisti del tour del sole di mezzanotte. Silver, al secolo Silverio Scivoli, può organizzare di tutto, ha i migliori prezzi e, a giudicare dalla sua ubiquità e dalla rete di attività che lo tiene occupato giorno e notte, è da 27 anni il sindaco non ufficiale di Ilulissat, forse meno odiato perché non danese. Quando sono entrato nella sua agenzia, gli ho porto i cd masterizzati dei Corvi, il gruppo in cui suonava il basso negli anni sessanta: per poco non si metteva a piangere dall’emozione. A Silver ci si rivolge per il pernottamento – ci sono in offerta, a prezzi contenuti, appartamentini arredati – e per ogni avventura si voglia fare. Per una sola escursione Kangerlussuaq può vantare il primato su Ilulissat: la passeggiata sui ghiacci eterni si può fare solo lì, e ci si va con un comodo automezzo, non con l’elicottero e guardando il fronte dei ghiacci da lontano, come invece succede ad Ilulissat.

Da quella coloratissima cittadina, la motonave postale Sarfaq Ittuk parte una volta la settimana per il giro delle località della Groenlandia sud-occidentale. Il grazioso villaggio di Sisimiut ospita, nelle sue case più antiche, un bel museo che illustra la storia dell’insediamento, presentando armi da caccia e da pesca, kayak per gli uomini e umiak per le donne, attrezzi e piccoli plastici di scene di vita tradizionale. Nuuk, la capitale, Narsaq, con case dai vibranti colori primari come tutte gli insediamenti dell’isola, e Qaqortoq, la città più attraente e popolosa (3.100 abitanti) del meridione, offrono più delle altre possibilità di escursioni per terra e per mare per visitare le rovine esquimesi e norvegesi, per raggiungere la sommità delle lingue di terra che dividono i fiordi e per avvicinarsi ai ghiacci eterni (almeno fino ad ora) da sempre nuove prospettive. Gruppi di appassionati ricevono lezioni di kayak, e se la godono poi la sera a salsicce e birra, convivialmente, intorno al barbeque del giardino dell’ostello. I soli, i soli a fare così, a essere lì… Il privilegio è tangibile ed è innegabile che tutta l’esperienza groenlandese sia sottesa da una sottile euforia. Ogni momento è speciale: ogni passeggiata è conquistata, ogni raggio di sole benvenuto, ogni rude paesaggio registrato nei ricordi da raccontare ai nipotini. A chi compiange la Groenlandia come l’ultima e la meno interessante destinazione possibile, si può ribattere che è davvero un andare in un altro mondo, e che anche il viaggiatore stagionato vi trova novità ed eccitazione, contagiato dall’emozione semplice e pura di esistere insieme alle rocce, all’acqua e al ghiaccio. I piccoli musei raccontano la vita degli Inuit, non più Esquimesi (termine spregiativo che significa “mangiatori di carne cruda”), prima che, adottando lo stile di vita dei colonizzatori danesi, diventassero Groenlandesi: pelli di foca, kayak, tupilak (piccole sculture mostruose con magici poteri), soffitti adatti ad una statura massima di 1m60, tutti insieme appassionatamente in un unico, piccolo ambiente. Club culturali stanno anche recuperando le conoscenze tecniche di una volta: con cosa e come si costruisce, come si dirige e capovolge un kayak senza bagnarsi (http://www.Rudyfoto.Com/grl/qaqkayakroll.Html), come si remano le lunghe distanze, come si tira con l’arco. La presente generazione non ha bisogno di portare a casa una foca per assicurare la sopravvivenza della famiglia, ma l’identità e il senso di appartenenza vengono arricchiti ed esaltati nel ricevere l’eredità culturale degli antenati.

Vivere da groenlandese questo inizio di millennio deve essere eccitante: lo stile di vita occidentale ha soppiantato quello tradizionale inuit che contava caccia e pesca come uniche risorse, con scambi effettuati col sistema del baratto – uno dei mezzi del pugno di ferro nella mano guantata dei danesi per impedire la creazione di un’economia indipendente nella loro provincia d’oltremare. Non c’è gran che, e la crescente sensibilità ambientalista ha causato danni irreversibili all’economia di interi villaggi che vivevano della caccia alle foche. Cambiare sistema e valori in un lasso di tempo così breve – meno di un secolo – ha comportato un alto costo umano, come attesta l’elevata percentuale di alcolizzati, una piaga sociale che il governo non sa combattere che con tasse altissime e limitando gli orari della vendita degli alcolici. Governo che da decenni sta gradualmente passando nelle mani dei nativi. Nel referendum del novembre 2008 i tre quarti dei 57.000 abitanti si sono espressi in favore di una maggiore indipendenza. Da una parte, il raggiungimento dell’autodeterminazione è una pietra miliare cruciale, dall’altra, senza una solida economia, un paese non può reggersi. Per il momento la Danimarca provvede ancora a finanziare un terzo del fabbisogno nazionale, ma ci sono prospettive di sfruttamento minerario (zinco, piombo e argento) e, grazie alle mutate condizioni ambientali, si parla sempre più della creazione di impianti petroliferi e per il gas naturale. Questo secolo potrebbe vedere la Groenlandia definirsi come paese autosufficiente su ogni fronte. Già nel 1984 aveva lasciato la Comunità Europea dove il voto della Danimarca l’aveva trascinata. I giovani, in ogni caso, si sentono più vicini ai loro consanguinei che abitano l’Alaska e l’estremo nord canadese – territori dalle condizioni di vita simili – piuttosto che prendere le mosse dall’Europa.

Il problema in Groenlandia sono i collegamenti tra le località, perché non esistono strade. Circolano veicoli per sterrati, adatti ai sentieri e alla ghiaia, automobili e persino taxi, ma nessuna strada va oltre l’abitato. Affittare un’imbarcazione è costoso, per non parlare dei collegamenti aerei – effettuati, tempo permettendo, da elicotteri e piccoli velivoli. Ambedue i porti d’accesso internazionale sono eredità americana: Kangerlussuaq, appena sopra il circolo polare artico e Narsarsuaq – la striscia grigia qui sotto. Sopra Signal Hill due piccole luci rosse gemelle ancora segnalano che tutto va bene. Oltre la pista d’atterraggio biancheggia la Valle dei Fiori, una distesa ghiaiosa parzialmente verde, dove prosperano le piccole colonie viola del fiore nazionale groenlandese, il broad-leaved fireweed, e dove scarica la sue acque lattiginose, quest’anno particolarmente scarse, il ghiacciaio Kiattut, che si distingue più lontano. Al belvedere sul ghiaccio si sale con l’ausilio di grosse corde di nylon alle quali aggrapparsi: un’escursione eccitante e, per chi ce la fa a spingersi fin sotto al ghiacciaio, indimenticabile. Su Signal Hill inizia a scendere una pioggia invisibile che profuma di fresco le erbe e fa mormorare i cespugli. Tra gli arbusti c’è persino qualche piccolo pino, una rarità in un paese senz’alberi. Un frullo d’ali improvviso fa trasalire il rumore dei passi di solitari turisti. Gli uccelli della Groenlandia nidificano sulle alture, nel terreno e tra le rocce. Domani forse anche il Boeing 757 della Air Greenland s’alzerà in volo, forse il nebbione della notte verrà spazzato dal vento. I groenlandesi hanno una parola per quello che si spera: “Immaqa”. Tutto qui è “immaqa”: forse. Altrimenti, il giorno dopo. Ed anche allora, immaqa. L’ultima reale incertezza prima di tornare nel mondo delle certezze irreali.



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