Dall’Egeo al Baltico

Syusy in Grecia sulle orme dei Popoli del mare, tra i monasteri delle Meteore e l’acropoli di Micene
steber, 03 Apr 2017
dall’egeo al baltico
In Grecia, se avete voglia di andare a vedere un luogo poco conosciuto e davvero particolare, quasi surreale per l’atmosfera che si respira, non perdetevi i monasteri delle Meteore. Un complesso di monasteri sede nel tempo di una grande comunità monastica: in passato ce n’erano ben 24, di monasteri, alcuni dei quali oggi sono an­cora abitati. Sono costruiti su enormi massicci rocciosi, erosi dalle intemperie, a forma di colonna. I panorami sono tra i più belli al mondo! Questi insediamenti, pare risalgano al 1000, quando i primi eremiti occuparono alcune grotte nei fianchi dei dirupi. Ma nel 1300, per difendersi dai turchi, gli asceti cercavano un luogo per sottrarsi ai disordini e ai conflitti e così furono costruiti i monasteri sulle cime di roc­ce inaccessibili. Si dice che sia stato Atanasio, l’asceta più famoso, provenendo dal Monte Athos, a fondare il monastero sulla grande Meteora e diede quel nome alle rocce… Meteora, che poi vuol dire sospeso in aria”. E in effetti… Fino al secolo scorso, i monasteri erano raggiungibili dai monaci con un sistema a carrucola: salivano tirati a braccia dagli altri monaci, avvolti in una rete che li alzava per aria fino all’eremo. A collegare i vari monasteri c’erano dei ponti di corde. Immer­si nella piena solitudine della natura selvaggia, anche noi turisti potremmo vivere l’emozione degli antichi eremiti, se solo non ci fossero altri turisti come noi… Comunque, si può camminare su un ponte levatoio e attraversare una gola profondissima. E una volta raggiunte le costruzioni monastiche, si può godere della vista degli altri monasteri e di un panorama pazzesco, che vi farà dimenticare la fatica. Salire su queste rocce, ai tempi, era un’im­presa e capisco come gli asceti sen­tissero la “nullità dell’esistenza umana e l’immenso potere dell’infinito”. Im­mersi com’erano – loro sì – nella piena solitudine della natura selvaggia…

GIÙ LA MASCHERA, AGAMENNONE!

Il mio ultimo, breve viaggio in Grecia in realtà l’ho fatto… facendo l’autostop (dovrei dire il boat-stop) su una nave da crociera sulla quale stavo la­vorando. E quindi, approfittando del fatto che la nave si sposta di notte e si ferma ogni giorno in un porto diverso, sono scesa al porto di Nau­plia (o Nafplio) nell’Argolide, sul Peloponneso. Argolide e Argo… Vi ricorda qualche cosa? Argo era la barca degli Argonauti, gli avventurieri-marinai guidati da Giasone alla ricerca del Vello d’Oro, di cui abbiamo trovato le tracce anche all’Isola d’Elba. Ma stavolta ne ho approfittato per tornare, in pullman, a vedere Micene. Sede di una vera e propria civiltà, dalle ori­gini ancora misteriose, datata attorno al 2000 a.C. La patria degli Achei, che noi conosciamo soprattutto per le opere di Omero e per la Guerra di Troia. Mi sono ancora una volta emozionata davanti allo spettacolo dell’Acropoli di Micene, tuttora ben conservata, che si innalza sopra una collina. E naturalmente ho cercato di farmi una foto sotto alla famosissima Porta dei Leoni che però, tutte le volte che ci vado, è sempre in controluce, a quasi tutte le ore del giorno: che sia vittima di una maledizione? Forse è la maledizione di Cassandra, l’indovina, che da prigioniera viene portata sotto le mura di Micene dopo la guerra di Troia. Secondo la tradizione storica, qui Agamennone, appena tornato, lui guerriero prepotente e maschio, a casa dalla dolce mogliettina, viene assassinato sempre sotto la Porta dei Leoni, appunto dalla moglie Cliternestra, che dicono lo faccia perché ha un amante, ma io ritengo più plausibile che lo faccia per vendicarsi del fatto che quell’asino del marito, per poter partire per la guerra, aveva sacrificato sull’altare nientemeno che la loro figlia, Efigenia. Quindi, essere a Micene, sotto la Porta dei Leoni, che fanno da entrata alla città, evoca tanti miti, tanta epopea, prima fra tutte, appunto, quella dell’Iliade, ma forse non è proprio qui che si svolsero i fatti raccontati da Omero. Anche andando a visitare il museo attiguo alle mura di Micene, trovo una copia della maschera detta, e sottolineo detta, di Agamennone. La famosa maschera d’oro è appartenuta sicuramente a un potente re, ma non all’Agamennone omerico. Lo riconoscono ormai anche gli storici, che hanno verificato, che non possa appartenere al periodo più arcaico, così come gli altri gioielli che Heinrich Schliemann (scopritore di Troia) attribuì al tesoro di Priamo.

INCONGRUENZE

Leggendo l’Iliade e l’Odissea a scuola non si possono non notare tutta una serie di incongruenze. Come mai gli eroi combattono sempre nella neve e nel freddo, tanto che la mamma di Achille, che deve andare in guerra, gli riempie un baule di vestiti pesanti, insomma gli dà la maglietta di lana!? Avete notato come Ulisse sia il “biondo Ulisse”, per nulla mediterraneo, e come si combatta una battaglia, sotto le mura di Troia, in piena notte, quindi approfittando della luce che illumina la notte nordica? Avete mai pensa­to che Troia stessa non può essere la Troia omerica, con buona pace di Schliemann, non avendo davanti alle mura una pianura dove combattere, essendo, in quel tempo, quel terreno tutto paludoso? E così dicendo, si trovano via via contraddizioni palesi nelle traduzioni dal greco. Ma, guarda caso, stavolta il mio compagno di viaggio era il mio amico Felice Vinci, fisico nucleare che da decenni coltiva la passione per la storia, la geografia e soprattutto i testi omerici, che ha letto e riletto, analizzato e tradotto personalmente. Anche lui, come me, era qui a Micene per una ulteriore verifica della sua teoria, ormai ampiamente dimostrata e narrata: i fatti che hanno ispirato l’Iliade e l’Odissea si sarebbero svolti molto più a Nord della Grecia. Felice, autore dell’Omero nel Baltico, sostiene appunto che questi poemi avessero la loro origine “storica” nei Paesi Baltici e quindi fossero tramandati oralmente e poi, dopo l’esodo di quei popoli, approdati in Mediterraneo, trascritti da Omero. Io, dal canto mio, ho viaggiato con la barca Adriatica lungo tutte le coste del Mediterraneo, scoprendo appunto tracce dei misteriosi Popoli del mare, arrivati dal Nord attraverso la naviga­zione dei fiumi dell’Est europeo, fino alle nostre coste. Questi popoli sono i Fenici, gli Etruschi, i Sardes, i Siculi ecc. E hanno dato origine alle nostre caratteristiche regionali, insomma, siamo noi. Ma quale è stato l’evento scatenante di tutto questo? A questo punto, il mio viaggio in Grecia mi fa tornare alla mente un altro viaggio, stavolta in Estonia.

A SAAREMAA

La causa di questi esodi successivi può essere stata la caduta di un meteorite nell’isola estone di Saaremaa, che ha dato origine a un lago che io, assieme ai miei compagni di viaggio, Ulle, Gianni e appunto Felice Vinci, ho visto e filmato andando in Estonia qualche tempo fa. Bisogna partire dal Baltico se si vuole raccontare questa storia che finisce in Mediterraneo e io ci sono andata: in Estonia, fino a Tallinn, diretta all’isola misteriosa. Siamo partiti dall’Italia in una primavera tiepida, per arrivare in una più fredda Estonia col cielo terso e l’aria leggera. Eccomi così all’isola di Saaremaa, sulle rive di un piccolo lago rotondo, creato da un meteorite caduto qui circa nel 2000 a.C.: un evento catastrofico che ha cambiato il corso della storia di questi luoghi. Questa catastrofe ci aiuterebbe a spiegare, appunto, uno degli eventi più importanti della nostra storia, ma finora non abbastanza preso in considerazione: l’arrivo in Mediterraneo di quelli che vengono chiamati i Popoli del mare, quei popoli nomadi che arrivarono nei nostri mari nel 1200 circa a.C., combatterono col faraone d’Egitto e occuparono tanti territori delle coste del Medio Oriente e della penisola italiana, determinandone la storia. Furono proprio loro gli Akei insediatosi in Peloponneso e anche a Micene, dalle cui vestigia sono partita. Di loro ancora oggi è difficile stabilire l’origine, ma se ragioniamo in modo diverso da come ragionano gli accademici e se affrontiamo la storia pensando alle grandi migrazioni avvenute nel passato a seguito di eventi naturali catastrofici, forse troviamo dei nuovi indizi. Io, essendo un’amante della navigazione e navigando ap­punto da anni in Mediterraneo con la barca Adriatica sulle rotte dei Popoli del mare, ho scoperto che, aprendosi a una logica diversa in un luogo di­verso, incontrando una cultura diversa, possiamo scoprire molte cose che appartengono alla nostra storia. E le cose si scoprono viaggiando, come mi è accaduto viaggiando in Estonia.

Partendo da Tallinn per arrivare a Saaremaa, si attraversano chilometri di boschi in un paesaggio piatto e verde, per poi prendere un traghetto che in un’ora ti porta a Kurassare, sull’isola che un tempo può essere stata appunto “l’isola senza nome”.

L’ISOLA SENZA NOME

Perché questa definizione? Perché probabilmente l’isola fu devastata da un evento catastrofico che la cancellò per molto tempo dalla frequentazione umana e che, appunto per questo, successivamente, divenne mitica. Secondo Karl Kello (giornalista estone, studioso dei miti locali), “il figlio del Sole” che cadde qui è stato in realtà un meteorite che, nel 2000 avanti Cristo circa, precipitò causando una devastazione e un inferno tale che per molto tempo quei luoghi furono inagibili per l’essere umano. In seguito, il cratere che si creò a causa dell’impatto con una parte del meteorite, diede vita appunto al lago rotondo, alimentato da acqua sorgiva. Anche perché, non dimentichiamo, lì c’era una palude circondata da boschi. Questo lago, che ancora oggi si può ammirare, è il lago di Kaali dalle acque verdi. Niente di strano, quindi, che questo lago sia stato identificato nel tempo come il lago dell’inferno, in epoca successiva all’impatto, quando la zona ridivenne frequentabile. Venne però circondato da mura molto alte e possenti, di cui rimangono ancora oggi dei tratti. La cosa significativa è che non dovevano esserci porte tra le mura e che questo luogo sacro era senza un tetto. “Esattamente come viene descritto il tempio di Apollo nell’isola iperborea”. Ci dice Karl Kello. “Questa isola potrebbe essere anche l’isola iperborea nella quale Latona, la dea, partorisce i gemelli Apollo e Artemide. Latona è la lupa, la Dea Madre”. Aggiunge Felice Vinci. “Quindi Sarema sarebbe l’isola di Ortigia (citata nel mito) che poi diventa Delo (la luce), perché qui vi nasce Apollo?” Ribatte Karl Kello. Ma se Latona (da cui possono prendere nome i Latini) è la lupa che allatta i gemelli dei romani… allora c’è di più: andando in Mongolia ho scoperto – con la conferma ufficiale di un professore dell’Università di Ulaanbaatar – che la lupa che allatta le gemelle è il mito fondante nella tradizione mongola! Allora la lupa che allatta i gemelli, anzi appunto le gemelle, non è romana? I Romani hanno copiato? Se la sono portata dal Nord? O c’è piuttosto un’altra spiegazione? Quanti collegamenti storico-culturali si scoprono! E quanti dubbi e nuove strade si aprono, se ci apriamo al mondo!

LEGGENDE NORDICHE E MEDITERRANEE

Le nostre leggende mediterranee s’incrociano con quelle nordiche, che noi nemmeno conosciamo. È il caso di Kalevipoeg, eroe dei racconti orali nordici ispirati dal folclore della tradizione estone, che vennero trascritti nell’ottocento da Kreutzwald, noto scrittore estone a noi ignoto, almeno per quanto mi riguarda. Kalevipoeg è il figlio di Kalev o di Kali (ricordiamo che il lago si chiama Kaali e che Kalì è anche una terrifica divinità indiana). Kalevipoeg è l’eroe estone che sposa la sorella, seguendo un diritto materno. Ha tanti punti in comune con eroi nostrani. Io ho cominciato a conoscerlo proprio dal libro che ha scritto Karl Kello. Le cose che fa Kalevipoeg, le imprese che compie, il fatto che riesca a forgiare la sua lancia presso un lago rotondo collocato su di un’isola, sono tutte tracce che ci portano a credere che questo di Saaremaa sia il luogo dell’isola senza nome, il lago dove veniva fuso il ferro che produceva la spada invincibile. Questo è possibile anche grazie al fatto che qui, essendo caduto un meteorite, il ferro raccolto era appunto meteoritico, quindi acciaio. Gianni, ingegnere studioso di mitologia e di altro ancora, prima ancora di andare in gruppo a vedere il lago, mi dice che questa isola pote­va anche essere Abalon, luogo delle mele: la mela d’oro, che è il sole, e qui il sole è caduto sotto forma di suo figlio, che è il meteorite. Il meteorite è naturalmente fatto di metalli meteoritici, cioè di un ferro che, fuso con la grande abilità che solo i fabbri dei miti avevano, poiché erano istruiti dal mitico fabbro primordiale, può produrre spade e armi invincibili. La cosa che sorprende, poi, è che nei musei nordici troviamo una quantità di armi di bronzo e di ferro ed elmi e scudi che sono esattamente uguali a quelli descritti nell’Iliade e nell’Odissea. Ma è possibile, allora, che le popolazioni che arrivarono da un imprecisato luogo, come gli Achei, siano arrivati dal Nord Europa, portando le loro leggende e i loro toponimi, ricollocati successivamente in Grecia?

LA VIA DELL’AMBRA

Quante volte abbiamo ricordato, viaggiando nel Mediterraneo, i miti omerici, cercando di vedere, nei posti nei quali sono stati ambientati, i personaggi dell’epopea? Sono partita da Cliternestra che uccide Aga­mennone sulla Porta dei Leoni di Micene… E poi Itaca, dove abitavano Ulisse e Penelope, il posto dei Ciclopi, il luogo di Circe ecc. Ma i conti non tornano! Da parte sua, Felice Vinci ha mappato con grande attenzione il Baltico e ha trovato, incredibilmente, che non solo la descrizione omerica si adatta perfettamente a isole e territori di quella zona, ma ha anche scoperto che ci sono decine di toponimi, cioè di nomi di località che hanno assonanze evidenti con i nomi citati da Omero. Quindi, a questo punto, forse dovremmo proprio collocare i fatti omerici al Nord dell’Europa, nell’area Baltica, in un luogo più freddo, dove gli eroi gi­ravano con folte pellicce. E forse le mura di Micene (la Micene Omerica “vera”) e anche quelle di Troia, non erano mura di sasso, ma di legno, cioè alte palizzate. Forse addirittura il cavallo di Troia, col quale si imbro­gliarono i Troiani, facendo loro aprire le porte per farlo entrare, non era un cavallo, ma una barca: lo hanno scoperto recentemente degli archeologi che sostengono che le barche venivano chiamate i cavalli del mare e avevano una polena a forma di testa di cavallo, e queste barche erano in tutto e per tutto simili a quelle nordiche. Insomma, si tratta di incongruenze che ci fanno sospettare che la teoria di Felice Vinci sia corretta e che del resto è ben documenta nel suo corposo volume Omero nel Baltico, che possiamo affiancare al più snello libro, appena uscito, edito da Pendragon, “Il meteorite iperboreo”, dove appunto il giornalista estone Karl Kello, quello che ho incontrato a Tallinn, spiega i miti baltici che tanto hanno a che fare con quelli greci. Nel libro io ho scritto una lunga prefazione, di 40 pagine, spiegando la teoria – che per ora non è di nessuno, se non del nostro avventuroso gruppo di appassionati – dei Popoli del mare arrivati dal Baltico attraverso i fiumi europei e insediatisi nel Mediterraneo, esuli, in seguito alla caduta del meteorite iperboreo, appunto, che si schiantò sull’isola di Saaremaa. Così si spiega anche la presenza di ambra in tutte le tombe, ambra speciale che poteva provenire solo dal Baltico. E per tornare all’inizio di questo doppio-viaggio, anche al museo di Micene, guarda caso, ci sono collane d’ambra che testimoniano la prove­nienza da quei luoghi e il legame che gli abitanti del nuovo mondo creato in Mediterraneo avevano col mondo che avevano lasciato, portando con sé miti, leggende e il ricordo cantato e recitato a memoria di un’epica che li aveva visti protagonisti.