Inter rail in giro per l’europa

Il mio viaggio parte il 25 luglio dalla stazione di Roma Termini, destinazione Monaco di Baviera, primo spostamento degli otto che ho in programma nell’arco di 22 giorni di viaggio. 10 ore filate, giù di lì. Un pò di sonno di pessima qualità, e al risveglio la Germania, avviluppata dal poco estivo freddo dell’alba. Scendo dal treno e mi è...
Scritto da: fabio80
inter rail in giro per l'europa
Partenza il: 25/07/2009
Ritorno il: 16/08/2009
Viaggiatori: da solo
Il mio viaggio parte il 25 luglio dalla stazione di Roma Termini, destinazione Monaco di Baviera, primo spostamento degli otto che ho in programma nell’arco di 22 giorni di viaggio. 10 ore filate, giù di lì. Un pò di sonno di pessima qualità, e al risveglio la Germania, avviluppata dal poco estivo freddo dell’alba. Scendo dal treno e mi è subito chiaro che l’italica confusione non alberga da queste parti, dove l’ordine tende al parossismo ed anche la fila alla biglietteria è governata da un biglietto. Ho intenzione di assicurarmi subito un posto su di un treno per Parigi, trattasi di 6 ore da sciropparmi tre giorni dopo. Devo – scopro – pagare un supplemento, perché il biglietto di inter rail che ho comprato a Roma copre per intero solo gli spostamenti in intercity. Faccio la fila, poi provo a creare un contatto con l’addetta. Non ho idea di cosa dica, né lei sembra capirmi. L’inglese masticato dai tedeschi, evidentemente, ha poco a che fare con quello che ho appreso a scuola, e che ho provato – evidentemente invano – a perfezionare nei miei precedenti viaggi estivi. Ma tant’è: alfine, ho in mano il mio biglietto, e gli orari dei treni. Posso andare a fare colazione – la birra è d’evidenza più richiesta del caffè, e sono le sette di mattina – e a cercarmi un albergo economico. Ho fortuna: lo trovo vicino la stazione. Nel mio inglese masticato a spanne prenoto una stanza, scoprendo che il bagno è unico per piano. Io, che di solito non esco dalla doccia finchè l’acqua non si fredda, che dovrò dividere il badezimmer con chissà quant’altri… Mi ci vuole un sonno, poi una birra. Alla scoperta di Monaco di Baviera, che si svela città accogliente, meno tedesca e più europea di quanto credessi. Una bella piazza inaugura una lunga isola pedonale, del tutto pavimentata. E’ questo il centro nevralgico della capitale della Baviera. Gli eleganti caffè all’aperto fanno da cornice a un intenso andirivieni, da un capo all’altro della lunga arteria. Sbuco a Marienplatz, la più bella piazza cittadina. E’ imponente, e brulicante di turisti. Su di essa si affaccia il Neus Rathaus, il municipio. Passeggiare è sempre più gradevole, nell’agile centro che culmina in eleganti porte (le più famose sono Isartor e Sendlinger Tor). Imperdonabile sarebbe mancare una capatina all’Hofbrauhaus, la birreria probabilmente più grande al mondo con i suoi oltre tremila coperti, dove la bionda si degusta in mezzo a balli tipici. D’obbligo poi una visita all’Englischer Garten, il giardino inglese che tranquillizza e distende. Stupefacente è poi l’Allianz Arena, l’avveniristico stadio costruito per i Mondiali di calcio del 2006 e il cui rivestimento esterno può cambiare colore. Curioso poi il Walking Man, nella Leopoldstrasse, arteria principale dello Schwabing, l’affascinante quartiere degli artisti. La scultura, alta 17 metri, raffigura appunto un uomo che cammina. Terminata la positiva parentesi in Baviera, mi dirigo a Parigi. Trovo alloggio in Rue la Fontaine, in una dignitosa pensione scoperta navigando nell’Internet Point della stazione. Mi è ancora più difficile relazionarmi, visto che i parigini non parlano inglese neanche sotto tortura, e in più detestano cordialmente gli italiani (che ci sia di mezzo anche la capocciata di Zidane?). La città, però, è un incanto. Avviso ai naviganti: la Tour Eiffel di giorno non vale la Tour Eiffel di notte, splendidamente illuminata. E’ quasi impossibile salire in cima, vista la fila lunga chilometri. E’ però eccezionale la vista dagli antistanti Jardines du Trocadero. L’Avenue de Champs Elises, a partire dall’Arco di Trionfo, è un tuffo al cuore. I ponti sulla Senna esaltano l’aspetto romantico di questa città un pò inafferrabile, come una donna troppo bella. Notre Dame e Montmartre incantano per solennità, il Louvre e il giardino reale incutono quasi soggezione. Il quartiere di Saint Germain de Pres è elegante, bellissimo e vivace con i suoi raffinati aperitivi all’aperto. Tutto, però, a debita distanza: i parigini, dicevo, non amano i turisti, peggio ancora se d’oltrAlpe. Provo allora a confondermi a loro, portando sempre sottobraccio la sublime baguette, il massimo che riesca a mangiare di diverso dal cibo del Mac Donald’s (non sopporto nessuna cucina che non sia italiana: e poi me la prendo con lo sciovinismo dei francesi…). Mi muovo comodamente servendomi della magnifica metropolitana. E quando, mentre aspetto il treno, dal lato opposto al mio un senzatetto sfodera il suo violino e canta divinamente “Wonderful Life” (canzone dei Black resa famosa in Italia, tra gli altri, da Zucchero e Giuliano Palma), penso a Valeria, a quanto le sarebbe piaciuto essere lì in quel momento, e alla magia di una città fuori dal tempo. Dopo tre giorni intensi a Parigi (e una notte niente male al Folies Pigalle, storico locale parigino) decido di cambiare rotta e di tornare verso il centro Europa, destinazione Bruxelles. La distanza tra le due città è evidente: fatta eccezione per un elegante centro storico – pieno zeppo di ristorantini, birrerie (in Belgio di bionde se ne intendono) e locali all’aperto di ogni genere –, reticolato di vicoli che culminano nella meravigliosa Grand Place, non resta che una distesa di alti palazzi di vetro, molti dei quali sede delle numerose istituzioni qui domiciliate. Ma la sensazione di una birra bevuta in una delle piazze più belle del mondo, in faccia al monumentale Hotel de Ville (municipio) dalla splendida torre in stile gotico, e dalla quale in vari momenti della giornata si diffondono giochi di luci abbacinanti e solenne musica classica, rivaluta ampiamente la permanenza. Bruxelles e Amsterdam appartengono alla stessa area geografica, il Benelux. Ma non si direbbe. Tanto è elegante, compassata, tranquilla Bruxelles, così è disordinata, caotica, trasgressiva Amsterdam. Ma, ad un tempo, anche affascinante, silenziosa ed erotica, e poco c’entra il Red Light District, il celeberrimo quartiere a luci rosse. Decido di togliermi subito il pensiero, subito dopo aver lasciato i bagagli (che porto sempre in spalla…) nella prima pensione che trovo vicino alla stazione, confortevole e carina nonostante le centinaia (e centinaia) di gradini che mi tocca fare (sempre coi bagagli in spalla…) per raggiungere il mio piano (ad Amsterdam, mi spiegano in un inglese finalmente didascalico come piace a me, le vecchie costruzioni si sviluppano in altezza, perché anticamente il valore degli immobili cresceva in proporzione alla loro larghezza). Parto proprio dal quartiere più famoso. Prostitute in vetrina e spettacoli osè a basso costo si accompagnano ad un’atmosfera da droga sintetica, volgare contraltare al – tutto sommato innocuo – odore di erba che riempie le vie del centro zeppe di coffee shop (normali caffè frequentati da giovani turisti alla ricerca di un tenue sballo da gita). Come si sa, Amsterdam è famosa anche per la sua politica fortemente anti – proibizionistica. Vedo poco di accattivante, nel Red Light District, all’in fuori dell’austera Oude Kerk, vecchissima chiesa (oggi centro per attività religiose e culturali) che dall’alto del suo campanile sembra quasi disapprovare quanto le accade intorno. Il centro cittadino è molto più interessante, nel brulicare della vita che, in un modo o nell’altro, passa dalla Piazza del Dam (qui troneggia il Palazzo Reale) o si affaccia su uno degli inimitabili canali, a cavallo del mare che accarezza la città o del fiume Amstel (Diga dell’Amstel, Amstel – Dam, è la maccheronica etimologia di Amsterdam, fondata intorno al 1200 da un gruppo di pescatori che qui decisero, appunto giovandosi della diga sul fiume, di insediarsi per attendere ai loro traffici mercantili, e qui si arricchirono enormemente). Amsterdam è anche uno dei principali centri museali al mondo: legami forti con la città hanno sia Van Gogh che Rembrandt. Il Joordan è invece uno splendido e tranquillissimo quartiere situato sul lato opposto a quello a luci rosse, e ne costituisce la perfetta antitesi in un trionfo di antichi palazzi tipicamente olandesi. A proposito: il turista che dovesse farsi risucchiare dai richiami del sesso facile, o degli spinelli clandestini, e non si instradasse per i quartieri più autentici, potrebbe non accorgersi dell’incredibile gentilezza degli olandesi. Oltre che della bellezza statuaria di donne e, soprattutto, uomini.

Da Amsterdam torno in Germania, a Berlino. Da tre anni voglio entrare nell’Olympiastadion, dove Fabio Cannavaro e soci alzarono la Coppa del Mondo. Non voglio sapere niente, prima. Voglio lo stadio. Noleggio una bici, provo a lasciare la mia scia sull’incredibilmente precisa pista ciclabile, una delle innumerevoli immigrate italiane, sulla porta del proprio ristorante al profumo di pomodoro, mi indica la strada. E’ bellissimo. Non mi fanno entrare, perché stanno per iniziare i Mondiali di atletica. Ma la mia fantasia è tornata a tre anni prima. Torno indietro, raggiungo il centro, la porta di Brandeburgo, il viale Under Den Lintes (letteralmente “Sotto i Tigli”), Alexander Platz, e il tuffo nel passato è molto, molto più consistente. E struggente. Berlino è una città fantasma, per certi versi: tutto ciò che vedo è infatti successivo alla Seconda Guerra Mondiale, e nessun libro potrà mai spiegare quanto questa città sia stata ferita. Persino la Porta di Brandeburgo è stata resa irriconoscibile dai bombardamenti, e perciò ampiamente ristrutturata. Penso al 1961, all’erezione del muro, ai 28 anni di divisione coatta tra abitanti della stessa città. Berlino Est, penso, doveva essere la zona più affascinante, centro nevralgico delle pulsioni artistiche; Berlino Ovest, l’opulenta enclave occidentale al di là della cortina di ferro. E lo penso mentre ce l’ho di fronte, il Muro di Berlino. Che non è, come per tre lunghi anni ho creduto, Fabio Cannavaro, ma una barriera in cemento alta circa tre metri e mezzo ancora regolarmente in piedi in varie zone della città, sormontata dal filo spinato. Mi dirigo verso il punto di confine più noto al mondo, il Check Point Charlie, e per fortuna i gendarmi sono lì solo per le foto ricordo. Oggi, Berlino è dai più considerata il vero centro d’Europa, ed è in effetti una città particolarmente vivace, simbolo della tenacia e della ferrea determinazione tedesca, oltre che della rinascita di un popolo. E’ perfettamente cosmopolita, e i grattacieli che svettano (tipici quelli di Piazza Potsdam) stanno lì a ricordare che, per fortuna, la Guerra Fredda è un lontanissimo ricordo. C’è comunque molto altro da vedere: il Monumento Sovietico, lo splendido Duomo, la piazza Gendarmenmarkt con le chiese francese e tedesca, la Colonna della Vittoria.

Altra levataccia, altra doccia di fortuna (inutile pretendere le comodità, quando si viaggia per così tanti giorni e con i bagagli sempre dietro), altro treno (e altro supplemento…), ed eccomi su un traghetto che mi porta in Danimarca, a Copenhagen. Mi accorgo subito che la musica, in termini di risparmio, cambierà. La Scandinavia è infatti l’archetipo del Welfare State, con livelli di tassazione inimmaginabili. Lo Stato si sostituisce quasi alle famiglie, fornendo ai cittadini tutto ciò che è necessario per vivere dignitosamente. In compenso, il turista è saccheggiato. Tutto ha un prezzo esorbitante, figurarsi gli alberghi. Per cui, devo industriarmi più del solito per trovare il mio giaciglio. Alla fine, dopo richieste terrificanti, me la cavo con cento euro (circa) al giorno, per tre giorni. Copenhagen ha qualcosa di Amsterdam, per via dei suoi canali. Non fa particolarmente freddo. Vuoi o non vuoi, dopo aver attraversato il simpatico e neanche tanto tranquillo centro, finisco al mare. E’ bellissimo il Nyhavn, l’antico porto, con le sue caratteristiche casette. Il turismo si concentra soprattutto negli chiccosissimi caffè che costeggiano il molo, in faccia alle navi che continuamente partono per Malmoe ed Helsinky. Dall’altro lato della laguna il paesaggio cambia completamente (è una stretta caratteristica delle città scandinave, direi, l’assoluta varietà ed eterogeneità dei quartieri), nel verde di Holmen e delle penisole circostanti. Faccio un salto a Christiania, una sorta di quartiere auto – governato al di fuori della legalità, fondata nel 1971 da un gruppo di hippie. Lo stile è, anche qui, un chiaro rimando all’antiproibizionismo di Amsterdam. C’è tanto da vedere, in questa bella città affacciata sul Mare del Nord: dall’avveniristica Opera House, alla celeberrima statua della Sirenetta (molto più piccola di quanto si creda, ma graziosissimamente adagiata su di uno scoglio), raffigurante la protagonista di una fiaba di Andersen, al Luna Park dei Giardini di Tivoli, alla tumultuosa arteria commerciale di Stroget, l’Università, l’immenso Palazzo Reale, ancora in uso. Si cammina meravigliosamente a piedi, da un capo all’altro della città (o in bici: il noleggio è gratuito, basta una moneta come per i carrelli del supermercato). L’educazione e la cortesia dei danesi sono imbarazzanti, ed è quasi incredibile che ragazze di bellezza ultraterrena non si pongano il problema di scambiare due chiacchiere. Dopo tre giorni, lascio la Danimarca, e continuo a salire. Copenhagen e la Svezia sono collegate, dal 2000, dal lunghissimo ponte, autostradale e ferroviario, che passa sullo stretto di Oresund. Raggiunta Goteborg, cambio treno e mi dirigo verso la Norvegia, e verso la città più cara del mondo: Oslo. Qui trovare un albergo a buon mercato non è possibile. Mi fermo allora in un ostello piuttosto famoso in internet (l’Anker Hostel). Il posto è particolare e simpatico, pieno di soli giovani, tra l’altro invaso da orde di festanti scozzesi lì per Norvegia – Scozia (qualificazioni al Mondiale di calcio) del giorno dopo. Per fortuna, salvo bere litri di birra fin dal mattino, la comitiva non fa niente di male, anzi contagia tutti della propria allegria. Il guaio è che dovrò dormire in una stanza a sei letti, cioè con altre cinque persone (uomini e donne). Per cui decido che per tre notti dormirò lo stretto indispensabile per deambulare, con un occhio ai bagagli accanto al letto. Scopro in compenso che Oslo è, ancor più di Copenhagen, comodissima da visitare a piedi. Il clima è però più rigido. Ciò che rende meravigliosa questa città è la sua incredibile conformazione: in pratica, Oslo nasce su verdissime colline, e termina in un abbacinante fiordo, che penetra nella città. La vista del mare dall’alto è semplicemente estasiante. La via principale è la splendida Karl Johans Gate, che parte dal Parlamento per arrivare al bellissimo Palazzo Reale, a sua volta immerso in un giardino verdissimo. Su questa arteria si affacciano gli edifici principali, il Teatro Nazionale, l’Università. Poco lontano c’è il Museo Nazionale, dov’è custodito il celebre Urlo di Munch, del quale compro una bellissima riproduzione. E’ imperdibile il tragitto in traghetto dal porto fino alla penisola di Bygdoy, zona piena di bellissime ville e interessanti musei, tra cui l’incredibile Museo Folcloristico. Un’altra attrazione turistica è il Parco di Vigeland, sostanzialmente un’esposizione permanente di sculture, bassorilievi e opere varie in ferro dell’artista norvegese Gustav Vigeland. La Scandinavia è un crescendo: dalla bellezza forse un pò diafana di Copenhagen, al fascino multiforme di Oslo, eccomi di fronte all’esplosione di colori, di luci, di splendide atmosfere di Stoccolma, a buon diritto “la Venezia del Nord”. La capitale della Svezia sarebbe un vero gioiello, se non fosse per il maglione di lana che mi costringe a indossare anche il giorno di Ferragosto e i prezzi, anche qui, allucinanti. Grazie alla gentilezza di un’impiegata di un centro turistico, trovo un alloggio tutt’altro che economico. La città è composta da 14 isole, una parte sul mare, un’altra intorno a un limpidissimo lago, collegate tra loro da una gran quantità di splendidi ponti. Il centro nevralgico è costituito dall’isola di Gamla Stan, bellissimo centro storico. Anche qui, è evidente l’eterogeneità del paesaggio, basta trasferirsi da un’isola all’altra e sembra quasi di cambiare città. Dalla vegetazione più selvaggia, all’affollamento del centro pieno di negozi, alla magia dei vicoli storici. Da un lato all’altro, scorci degni di Firenze, di Venezia, di Parigi. Atmosfere da grandissima, e civilissima, città. I musei sono vari, e numerosissimi (tra questi, il Museo Vasa, dove è conservato il relitto di un veliero del XVII Secolo, e il Museo Marittimo Nazionale). Alla capitale della Scandinavia cambierei solo il clima. Agli svedesi, e alle svedesi, niente. L’aereoporto di Skavsta, distante un’ora da Stoccolma, è l’ultimo luogo straniero che vedo nel mio Inter rail, prima di riaprire gli occhi (non dormivo da 48 ore) e vedere dal finestrino avvicinarsi la sagoma dello Stivale, e poi di Fiumicino. Prima di partire, pensavo che l’Inter rail non facesse per me, che fosse troppo scomodo, e che mi ero lasciato scioccamente convincere. In effetti, le mie abitudini erano diverse. Adesso, rifarei tutto, dall’inizio alla fine. E’ l’unico modo, l’Inter rail, o uno dei pochi, per attraversare in un colpo solo realtà tanto diverse tra loro, e rimanere coinvolti in un vortice di emozioni, e di ricordi, di cui non poter conoscere l’inizio né la fine.



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