Thai-bodja-nmar 2010

Un mese in giro, dalla Thailandia al Myanmar passando per la Cambogia
Scritto da: paldeghi
thai-bodja-nmar 2010
Partenza il: 23/10/2010
Ritorno il: 25/11/2010
Viaggiatori: 4
Spesa: 2000 €
Un esperienza di viaggio iniziata in 4, continuata in 2, terminata in 1. Ciò che durante il viaggio si è perso in apporto “umano” lo si è immagazzinato giorno dopo giorno nelle centinaia di immagini fissate, sulle macchine fotografiche per la gioia degli occhi, e nella mente per la gioia del cuore. Trenta giorni spesi fra Thailandia (Paolino, Paolone, Federica e Michela), Cambogia (Paolino e Federica) e Myanmar (Federica) attraverso luci, colori, contrasti, modernità, storia, struggenti paesaggi e tristi visioni, popoli simili ma diversi, passato restituito dalla foresta e passato difficile da dimenticare, sacro e profano, ogni giornata vissuta in una nuova esperienza di accrescimento culturale, personale ed emozionale. Bangkok ci accoglie umidiccia e limacciosa, al termine di una stagione delle piogge prolungatasi più del previsto; arrivano infatti echi di gravi inondazioni nel nord-est del paese. Il Chao Phraya in piena decide di regalarci una mattinata fra i suoi canali; il popolo del fiume sembra indifferente di fronte all’acqua che lambisce le abitazioni e spesso ne invade i primi piani, perchè il fiume è da sempre così, ti dona la vita e per questo qualche volta ti ricorda che anch’esso è vivo. Tranquillo, irascibile e impetuoso proprio come le anime che vivono in simbiosi con esso. E il fiume, anzi, i fiumi, diventeranno una delle componenti del viaggio; in questa parte del mondo i popoli si legano visceralmente ai loro corsi d’acqua. Essi ce li ritroveremo compagni silenziosi, durante tutto il nostro viaggio, con nomi evocanti storie di vita ma anche di morte……Chao Phraya, Tonle Sap, Mekong, Irrawaddi……… Bangkok è anche, e soprattutto, storia. Storia di un finto Agente turistico che appena lasciato il nostro taxi boat ci ricorda che l’arte di arrangiarsi è ben viva da queste parti; così partiamo per una visita cittadina in tuk-tuk attraverso agenzie di viaggi più o meno riconosciute e accomodanti venditori di aria fritta, che ci riporta nei pressi del Palazzo Reale, che avevamo intenzione di visitare fin dalla mattinata, esattamente all’ora di chiusura; pazienza, Bangkok è piena di Wat (i templi-monasteri, ce ne sono circa 400) e l’alternativa la si trova facilmente. Il Palazzo Reale ci attende lussureggiante e sgargiante il giorno successivo, nella giornata che abbiamo deciso di dedicare alla storia, questa volta vera, sacra e profana di questa affascinante capitale, in un susseguirsi di Wat, pacifici Buddha sdraiati o nella tipica posizione del loto, monaci e…tuk-tuk. E fa niente se si cammina per ore nell’afa opprimente, perchè alla sera ci attende un imperdibile Thai-massage che con circa 5 euro ti rimette in sesto. Qui, dove si pranza con 100 bath in Soi Ram Buttri e si sorseggia un aperitivo in cima a un grattacielo spendendone 800, dove precarie palafitte, comunque pulite e ordinate vengono riflesse in skyline di vetro e cemento, dove scintillanti miss curatissime in ogni dettaglio sfoggiano lo stesso sorriso della mendicante che cerca di piazzare collanine e ranocchie di legno che strofinate sul dorso fanno il verso, davvero modernità e tradizione si mescolano e si confondono, come per i registri posti all’interno dei templi, compilati dai vari viaggiatori indicando l’anno 2553 (riferimento al calendario buddhista) oppure il 2010 in uso nell’occidente cristiano. Arrivederci Bangkok. Ripasseremo tutti di nuovo da te prima di ritornarcene a casa. Lasciamo Bangkok dalla stazione dei bus di Morchit diretti a Nord, verso la prossima meta, Sukothai, l’antica capitale dell’omonimo Regno, immersa nella pace, con i suoi templi color mattone e la vastità delle colline che la circondano zeppe di siti storici più o meno nascosti, più o meno intatti, sempre e comunque affascinanti. La sera ci regala una fantastica festa tradizionale all’aperto, alla quale tutta la città partecipa proponendo le migliori ricette della cucina thai fra danze, fuochi d’artificio e luci multicolori, una festa fatta da loro per loro, con pochissimi turisti e tanto divertimento. Quindi, ci spostiamo più a Nord, verso Chiang Mai, seconda città della Thailandia, moderna, pulita e circondata da mura antiche risalenti al XIII secolo, adagiata sul fiume Ping, principale affluente del Chao Phraya e sovrastata dal Doi Suthep, cima di quasi 1700 metri che domina la città col suo spettacolare Wat raggiungibile percorrendo 300 gradini. In città sorgono altri 300 Wat, e un mercato serale domenicale che invade le vie principali del centro. I suoi dintorni, un po troppo turistici, fra villaggi tribali che assomigliano molto a zoo umani, incluso un villaggio di donne-giraffa profughe dalla Birmania, trekking nella giungla, passeggiate a dorso di elefante, addomesticati a prendere con la proboscide le banane offerte dai turisti, rafting su zattere di bambu’ e più moderni gommoni, danno comunque l’idea di luoghi molto meno caotici rispetto alle località del Sud del paese, molto più appetite dal turismo di massa. Lasciamo Chiang Mai e saliamo ancora più a Nord, per raggiungere, sempre utilizzando bus di linea comodi ed economici, Chiang Rai, considerata il centro principale del cosiddetto Triangolo d’oro, fra Birmania e Laos, ora tranquilla e benestante cittadina, caratterizzata dalla Clock Tower, barocca costruzione dorata con orologio posta al centro del principale incrocio della città, che la sera si illumina di mille colori al rintocco delle ore 7, 8 e 9. In un’ora circa di volo ritorniamo a Bangkok, ma solo per prendere un taxi (in quattro risulta particolarmente economico e veloce), che ci porterà a Trat, città di frontiera verso la Cambogia, tappa per raggiungere l’isola di Koh Chang. Cavoli, ma non ci siamo accorti che la Thailandia, giorno dopo giorno, ci ha preso!!! Il suo ritmo, le sue abitudini, i suoi colori, i suoi sapori…….che roba!!! Il mattino seguente, sveglia di buon ora, Trat rappresenta solo un punto-tappa per raggiungere Koh Chang, via traghetto. Giungiamo in una gemma di smeraldo incastonata in un mare turchese, verdeggiante e ancora (per quanto tempo???) lontana dal turismo caotico di Phuket, Koh Samui, Pattaya ecc. ecc…… Purtroppo possiamo dedicare solo un paio di giorni a questo piccolo paradiso abitato da pescatori, pacifici e sorridenti, che abitano villaggi di palafitte come Bang Bao e vivono un mare e una terra dalla natura generosa, spiagge soffici e pesci multicolori. Lasciamo a malincuore Koh Chang con una triste, ulteriore consapevolezza; tornati al caravanserraglio di Trat, la metafora delle navicelle spaziali Apollo sembra adattarsi perfettamente alla situazione. Infatti, durante il nostro itinerario abbiamo di volta in volta incontrato e inevitabilmente lasciato, luoghi, persone, storie, e oggi, proprio come in un modulo spaziale, Paolone e Michela si sganciano per tornare lentamente verso Bangkok e, quindi, a casa, lasciando proseguire il resto della compagnia con nel cuore i ricordi e la nostalgia. Il mattino ci aspetta una lunghissima trasferta in bus verso la terra dei Khmer e la sua Capitale. Il serbatoio dei ricordi è ben lungi dall’essere colmato!!!! Pensando tristemente a Paolo e Miki in volo per l’Italia, attraversiamo la frontiera cambogiana di Koh Kong diretti a Phnom Phen. L’arte di arrangiarsi qui, purtroppo, assume un po’ più la figura meno nobile dell’elemosina, che contraddistingue (speriamo di no), i popoli che si sono seduti a sperare nell’aiuto degli altri, più comodo (apparentemente), piuttosto che contare sui propri mezzi, più impegnativo ma più gratificante. Il viaggiatore più distratto potrebbe non notare che nei primi 100 km. percorsi in territorio cambogiano che corrono lungo il confine thailandese si incontrano migliaia di picchetti che indicano la presenza di campi minati non completamente bonificati…………viene un po’ di pelle d’oca. Welcome. Phnom Phen ci attende buia, dimessa, se non fosse per la zona dei locali che illuminano il lungo fiume, popolati da turisti occidentali non troppo interessati ne’ ai Killing Fields e nemmeno ad Angkor Wat, bensì alla terza attrazione turistica della Cambogia, che di solito giace seduta con le gambe accavallate in attesa della fine delle dirette TV dei match di Premier League nei pressi degli stessi marciapiedi che pochi decenni prima appartenevano alla città deserta a causa dell’evacuazione di massa imposta dal regime dei Khmer rossi di Pol Pot. La mattina seguente decidiamo di affrontare subito ciò che il delirio e l’utopìa politica è capace di creare; visitiamo prima il famigerato S-21 e successivamente i Killing Fields. Di fronte alla Scuola Elementare trasformata in mattatoio ribattezzata, appunto, S-21 e di fronte a risaie trasformate in fosse comuni, rimane il silenzio, il dolore e soprattutto il terrore per ciò che degli esseri umani possano arrivare a concepire. Questa triste capitale adagiata sulle acque del fiume Tonle Sap che vanno a mescolarsi poco più avanti con quelle del Mekong merita senza dubbio una visita, innaffiata da un violento temporale tropicale, al Palazzo Reale, elegante struttura che vorrebbe ridiventare il simbolo della Cambogia che cerca di dimenticare il recente passato, tornata dimora ufficiale del Principe regnante così come lo era prima del sopraggiungere del regime comunista che fondò la “Repubblica Democratica di Kampuchea”. Dobbiamo arrivare a Siam Reap, e per farlo risaliamo il fiume e il bacino che il fiume stesso crea utilizzando un’ imbarcazione che trasporta in condizioni di sicurezza precarie (eufemismo), a 100 km/h, un centinaio di disperati come noi che volevano vivere l’esperienza di una mini-crociera………….conosciamo Paolo e Paolo (durante questo viaggio i maschi si chiamavano solo Paolo…..). Siam Reap=Angkor. Di buon mattino, accompagnati dal “personal Tuk-tuk” Dragon (è il suo nome), ingaggiato la sera precedente, affrontiamo uno dei siti archeologici più importanti del pianeta con una grande emozione e una sorta di timore reverenziale che personalmente mi accompagna sempre quando mi trovo di fronte all’opera frutto del genio umano. Tralasciando la descrizione dei vari siti, semplicemente da vivere e visitare nel modo più personale possibile, affascinanti, maestosi, intriganti e misteriosi, la sera, dopo aver assaporato dell’ottimo serpente grigliato, sorge spontanea una riflessione che mi fa percorrere un brivido gelato lungo la schiena: lo stesso uomo, la stessa razza, è stato in grado di creare il sistema di templi religiosi più grande e maestoso al mondo e lo stesso uomo, la stessa razza, ha concepito il genocidio di gran parte del proprio popolo nell’agghiacciante delirio di un ideale politico. Contrasti. Bangkok con i suoi contrasti architettonici e la Cambogia con i tremendi contrasti causati dalla mente umana. E in Myanmar? Quale sarà il contrasto che contraddistinguerà questa terra? Lasciamo la terra del popolo Khmer dalla città di frontiera di Poipet, qualche decennio fa unica finestra che permetteva a chi era in Thailandia di affacciarsi sull’orrore, ora trasformata in semplice e squallida città-bordello. Si torna a Bangkok, per le ultime ore prima di sganciare il secondo modulo della metaforica astronave, e permettere a Federica di proseguire con il suo “LEM” verso il Myanmar. La velocità con la quale viene rilasciato il visto d’ingresso presso l’ambasciata birmana fa pensare che laggiù, forse, non sia proprio come te lo raccontano. La sera ci ricongiungiamo con i due “Paoli”, conosciuti sulla barca-incubo, fermatisi un giorno in più a Siam Reap, per l’ultima cena. Domani è il 13 Novembre; Paolino se ne tornerà a casa, Federica volerà a Yangon proprio mentre il premio Nobel Aung San Suu Kyi tornerà libera dopo 13 anni di arresti domiciliari………..e Federica ci sarà. Tornato in Italia vengo raggiunto dalla notizia della tragedia avvenuta a Phnom Phen durante la festa religiosa “dell’acqua” sul fiume Tonle Sap che si è portata via più di trecento vittime. Il fiume, questa volta, solo spettatore. Credo che se fossimo stati a Phnom Phen, a quella festa avremmo anche potuto parteciparvi….Per il mondo è l’ennesima notizia che non fa notizia se non nel momento in cui crea il “titolone”, e dopo un paio di giorni tutto è dimenticato; auguri piccolo popolo cambogiano. Il volo per Yangon dura poco più di un’ora ed io mi sento emozionata ed agitata. Ripenso al mio Paolo appena ripartito per la strada del ritorno, penso alla mia nuova avventura, sola con lo zaino in Birmania, dal 1989 chiamata Myanmar, ed ho anche paura per quello che potrebbe succedere nel giorno della liberazione di San Suu Kyi. Le prime ore a Yangon servono per abituare gli occhi e il corpo. Gli occhi assorbono un mondo diverso dal sud-est asiatico, un popolo dai tratti somatici e una città dai colori e odori più simili all’India. Anche il mio corpo si deve abituare alla temperatura, infatti Yangon è sorprendentemente umida, più umida di Bangkok benché si trovi più a nord. Seppi della liberazione del premio Nobel per la pace da due giornalisti che alloggiavano nella stessa mia pensione e due giorni dopo mi sono recata davanti al portone di casa di Aung San Suu Kyi. Tutto sembrava come se non fosse accaduto niente, ma io mi sentivo come in un film di James Bond! Seppi più tardi dagli amici giornalisti che comunque molte spie in borghese vigilano lì e anche in tutto il paese. Dopo un paio di giorni nella vecchia capitale decido di muovermi rapidamente e spostarmi al nord con alcuni compagni di viaggio incontrati nella stessa pensione. Il visto per il Myanmar dura 28 giorni soltanto e non tutte le strade sono in buone condizioni (cosa che sperimenterò personalmente) quindi devo capire dove poter andare. Alcune zone sono vietate ai visitatori quindi decido di scoprire ‘the big 4’, ovvero Yangon, Mandalay, Inle lake e Bagan. Mai come in questo caso un viaggiatore deve essere cosciente di come spende i propri dollari e di dove vadano a finire. L’esercito infatti detiene il denaro e la politica e una percentuale sul guadagno di hotel, voli aerei, ferrovie, siti turistici. Le entrate che gonfiano maggiormente le casse di questo governo dispotico vengono direttamente dai turisti che usano questi servizi. Con un bus notturno arrivo a Mandalay e subito vengo approcciata da una guida che mi raccomanda hotel e tour turistico. Accetto, ma non senza aver contrattato. La visita di Mandalay racchiude molti wat (templi), punti panoramici dall’alto, pranzo tipico compreso di molti piatti con salse e riso (le chiamo tapas birmane) e il grande finale. Come infatti in un grande palcoscenico, ecco che si apre l’ultima scena della giornata, il ponte U Bein, un’immagine incantata che fa da sfondo al passaggio degli abitanti che ritornano a casa. E cala il sipario. Inverto programma e vado al lago Inle e poi a Bagan. Inle Lake è un mondo fatto di piccoli villaggi di pescatori, con ridotta connessione internet (non che sia migliore in altre zone..), con bambini che si avvicinano e cercano di comunicare con un inglese di base. Inle Lake è vera pace, pace degli occhi e pace dell’anima ed io giro in bicicletta felice e respiro a pieni polmoni quest’aria frescolina serale. Dopo un bel giro in barca e del meritato riposo, acquisto un volo per Bagan (ahimè mi dispiace dare dei soldi allo stato ma la mia schiena non ce la fa a rifare un altro viaggio come l’andata) ed atterro dopo 1 ora nella capitale dei templi. Bagan è stata una vera scoperta! Dopo aver visto milioni di templi in Thailandia e in Cambogia non ero sicura di poterne visitare ancora (se siete stati in Asia mi capite)ed invece Bagan mi ha fatto sognare! Il modo migliore è in bicicletta, esplorando a piacere il verde autentico dei prati dove si innalzano ‘wat’ meravigliosi e dove poter vedere da uno di questi templi il sole che scompare dalla lussureggiante vegetazione. Click di dovere. L’ultimo viaggio a Yangon e poi a Bangkok per il fatidico volo di ritorno è stato il riavvolgimento di un nastro. Sia dal finestrino del bus notturno per Yangon che da quello del volo su Bangkok ho rivisto gli ultimi 12 giorni in Myanmar e quello che più mi è rimasto nel cuore è stato l’incontro con il popolo birmano. Gli occhi curiosi dei bambini che mi fermavano in bicicletta, lo sguardo saggio dell’anziana signora che mi ha offerto il the in un vicolo di Yangon, le storie di vita di un’insegnante costretto a fare la guida turistica per mantenere la famiglia a Mandalay e i mille modi gentili dei pescatori al lago Inle sono un vortice di emozioni che mi hanno fatto veramente andare in orbita come uno shuttle. Il Myanmar rimane un angolo esotico di Asia, poco modificato dall’epoca coloniale inglese, con gruppi etnici diversi, rituali buddhisti e uomini che rispettano la tradizione di indossare le gonne lunghe dette longyi. Manca solo un cambiamento importante e mi auguro sia raggiunto presto: la libertà.
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