Nella terra di chi!

Domenica 10 agosto ore 12.00 (ora locale), pioggia fitta. Tórshavn, (Isole Fær Øer) Oggi S. Lorenzo, notte delle stelle, ma dubito di vederne qualcuna (mi accontenterei magari anche di una non cadente) nel cielo di queste isole semisperdute nell’Atlantico e avvolte quasi permanentemente da un manto di nebbia, o quantomeno da una coltre...
Scritto da: rosanerotom
nella terra di chi!
Partenza il: 08/08/2008
Ritorno il: 11/08/2008
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
Domenica 10 agosto ore 12.00 (ora locale), pioggia fitta.

Tórshavn, (Isole Fær Øer) Oggi S. Lorenzo, notte delle stelle, ma dubito di vederne qualcuna (mi accontenterei magari anche di una non cadente) nel cielo di queste isole semisperdute nell’Atlantico e avvolte quasi permanentemente da un manto di nebbia, o quantomeno da una coltre nebulosa. Per l’appunto oggi piove da stamattina qui a Tórshavn, la capitale più piccola del mondo, come cita quasi con vanto un opuscolo locale, e nel posto forse più singolare della Terra. A cominciare proprio dal nome, “isole delle pecore”; ce ne sono davvero tantissime e soprattutto le trovi praticamente ovunque; tra pecore, capre e montoni, penso di non averne mai viste tante in vita mia: dai cortili delle case, agli immensi pascoli che ricoprono più del 90% della superficie delle isole; piccole chiazze tra sterminate radure e verdissimi colline, il cui colore risplende ancora di più in quei rari momenti di sole; nei posti più incredibili e inimmaginabili ci sono loro, il simbolo delle Fær Øer, insieme alle pulcinelle di mare (al secolo “puffins”), altrettanto numerose ma concentrate solo in alcuni scoscesi e impraticabili punti delle isole; ai piedi delle innumerevoli cascatelle, ai bordi degli altrettanto numerosi laghetti, negli anfratti tra le zolle di erba per non parlare dei costoni più ripidi a sfidare le forze di gravità, loro ci sono, e brucano, brucano, brucano, continuamente brucano assolutamente indifferenti alle spesso avverse condizioni climatiche; le trovi anche sui disegni stampati delle banconote ufficiali, sulle etichette dell’unica birra che si trova qui in commercio (vero orgoglio nazionale!), la Föroya Bjór. Perfino all’aeroporto il cane antidroga della polizia locale, per la verità, somiglia più ad una pecora che a un cane..

Ed è proprio dall’aeroporto che comincia l’avventura in questa remota terra. Appena atterrato (dopo essere rimasto suggestionato da impressionanti strapiombi osservati dal finestrino), ti rendi subito conto di essere in un posto veramente assurdo; scendendo dall’aereo attorno a te non vedi nulla; non che mi aspettassi metropoli con grattacieli, ma la sensazione di desolazione è notevole e mi accompagnerà per tutto il periodo della mia permanenza nelle isole; dopo una breve attesa nella sala degli arrivi che poi è comunicante con quella delle partenze arrivano i trolley (quello mio e di Davide, il mio compagno di avventure), adeguatamente annusati dal cane-pecora antidroga.

Una volta presi i bagagli facciamo subito amicizia con Marina, la ragazza dell’ufficio dell’AVIS per la macchina che avevamo prenotato da Palermo. Dopo avere preso un paio di cartine turistiche e dando uno sguardo sommario alla disposizione delle isole, decidiamo di tagliare la testa al toro e di andare subito a Tórshavn. Bisogna attraversare Vágar, l’isola dell’unico aeroporto, e raggiungere Streymoy, l’isola della capitale; le due isole sono collegate tra di loro tramite un tunnel sottomarino, cosa che mi aveva incuriosito moltissimo avendone appresa l’esistenza prima di partire. Dunque prendiamo la nostra Suzuki e cominciamo a fare strada imbattendoci in Sandavágur , uno dei tanti paesi-villaggi disseminati per l’arcipelago, dove facciamo anche la prima sosta. Sembrano tutti uguali questi paesi che in realtà sono appunto poco più che dei villaggi composti da un numero di casette che può variare da poche unità nel caso di microscopiche comunità per lo più di pescatori (la maggior parte dei villaggi è dotato di un porticciolo) a poche centinaia (come Tórshavn, che, essendo la capitale, conta ben 22.000 anime).

Le abitazioni sono davvero deliziose; tutte dipinte con i colori più svariati che osservate da lontano suscitano un vivace colpo d’occhio cromatico che risaltando prepotentemente sull’uniformità del verde circostante, con tetto a spiovente (le più caratteristiche ce l’hanno pure ricoperto di erba!) e fabbricate prevalentemente in legno (almeno quelle più antiche), molte sono circondate da un loro praticello, finestrelle quadrate con davanzali spesso ornati da soprammobili quali piantine, piccole abat-jour e addirittura mi è capitato di vedere anche qualche “puffin” imbalsamato, denotando dunque una particolare attenzione per l’estetica.

Già da lontano spicca a Sandavàgur, per le sue spropositate dimensioni rispetto alle abitazioni prevalentemente unifamiliari, una graziosa chiesetta rossa e bianca che scopriamo poi essere la cappella del cimitero, e allora a che ci siamo diamo pure un’occhiata a un cimitero faroese (ed essendo con Davide non se ne poteva fare a meno, poiché sostiene che da come è curato un cimitero se ne deduce il grado di civiltà e il livello sociale di una comunità); la maggior parte delle lapidi hanno, poggiate sopra, piccole sculture in pietra raffiguranti degli angioletti o in alternativa degli uccellini che vegliano sui defunti.

Accanto al cimitero, un campo di calcio in erba sintetica, suppongo utilizzato più dai gabbiani che dagli abitanti locali, vista la quantità sia di piume sia di pennuti sul campo; continuiamo per il villaggio in macchina e ci colpisce il fatto non vedere in giro anima viva, la qual cosa ci lascia un po’ perplessi essendo le 11.30 di mattina …

Lasciatoci alle spalle Sandavágur, proseguiamo allontanandoci dalla costa e deviando verso l’interno per poi raggiungere l’altro versante dell’isola, avvicinandoci al mitico tunnel, e la mia curiosità aumenta per capire come abbiano potuto costruire un’infrastruttura del genere in un paese come questo. A un certo punto ci imbattiamo in quella che sembrava essere una banalissima galleria e ci accorgiamo come la strada comincia leggermente a scendere, e poi dopo un paio di km, a salire fino a sbucare fuori; alché restiamo sbalorditi capendo che siamo passati da un’isola all’altra senza neanche accorgercene; incredibile! Un’opera a zero impatto ambientale (o quantomeno visivo).

Lunedì 11 agosto ore 14.30 aeroporto di Vágar, nuvoloso Siamo in attesa del volo che ci riporterà a København; ci sono ancora tre ore di attesa, così, dopo avere divorato sui tavolini della sala d’attesa le ultime scatolette con cui abbiamo condito il tipico pane nero scandinavo a fette, comprato tre giorni fa e ancora soffice, dopo avere compilato e spedito un paio di cartoline e avere scambiato due chiacchiere (nel mio primordiale inglese) con l’avvenente Marina, la ragazza del RENT CAR, di cui io e Davide ci siamo innamorati, avendo fantasticato su improbabili inviti a uscire la sera, ora sono qui a continuare il mio racconto, facendo di tanto in tanto qualche pausa sigaretta, magari aspettando che uscisse Marina dal suo ufficio anch’essa per la sua pausa sigaretta. Riesco a strapparle qualche confessione sulla monotonia della vita alle Fær Øer; i mesi migliori per visitare le isole sono senz’altro maggio e giugno , quando riescono anche a fare il bagno nelle acque fredde ma non gelide, dato che vengono mitigate dalla Corrente del Golfo, e quando io e Davide le abbiamo comunicato le attuali temperature siciliane (circa 38-40°C), lei, socchiudendo gli occhi e immaginandosi distesa nelle incandescenti spiagge siciliane, si è protesa in un sensualissimo sospiro provocandoci un notevole sussulto…; vabbè, meglio cambiare argomento..

Dunque, improvvisamente ci ritroviamo a Streymoy, l’isola più grande dell’arcipelago, e proseguendo in direzione Tórshavn, ci chiediamo in che modo si paghino i pedaggi per entrare e uscire dai tunnel, scoprendo poi che ogni volta che si attraversa la galleria viene scattata una foto (tipo autovelox), e il pagamento si può effettuare o all’area di servizio o direttamente (come abbiamo fatto noi) all’ufficio dell’AVIS.

Le isole sono molto simili tra di loro: tra fiordi che frequentemente solcano le coste, ruscelli, fiumiciattoli, laghi e innumerevoli cascatelle che, dopo poche ore di pioggia intensa, abbiamo visto trasformarsi in imponenti colonne d’acqua che sbucano da tutte le parti aprendosi la strada tra i verdissimi costoni di montagna confluendo tutte a mare (anzi oceano), e dando al paesaggio un aspetto veramente suggestivo; quelli che fino a un paio di ore prima avevano l’aspetto di esili fili d’acqua che scivolano ordinatamente lungo il loro letto, dopo un’abbondante piovasco si trasformano in possenti cascate, e si ha quasi l’impressione, passando con la macchina, di esserne travolti; tale è la loro violenza; montagne verdi assolutamente incontaminate dominano il paesaggio intervallate da improvvisi scorci di mare che si aprono a perdita d’occhio intravedendo in lontananza delle altre isole.

Dopo pochi km si apre sulla nostra sinistra il Kollafjørđur, un grosso splendido fiordo (uno dei tanti) che s’ insinua così tanto verso l’interno dell’isola di Streymoy, che non si capisce se la sponda opposta del fiordo faccia parte della stessa isola o sia invece la costa dell’isola adiacente, cioè Eysturoy, senso di disorientamento che si avverte sovente quando si percorre la strada ai bordi di un grosso fiordo. Ancora un’altra galleria (stavolta “banale”) e siamo già alle porte di Tórshavn. Pochi minuti più tardi eccoci nella capitale, dopo avere girato un paio di volte a vuoto intorno al centro, dato che rispetto agli altri minuscoli paesi puoi anche riuscire a confonderti a primo impatto. Posteggiamo la macchina ed entriamo nell’ufficio informazioni, che poi è anche un negozietto di souvenir e, mentre Davide aspetta l’esigua coda per prenotare una stanza da qualche parte, io rimango affascinato dai primi souvenir delle Fær Øer, dalle varie cartine e guide informative (di cui faccio incetta), e, mentre ne sfogliavo una, i miei occhi cadono su delle foto agghiaccianti ritraenti il tanto famigerato quanto brutale grindarap, ossia la caccia alle balene. Le somiglianze con la “nostra” mattanza sono notevoli: il mare intorno alle barche tinto di rosso, i balenieri che cingono i poveri cetacei (si tratta delle “balene pilota” che si trovano all’avanguardia rispetto al resto del branco) a mo’ di camera della morte. Una foto dall’alto inquadra le balene sospinte verso riva dalle barche, mentre un’altra, sicuramente la più forte, immortala un pescatore in procinto di tagliare la gola al mammifero, quando questo è stato appena sollevato dall’acqua e ha la parte inferiore del corpo ancora immersa. Osservando attentamente le foto, non si tratta delle classiche enormi balene della nostra immaginazione, bensì delle belughe, specie molto più piccole (3 o 4 metri di lunghezza). Proprio qualche minuto fa sono riuscito a sapere (naturalmente sempre da Marina) che questo barbaro rito si svolgeva fino all’anno scorso; a quanto pare sarà stato messo al bando anche da queste parti, nonostante la centenaria tradizione.

Ed ecco il nostro turno allo sportello informazioni; ci riceve una gentile signora che ci prenota una doppia in un B & B in “periferia”, circa 5 min di macchina dal centro …, a circa 35 euro a notte compresa la colazione, peraltro molto abbondante; tra: salumi e formaggio affettati,fette di pane sia nero che bianco, latte, caffè, the, marmellate, burro ecc. È quasi un pranzo; insomma una colazione luculliana, contornata da 2 candele accese su eleganti porta lumi e un guest-book per i commenti degli ospiti.

Ci riceve una donna, come del resto sono tutte donne (o comunque ragazze) che gestiscono i negozi, i ristoranti, i pub; persino nei benzinai, che poi sono anche dei mini-market, si trovano solo donne; altro che arretrati! Qui tra tunnel sottomarini ed emancipazione femminile, pur essendo sperduti nell’oceano, mi sa che sono più avanti di noi.

È mezzogiorno, e la stanza non sarà pronta prima delle 15.00, per cui decidiamo di fare un giro per il centro di Tórshavn, giusto per ambientarci un po’ in quella che sarà la nostra dimora per tre notti. Cominciamo con l’immancabile (essendo una “città” sul mare) visita al grosso porto cui si accede da una stradina con dei tendoni, sotto uno dei quali si trova il mercato ittico (si fa per dire dato che è composto da un solo bancone) gestito da una pescivendola (anch’essa donna) con tanto di guanti e camice bianco. Certo, per essere il mercato del pesce di una capitale non c’è una vasta gamma di scelta: giusto qualche salmone, delle trote, alcune sogliole e dei pezzetti di merluzzo impacchettati dentro sacchetti trasparenti; ma la nostra attenzione (e gola) si concentra su delle polpettine di merluzzo panate, e, visto che la fame cominciava a dare i primi morsi, nonostante lo spuntino offerto in aereo dalla Atlantic Airways, proviamo proprio le suddette polpettine; non male e anche economiche (1,3 euro cadauna), tanto che dopo mezz’ora torniamo a prenderne un’altra con tanto di foto di rito. Che si tratti di un porto vikingo si può facilmente dedurre dal fatto che sia la prua che la poppa di tutte le barche abbia la classica fisionomia allungata verso l’alto propria delle imbarcazioni di questi valorosi navigatori.

Ore 17.30 In volo sull’Atlantic Airways salutiamo dall’alto, forse per sempre, chi lo sa, le Isole Fær Øer e ce ne andiamo con un giallo dell’ultimo minuto; mentre eravamo in sala d’attesa dopo aver già fatto il check-in, dall’altoparlante si sente uscire una voce dall’accento vagamente faroese chiamare il mio nome (l’ho capito solo alla seconda chiamata); evidentemente c’è qualche problema con i bagagli; andiamo a vedere di che si tratta e, come sospettavamo, sono il fornelletto da campeggio e la bombola del gas (peraltro mai usati) che erano passati senza alcun problema a Palermo, Roma e København, mentre all’aeroporto delle Fær Øer, inspiegabilmente, ci hanno impedito di imbarcare, adducendo delle non troppo convincenti motivazioni circa la pericolosità di questi aggeggi (magari non li avevano mai visti, mi viene da pensare). Allora usciamo fuori cercando invano di fare scaricare il residuo gas della bombola cominciata per poterla estrarre e quindi imbarcare almeno il fornelletto. Scaduto il tempo per l’imbarco dopo neanche dieci minuti, sono stato “costretto” a regalarlo a Marina, che, dopo averlo osservato con curiosità, ha ringraziato. “Così ci penserai quando lo userai per cucinare” le dico, dopo averla invitata in Sicilia; e così per l’ennesima volta salutiamo l’avvenente ragazza mora del RENT CAR, stavolta definitivamente.

Tornando a Tórshavn, dunque, dopo avere degustato le deliziose e gelide polpettine di merluzzo (anche se dopo la seconda cominciavano un po’ a sdegnare) continuiamo il giro per il centro, fermandoci in pratica davanti ad ogni abitazione per fotografarne tutti i dettagli, soprattutto quelle con i tetti in erba (ce n’è talmente tanta che si possono permettere di metterla pure sopra i tetti, verrebbe da pensare) e rimaniamo incuriositi da due “tagliaerbe da tetti” che stavano “manutenzionando” il loro , facendo cadere per terra (cioè sul prato ) i ciuffi di erba superflua.

Continuando a girare per le pittoresche viuzze del centro osserviamo curiosamente delle persone in abito molto elegante che sostavano all’ingresso della cattedrale in attesa di qualcosa, ma molto più probabilmente di qualcuno, cioè degli sposi; incredibile, eravamo incappati per puro caso in un matrimonio alle Fær Øer di una coppia che abbiamo scoperto poi, essere norvegese che aveva scelto Tórshavn come sede delle loro nozze! Del resto le origini dei faroesi si fanno risalire agli antichi vikinghi norvegesi, e il loro incomprensibile idioma proviene anch’esso di conseguenza dal norvegese arcaico; anche se viene correttamente parlato il danese essendo annesse, di fatto, le isole al Regno di Danimarca, tuttavia la popolazione locale rivendica la propria indipendenza dal governo centrale del Regno; un’indipendenza basata molto sulla salvaguardia delle proprie identità culturale ma anche su un’economia imperniata principalmente sul pascolo e sulla pesca.

Continuo il mio racconto sorseggiando un bicchiere di rum e coca offerto dalle hostess. L’Atlantic Airways è davvero una compagnia seria; oltre al solito spuntino (stavolta pezzetti di pollo in salsa rosa con un cucchiaio di insalata di riso) c’sono un secondo e un terzo round con il carrellino di analcolici, alcolici e superalcolici (si vede che siamo nel nordeuropa…); penso che se il volo fosse durato un’ ora in più saremmo atterrati praticamente ubriachi; un ottimo sistema per alleviare le paure del volo… Entriamo in cattedrale, che non è altro che una modesta chiesetta colorata in stile moderno (mi pare degli anni 50) con dei lampadari e delle barchette penzolanti dal soffitto, e assistiamo, un po’ a disagio per l’esiguo numero di invitati ma con delle discrete scariche di adrenalina per l’eccezionalità dell’evento, alle fasi iniziali della cerimonia. La musica d’ingresso degli sposi è quella classica, ma quello che non ci aspettavamo è che a celebrare la messa fosse una pretessa e non un prete. Cominciamo allora a pensare che in queste isole funzioni tutto al contrario; ma allora qual è il ruolo degli uomini in questa società? Forse si occupano solo della pesca e di fare pascolare le pecore (anche se a dir il vero, non mi ricordo di avere mai visto un solo pastore), o forse allora stanno a casa a sbrigare le faccende domestiche!…

Giunta l’ora, ci appropinquiamo verso il nostro B&B; l’interno della casa è quello tipico dei cottage nordici, col tetto della camera e del bagno a spiovere, trovandosi entrambe al primo e ultimo piano.

Sistemiamo i bagagli e dopo un’oretta siamo già fuori per la prima escursione a piedi alle Fær Øer.

Decidiamo di andare verso Vestmanna, situato al centro-nord dell’isola, e ci accorgiamo che le distanze sono molto più grandi di quello che ci aspettassimo e la macchina è un mezzo assolutamente fondamentale per girare le isole nei suoi punti più estremi. Con cautela Davide si mette al volante, prestando attenzione alle eventuali pecore in mezzo alla strada, dopo avere saputo che se accidentalmente viene investito qualche ovino, la legge locale prevede che debba risarcire l’incauto guidatore. Sappiamo che da Vestmanna partono i battelli per le escursioni alle famose scogliere a strapiombo dove si annidano i puffins, ma, anche per i non proprio economici prezzi, optiamo per una passeggiata lungo un sentiero che porta ad un lago arginato adeguatamente da una grossa diga e dove si trovano impianti di acquacoltura ben visibili per la loro caratteristica forma circolare. La passeggiata è gradevole e mentre ci inerpichiamo verso l’alto godiamo di uno spettacolare panorama di Vestmanna con la sua splendida baia; l’atmosfera è rilassante e la camminata ci riconcilia con la natura; un fortissimo odore di erba bagnata ci inebria i sensi, dato che una leggera pioggerellina che scende lenta e inesorabile ci accompagna nel nostro cammino, insieme alle immancabili pecore e montoni che di tanto in tanto si limitano a sbarrarci la strada per poi scappare impaurite al nostro incedere. Tornando verso la macchina incontriamo un’intera famigliola (padre, figlio e una serie di bambini e bambine con cani al seguito) intenti a raccogliere l’erba tagliata e a sistemarla sul trattore; una scena bellissima, l’emblema di una vita serena e spensierata senza troppe aspettative; gente che si accontenta e gode di quello che ha e del luogo in cui vive. Ci accolgono con ampi sorrisi, e, dopo avergli spiegato che veniamo dalla Sicilia, ecco che Davide se ne esce con la sua frase che sarà il tormentone dei tre giorni alle isole: “from an island to another island”, dicendolo a chiunque ci capitasse a tiro di schioppo, e suscitando sempre dei tiepidi se non quasi impercettibili sorrisi sul viso dei nostri interlocutori. Gli chiediamo anche del “grande” Jakobsen, il calciatore-carpentiere feroese che l’anno scorso riuscì a segnare all’Italia in quella che per i locali fu l’evento dell’anno, sentendoci rispondere che lui abita qui, in questo paradiso terrestre.

Tornando verso casa pensiamo di fermarci a mangiare in un ristorante a Tórshavn, e, dopo averne adocchiati un paio da fuori (e del resto non ce ne sono più di tanti), e visti i prezzi e i menù, scegliamo quello che ci sembra migliore come qualità/prezzo, ossia il “Rio Bravo”. Entriamo e veniamo accolti da due ragazze bionde, ci accomodiamo in un tavolo dando un’occhiata al locale: un posto rustico, tipicamente turistico, con un sottofondo musicale di Julio Iglesias, e ci portano dopo pochi minuti un piatto unico consistente di una fetta di carne con contorno di: patata lessa, carote bollite, un po’ di verdura, una fetta di pomodoro, un frammento di broccolo e una fetta di ananas elegantemente attorcigliata sopra la carne farcita con una salsa dolciastra, e da bere un bicchiere di birra alla spina (naturalmente Föroya Bjór, dato che per trovarne un’altra devi girare parecchio). Questa Föroya Bjór è iniziata un po’ in sordina; una birretta molto leggera da 2,8%, ma a poco a poco, grazie più al suo inimitabile logo (una testa di montone) che al suo sapore, ci ha entusiasmato sempre di più fino a diventare dei veri e propri fanatici di questa bevanda; il culmine è stato raggiunto l’ultima sera al pub “CAFE’ NATURE”, un simpatico locale nei pressi del porto, dove ho degustato la “Black Sheep”, una variante nera alla spina, molto più gustosa della classica e credo anche a doppio malto, giacché dopo il secondo bicchiere iniziavo a sentire una leggerissima euforia; ci siamo appassionati talmente tanto che abbiamo comprato i boccali col logo stampato e ci siamo informati con la ragazza del pub addirittura se esistessero delle magliettine; a quanto pare sono in commercio, ma loro non le vendono, e da quel momento dunque iniziava la “caccia spietata alle magliettine”; altro che grindarap , la vera caccia era quella nostra! Martedì 12 agosto ore 15.30. piovoso København, casa di Mette: Nordhavn, a 10 min di bicicletta dal centro, dato che a København le distanze sono calcolate sulla base del principale mezzo di locomozione. Anche qui la pioggia non è da meno, ma almeno la temperatura non scende sotto i 16°C, contro i 10°C delle Fær Øer.

Dopo la striminzita cena al “Rio Bravo” e un breve giretto per il centro, avendo constatato che la “città” fossa praticamente deserta, e vista pure la stanchezza incombente, torniamo a casa e ci addormentiamo immediatamente sotto un caldo piumone invernale con ancora il lungo crepuscolo in corso (22.30 circa). Di notte mi sveglio improvvisamente, guardo l’orologio del telefonino e sono le 2.30; mi affaccio allora istintivamente alla finestra scrutando verso il porto e, con mio grande stupore, c’è già un leggero chiarore offuscato comunque dalle sempre presenti nubi; altra cosa singolare (e sicuramente frutto di suggestione) è il fatto che di notte avevo sognato di sposarmi proprio alle Fær Øer.

Il secondo giorno inizia con la sveglia naturale alle 7.30; doccia e colazione nell’elegantissimo salone della padrona di casa adibito quasi a museo per lo stile alquanto arcaico della mobilia, le numerose foto di famiglia appese alle pareti o poggiate sul tavolo e qualche altra foto incorniciata ritraente incantevoli paesaggi isolani per lo più in bianco e nero. Arriviamo al centro turistico per prendere informazioni più particolareggiate sulle eventuali escursioni e su dove fosse possibile trovare questi famigerati puffins.

Una delle tappe obbligate, sia per le scogliere che per il bird-watching, è Mykines, una piccola isoletta a ovest di Vágar, anzi la più occidentale dell’arcipelago e anche, a quanto dicono, la più remota, dove ancora i pochi uomini rimasti si calano con delle corde negli strapiombi, con esiti a volte infausti, per raccogliere uova e catturare gli uccelli, mostrando in tal modo, ora come nei tempi antichi, doti di coraggio e virilità. Vi si giunge solo tramite traghetto o elicottero (altra cosa singolare) da Vágar con due corse all’andata e due al ritorno, ma se c’è mare eccessivamente grosso (come capita sovente) la nave non parte. Penso che Mykines sia la prima isola da esplorare se l’oceano non è in tempesta; ci informiamo e ci viene comunicata la bella notizia che c’è disponibilità di posti all’andata ma non al ritorno (probabilmente perché avrebbe dovuto riportare a Vágar i turisti che il giorno prima presumibilmente erano rimasti bloccati nell’isola), dunque saremmo dovuti restare lì fino a non si sa quando. Abolita l’ipotesi Mykines allora ci facciamo consigliare un paio di escursioni, una a nord di Streymoy e l’altra a nord di Eysturoy. Ci consigliano quella a Streymoy per la mattina, mentre per l’altra non c’erano problemi di orari; infatti nella prima c’è da scendere in una sorta di gola solcata da un fiume che sfocia sull’oceano, ma il sentiero è praticabile “preferibilmente” con la bassa marea. Rimango letteralmente incantato ad ascoltare la descrizione minuziosa dell’escursione da parte della gentile signora delle informazioni, che descrive con particolare enfasi il paesaggio che avremmo incontrato, quasi come se stesse recitando una poesia. Anche la turista che aspettava dopo di noi il suo turno, rimasta anch’essa a origliare quel racconto, non aveva null’altro da chiedere, talmente esaustiva era stata nelle sue delucidazioni la nostra guida. Allora partiamo verso la zona settentrionale di Streymoy alla volta di Saksun, capolinea della strada asfaltata, da dove si diparte il sentiero. Iniziamo a risalire l’isola e il tempo per il momento sembra reggere; passiamo nuovamente accanto al Kollafjørđur, situato circa a metà di Streymoy; a questo proposito vorrei sottolineare un particolare, non so quanto casuale o quanto invece rilevante dal punto di vista geomorfologico; molte isole dell’arcipelago, che sono piuttosto strette estendendosi invece molto per lunghezza, hanno una serie di fiordi solo sul lato orientale, mentre su quello occidentale la costa è piuttosto uniforme senza eccessive insenature e caratterizzata per lo più da imponenti precipizi; così sono: Streymoy, Eysturoy, Bordoy, Vidoy e Suduroy; fa eccezione solo Vágar, mentre le altre sono talmente piccole da essere considerate poco più che dei grossi scogli.

Passiamo in successione e senza fermarci i villaggi di Hósvík, viđ Áir e Hvalvík per poi svoltare a sinistra e imboccare una stradina (poco più di una “mulattiera ” anche se comunque perfettamente asfaltata) a una sola corsia con saltuari piccoli slarghi laterali ora su un lato ora sull’altro, per permettere il passaggio di veicoli provenienti dalla direzione opposta, e , costeggiando il fiume Saksunardalur e raggiungiamo poco dopo Saksun, un minuscolo villaggio di appena una decina di case, dove posteggiamo la macchina, ci equipaggiamo con giubbotto e pantaloni impermeabili (che diventeranno la nostra seconda pelle) e intraprendiamo la discesa lungo la gola costeggiando sempre il fiume; lo scenario è davvero solenne: due ripide pareti completamente verdi si ergono dalla vallata scavata nel corso dei secoli dal fiume, un verde intenso interrotto saltuariamente qua e là da qualche cascata e da piccole macchioline prevalentemente di colore nero o bianco sparse nei fianchi delle pareti che volgevano lo sguardo da lontano incuriosite dal nostro passaggio.

Il sentiero s’inoltra per un paio di km, ed essendo (ovviamente) soli, abbiamo tutta la vallata per noi, fino a che non giungiamo alla foce; s’intuisce subito che è orario di bassa marea per le enormi quantità di sale bianco grossolano che risalta sullo sfondo di una spettacolare spiaggia nera. Delle scritte e dei cuori incisi (oltre alle orme delle immancabili pecore) sulla sabbia testimoniano che si tratta di un sentiero calpestato di recente. Restiamo una ventina di minuti a scattare foto e osservare il paesaggio della foce e facciamo strada per il ritorno, visto che da lì a poco si sarebbe alzata la marea. Dopo un po’ scrutiamo in lontananza due sagome dalle sembianze incredibilmente umane avvicinarsi, e quasi ci rallegriamo per l’evento; una coppia di turisti che stava percorrendo la strada verso la foce. Giunti all’altezza della grossa cascata mi balena l’idea di avvicinarmici il più possibile, anche per osservare una grossa colonia di uccelli acquatici che sostava ai piedi della cascata; ma c’è da attraversare il fiume e raggiungere l’altra sponda e, pensando di guadarlo nel punto più stretto, mi sollevo le svolte dei pantaloni dopo essermi levato scarpe e calze e provo ad attraversare quei 5 o 6 metri che mi separano dall’altro lembo del torrente. Dopo neanche un metro mi accorgo che il letto del fiume è più profondo di quello che avevo immaginato, ma non dandomi per vinto torno indietro, mi levo direttamente i pantaloni e riprovo a guadare stavolta in mutande nella speranza che l’acqua non mi oltrepassasse la vita. Nel suo punto più profondo l’acqua lambisce appena la stoffa del mio indumento intimo e allora do una decisa accelerata al mio attraversamento anche per la temperatura affatto tiepida dell’acqua che cominciava a raggrinzirmi i piedi e le gambe, e in qualche modo riesco a guadare cercando di non fare molto caso al letto misto di melma e alghe che calpestavo. Non appena metto piede fuori dall’acqua, la colonia di volatili (presumibilmente delle sterne codalunga) inizia a sollevarsi da terra ora sorvolando minacciosamente sopra la mia testa ora invece restando immobili in aria emettendo degli angoscianti versi striduli e mettendo in bella vista il loro becco che si apriva e chiudeva a non più di un metro di distanza da me cercando di intimorirmi e dissuadermi dal mio intento di avvicinamento alla cascata, ai piedi della quale doveva evidentemente trovarsi qualche nido. Il tutto mentre Davide visibilmente divertito non la smetteva di immortalare il frangente. Non mi sono mai sentito intimorito da degli uccelli, specie se di piccola taglia come questi, ma devo ammettere che il loro numero e il modo insistente con cui mi gironzolavano attorno sinistramente hanno avuto l’effetto di incutermi un pizzico di trepidazione e di indurmi a desistere; sicché faccio retrofront, rioltrepasso il fiume tornando alla macchina pieno di sabbia e intriso d’acqua.

Dopo un rapido spuntino a base dei soliti pancarrè e scatolette consumato in macchina ripercorriamo in senso inverso la stradina dell’andata, abbandonando momentaneamente l’isola di Streymoy per raggiungere Eysturoy tramite stavolta un semplice ponte che collega i pochi metri che separano le due isole, e , dirigendoci verso l’estremo nord giungiamo a Eiđi, un simpatico villaggio dove lasciamo la macchina proseguendo a piedi per un viottolo che si inerpica un poco risalendo la fiancata del Slættaratindur, la vetta più alta delle Fær Øer con i suoi 882 m. Da qui si gode un’eccezionale vista panoramica; da un lato si osserva un consistente tratto del Sundini, l’esile stretto che separa le due isole, mentre dall’altra lo stesso Sundini che, oltrepassando l’estremità nord di Eysturoy e Streymoy, sfocia nell’oceano aperto. Il punto di osservazione si affaccia su uno strapiombo e ne approfittiamo per dare un’occhiata col binocolo nella speranza di beccare magari qualche puffin. Ma di questi buffi volatili, con il corpo simile a un pinguino e il becco somigliante a quello dei pappagalli per il colore rosso sgargiante e la sua curvatura verso il basso, neanche l’ombra. Allora cambiando la direzione di osservazione e puntando il binocolo verso nord, ossia verso l’oceano, rimango colpito da un largo fronte di spruzzi d’acqua quasi all’orizzonte e per un attimo mi sembra di vedere delle balene che saltellano tranquille, ma osservando più attentamente gli spruzzi erano probabilmente creati dal confluire di diverse correnti d’acqua. La mia curiosità era riuscita pure a coinvolgere una signora inglese con le sue due figlie che frattanto avevano raggiunto la nostra stessa postazione. Mettendoci a chiacchierare, loro ci rivelano di provenire dall’Islanda, da dove la nave aveva impiegato ben tre giorni di viaggio per raggiungere le Fær Øer a causa delle avverse condizioni meteorologiche. Dopo averle salutate facciamo un salto qualche metro più in su oltrepassando una recinzione abbattuta che sicuramente serviva per preservare i nidi degli stessi uccelli di qualche ora prima. Avendo provocato il nostro arrivo lo stesso identico effetto di “disturbo” di quello ottenuto al fiume, con le sterne che anche stavolta cominciano a fare sentire il loro disappunto, e capendo che “la carta è mala pigghiata” ce ne torniamo in macchina. Continuiamo il periplo dell’isola stavolta cominciando a scendere verso sud, e, dopo qualche curva, si aprono davanti a noi scenari fantastici, comparendo lontani i due famosi faraglioni Risin e Kellingin, da noi subito ribattezzati “Shilling e Caridding”. Non ricordo precisamente il perché di questa loro notorietà; suppongo sia per la loro forma che, effettivamente è alquanto curiosa; si tratta di due piccoli scogli di cui uno, in particolare, si erge dall’acqua assumendo una forma longilinea. Mai visto uno scoglio di simili fattezze, così alto e sottile allo stesso tempo; una sorta di spuntone che fuoriesce dal mare, mentre l’altro, più tozzo e meno alto e con uno splendido arco naturale al suo interno. Il tutto è stato possibile osservarlo grazie a un’enorme binocolo piantato a terra su di uno spiazzo e ruotabile di 360°, messo a disposizione dei passanti.

Le meraviglie non finiscono di certo qui; dopo una manciata di km, infatti, scendendo dalla montagna con una serie di tornanti raggiungiamo uno dei tanti posti incredibili delle Fær Øer: il villaggio di Gjógv, sicuramente il più pittoresco di quelli visitati da noi, e dopo averlo visto mi sono immediatamente rimangiato ciò che avevo detto in precedenza riguardo al fatto che questi villaggi siano tutti uguali; niente di più sbagliato; mai dare nulla di scontato in questo posto, ed è proprio questo il bello delle Fær Øer.

Un villaggio sorto interamente su un manto erboso, con giusto un paio di stradine asfaltate e uno splendido ruscello che scorre al suo interno con le solite casette variopinte tutte praticamente ai suoi bordi. Ed è qui che viene fuori la meraviglia dei colori delle Fær Øer, spuntando il primo vero sole da quando siamo alle isole. I paesaggi assumono dei colori diversi e, forse per la prima volta, vediamo dei nativi uscire “allo scoperto”; prima un papà con i suoi due figlioletti buttarsi dentro il ruscello con un improbabile retino per cercare di catturare qualche pesce, poi una signora col passeggino camminare per strada, infine una signora che gestisce una primitiva bottega di souvenir (tra cui i tipici e costosissimi maglioni faroesi di pura lana locale) che fungeva anche da punto ristoro (chiamarlo bar mi sembra esagerato dato che la casa offre solo the, caffè e qualche pasticcino) con dei deliziosi tavolini all’aperto sull’erba. Ne approfittiamo comunque per un the incontrando nuovamente le inglesi che stavano seguendo il nostro stesso itinerario (gira e rigira si vedono sempre le stesse persone).

Riprendendo il cammino arriviamo nei pressi di Æđuvík, uno dei posti estremi, dove per la prima volta notiamo tracce d’inquinamento umano, con un tubo di scarico che riversandosi in mare causava uno spesso strato di schiuma giallognola; il posto, situato all’estremo sud di Eysturoy, è veramente inquietante; oltre allo scarico c’è una piccolissima rimessa di barche con tanto di casotto w.C.; a dare un ulteriore senso di incomprensibilità sono dei barbecue vicino la rimessa (forse per arrostire il pesce appena pescato) e delle panchine sulla strada che si affacciano praticamente sul nulla, mentre delle pale eoliche in cima alla collina insieme a una leggera coltre di nebbia che nel frattempo era scesa contribuiscono a rendere lo scenario ancora più spettrale. Dopo esserci “bagnati “ in quest’oceano di assurdità, pensiamo di averne abbastanza e vista anche l’ora tarda e u pitittu decidiamo di tornare verso Tórshavn che si trovava proprio di fronte a noi separata solo da poche centinaia di metri di oceano (avremmo, infatti, ben volentieri benedetto un altro ponte o al limite anche un traghetto invece di percorrere numerosi km a salire e altrettanti per scendere a Streymoy, ma il bello delle isole è anche questo!); ed è sulla strada del ritorno che ci aspetta un’altra sorpresa, perché le assurdità alle Fær Øer non finiscono mai; fermandoci, infatti, per una birra (Föroya) al volo in un market di Saltangará, un grosso agglomerato moderno di capannoni che fungeva da paese (posto stavolta piuttosto squallido) che scopriamo con nostro iniziale grandissimo stupore accompagnato subito dopo da fragorose risate, l’esistenza delle banconote faroesi con le pecore stampate nel disegno, datemi come resto e, dopo averne richiesto qualche spiegazione viste le insolite figure rappresentate, mi assicurano trattarsi di soldi danesi ma con un diverso design… Insomma, per farla breve le banconote ci sono piaciute talmente che decidiamo di non scambiarle e tenerle con noi come souvenir… Tornati a casa dopo, una seconda intensissima giornata ci facciamo rapidamente una doccia e scendiamo in centro per mangiare qualcosa. Stavolta io mi oppongo a un bis di “Rio Bravo” sia per una questione economica ma anche per cambiare posto. Andiamo allora a dare un’occhiata a una palazzina di tre piani piuttosto fatiscente, dove al primo piano c’è una sorta di Burger King in stile faroese, con menù a base di hamburger e patatine, al secondo un cinema mentre al terzo qualcosa che dovrebbe essere un ristorante cinese a buffet con una notevolissima differenza di prezzo tra nativi e turisti. Dopo una rapida consultazione optiamo per hamburger e patatine. Consumato il pasto (ce la caviamo con una decina di euro a testa) chiediamo se potessimo tenerci i boccali della Föroya, ma, in seguito a una prevedibile risposta negativa ci consigliano di cercarli al supermercato. Facciamo due passi in centro; è sabato sera, e in qualunque zona abitata nel mondo, ci dovrebbe essere un po’ di movimento, ma non a Törshavn! Anche stasera le strade sono praticamente deserte; sono le 23.30 e riteniamo opportuno andare a letto; l’indomani ci aspetta l’ultimo giorno intero alle Isole Fær Øer.

Il terzo giorno inizia con sveglia intorno alle 8.00 e solita abbondante colazione; il tempo oggi è pessimo! Oltre alla pioggia incessante è calata una fittissima nebbia e non si vede neanche Nolsoy che nei primi due giorni si stagliava nel suo splendore di fronte la capitale. Mentre ero ancora in dormiveglia sotto il mio piumone sentivo il vento stridere e la pioggia cadere così battente che quasi quasi sarei rimasto a letto. Finita la colazione, molto indecisi sul da farsi viste le intemperie, decidiamo di andare a Kirkjubøur, a sud-ovest di Tórshavn, a visitare i resti di una cattedrale costruita intorno al 1200 pare da dei monaci irlandesi che raggiunsero le Fær Øer forse ancor prima dei vikinghi. Una volta a Kirkjubøur, dove per la verità saremmo voluti arrivare a piedi con un’escursione, il cui sentiero, partendo dalla capitale e risalendo per la montagna, sarebbe sceso per il versante opposto, ci avrebbe conducendoci nei pressi della cattedrale. La visita a quest’antica chiesa (un po’ deludente) dura pochi minuti dato che fallisce anche il tentativo di ripararci al suo interno dato che la cattedrale è completamente scoperta; proviamo allora a rifugiarci dentro un museo situato di fronte la chiesa, che raccoglie antichi attrezzi da lavoro agricolo, niente di trascendentale (si è capito perfettamente che alle Fær Øer non si va per visitare monumenti o musei). Terminata anche la breve visita al museo, non ci rimane altro che uscire nuovamente e l’unica attrazione del luogo resta l’osservazione di alcune anatre che galleggiano spensierate nell’oceano in tempesta. Tornando verso la “benedetta” macchina mi accorgo di un’anziana coppia di turisti, i quali erano giunti a Kirkjubøur con l’autobus e, dopo avere anch’essi terminato il breve giro di chiesa e museo, giravano un po’ a vuoto sotto la pioggia aspettando forse nuovamente il 101 che li riportasse in albergo. Allora, sapendo che qui i collegamenti e le corse degli autobus non fossero così frequenti, gli chiediamo se vogliono un passaggio a Tórshavn, dove, un po’ demoralizzati, abbiamo intenzione di tornare. Loro, dopo un iniziale momento di tentennamento e di smarrimento e lanciandosi un paio di occhiate interrogative (probabilmente non se lo aspettavano), accettano volentieri il passaggio; in macchina ci confessano che avrebbero dovuto aspettare circa 4 ore prima che l’autobus ripassasse da lì! Non riesco neanche a immaginare cosa avremmo potuto vedere, anzi non avremmo potuto, senza la macchina. Ci dicono di essere norvegesi, provenire da Bergen e la nave che li ha condotti alle Fær Øer, partendo dalla Norvegia aveva fatto scalo prima alle isole Shetland, a nord della Gran Bretagna e poi in un porto della Scozia, per poi ripartire alla volta di Tórshavn. Una sorta di crociera tra i mari del nord e l’Atlantico; li lasciamo al loro hotel e non la smettono più di ringraziarci, quasi commossi, offrendoci pure 100 corone (13 euro) per la gentilezza; ovviamente rifiutiamo (anche se un po’ a malincuore, perché 100 corone fanno sempre comodo) preferendo che si ricordino due ragazzi siciliani per la loro bontà d’animo e diffondano il verbo nei paesi del Nord Europa. Lasciati i norvegesi all’hotel, si ripropone il dilemma di cosa poter fare con la pioggia che insisteva ormai da parecchie ore senza sosta. Facciamo due passi per il paese come due disperati camminando sotto il diluvio passando prima dal porto dove non vediamo neanche la simpatica pescivendola (dunque la desolazione era ai massimi livelli), ma troviamo aperto il negozietto dei souvenir pur essendo domenica, quando trovi chiuso pure l’ufficio turistico, e ci catapultiamo dentro per far trascorrere un po’ di tempo. Ne approfitto per acquistare qualcosa per i familiari. Per la verità la gamma di articoli da regalo non è molto ampia; tra gli articoli più gettonati i puffins in tutte le grandezze e in svariati materiali, dai peluche alle riproduzioni di plastica fino a quelli imbalsamati. Uscendo dal negozietto continuiamo a gironzolare a vuoto e per caso ci imbattiamo in quello che probabilmente è il vecchio cimitero visto lo stato di abbandono cui versavano le lapidi che ormai le intemperie avevano logorato cancellando anche le scritte e le erbacce stavano poco a poco seppellendo. Usciamo dal cimitero e le uniche persone che incrociamo di tanto in tanto sono donne che passeggiano tranquillamente col passeggino assolutamente incuranti della pioggia torrenziale. Non sapendo più dove sbattere le corna, dopo aver fatto un altro paio di giri e ormai totalmente inzuppati nonostante le nostre “impermeabili” protezioni, torniamo a casa per rifocillarci con phone e sandwich. Dopo un’oretta decidiamo comunque di sfidare la sorte, prendiamo la macchina e passiamo dal benzinaio-market per una birra chiedendo alle ragazze dello Shell qualche consiglio sul tempo. Con assoluta fermezza ci assicurano che per oggi, almeno a Tórshavn, il tempo non sarebbe assolutamente mutato, ma forse cambiando isola avremmo potuto avere qualche speranza di miglioramento. Nonostante tale affermazione, che poteva dare adito a qualche speranza, rimango comunque molto perplesso, osservando la fitta coltre di nebbia avvolgere Streymoy. Proviamo allora a raggiungere Vágar vista l’assenza di ragionevoli altre alternative; ed è lungo la strada che si manifesta la potenza della natura delle Fær Øer sotto la forma delle spaventose cascate. Pervenuti a Vágar, il tempo sembra leggermente migliore; quantomeno la nebbia si è molto diradata e la pioggia ha diminuito sensibilmente la sua intensità e, man mano che ci inoltriamo nell’isola, le condizioni meteorologiche migliorano ancora fino a che giungiamo alla nostra destinazione, Gásadalur, all’estremo ovest, dove ci avevano detto risiedere molto probabilmente una colonia di questi dannati puffins.

A Gásadalur si arriva superando una galleria scavata solo di recente sotto una grossa montagna; la “leggenda” (ma dovrebbe trattarsi comunque di una cosa reale) vuole che per raggiungere questo villaggio (che, per la sua localizzazione, funge da avamposto) da Bøur, immediatamente precedente, il postino 2-3 volte la settimana doveva salire, aggirare la montagna e infine scendere dal versante opposto prima della realizzazione della galleria. Al villaggio di Gásadalur, cercando il sentiero, scorgiamo una donna con i suoi cani che scendeva da una vallata; l’aspettiamo per chiederle informazioni e, raggiuntaci poco dopo, la interroghiamo; con fare piuttosto scorbutico ci dice che il sentiero si trova al di là della montagna e ci raccomanda di non calpestare l’erba come sta scritto anche su un’insegna lì vicino (forse perché ne hanno poca e la vogliono preservare borbottiamo una volta allontanatici)… A stento riusciamo finalmente a trovare l’indicazione grazie a un cartello ma ancora più difficilmente scopriamo la traccia vera e propria del sentiero (non riuscendo tuttavia a capire se fosse veramente quello). In definitiva intraprendiamo quello che ha la parvenza di essere il nostro camminamento (e meno male che in una guida avevamo letto che la sentieristica fosse indicata molto bene) risalendo dolcemente la montagna, ma più ci avviciniamo allo strapiombo, più le fortissime raffiche di vento ci impediscono letteralmente di muovere ulteriori passi. I puffins saranno lì, a poche centinaia di metri, e ancora una volta siamo costretti ad arrenderci a rischio concreto della nostra incolumità. Non è proprio il caso di proseguire, il vento ci sposta da terra e, in vista dell’imminente strapiombo, saggiamente desistiamo. In un solo giorno abbiamo assistito alla potenza della natura delle Fær Øer rivelarsi con tutta la sua forza e sotto tutti i suoi aspetti. Anche senza escursione vera e propria comunque abbiamo visto altri magnifici paesaggi: dei grossi scogli proprio di fronte a noi interamente ricoperti di un verde scintillante che scivola fino al blu cristallino dell’oceano in un contrasto cromatico senza eguali. Un po’ delusi per la mancata escursione ma assolutamente appagati dalle meraviglie che continuavano a offrirci queste isole incontaminate, torniamo a Streymoy per fotografare le cascate, non prima però di fermarci all’ufficio di Marina in aeroporto per chiederle se fosse possibile consegnare la macchina il giorno successivo due ore dopo senza pagare un prezzo aggiuntivo. Soddisfatti per l’esito positivo della richiesta a Streymoy, stavolta svoltiamo percorrendo l’altra sponda del Kollafjørđur fino alla conclusione della strada dove, abbiamo capito, si trovano i posti più estremi e curiosi; una delle cose più insolite che vediamo a Kaldbak, oltre alla scuola è una casa con un giardino strapieno di statuette, bambole e bamboline di ogni sorta e di ogni colore disposte l’una accanto all’altra (compreso ad esempio un Big Jim) in un allegro mosaico.

Tornando a Tórshavn scattiamo al volo una foto a una cascata resa più pittoresca dalla presenza di alcune pecore disposte qua e là dando alla cartolina un’immagine quasi biblica.

Data la fame incombente, e dopo svariati tentativi da parte mia di evitare quel posto (provando ad esempio con un fast food al porto di pessimo aspetto) torniamo (ahimè mestamente) al “Rio Bravo”. Identico menù di carne, stessa atmosfera, stesso sfondo musicale (sempre Julio Iglesias) e, sospetto, perfino stesso cd. L’unica variante è un tavolino diverso e una breve conversazione con la ragazza che dirige il ristorante, la quale ci dice di essere danese e di essersi trasferita alle Fær Øer da diversi anni. Dopo la solita frase di rito di Davide “from an island to another island” le chiediamo se potesse consigliarci un posto assolutamente da visitare in Danimarca dove saremmo tornati il giorno successivo. Dopo qualche attimo di reticenza, tempo necessario per uno sforzo intenso di memoria, la sua risposta è stata “the little marmeid “, alias, la tanto odiata “sirenetta”, emblema di København e forse addirittura dell’intera Danimarca… Una piccola statua secondo noi sopravvalutata dove siamo appositamente andati esclusivamente per farmi immortalare mentre le faccio la linguaccia, facendomi sberleffo delle decine di turisti per lo più giapponesi che, in coda per la più classica e gettonata delle foto, osservavano l’insolita scena. Terminata la cena, dato che è l’ultima sera, ci sforziamo stavolta di trovare qualche locale con un po’ di vita per provare ad assaporare finalmente la “mondanità” della capitale. Entriamo quasi con circospezione, per timore magari di dare troppo nell’occhio e di disturbare l’estrema quiete che regnava al suo interno, al “Manhattan”, un locale sotto il ristorante, ma capiamo subito, dopo avere contato il numero delle persone con una sola mano, che il pub non si confà per niente al nome che porta, considerando per di più l’età media dei suoi avventori. Consapevoli che in ogni caso le alternative non abbondassero, cercando qualcos’altro ci imbattiamo nel “cafè nature”, e, almeno da dietro le vetrate, la situazione ci sembra sensibilmente migliore; se non altro l’età media si è abbassata notevolmente, di contro è aumentato invece il numero delle mani da utilizzare per la conta, senza che fosse comunque necessario farcene prestare delle altre. Una volta dentro ci accomodiamo subito in un tavolino; il pub è gradevole, niente di trascendentale, ma quantomeno ci sono esseri viventi con addosso dei vestiti di stoffa e non ricoperti di lana. Notiamo la presenza di qualche turista ma anche di autoctoni; è qui che scopriamo la “black sheep”, la variante scura della Föroya Bjór che, come precedentemente riportato, mi provoca un leggero stato di alterazione che si avvicina quasi all’euforia alcolica, tale in ogni caso da suscitarci un vero e proprio “delirio da Föroya”.

Appagati dalla serata, ce ne torniamo a casa per l’ultima notte. Per l’ultima mezza giornata la cosa più sensata da fare ci sembra quella di battere la zona di Vágar scegliendo un sentiero non lontano dall’aeroporto. Il nostro primo pensiero comunque, va senz’altro alle magliettine Föroya, riproponendoci di non lasciare Tórshavn prima di averle trovate; nei pressi del porto, di fronte l’ingresso proprio del “cafè nature”, ci accorgiamo di un furgone fermo con un noto logo di una birra locale impresso sul portellone laterale. Cogliamo al volo l’occasione per braccare il conducente e costringerlo a confessare dove poter trovare le magliettine. Con molta disponibilità ci indica un punto nella cartina all’estrema periferia di Tórshavn, dove ci catapultiamo immediatamente, constatando che si trattava del deposito all’ingrosso della bevanda, con tanto di bandiere inneggianti un ovino dalle corna ricurve. Bussiamo alla porta d’ingresso e da dentro ci fanno capire che il deposito è ancora chiuso e non avrebbe aperto prima di mezzora; cerchiamo comunque di insistere facendogli intendere di non volere comprare birra all’ingrosso, e finalmente ci aprono la porta. Dopo avere illustrato l’addetto sulle nostre richieste, questi, con l’aria, un po’ stupita, entra in una stanza da dove ne esce poco dopo con due magliettine nere in mano con un piccolo marchio dorato stampato in alto. Non molto soddisfatti dei capi di abbigliamento (ci aspettavamo una scritta più grossa) chiediamo comunque il prezzo, e non appena ci svela che ce le avrebbe regalate improvvisamente sono diventate le magliettine più belle che avremmo potuto trovare.

Col nostro “trofeo” in mano lasciamo il deposito e, saltellando di gioia, ci rimettiamo in macchina. Ripassando per l’ultima volta dal porto, notiamo un nugolo di turisti con gli zaini in spalla brulicare per le banchine, e alzando lo sguardo capiamo essere sbarcati dalla mitica “Norrona”. La Norrona, proprio lei, la nave che avremmo dovuto prendere originariamente nei nostri piani per raggiungere le Fær Øer; il grosso vascello della Smyril line inizia il suo cammino dal porto di Hanstholm, il più importante della Danimarca e, dopo una traversata di circa 30-35 ore, con degli scali intermedi credo in Scozia, raggiunge Tórshavn, da dove riparte tre giorni dopo (durante i quali si dirige in Norvegia per un altro carico), alla volta dell’Islanda.

Vista anche la Norrona (altro orgoglio nazionale giacché presente anche su alcune cartoline) , a malincuore salutiamo Tórshavn dirigendoci a Vágar, e più precisamente a Sørvágur , dove, dopo avere chiesto agli unici due tre passanti indicazioni sull’ubicazione del sentiero (visto sempre che son ben segnalati..), intraprendiamo la nostra ultima escursione costeggiando il Sørvágsvatn, il più grande lago delle Fær Øer, che è separato dall’oceano da una sottile lingua di terra, avendo dunque le sembianze più di un fiordo che di un lago. Il vento non ci dà tregua ma almeno non piove e si può camminare abbastanza agevolmente. Dopo qualche centinaio di metri si apre davanti a noi senza preavviso uno scenario impressionante: uno spettacolare precipizio di almeno 150 metri, da dove si gode anche la splendida vista di Koltur e Hestur, due piccoli isolotti situati proprio di fronte Vágar, anche questi, naturalmente, interamente ricoperti dal loro manto verde.

Non avrebbe potuto esserci epilogo migliore (puffins esclusi) per la nostra ultima camminata in questa meravigliosa terra da taluni descritta come “alba del mondo”, definizione di cui ho percepito il significato più profondo solo dopo averla visitata, dove si perde il senso stretto del tempo e dove le pecore continueranno per secoli indisturbate a spadroneggiare nei loro sterminati pascoli in perfetta armonia con il ben più sporadico uomo.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche