Dancalia e Tigrai

Luna, fuoco e terra del nord dell'Etiopia
Scritto da: balzax
dancalia e tigrai
Partenza il: 26/12/2011
Ritorno il: 06/01/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €

Tappa 1: Addis Abeba – Awash

Siamo in Etiopia, con volo Ethiopian da Malpensa, via Francoforte. Il nostro tour prevede l’attraversamento delle regioni Dancalia, Tigrai e Gheralta. Si parte in jeep il 27 dicembre mattina da Addis Abeba. Con noi ci sono la guida Kura e l’autista Tafarra che ci accompagneranno per tutto il viaggio. Il mio compagno di viaggio è Maurizio Moles di Lugano. Essendo solo in due, il viaggio ci è costato un po’ di più, ma ci troveremo benissimo.

Dopo avere attraversato alcune città e paesotti, il viaggio prosegue lungo la statale 4 che collega Addis Abeba con Gibuti. C’è un traffico caotico di camion e corriere (pullman sarebbe una parola grossa) che crea lunghe code e rallentamenti continui. Mano a mano che ci si allontana da Addis si entra nella savana e si toccano laghetti sulle cui rive oziano gruppi di pellicani e marabù. Lungo la strada si trovano parecchi villaggi. Osserviamo le abitudini locali: la prima usanza etiope che la guida Kura ci mostra è la preparazione dell’injera, una grossa piadina morbida usata come guanto per raccogliere altri cibi e portarli alla bocca. Lungo la strada si vendono mazzetti di chat (o qat in arabo), un arbusto le cui foglioline contengono alcaloidi amfetaminosimili che provocano torpore o eccitamento, secondo i casi. Gli uomini ne fanno un bolo e lo ruminano per ore passandolo da un lato all’altro dalla cavità orale, e alla fine i più si addormentano e così tirano sera. Appollaiati sui pali della luce gli immancabili marabù e alcuni avvoltoi scrutano il viavai di gente aspettando il momento buono per arraffare qualcosa. Sulla strada ogni tanto si incontrano branchi di babbuini che ci scrutano speranzosi di ricevere bucce di banana o biscotti.

Arriviamo al parco nazionale dell’Awash, dove riusciamo a vedere alcuni kudu maggiori, le piccole antilopi dik-dik e i bellissimi orici dalle lunghe corna, oltre a molte simpatiche scimmiette e qualche coccodrillo. A sera si arriva al Bilen Lodge, un gruppo di tukul immersi nella savana dove per qualche ora un generatore produce corrente elettrica. E’ fondamentale caricare qui le batterie della macchina fotografica, del rasoio e del telefonino (che userò solo come sveglia), perché poi per 6 giorni saremo senza elettricità. Una passeggiata nella savana attorno al Bilen Lodge mi permette di avvistare gruppi di facoceri e uccelli colorati, al prezzo di escoriazioni varie causa inseguimento facoceri nell’erba spinosa.

Tappa 2: Awash – Lago Afrera

E’ la tappa più lunga, circa 700 km. Il traffico però per fortuna è diminuito: ci sono pochi camion, avendo lasciato la direttrice che va verso il porto di Gibuti, oggi utilizzato dall’Etiopia che non ha sbocchi sul mare, assieme a quello di Berbera nel Somaliland. I rallentamenti sono dovuti più che altro agli attraversamenti di mandrie di zebù e branchi di capre. Comincia a vedersi qualche cammello (in effetti sono dromedari, visto che hanno una gobba sola). I paesaggi sono stupendi: la bellezza dei paesaggi sarà una costante lungo tutto il viaggio.

Alla sera arriviamo al lago salato Afrera (ex lago Giulietti ai tempi del fascismo) e incontriamo l’equipaggio della jeep di supporto: il cuoco Koru e l’autista Luigi (proprio così, si chiama come me!). Sulle rive del lago Afrera trascorriamo la prima delle 6 notti in campo.

Tappa 3: Afrera – Kurswad

Al mattino visitiamo le saline di Afrera. Il sistema di raccolta del sale è quello classico, per evaporazione spontanea e cristallizzazione del sale da una soluzione soprassatura di NaCl. Il sale viene spalato e messo in sacchi con i colori giallo-rosso-verde della bandiera etiope.

Da Afrera una comoda statale, asfaltata di recente e pochissimo trafficata, conduce all’avamposto di Semera, tra paesaggi maestosi di gole e canyon punteggiati di villaggi afar con le caratteristiche “burre”, capanne di legno, pelle di cammello e capra di forma circolare. La guida Kura ci fa visitare l’interno di una “burra”, ma cogliamo attimi di insofferenza nella famiglia afar che ci abita e quindi riduciamo la durata della visita al minimo indispensabile.

Gli Afar

Il territorio dancalo che stiamo attraversando è popolato dall’etnia Afar. Solo le tribù Afar sono capaci di abitare questo deserto l’arido e inospitale. Questa gente è famosa per la fierezza e le usanze sanguinarie: pare che fino a pochi anni fa tagliavano i genitali dei nemici uccisi e se li mettevano al collo come ornamento.

Oggi continuano la loro vita nomade dedicandosi all’allevamento di mandrie di asini, capre e cammelli.

La fierezza e l’orgoglio di essere Afar rimangono nei loro sguardi, e magari nei caratteristici coltelli che qualcuno di loro ancora porta alla cintola. C’è persino una sorta di triste eleganza nel loro modo di incedere e nella ricerca di salvaguardare la privacy: è difficilissimo fotografare una donna Afar, se non “rubando” lo scatto col teleobiettivo.

Sono magri come chiodi ma capaci di marciare per 40-50 km al giorno sotto il sole nel deserto, per spostarsi con gli asini e i cammelli in cerca di pascoli con un po’ d’erba. Le “burre” che vediamo non sono sempre abitate come case stanziali, più spesso rimangono lì a disposizione del primo occupante, fino a quando non si sposterà alla ricerca di altri pascoli in mezzo al deserto.

Gli Afar hanno una propria polizia regionale, il cui avamposto è a Semera. Qui chiediamo e otteniamo, dopo un paio d’ore, i permessi per entrare nella zona nord della Dancalia, che confina con l’Eritrea. Ad ogni jeep viene assegnato un soldato Afar armato di kalashnikov e una guida. Il nostro soldato si chiama Mahmadou, la guida Mohamed.

A Semera abbandoniamo la strada asfaltata e proseguiamo su una pista di terra e sabbia, tra “burre” e villaggi Afar, fino al villaggio di Kurswad dove c’è il campo per la salita al vulcano Erta Ale. Si dorme in tukul.

Tappa 4: Erta Ale

Al mattino sveglia alle 5 per la salita al vulcano Erta Ale. Non è alto, solo 613 mt. Dal campo di Kurswad sono 9-10 km. Ci avevano detto che ci sarebbero volute 4-5 ore di marcia. In realtà Mohamed e Kura, che pure indossano sandali, mica scarpe da trekking come noi, impostano un ritmo da maratona olimpica e alla fine arriveremo in vetta dopo solo 2 ore e 45 minuti, pur con 3 soste. Pensare che normalmente ho il fiatone dopo 2 piani di scale! Mohamed ci dice che lui la può fare tutta di corsa in 1h40’-1h50’. E’ un record che gli lasciamo volentieri.

Alcune foto allegate al diario mostrano l’avvicinamento alla caldera sul letto di lava solidificata e lo spettacolo impressionante del cratere aperto.

In cima c’è un villaggio con dei tukul e …un gruppo di giapponesi già seduti a fare colazione. Ma a che ora sono partiti dal campo?

Lo spettacolo offerto dal vulcano è maestoso e terrificante. Una caldera a cielo aperto, del diametro di circa 100 mt, contiene una massa ribollente di lava in continua fluttuazione. Schizzi di lava fusa e zaffate di anidride solforosa vengono sparati verso l’alto e seccano la gola, costringendoti a centellinare i tempi di permanenza sul bordo del cratere, pena l’asfissia. Non c’è uno straccio di protezione. Francamente mi meraviglio come nessuno sia mai caduto dentro la caldera.

Torneremo 3 volte nella giornata al vulcano: mattino, pomeriggio e sera. La giornata viene riempita con due brevi trekking, uno sul lato nord della caldera, dove scopriamo una fumarola secondaria, e uno sul lato sud, che offre splendidi paesaggi dei costoni di roccia che si protendono nella pianura alle spalle del vulcano, verso l’Eritrea.

A sera, torniamo al cratere per la visione by night. E’ impressionante: gli schizzi di magma sembrano arrivare fin quasi all’orlo; le spaccature nel magma ribollente creano fratture di fuoco in continuo movimento. Ogni tanto una piccola esplosione segnala l’apertura di una nuova bocca dal fondo del vulcano.

Lo spettacolo ipnotizza al punto che si finisce col dimenticare che stiamo respirando aria mista a vapori di zolfo. Ma a un certo punto la gola si ribella e urge allontanarsi in cerca di una boccata d’aria pulita.

Chissà perché, ma sul bordo del vulcano non ho pensato all’inferno, che a rigor di logica parrebbe il link più immediato. Ho pensato alla potenza della terra, del fuoco e di Dio.

Tappa 5: Erta Ale – Ahmed Ela

Discesa mattutina dal vulcano (circa 2 ore e mezza, contro le 4 previste). Superiamo con un ghigno di malcelata soddisfazione i giapponesi, che sono completamente coperti in modo da non lasciare neanche un centimetro quadrato di pelle esposta al sole.

Colazione nel campo base di Kurswad, quindi partenza verso Ahmed Ela. Sono solo 30 km, ma di puro deserto, e ci metteremo 6 ore. Altre jeep ce ne metteranno anche 9. Non c’è pista, non c’è traccia di passaggi precedenti, perché il vento cancella subito le tracce lasciate nella sabbia. Ci si insabbia spesso e per due volte bisogna togliere il filtro dell’aria completamente intasato dalla sabbia e ripulirlo. Ci vuole molto senso di orientamento, o meglio, secondo me, un GPS o almeno una bussola, ma non abbiamo né l’uno né l’altro e nonostante ciò le nostre guide ostentano tranquillità e sicurezza. Credo che un paio di volte ci siamo persi, ma loro hanno fatto finta di niente.

Non si sa come, alle 3 del pomeriggio arriviamo a Ahmed Ela (= il pozzo di Ahmed). Ci saranno 40 °C all’ombra. Non c’è una pianta, non c’è un angolo di verde, solo “burre” degli Afar e qualche capanna di legno con pareti di cartone, lamiera e ogni altro materiale coprente disponibile. Il caldo è insopportabile, ma a disposizione c’è solo l’acqua calda che beviamo da 3 giorni. Meglio un tè caldo preparato dal nostro cuoco, disseta di più. Ci buttiamo nella capanna che ci hanno assegnato, dove almeno c’è ombra, aspettando che tramonti il sole e che con l’oscurità la temperatura scenda di qualche grado. Intanto sulla strada a lato della capanna passano carovane di muli e cammelli carichi di sale, incuranti del caldo e del sole.

Hawah

Verso le 5 esco dalla capanna e mi siedo su una pietra ai bordi della strada. Guardo le carovane del sale che sfilano una dietro l’altra. Cerco di scattare delle foto alle donne Afar che mi passano davanti, ma si oppongono con fermezza, oppure sparano la richiesta di “hundred birr” (= 4-5 Euro) per farsi ritrarre. Francamente è troppo. Si avvicinano dei bambini, loro la foto la chiedono, ma il sole intanto è andato via. C’è una bambina, in particolare, che rimane lì ferma e mi fissa. Le faccio segno che la foto non verrebbe bene a causa dell’oscurità e con la mano indico un cerchio nell’aria, ….il sole. Lei capisce.

La mattina dopo sveglia alle 7 per andare a Dallol. Mi dicono che dalle 6 c’è una bambina in piedi fuori dalla mia capanna. E’ quella di ieri, e per la foto si è pure messa il vestito bello. Le chiedo il nome: si chiama Hawah, e mi dice che l’asino che ha ragliato tutta la notte è suo.

Hawah tonerà nel pomeriggio: la sua “burra” è proprio sull’altro lato della strada dove c’è la mia capanna. Così mi vede subito quando arrivo. Le medico una ferita ad un piede che mi fa segno che le fa male. Verrà ancora a trovarmi, parlandomi della scuola e del suo asino, più a gesti che in uno stentatissimo inglese.

Ma il giorno dopo scompare. Tento di avvicinarmi alla “burra”, ma immediatamente tirano giù lo straccio che copre l’ingresso e si rintanano tutti dentro. La famiglia di Hawah non ha gradito l’interesse della bambina verso lo straniero turista e non musulmano, quindi le hanno proibito di uscire di casa e di farsi vedere da me.

Per un attimo, ho pensato di mettere Hawah in valigia e di portarla con me, via da quel villaggio infuocato e infernale.

Tappa 6: Dallol

Semplicemente impressionante. Altro luogo che se uno non lo vede non ci crede che esiste. Dallol è una depressione (- 60 mt) che si trova a 20 km circa da Ahmed Ela. Ci si arriva dopo avere attraversato un deserto di sale. Il termometro segna 44 °C, ma l’incomparabile bellezza del luogo, la totale assenza di umidità nell’aria e una gradevole brezzolina rendono la visita sopportabile. La guida mi dice che in giugno-luglio a Dallol ci sono 58-60 °C.

Superiamo una collinetta di pietre e calcare, e davanti ai nostri occhi appaiono all’improvviso sorgenti calde, fumarole, camini di cristallo, geyser, terrazzamenti multicolori, fontane ribollenti, pinnacoli di sale, fontane di vapore.

E’ come se un pittore avesse deciso di dipingere di mille colori un paesaggio lunare.

Chissà se le foto riescono a rendere l’idea del luogo. Lo spettacolo è strabiliante. Pozze di acqua sulfurea di colore blu-verde, coni e guglie bianche gialle e rosse, geyser, pinnacoli di cristalli colorati, fantasmagorie di luci e ombre che vanno dal bianco al violetto…

Le concrezioni e i cristalli di Dallol sono costituiti in prevalenza da cloruri (NaCl, KCl, MgCl2), con contributo di solfati, solfiti e idrosolfiti, borati e allume. La sovrapposizione con zolfo e minerali ferrosi colora i cristalli in tutte le tinte dal bianco al viola. Le pozze blu-verde contengono soluzioni acide di solfati di rame e di cobalto.

Una simile miscellanea di minerali e cristalli diversi si trova solo qui, in questo luogo raggiungibile a prezzo di 3-4 giorni di dura traversata nel deserto dancalo. Oltre al sito principale, a Dallol ci sono altri 3 luoghi che meritano di essere visti: il canyon di sale (“Yechau Washa”), gli stagni di acqua nera (“Tikur wuha”) e le sorgenti calde (“Fohl wuha”).

In fondo alla depressione ci sono le montagne dell’acrocoro dancalo e dietro, a circa 13 km, c’è l’Eritrea.

Durante il periodo coloniale, questi depositi salini vennero sfruttati dalla Compagnia Mineraria dell’Africa Orientale (Comina) del Gruppo Montecatini, che estraeva cloruro di potassio, che poi veniva avviato al piccolo porto di Mersa Fatima sul Mar Rosso a mezzo di una ferrovia decauville. La produzione fu particolarmente intensa durante la Prima Guerra Mondiale, quando le Potenze della Triplice Alleanza non poterono più approvvigionarsi di potassa, che era prodotta nei giacimenti germanici di Stassfurt. Lo sfruttamento per questi scopi è ormai cessato da molti anni, anche se gli edifici della vecchia fabbrica italiana per l’estrazione del potassio sono ancora in piedi, così come qualche carcassa di vecchi veicoli militari che non abbiamo perso l’occasione di abbandonare lì in mezzo al deserto.

Torniamo ad Ahmed Ela con gli occhi pieni di colori ed immagini stupende. Riattraversiamo il deserto di sale.

A Ahmed Ela i nostri compagni ci dicono che presso la guarnigione dell’esercito etiopico di stanza in questi luoghi vendono birra. Penso a uno scherzo, ma invece è vero. Solo che è calda. Cosa c’è di peggio, dopo 4 giorni che bevi acqua calda? Una birra calda, ecco cosa è peggio!!

Ma per cena Koru prepara delle lasagne strepitose. Come faccia questo ragazzo a preparare pasti deliziosi solo con fornelli a gas e acqua delle taniche, è un mistero.

Mentre mangiamo, fanno la conta delle jeep pervenute e di quelle mancanti ancora disperse nel deserto. Ne manca una: nel buio parte una spedizione di guide locali alla ricerca dei dispersi. Li troveranno.

Tappa 7: il lago Assale e le carovane del sale

Anche stanotte l’asino di Hawah (che nel frattempo è scomparsa) ha ragliato duro e ci ha quasi impedito di dormire, così con occhiaie e palpebre pesanti partiamo verso il lago Assale.

Il lago è una crosta di sale spessa 6 km, da cui da anni nere figura armate di bastoni e zappe estraggono sale da vendere nei mercati di Adwa, Adigrat e Makallé.

Altro spettacolo da bolgia dantesca. I compiti dei lavoratori del sale sono storicamente ripartiti tra tigrini e afar. I tigrini spaccano la crosta del lago salato facendo leva con dei bastoni e poi con rozze scuri la tagliano in pezzature grossolane, che passano agli afar.

Gli Afar con asce ricurve più piccole puliscono e squadrano i blocchi di sale ricavandone dei parallelepipedi piatti di 3-4 kg di peso e li ammonticchiano per i cammellieri.

Lo sforzo di entrambi i gruppi di lavoro, tigrini e afar, soprattutto i tigrini che fanno il lavoro più duro, è enorme. Lavorano per 5-6 ore su una crosta di sale sotto un sole implacabile. Alle 11, massimo mezzogiorno, bisogna smettere perché fa troppo caldo, e pensare che siamo in inverno. D’estate lo sforzo non è sostenibile, solo i più resistenti riescono a fare qualche ora al giorno di lavoro anche col tremendo caldo che c’è da queste parti tra giugno e agosto: d’estate sul sale la temperatura si aggira sui 45-50 °C già un’ora dopo il sorgere del sole.

I cammellieri comprano i blocchi di sale e li caricano su cammelli e muli. Ogni cammello può portare circa 200 kg di carico, ogni mulo non più di 30-40 kg. Dato che ogni blocco di sale vale circa 2 Euro, il carico di un cammello vale sugli 80 Euro. Tanti soldi per questa gente.

A partire dal primo pomeriggio le carovane sono pronte e iniziano la lunga marcia verso Agula, nel Tigrai, dove i blocchi di sale verranno scaricati e venduti. Il percorso da Assale a Agula è di circa 150 km e comprende due passi di montagna. La marcia dura 3-4 giorni. Tenuto conto che altrettanti ce ne sono voluti per arrivare qui, è difficile che un cammelliere riesca a fare più di due viaggi al mese. Ma qui dicono che anche con uno solo già c’è guadagno sufficiente.

Lottare contro il progresso

A Ahmed Ela la società governativa del sale stava installando un sistema di pompaggio dell’acqua salata con scarico in salina di decantazione, tipo quella sul lago Afrera. Ma Afar e Tigrini si sono coalizzati e hanno bloccato il progetto che avrebbe tolto loro il lavoro.

Analogamente, i lavori di costruzione della strada che il governo di Addis Abeba ha progettato per unire Agula a Dallol sono quasi sempre fermi, perché le popolazioni locali ne frenano i lavoro con attentati, frane pilotate, danni ai bulldozer. Perché? Perché se la strada venisse realizzata, il trasporto del sale verrebbe fatto coi camion, e il valore del sale diminuirebbe drasticamente. Per tutti, estrattori di sale tigrini, tagliatori afar e cammellieri ciò significherebbe la fine del lavoro e dei guadagni.

Il baratto: una macchina fotografica per un cammello

Alla sera vado al punto di raduno dei carovanieri, una specie di area di parcheggio per cammelli e muli in attesa di andare al carico. Sono le 6 e il sole sta calando. Scatto un po’ di foto mentre assisto allo spettacolo dei cammellieri che preparano gli animali. Un ragazzo mi chiama. A cenni mi spiega che è rimasto stupito per il fatto che, pur non essendoci luce sto scattando senza flash, e che vorrebbe barattare la mia Canon EOS 500 con un cammello a mia scelta. Sorrido e decido di stare al gioco. Gli propongo un cammello più due muli. Dopo consultazione tra il gruppo degli Afar, la mia richiesta viene giudicata troppo esosa. Stiamo quasi per accordarci per 1 cammello + 1 mulo, ma non vorrei che la trattiva diventasse troppo impegnativa, così invento una scusa per andare via. Per inciso, se non ho fatto male i conti, il valore di un cammello dovrebbe essere circa 900 dollari.

Arrivo alla capanna e…sorpresa! Non so come, non so dove, hanno trovato della birra quasi fresca!

Tappa 8: Ahmed Ela – Asso Bole

Con in mente gli sforzi sovrumani della gente che spacca e taglia i blocchi di sale sotto un sole cocente, lasciamo Ahmed Ela e ci avviamo verso il massiccio montano di Asso Bole.

Arriviamo a tardo pomeriggio e ci accampiamo in un passo di montagna che è passaggio obbligato per le carovane del sale, sia quelle che vanno ad Ahmed Ela a caricare, sia quelle che da lì vengono e sono dirette ai mercati di Agula. Rimango a lungo a guardare, rapito da questo processo secolare e dai suoni e dai gesti ritmati degli uomini che guidano il loro branco di cammelli.

C’è un traffico incredibile di uomini, cammelli e muli che vanno e vengono.

Poi Kura e Mahmadou mi chiamano per un trekking nel canyon di Asso Bole. Bel percorso, nella gola scavata dal Bole River tra le montagne del Tigrai, mentre il sole tramonta e fa persino fresco.

La stazione di servizio per cammelli

Dopo circa 1 ora di trekking, che è sullo stesso percorso dei carovanieri, troviamo una… stazione di servizio. Si tratta in realtà di un passaggio obbligato nella gola, dove alcuni montanari Afar accumulano e tengono una scorta di fieno da vendere ai cammellieri per rifocillare gli animali. Il fieno è nei sacchi bianchi e rossi che si vedono nelle foto. L’acqua c’è, è quella del Bole River, che fortunatamente è bevibile e ci vivono pure dei pesciolini. Per i cammellieri sono in vendita delle focacce con sciroppo dolce.

Insomma, non offre certo le comodità di un autogrill ma il concetto è quello.

Tappa 9: Asso Bole – Hawsien

Continuiamo ad attraversare il massiccio montano di Asso Bole fino a raggiungere il villaggio di Behre Ale. Lungo il tragitto paesaggi stupendi come sempre, ma quello che colpisce quando arriviamo a Behre Ale è …un telefono pubblico!

Ebbene sì, qui ci sono i pali della luce. Siamo tornati nel mondo governato dalla corrente elettrica. Quindi funzionano anche i frigo, ma certo! Perciò possiamo farci una bella bottiglia di acqua fredda. Era ora, dopo 6 giorni di acqua calda. I pali della luce, dopo tanto tempo che non li vedevi più, ti danno una sensazione di sicurezza. Provare per credere!.

Da Behre Ale proseguiamo attraverso le montagne che segnano il confine tra Dancalia e Tigrai. La differenza si nota subito, soprattutto per la ricomparsa della vegetazione.

Entrando nel Tigrai incontriamo un mercato all’aperto. Siamo nel villaggio di Desiha. Decidiamo di fermarci e fare un giro. La gente ci accoglie con un calore inatteso. I mercanti ci offrono tessuti e oggetti di metallo. Le ragazze della scuola vogliono far vedere che sanno un po’ di inglese, e mi mostrano i quaderni con le traduzioni inglese-amarico. Compro una sciarpa bianca come quella che indossano gli uomini tigrini e me la metto sulle spalle, ma devo averlo fatto in modo maldestro perché tutti si mettono a ridere.

Proseguiamo verso Hawsien e alla sera arriviamo al Gheralta Lodge. Tempo 5 secondi e ci si butta sotto la doccia. Difficile descrivere cosa vuol dire potere fare una doccia dopo 6 giorni di deserto. Una libidine immensa J.

Tappa 10: le chiese del Gheralta

Le chiese del Gheralta, nel Tigrai, sono in sostanza delle cappelle ortodosse scavate nella roccia, Generalmente sono posizionate su speroni rocciosi raggiungibili con grande difficoltà. Più che le chiese in sé, quello che colpisce sono i paesaggi sensazionali che si godono lungo le scalate per raggiungerle e dopo che ci si è arrivati.

Fuori dalla chiesa Medhane Alem Kesho alcuni monaci bevono birra di sorgo in latte riciclate.

Vicino ch’è la chiesa di Mikhael Milhaizengi, che all’interno ha dei begli affreschi in vivaci colori. Il prete ci mostra anche una bibbia istoriata scritta in amarico.

Attraversiamo il paese di Hawsien.

Tappa 11: Mariam Korkor, Daniel Korkor, Hawsien e i paesaggi del Gheralta

Le chiese di Mariam Korkor e Daniel Korkor sono situate sulla sommità di una rocca a cui si arriva dopo 2 ore di scalata, con pendenze che toccano il 70% e alcune pareti praticamente a perpendicolo.

Devo dire che a un certo punto avevo alzato bandiera bianca, non ce la facevo più, ma due ragazzi tigrini mi hanno letteralmente tirato su a forza e così sono arrivato in cima. I paesaggi durante la salita sono strepitosi. Le chiese, come le precedenti, non dicono molto.

In cima la visione della piana di Gheralta è mozzafiato. In una delle foto si vede anche lo spuntone dove si trova la chiesa di Abuna Yemata, famosa per essere praticamente irraggiungibile. Per esattezza si trova sul secondo dente del pinnacolo che si vede al centro di una foto. Arrivarci è un’impresa per scalatori e per gente che non soffre di vertigini. Vista la faticaccia fatta per arrivare a Mariam Korkor, che pure è meno difficile da raggiungere, là decidiamo di non andarci.

Nel pomeriggio facciamo un giro per il mercato di Hawsien, che è un gran casino.

Tappa 12: Hawsien – Makallé

Il percorso da Hawsien a Makallé (circa 80 km) si compie su una buona strada asfaltata. Si attraversa la cittadina di Wukro, dove ci fermiamo a mangiare all’ottimo ristorante dello Lwam Hotel.

Makallé è la capitale del Tigrai. Facciamo un giro per la città osservando i negozi che espongono alberi di Natale, addobbi e luminarie. Il Natale copto infatti cade il 7 Gennaio. La gente è tutta indaffarata a comprare qualcosa per la cena di Natale: una gallina, una capra, dolci e verdure. La maggior parte di queste cose sono vendute da ambulanti di strada, come quello con le galline appese a un bastone che si vede nelle foto.

Tappa 13: Addis Abeba

L’ultimo giorno è dedicato alla visita della capitale. Addis Abeba (= nuovo fiore, in amarico) è una megalopoli di circa 5 milioni di abitanti, stima in crescita. Si trova a 2500 mt di altezza e si estende su un gran numero di rilievi e avvallamenti che creano una viabilità a saliscendi tipo quella di Roma. A Roma però c’è più caos.

Anche qui fervono i preparativi per il Natale, e fa un certo effetto vedere manichini in maniche corte con in testa la papalina di babbo Natale sotto le insegne Merry Christmas.

Visitiamo qualche chiesa e dei musei. Il migliore è il Museo Etnografico, l’unico che veramente valga la pena. Il vero pezzo forte di Addis Abeba è il Merkato. Proprio così, come in italiano. D’altronde, anche la piazza principale di Addis si chiama Piazza….

Il Merkato è un caos indescrivibile di gente che va e viene, compra e vende, tocca e sceglie la merce esposta. C’è tutto di tutto: tessuti, spezie, alimenti, stoviglie, calzature, indumenti, animali, medicine, fiori, sementi, canestri, pentole, persino…. cacca di cammello venduta come combustibile!

Colpisce soprattutto la zona dei riciclatori. Fanno sandali con la gomma dei pneumatici usati, fornelli da cucina compattando scatole di latta, oggetti di plastica con le bottigliette vuote. Anche nei mercati di Desiha e Hawsien avevamo notato questa abilità degli etiopi di riciclare gli scarti.

Ci avevano detto che il Merkato è il posto dove il turista è più vulnerabile e a rischio di furti: probabilmente sarà così, ma a noi non è successo nulla di nulla, anzi più volte i mercanti ci hanno chiesto scusa (“sory”) se una capra ci passava tra le gambe, o se da un carretto ci cadeva addosso qualcosa.

Dal Merkato ci rechiamo a bere un caffè alla famosa caffetteria Tomoca. Dentro l’aroma di caffè è fortissimo e inebriante. Il caffè in Etiopia è un rito. Pare che il nome “caffè” venga proprio dalla cittadina di Kaffa, che si trova nel sud-ovest dove le piantagioni sono molto diffuse. Il caffè di Tomoca è eccellente: dopo che l’avrete provato quello fatto con le cialdine vi farà schifo.

Riusciamo anche a fare un salto al “Club Juventus”, dove si ritrovano le famiglie degli italiani che vivono in Etiopia o che hanno sposato un’etiope.

Alla sera cena al ristorante tipico Habesha, con spettacolo di danze popolari. La cena è a buffet e solo dopo esserci serviti di bocconcini piccantissimi scopriamo che c’erano due zone distinte della tavolata: quella dei cibi speziati (da dove abbiamo attinto) e quella dei cibi non speziati. Ma il cibo complessivamente è buonissimo, accompagnato con injera a volontà.

Intanto musicanti e danzatrici si esibiscono sul palco. Le danze sono tipiche dell’etnia Oromo, che vive nel sud-ovest del paese. I movimenti sono estremamente sensuali, diciamo che il richiamo all’atto sessuale è davvero esplicito. Le ballerine indossano stupendi vestiti a colori vivaci. Hanno un fisico statuario, alcune sono di una bellezza sconvolgente.

Ebbene sì, di una con gli occhi neri profondi mi sono quasi… innamorato. Sono stato anche trascinato sul palco e coinvolto in una danza, ma le foto di questo evento non le mostrerò mai perché è stato uno dei momenti più bassi della mia vita.

Lasciamo il ristorante Habesha e torniamo all’albergo, dopo avere bevuto un caffè e fatto una chiacchierata con la signora Anna, un’italiana che è la direttrice di Medir Tour che ha organizzato il giro in Etiopia.

Commento finale

Organizzazione perfetta: davvero complimenti a tutto lo staff. Se l’aggettivo più idoneo che trovo per questo viaggio è “ECCEZIONALE”, lo si deve anche a loro, alle guide, alla perfetta preparazione dei veicoli, all’abilità degli autisti, alle scorte d’acqua e di cibo, alla pianificazione dettagliata ma flessibile. Tutto ciò attraversando deserti assolati con temperature altissime e regioni non raggiunte dalla linea elettrica. Non abbiamo mai avuto l’assillo del tempo, mai fretta, mai un ritardo o un disguido. Davvero complimenti a tutti loro.

Certo, la bellezza dei luoghi, dei momenti e degli avvenimenti è stata fondamentale, ma questi ci sono sempre. L’importante è saperli vivere nella maniera giusta e coglierli a tempo, cosa in cui gli organizzatori sono riusciti appieno.

Grazie al mio compagno di viaggio Maurizio Moles, che ha sopportato qualche mio eccesso di ricerca fotografica e i colpi di tosse quando ho preso il raffreddore. Grazie a Kura, Tafarra, Koru, Luigi e Mahmadou. Forse ci rivedremo.

Grazie anche a chi ha letto questo racconto

Luigi

Luigi.balzarini@tin.it

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Dallol - Tikur Wuha

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Mercato di Hawsien

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Wukro - la pensione Hailé Selassié

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Spettacolare paesaggio del Gheralta

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Paesaggio del Gheralta, con il picco dove sorge la chiesa di Abuna Yemata

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Addis Abeba - il Merkato

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Addis Abeba - il Merkato

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Makallé - un bambino vende galline per il Natale copto

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Addis Abeba - il Merkato

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Addis Abeba - il Merkato

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Addis Abeba - Eyoal, come si fa a non comprare almeno un cestino di paglia davanti a un...

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Hawah

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Partenza della carovana del sale

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Autore del diario a Dallol

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Lago salato Assale

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Ahmed Ela



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