Havana

CUBA PER ME: PREMESSA Gli occhi sorridono stellati e dentro senti un’energia diffusa che ti illumina dalla testa ai piedi. Questa è Cuba. Per me. Poi, una grandinata di immagini, di colori forti e improvvisi sopra i muri scrostati dei palazzi, ideali gridati sui cartelloni stile anni sessanta perché NADIE PODRA QUIETAR NOS LA ESPERANCIA, come...
Scritto da: Pepa C.
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CUBA PER ME: PREMESSA Gli occhi sorridono stellati e dentro senti un’energia diffusa che ti illumina dalla testa ai piedi. Questa è Cuba. Per me.

Poi, una grandinata di immagini, di colori forti e improvvisi sopra i muri scrostati dei palazzi, ideali gridati sui cartelloni stile anni sessanta perché NADIE PODRA QUIETAR NOS LA ESPERANCIA, come è scritto lungo la strada che porta a La Habana mentre poco più avanti su un muro celeste si staglia un turchese VENCEREMOS!.

Eppure siamo in dittatura.

Sarò la preda ideale degli entusiasmi più facili ma quelle parole urlate sui muri e inculcate nei loro cervelli mi stringono il petto, mi fanno battere il cuore, mi prendono e mi colpiscono per l’energia, la fermezza, la purezza di significato, la maniera così adolescenziale e entusiasta di gridare la propria storia a sè stessi e al resto del mondo. D’altra parte non avevano più di trent’anni loro, quelli che hanno fatto la rivoluzione nel ’60 sbaragliando la dittatura di Batista. D’altra parte l’arrivo di Fidel a Cuba a bordo del Granma era un’orda di gioventù, il Che aveva ventotto anni e Camilo Cienfuegos , per i cubani eroe quanto Guevara ma molto più vicino a loro perché uomo semplice e conterraneo, ne aveva solo ventisei.

Sarò la preda ideale degli entusiasmi più facili ma le note de “el Quarto de Tula”, “ Chen Chen “, “el Comandante” fanno da sfondo indelebile ai miei giorni passati laggiù.

Sarò la preda ideale degli entusiasmi più facili ma i sorrisi bianchi dei cubani, i loro occhi dalle improbabili sfumature verde salvia e giallo nocciola , frutto di “mezcle” genetiche impensabili fino a quando non ce le si trova di fronte, riaffiorano al mio sguardo e alla mia mente: mulatti con gli occhi neri o azzurri e i capelli castani, ragazze flessuose e bellissime, uomini di colore statuari, magliette colorate e slabbrate sulla pelle, questo è il popolo dell’Isla Grande che ho visto io; gentili e premurosi fino all’inverosimile, estroversi come solo i latinoamericani sanno essere, sorridenti e fieri di quello che sono, questo è il popolo dell’Isla Grande che ho ascoltato io. Colti e curiosi, di un’intelligenza guizzante e senza schemi, a volte più furbi di noi italiani che ci vantiamo di esserlo, questo è il popolo dell’Isla Grande che mi ha divertito. Nati con il ritmo nel corpo che si piega docile al suono delle note e la musica nelle orecchie, nelle mani che domano bonghi, maracas e chitarre e nei piedi che scandiscono il ritmo della rumba e della salsa, questo è il popolo dell’Isla Grande che mi ha commosso. Forti di una dignità struggente che a volte ti fa sentire un nulla di fronte alla loro vita semplice e essenziale fatta di sogni, convinzioni, ideali inculcati a forza di propaganda, istruzione ferrea e cultura diffusa a tappeto, accidenti che gente, quella dell’Isla Grande…..

Quello è il popolo che ho conosciuto io. E questa è la mia Cuba.

1 AGOSTO- L’ARRIVO A L’HAVANA A volte, in certe situazioni, non farsi notare è la strategia migliore. All’aeroporto Jose Martì di l’Habana, non dare nell’occhio e esternare serenità , reale o apparente che sia, è il modo più giusto per vivere quella mezz’ora che precede il clic che fa la porta del controllo di polizia prima di apririsi verso l’esterno. Quel CLIC è il tuo passaporto per l’Isla Grande. Di solito.

Perché di solito, i bravi e informati turisti si presentano al controllo muniti di tarjeta de turismo, il visto che serve per passare indenni oltre quella porta.

E noi, di quel visto, sapevamo eccome. Avevamo letto guide e articoli a profusione. Ma il sedicente uomo dell’agenzia che ci aveva venduto il volo, aveva giurato che li avremmo ricevuti dalla compagnia aerea una volta fatto scalo a Madrid. Fatto scalo a Madrid la sedicente compagnia aerea ci giura che li potremo comprare a l’Habana .

Quindi eccoci a l’Habana. Davanti al plotone di controllo. Senza visto. Siamo gli unici di tutto l’areo senza visto.

Mi aggiro come un’anima in pena per capire dove e come sia possibile entrare in possesso del pregiatissimo foglietto.

Mi viene indicato un uomo sotto un chiosco ottagonale. L’uomo a sua volta mi indica una donna in divisa militare. La quale mi indica un ‘altra donna più smilza in fondo alla sala. La quale mi riindica l’uomo sotto il chioschetto. Allora? Che si fa? Mi dite qualcosa per favore? Finalmente dopo un quarto d’ora di palleggio, l’uomo del chioschetto, mosso a pietà, va a prendere di peso la donna smilza, la quale mi sottopone a una raffica di domande in spagnolo: di dove siete? Con che volo siete arrivati? Perché tutti gli altri hanno la tarjeta de turismo e voi no? Se per rispondere alle prime due domande non trovo altra barriera se non quella della lingua, ribattere alla terza in effetti risulta più difficile. Ma io imparo in fretta e vado di plagio usando la strategia del palleggio : non racconto tutta la manfrina, replico semplicemente, con fare tra lo stupito e l’imbesuito: “mah, i signori della linea aerea ci hanno detto che il visto ce lo avreste dato voi…”.

Naturalmente in spagnolo non faccio uso del condizionale composto che vedete qua sopra, ma il senso è quello e la smilza sembra aver capito alla perfezione. Così, fatto un cenno all’omino del chiosco, ecco materializzarsi due bei visti per me e per Tommy.

E’ proprio allora che l’amico del chiosco ci attacca un bottone pazzesco: “aaaah, siete italiani? Aaaah ma lo sapete che qui ci sono grandi esempi di stile neoclassico? Lo sapete che il teatro di Cienfuegos è stato costruito prendendo a esempio la Scala di Milano?” Peeeeeerò, mi dico io, ne sa di cose il signore…E poi mi viene spontaneo pensare alla diversità di approccio che avrebbe potuto avere il suo corrispettivo in un aeroporto SEA in Italia…Ah, dimenticavo, il signore è laureato in architettura.

Eccoci, siamo in fila davanti al plotone di loculi con vetro dove la polizia cubana ti fa lo screening prima di aprire le porte del suo mondo.

Screening Pepa: positivo. Clic. La porta si apre. Sono libera. Sono a Cuba.

Screening Tommy: positivo: Clic. La porta si apre. E’ libero, è con me. Siamo a Cuba.

La strada che porta dall’aeroporto a la Habana mi catapulta subito in una realtà parallela, una realtà dai contorni definiti e precisi che non sono i soliti ai quali sono abituata: tutt’intorno, la vegetazione tipica dei paesi tropicali; sulla strada le macchine moderne si contano sulle dita delle mani: di fianco a noi, carretti trainati da cavalli, autobus con cinquant’anni di servizio sulle spalle, sidecar anni sessanta e LORO, le mitiche, le indistruttibili, le leggendarie macchine americane; qua e là, piuttosto frequenti, cartelloni pubblicitari…Anzi no, non è corretto definirli così, sono cartelloni di propaganda ideologica, qui a Cuba la pubblicità non esiste: ecco, sulla destra “ 43 ANOS DE VALOR, UNIDAD, CONFIANZA NE LA REVOLUCION”; poco più avanti sul muro di una fabbrica leggo “ EN CADA BARRIO, REVOLUCION!”; più in là un manifesto urla “VENCEREMOS!” mentre i volti del Che, di Castro e Cienfuegos sorridono; ed eccolo là: più avanti sul tetto del ministero dell’agricoltura lo storico “HASTA LA VICTORIA, SIEMPRE!”. Vederlo fa una certa impressione. Vederlo lì, nel paese dove è stato partorito lascia il segno. Non importa la tua fede politica, vedere quel grido epico e ribelle prendere forma fisica nella sua terra di nascita non può lasciare indifferenti. Passiamo da Plaza de la Revolucion, immensa, lì tutto è di proporzioni gigantesche, in primis il ritratto del Che che troneggia sulla sinistra. Non mi stancherei mai di elencare la miriade messaggi che tappezzano i lati della strada: “PARA NOSOTROS LA PATRIA ES LA AMERICA” è l’ultimo che riporterò.

Arrivati nel cuore de l’Havana Vieja il senso di salto spazio-temporale si fa ancora più forte: è una sensazione strana e stordente. I palazzi antichi e decadenti mi intristiscono e mi affascinano allo stesso tempo. Nel breve tratto di strada che mi separa dall’albergo ogni minimo particolare viene registrato dai miei occhi, non mi perdo nulla e mi sento trascinare dentro quelle case con i muri in rovina mentre di fianco a noi un gruppo di bambini gioca a palla con un cartoccio di carta. Sulla stessa bicicletta pedalano due bambine: una è bianca, l’altra è nera. Una donna parla sulla porta con una signora più anziana che ha in mano un melone. Un uomo tuffa la testa nel cofano della sua Buick verde, deve esserci qualcosa che non va al motore…….

Eccoci, siamo in albergo.

Sono sveglia da trenta ore ma non mi importa. Io a letto non ci vado. Voglio uscire. Voglio respirare da subito quest’aria. Non voglio perdere nemmeno un minuto.

Siamo di nuovo fuori, i soliti, subito a strafare: il nostro albergo è dietro il Paseo del Prado: è bello camminare lì in mezzo tra gli alberi…Le strade sono piuttosto buie, l’illuminazione è scarsa, molti lavorano al restauro e alla costruzione di palazzi durante la notte perché fa più fresco. A cena si va all’Hanoi, un buon indirizzo non c’è che dire: due sale con imposte azzurro cielo e un pergolato di foglie d’edera dove un gruppetto suona con tromba, maracas, bonghi e chitarra. Sono rapita. Rapita dalla musica e dall’atmosfera semplice del locale. Sono a Cuba, continuo a ripetermi.

Mangio arroz bianco, zuppa di fagioli neri , pollo asado e birra Cristal, la birra di Cuba: più o meno quello che mangerò per il resto della vacanza.

My Mojito in la Bodeguita, my Daiquiri in La Flordita, diceva Heminguay: non vedo perché contraddirlo quindi.

Siamo alla Bodeguita, nella destra un mojito nella sinistra una Hollywood, le sigarette numero uno sull’Isla Grande. Non è curioso? Dico, non è curioso che proprio a Cuba le sigarette locali più fumate si chiamino Hollywood? Nel locale non c’è moltissima gente per fortuna: lo spazio bar è microscopico, ci appollaiamo sugli sgabelli mentre le pupille roteano tra le scritte e le targhe che ricoprono i muri . Anche qui un gruppo sta suonando, anche qui gli allunghiamo un dollaro: mi sembra giusto, dopotutto a Milano nei locali in cui suonano, le consumazioni sono maggiorate del 50%. Un dollaro non mi farà diventare più povera. Loro però diventeranno più ricchi.

I camerieri sono allegri e ridanciani: fanno mojito a raffica, si scambiano parole e ridono di continuo, fanno battute tra loro a ripetizione. L’ironia è di casa, qui alla Bodeguita. Bene, mi piace.

Dalla Bodeguita al Floridita il passo è breve: Qui dentro sembra di essere capitati per sbaglio, vittime inconsapevoli di uno scherzo spaziotemporale. Il Floridita è rimasto perfettamente “ibernato” negli anni trenta: in ogni angolo del locale l’eleganza e il rosso sono sovrani; rossi sono il bancone, le sedie , i tavoli e la moquette nella sala da pranzo.

“La cuna del Daiquiri”, “the cradle of Daiquiri” è scritto sulla “barra” sorretta da colonne d’ebano a tortiglioni. -Vediamo se è davvero così- mi sussurra Tommy : ordina due daiquiri al barman in divisa bianca e rossa che si muove con eleganza e stile dietro il bancone come fosse casa sua. In effetti quel luogo è un po’ casa sua. Frulla il ghiaccio impregnato di lime e rum il barman, poi lo versa nella coppa a piramide rovesciata : il rum è l’immancabile Havana Club che domina a Cuba come la Ferrarelle a Roma. Poi con una grazia indicibile maneggia una pinza con la quale prende due cannucce e le adagia in ogni bicchiere. Due cannucce piccole e sottili. Altro che mani: qui per prendere le cannucce usano le pinze. Tommy resta affascinato da questo gesto che sa di rituale romantico e antico.

“Quando torniamo a Milano compriamo una pinza anche noi” mi dice.

Eccoci serviti, due daiquiri perfetti e un piatto di platanos secchi come stuzzichino. Siamo seduti al bancone del Floridita dunque, nel cuore dell’Habana Vieja , cullati da un daiquiri che scende fresco in gola mentre il complesso del locale intona “el quarto de Tula”.

Mi aspetto di uscire e trovarmi negli anni trenta. Si, come se da un momento all’altro si dovesse attivare una sorta di effetto “Frittole” direttamente dal set di “Non ci resta che piangere”: mi immagino di uscire dal Floridita e trovarmi nel cuore dell’Havana degli antichi fasti…..Non è difficile pensarlo stando là dentro e sorseggiando un Daiquiri. Ma l’Havana non è solo il Floridita. E il Floridita non è l’unica faccia dell’Havana.

2 AGOSTO – NEL CUORE DELLA HABANA VIEJA Mi sveglio e guardo fuori dalla finestra: un cielo azzurro smagliante circonda la sagoma del Capitolio dove alla sua sinistra l’Hotel Telegrafo , bordato di azzurro, si distingue.

Tutt’intorno vecchie case coloniali, scrostate o diroccate: il panorama è struggente.

Colazione abbondante quella mattina e poi via a pianificare la vacanza: prenotiamo per gli ultimi giorni di mare a Cayo Largo e ci informiamo sul noleggio di una macchina: l’idea sarebbe quella di fermarsi qui all’Havana quattro giorni e poi partire per un giro dell’isola. Ma le idee, si sa , non sempre coincidono con la realtà dei fatti. Al momento macchine disponibili non ce ne sono: bisogna ritornare il cinque agosto mattina, incrociare le dita e pregare tutta la santeria cubana. Bene, io comincio a incrociarle subito e con Tommy esco dall’agenzia.

Il nostro albergo è vicino al museo de la Revolucion ,stiamo camminando a passo di bradipo con le guide alla mano: in questo momento in fronte e non solo in fronte abbiamo scritto “TURISTI”.

Ci ferma un cubano di colore, si offre come guida per la Habana e ci dice che potrà venderci sigari a prezzi da magheggio: Tommy lo ringrazia, gli dice di no, gli risponde che siamo qui da una settimana e che è la terza volta che veniamo a l’Havana quindi possiamo cavarcerla. Io guardo il mio moroso divertita dalla sua faccia tosta mentre il Cubano ci chiede da dove veniamo. La sua risposta è tutta da ridere: “AAAAAAAAAAH, Italiani, Berlusconi , el Fregadero!” Peeeeeerò, le voci corrono, la fama pure…

Prima di partire alla scoperta dell’Havana Vecchia passo da una scuola elementare dell’Havana Centro dove lasciamo uno zaino pieno di quaderni, penne e matite. Lo diamo alla direttrice della scuola che è una donna semplice e simpatica: dimostra grande riconoscenza. Vicino alla porta una bambina sulle ginocchia della mamma è ipnotizzata da una televisione anni sessanta: le luci che filtrano dal’ingresso sfiorano i loro volti come in un quadro.

Un “quarto” più avanti scopriamo il Monastero di Santa Clara: luogo pacifico pieno di chiostri e piante lussureggianti, qui oggi restaurano opere d’arte. Il convento è stato restaurato con l’aiuto di Smemoranda e una parte del palazzo è stata trasformata in albergo. Bello mi piace, vediamo di sfuggita un paio di stanze e prenotiamo per l’ultima notte a Cuba, quella che dovremo passare a l’Havana prima di riprendere il volo per l’Italia.

Adesso sono pronta, voglio scoprire l’Havana Vecchia, quella che ieri notte non ho visto perché troppo buia, quella che ieri notte non ho colto perché troppo presa da Mojito e Daiquiri.

Quindi via sotto il sole accecante di una mattinata habanera, via per le Calles e le Avenide, via alla scoperta di palazzi, piazze, scorci poetici e quadri di vita cubana: passeggiamo per via Sol e sbuchiamo in Plaza Vieja, qui i restauri sono andati avanti parecchio, non c’è che dire…Entriamo alla casa del Conte Jarugo dove è in corso una mostra di arte contemporanea . E lì che vediamo esposto un costume incredibile, tutto rosso, fatto di tante mantelle con cappucci l’una unita all’altra: di fianco una decina di foto che mostrano il costume indossato da un gruppo di ragazzi in varie parti del mondo: Parigi, Berlino, Città del Messico…L’immenso e tentacolare costume vermiglio ha fatto il giro del mondo indossato da otto, 10 persone per volta: che grande immagine, che bella sensazione mi lascia tutto questo. Vicino alla casa del Conte Jarugo c’è una galleria fotografica di artisti contemporanei: oggetti costruiti con diapositive in bianco e nero incollate a guisa di occhiali giganteschi, diapo di chiappe attaccate una all’altra per costruire una sedia, diapo di piedi incollate a formare una scala…Ma, un momento, cos’è questa musica, questo frastuono là fuori? Ci affacciamo al balcone che dà sulla piazza : un gruppo di saltimbanchi sui trampoli, vestiti con costumi bizzarri e colorati avanza roteando ombrelli a spicchi rossi gialli e verdi. Portano strani cilindri sulla testa, sembrano un misto tra il cappellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglie e i pagliacci del circo…Corro a rotta di collo giù per la strada, Tommy dietro di me , usciamo all’aria aperta e io mi mescolo a loro e alla gente…Sarà turistico tutto questo, ma è un esplosione di gioia e di colori, non so resistere: un bambino a fianco a me balla con un senso della musica e del ritmo innati.

Entriamo in un bar primo novecento in Calle Mercedes, sullo sfondo una banda cubana vestita in bianco e bordeaux sta provando le musiche per la serata: …Loro mi vedono lì, tra lo spaesato e il trasognato e mi fanno cenno di avvicinarmi, sorridono con le loro guajabere bianche addosso e i loro pantaloni color prugna: sono bellissimi. Mi mostrano gli spartiti, mi fanno sedere in mezzo a loro , sto così bene… Un po’ più avanti c’è Plaza San Francesco: La chiesa è imponente nella sua semplicità scarna e antica… Aiuto, che caldo asfissiante, ho bisogno di riprendermi con qualcosa di fresco: ci riposiamo al caffè Mercurio; anche qui un gruppo canta e suona con innata eleganza, eleganza nei movimenti, nel modo di parlare, nei gesti, nella postura: una donna corpulenta con uno strano cappello fiorito in testa passa di lì e si mette a ballare all’improvviso; tutti ridiamo, lei inclusa. Ordino un batido de Mango: niente di più buono poteva esistere in quel momento. Fresco, godurioso, dissetante. Poi è un susseguirsi di calli, piazze, palazzi dai colori urlati e vitali: facciate verdi,azzurre, rosa, gialle si snodano fino a plaza de Las Armas con il suo mercato permanente dei libri, il Palacio de Los Capitanes e la Cattedrale. Passiamo per Calle Emma la via più corta e stretta di tutta la città e…Cosa vorrà costui? Un uomo si sta avvicinando, sul volto due baffi neri e un sorriso: “ola, lo sapete che questa è la via più corta e stretta dell’Havana? E’ bella, non trovate?” ci dice premuroso, poi saluta con un cenno e si allontana.

Siamo allibiti. Nessun secondo fine, dunque, nessuna richiesta improbabile o proposte di acquisti surreali a prezzi misteriosamente convenienti: solo la voglia di far conoscere un particolare della propria città.

Proseguendo per calle Sant’Ignacio, arriviamo al centro de arte contemporanea “Wilfredo Lam”, pittore cubano illustrissimo che io non riesco a farmi piacere: i suoi quadri pieni di punte, angoli e figure mostruose, mi mettono addosso una certa ansia, mi fanno pensare ad un Bosh moderno con influenze picassiane…Mmmmmmmm, qui ci vuole un mojito, uno di quelli buoni della Bodeguita…Detto, fatto: sorseggio un mojito ghiacciato mentre i mariachi alla Bodeguita suonano “vamos a gozar”. Fuori un sole cocente scalda i muri e le strade dell’Havana.

La sera prendiamo un granchio: non nel senso “crostaceo” del termine, ma nel senso di fregatura: andiamo a cena in un paladar, le famose case cubane adibite a pseudo ristoranti, ma il Bellamar non è degno di nota, caro , vuoto (…Ci sarà un motivo…), con una qualità che non giustifica il prezzo preteso. Il lato buono della faccenda è che lì i muri sono costellati di scritte e nomi come alla Bodeguita, ragion per cui anch’io lascio un segno del mio passaggio: anzi, esagero e scrivo anche Pepa, Turisti Per Caso.

Siamo gli unici avventori: la famiglia, indifferente, è tutta presa dalla tv, scatola magica e ammaliatrice che li seduce col tubo catodico.

3 AGOSTO – CIUDAD Y REVOLUCION Il museo della Revolucion è, come il nome stesso promette, un inno alla presa politica di Castro e del team del Granma: i turisti sono pochissimi e, evidentemente, piuttosto motivati; foto e cimeli degli eroi, strategie di battaglia, cronistoria degli eventi , ipse dixit di Fidel formato Zaratustra: tutto conservato ed esposto con amorevole cura, rispetto e dedizione.

Cerco di non dimenticarmi che siamo in dittatura; cerco di non dimenticarmi che questo governo non è certo l’orrore corrotto di Batista ma non è nemmeno il migliore dei governi possibili. Eppure non riesco a nascondere l’emozione, a non stupirmi davanti alle imprese del Che e di Cienfuegos, ai loro volti sorridenti e ispirati, alle foto impressionanti della folla osannante e inneggiante a Fidel liberatore. Passo là dentro due ore buone. Poi vado verso l’uscita e lì una poesia di Nicholas Guillen mi incanta: CHE COMANDANTE “Estas en todas partes. En el indio echo de sueno y cobre Y en el negro revuelto en espumosa muchedubre.

Y en el ser petrolero y solitiero Y en el terrible desamparo de la banana, y en la gran pampa de las pieles, y en el azucar y en el sal y en los cafetos, tu, movil estatua de tu sangre como te derribaron vivo, como no te querian, Che comandante, amigo”.

Esco dal museo tra il frastornato e l’inebriato. Cerchiamo un Cocotaxi che ci porti nella zona dell’Havana Centro ma, degli ovoidali trappolini gialli a tre ruote, nemmeno l’ombra. Un risciò si ferma davanti a noi: ci chiede tre dollari per un giro di un’ora. Gli chiediamo se conosce il centro afrocubano e Miguel, questo il nome dell’uomo, fa cenno di montare a bordo.

Miguel è un ragazzo di colore, magro e sdentatissimo che fa una fatica incredibile a pedalare con noi due sul groppone. Mi fa molta pena Miguel, vorrei scendere e aiutarlo a spingere ma qui fare uso di questi mezzi di trasporto è normale sia per i turisti che per i cubani, quindi me ne faccio una ragione. Miguel è contento del suo lavoro: suo padre è poliziotto ma “ su trabajo no me gusta”, ci dice arrancando.

Passiamo dal Capitolio, copia gemella di quello americano, poi costeggiamo la fabbrica degli Habanos. Non finirò mai di stupirmi per quelle benedette macchine americane, mi domando quante saranno: Pontiac, Buick, Plymouth, Chevrolet, Cadillac…Tutte colorate, molte ammaccate, alcune cromate e perfette, comunque continue. Se non fosse per le sporadiche Atos e Peugeot prese in affitto dai turisti, sembrerebbe di stare negli anni cinquanta.

Miguel intanto continua a parlare sdentatamente: purtroppo non si capisce quasi nulla di quello che dice ma ci sembra brutto farglielo notare visto che non potrebbe rimediare in alcun modo. Arriviamo al Barrio Chino e poi giù per le calli de l’Habana più povera e autentica. Ha buoni gusti Miguel: ferma tutte le habanere carine schioccando baci nell’aria e sussurrando loro parole incomprensibili. Le ragazze lo guardano tra il divertito e l’impietosito e tirano avanti, mentre i nostri occhi sono distratti da scorci di vita cubana: un uomo ripara la sua Ford sventrata, due ragazze parlano affacciate ad un balcone sorretto da colonne , una bambina piange seduta sui gradini di una casa dal muro rosa.

Arriviamo al centro afrocubano, luogo multicolore, multietnico e surreale: murales immensi , strani “atelier” pieni zeppi di opere contemporanee.Ogni muro è un coro urlato di colori e disegni che si accalcano gli uni sugli altri; due ragazzi arrampicati sopra un ripostiglio di lamiere stanno riparando i fili della luce: sembrano parte del disegno, con le loro schiene di cioccolata che contrastano sul muro rosa shocking. Conosciamo uno degli artisti che lavora qui: pare ci sia una festa afrocubana domenica, siamo invitati.

Usciamo dal centro e risaliamo sul nostro risciò. Ma la “Policia” è in agguato: Buongiorno! – ci dice un poliziotto sbucato dal nulla. Nonostante il saluto l’uomo della legge ci ignora. La sua attenzione è tutta per Miguel, vuole i suoi documenti e quelli del mezzo. E Miguel non è in regola. Il suo è un risciò per cubani, non è abilitato a portare turisti. Miguel dà prova di essere un attore consumato e inscena una pantomima degna del più professionale teatro delle marionette. Il poliziotto lo guarda di sbieco ma si rivela più magnanimo del previsto: “ per questa volta passi, ma se ti becco ancora …” gli dice e ci lascia proseguire tranquillamente. Miguel si gira verso di noi simulando stupore come per dire “chissà perche mai mi avrà fermato, quel burlone…” Noi non ci facciamo caso, abbiamo capito il personaggio e lo prendiamo così come viene. Dopo aver salutato Miguel beviamo una birra al Bosquecito: aaaaaaah, che frescura una Cristal ghiacciata con questo sole…Ne avevo proprio bisogno. Alle cinque e mezza del pomeriggio l’Havana è bagnata da una pioggia torrenziale. Questo avviene ogni giorno in questa stagione. Ma l’acquazzone è di breve durata, dopo mezz’ora è già finito.

Anche oggi è sera da Paladar. Tocca a Donna Blanquita. Saliamo le scale del numero 158 di Paseo del Prado ed entriamo in una casa vera e propria. L’ambiente è casalingo-surreale: in un palazzo antico con soffitti alti e muri rosa e gialli decorati in stile primo novecento, Donna Blanquita si muove leggiadra con la sua cofana argentina, deambulando tra vasi pseudo-cinesi, piante di plastica e divani di velluto rosso.

Fuori, una terrazza con arcate dove spero di poter cenare con lo sguardo che pontifica sul Paseo.

Donna Blanquita ci fa accomodare su uno dei due divani rossi.

Io mi guardo intorno: di fronte a me una pianta farlocca di rose rosse; sopra, sul muro, la testa di un Cristo sofferente che sporge: di fronte, sul muro opposto , troneggia il capo di un guerriero Apache che sembra quasi dialogare con il Cristo. Al mio fianco un tavolino dove il kitch regna sovrano e indisturbato: statuette di fidanzatini e pagliaccetti in ceramica, un samurai, un buddha con un sigaro in bocca (se lo vedesse un monaco thai del Wat Po di Bangkok verrebbe colto da attacco cardiaco), un cesto rosa con una colomba bianca di porcellana.

Alla mia destra una porta stile saloon , incorniciata da una tenda con stelle di natale stampate , si apre sulla cucina. Alla sua sinistra una pianta di stelle di natale, rigorosamente finta, richiama il motivo delle tende.

Sulle pareti, un trionfo di aplique e specchi dorati. Nella sala da pranzo, staziona una vetrinetta sormontata da quattro vasi incredibilmente pacchiani. Più in là una credenza di legno chiaro anni ’60 con ogni ben di dio: casette di ceramica, l’immancabile colomba e un paio di santini.

Seduta sulla poltrona rossa di fianco a noi, una bella donna sui quarantacinque anni aspetta di cenare con la figlia obesa annoiata e visibilmente poco entusiasta del contesto. La signora, che trasuda stile e intellettualismo, è piacevolmente affascinata dal luogo in cui si trova. La figlia, che avrà si e no dodici anni, non subisce affatto il fascino di un luogo che un bambino della sua età non può capire e, come dice Tommy, starà sicuramente pensando alla Barbie Acapulco o a Britney Spears.

L’attesa viene ricompensata finalmente: Donna Blanquita ci fa accomodare sulla terrazza. Alla mia sinistra il Paseo del Prado, alla mia destra il salone della casa, alle mie spalle una terrazza dove si festeggia a ritmo di salsa, davanti a me un “pollo Pio Pio” da far resuscitare anche le dodicenni più apatiche.

La serata finisce alla Bodeguita: poca gente quella sera ma l’atmosfera è grandiosa, ormai con i baristi siamo intimi; è la terza volta che ci vedono lì ma sembra di stare tra vecchi amici. Quest’anno non ci sono tanti turisti , ci raccontano. Mi viene spontaneo chiedere loro quanti mojito fanno di media in un giorno: tra i 250 e i 300 , mi dicono e continuano a scherzare sui passati fasti: “una volta si che c’era tanta gente a Cuba, noi qui eravamo tutti famosi, mica lavoravamo alla Bodeguita sapete?. Lui per esempio (e indicano uno dei camerieri) stava con Donatella Versace, aveva tutte le collezioni degli anni passati nell’armadio!” Io scoppio a ridere e loro si divertono come bambini.

“Eh si – prosegue il falso fidanzato di Donatella mimando il tutto – conoscevo anche suo fratello poi si, sa, le cose cambiano e adesso mi tocca fare il cameriere alla Bodeguita”.

Tommy rischia di cadere rovinosamente dallo sgabello, io mando di traverso il mojito, il cassiere è semi sdraiato sulla cassa scosso da convulsioni mentre il capo barman e il finto fidanzato di Donatella fanno teatrino.

Roba da matti… 4 AGOSTO- FIESTE HABANERE Ultimo giorno a l’Havana per noi. Lo passiamo tra una festa e l’altra, all’insegna delle cosiddette “pegne”.

Ecco come le abbiamo trovate. O meglio, come loro hanno trovato noi.

La prima è il risultato della visita di ieri al centro afro cubano. La seconda, è presto detto: verso le dieci di mattina del 2 agosto, telefoniamo al paladar Amor per la cena. Buenos dias, volevo prenotare un tavolo per stasera, è possibile?- Dico io.

No senor, stiamo ristrutturando il locale. Ma domenica dalle tre alle sette del pomeriggio diamo una pegna, una festa, perché non venite a trovarci? LA “ PEGNA “ AFROCUBANA Ore 12. Sole impietoso su nel cielo.

Siamo davanti al centro afrocubano, sento rumore di bonghi e maracas … Ecco, ci siamo: davanti a me una folla fitta e varia si chiude attorno allo spiazzo centrale : lì in mezzo stanno suonando mentre un uomo meticcio e una donna di colore con un turbante bianco in testa ballano una rumba scatenata sotto il sole. Sto grondando come un ghiacciolo sciolto. Ma non importa, la mia vena “reporter” vince sull’afa bollente: mi faccio largo tra la folla con la mia macchina fotografica; intorno a me gente di tutte le razze, qualche turista , curioso e affascinato, intorno colori colori colori, non finirò mai di dire quanto Cuba sia stata per me un’esaltazione del colore.

Tommy va in esplorazione, non lo vedo più. Io mi ancoro davanti ai ballerini: e chi si muove da qui? Corpi che si inarcano ai suoni della rumba, hanno un fazzoletto in mano che viene agitato seguendo i passi della danza mentre le gambe e i bacini si sfiorano e tradiscono scatti improvvisi…Deve essere una danza a sfondo sessuale, la rumba…

“ Mucho calor eh?” mi giro: due ragazzini sui diciassette anni mi sorridono. Uno Miguel, è chiaramente di origine europea, potrebbe sembrare un francese; l’altro, Raoul, è un ragazzino di colore, ha un volto e un sorriso di una bellezza unica e memorabile. Parliamo spagnolo tra noi (io mi aiuto un po’ a gesti), loro vivono a l’Habana, studiano insieme. Mi chiedono se sto in un villaggio turistico così gli racconto il mio progetto di viaggio qui a Cuba. Il mio spagnolo stentato a un certo punto si arena irrimediabilmente: passiamo all’inglese per necessità. Miguel attacca a parlare un inglese perfetto, sciolto e ricco; Raoul non è da meno, mi chiede se andrò a Varadero, gli dico che non è proprio nei miei piani e lui sorride: “Cuba non è là”, mi dice. Poi si interroga sul perche io stia scattando tutte queste foto, sono forse una fotografa? “ma no, gli rispondo, è che per me qui è tutto così nuovo, così particolare, come potrei non portare con me un pezzo di tutto questo !”. Devo salutarli però, ormai sono quasi le due, l’altra festa al quartiere del Vedado ci aspetta. Complimenti Raoul e Miguel, parlate un ottimo inglese e siete due belle persone.

Complimenti a tutti voi signori dell’Isla Grande, quello che ho visto qui nel vostro paese è una gran cosa , è come dovrebbe essere sempre: qui essere bianco o nero è solo una questione di pigmento. A Cuba ho visto decine di scene come questa. A Cuba ho visto bambini bianchi e neri inseguirsi per le calli e correre a rotta di collo insieme in bicicletta , ho visto donne bianche e nere a braccetto sul Paseo del Prado, ho visto innamorati scambiarsi baci in riva al mare, ho conosciuto Miguel e Raoul, compagni di classe e amici di gioco.

Poi penso a tutti i paesi fotografati dai miei occhi e immortalati dalla mia memoria: in nessun altro luogo, in nessun altra fetta di mondo da me conosciuta, l’integrazione razziale è così forte e totale come qui.

INTERMEZZO AL VEDADO, TRA UNA FESTA E L’ALTRA Il Vedado. Solo adess



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