NUQUÍ la perla del Pacifico

Nuquí si trova sulla costa pacifica colombiana, nel Golfo di Tribugá, dipartimento del Chocó. Fa parte del cosiddetto Chocó biogeografico, un corridoio che si estende dal centramerica all’Equador, una delle regioni con più lata biodiversità del mondo. Infatti, piove 300 giorni all’anno, per un totale di 8 metri di pioggia! Queste...
Scritto da: davovad
nuquÍ la perla del pacifico
Partenza il: 30/03/2007
Ritorno il: 05/04/2007
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 500 €
Nuquí si trova sulla costa pacifica colombiana, nel Golfo di Tribugá, dipartimento del Chocó.

Fa parte del cosiddetto Chocó biogeografico, un corridoio che si estende dal centramerica all’Equador, una delle regioni con più lata biodiversità del mondo. Infatti, piove 300 giorni all’anno, per un totale di 8 metri di pioggia! Queste condizioni climatiche permettono la crescita di una fitta foresta e soprattutto non attraggono le orde di turisti che imperversano sui Caraibi.

E’ popolata da comunità nere e da pochi indigeni. A settembre si possono osservare le belene.

Il terminal terrestre di Bogotá brulicava di gente. La televisione aveva annunciato che 260.000 persone avrebbrero preso il bus durante la Semana Santa per recarsi nei luoghi di villeggiatura. Le biglietterie erano piene di gente disperata per partire. Arriviamo con calma, senza fretta. Avevamo già comprato il biglietto della compagnia Bolivariano con destino Medellín ed eravamo (relativamente) tranquilli.

Finalmente annunciano il bus delle 20:30. Una volta sul bus, ci accorgiamo che una ragazza è seduta su uno dei nostri posti. Le diciamo che quel posto è riservato. Non ci sono problemi ci dice, e si mette sull’altro. Anche quello, le dico. Mi mostra il suo biglietto, ed effettivamente corrisponde. Colpa della compagnia, che come sempre vende due biglietti per lo stesso posto. Non mi scompongo più di tanto: scendiamo e ci rivolgiamo al banco della compagnia, facendo notare che quei due posti erano stati riservati con un mese d’anticipo. Alla fine risolvono la situazione e spostano la ragazza in un posto al fondo dell’autobus. Comunque, abbiamo già perso mezz’ora.

Per andare a Medellín bisognerà transitare per le calde vallate del río Magdalena. Però abbiamo portato un sacco a pelo a bordo, che effettivamente ci serve per proteggerci dal freddo polare dell’aria condizionata, che in Colombia hanno la simpatica abitudine di mettere a paletta. Dormiamo alla bene e meglio, tra il freddo e le continue curve. Quando sorge il sole, attraverso i finestrini appannati (di fuori!) mi accorgo che siamo ancora in mezzo alle montagne della Cordillera Central. Probabilemente di notte c’è stato qualche rallentamento, che ci fa arrivare a Medellín con un’ora e mezza di ritardo. Il bus arriva al Terminal del Norte, circondato da barrios di invasione che hanno ricoperto una collina adiacente. La mattina è grigia, però l’aria è molto più calda rispetto a Bogotá.

Prendiamo un bus urbano che ci porta all’ Olaya Herrera, il vecchio areoporto che si trova ormai in mezzo alla città. Per questo anni fa hanno costruito il più moderno José María Córdoba fuori dalla città, nel municipio di Rionegro, a un’ora da Medellín.

Ci dirigiamo al check-in della compagnia ADA (Aerolínea de Antioquia. Antioquia è il nome del dipartimento di cui Medellín è la capitale). Ci dicono che il volo partirà con almeno mezz’ora di ritardo. Vabbé, andiamo a magnare qualcosa, visto che abbiamo una certa fame. L’areoporto Olaya Herrera è piccolino, troppo per dover aspettare tre ore. Comunque ne approfittiamo per visitare la Plazoleta Gardel, dove un busto e numerose targhe rendono omaggio all’idolo argentino del tango, morto proprio in quell’areoporto nel 1935. Nel frattempo gli altoparlanti annunciano che tutti i voli per Quibdó (la capitale del Chocó) sono interrotti per maltempo. Dopo ore di attesa, e un’ora di ritardo rispetto al previsto, ci invitano ad imbarcarci. Attraversiamo la pista verso il nostro areoplanino da 20 posti. I bagagli sono disposti di fianco alla scaletta d’entrata: i passeggeri indicano il proprio e gli addetti lo caricano nella stiva. I posti non soo riservati, ci si siede dove si vuole. L’impressione è pessima, il velivolo ha conosciuto tempi migliori. Ci danno dei tappi per le orecchie, che ci mettiamo senza pensarci due volte. Dopo un breve rollaggio decolliamo. A parte qualche vuoto d’aria e vari sbandamenti in volo, dal finestrino possiamo goderci il panorama: la ricca vegetazione della città si infittisce sempre più, finché ci troviamo a sorvolare la selva più fitta e compatta, solcata da fiumi fangosi che serpeggiano fino all’orizzonte. Mezz’ora dopo atterriamo a Quibdó. La prima cosa che notiamo è la base militare dove stazionano tre elicotteri Apache da combattimento, che ci ricordano che la guerriglia continua a tenere presenza in questa regione selvaggia del paese. Atterriamo sulla pista bagnata dalla pioggia recente. Il portellone si apre e gli addetti ci dicono di scendere mentre fanno rifornimento. L’aria è calda e afosa, inoltre siamo tramortiti dal cambio di pressione atmosferica rispetto a Bogotá, che si trova a 2.600 metri di quota.

Ripartiamo verso l’oceano, che divisiamo dietro alcune colline boscose. Ci siamo. Atterriamo con gran sollievo. Il portellone si apre di nuovo, e gli addetti ci dicono di aspettare i bagagli nell’areoporto, una casita al margine della pista. Fa caldo. Fuori, in strada, gruppi di indigeni Embera e di nullafacenti ci guardano come se fossimo l’evento del giorno.

I bagagli giacciono in un carretto metallico di fianco all’aeroplano, però nessuno si degna di portarli dentro. Piuttosto, caricano altri bagagli, i nuovi passeggeri salgono e l’aereo torna a volare verso Quibdó. Finalmente ci consegnano i bagagli. Fuori, sotto una tettoia di paglia, una signora ci fa pagare la tassa di ingresso al municipio (1 euro). Siamo un po’ disorientati. Gli altri passeggeri vanno in un bar a bere delle birre gelate mentre aspettano che le guide che avevano contattato li vengano a prendere. Chiediamo in giro per andare a Guachalito. Un signore ci avvisa che un tizio è diretto lì. Contrattiamo il prezzo e ci rechiamo al porto fluviale, lungo una stradina sterrata. Il porto in realtà è una scaletta di legno che affonda nel fango limaccioso e unto, con tre o quattro lance ormeggiate a pali, bambini nudi che si tuffano e misere palafitte lungo le rive. Carichiamo lo zaino sulla lancia. Il barcaiolo ci dice di aspettarlo, mentre va a fare il pieno di benza. Lo seguiamo mentre scende la corrente e si ferma una cinquantina di metri più in là. Si mette a chiacchierare con alcuni conoscenti, entra in un magazzino per caricare casse e borse senza la minima fretta.

Noi rimaniamo seduti sulla scaletta, due unici bianchi nel paesino e forse nell’intera regione. Ci scocciamo, torniamo vrso l’areoporto per cercare qualcosa da mangiare. Ci indicano la casa di una signora. Chiediamo qualcosa di rapido e ci porta un piatto di riso al cocco. Torniamo la porto e da lì vediamo che la lancia è ancora nel magazzino. Finalmente torna verso di noi, ci carica e… Partenza. Seguiamo il fiume fino al mare, passiamo tra un faraglione e un’isoletta e continuiamo verso sud paralleli alla costa, che ci offre subito un paesaggio maestoso dell’entroterra ricoperto di foreste nebbiose. Dopo mezz’ora arriviamo in una piccola baia puntellata di scogli ricoperti di palme e di altre piante. Ci sono alcune casette sulla riva. Chiediamo se hanno un posto per mettere la tenda. Ci portano verso una capanna di assi ricoperta di foglie di cocco. Un water blu troneggia in un angolo della capanna, all’aperto. La ragazza ci indica il posto dove mettere la tenda.

Ci consultiamo: il posto non è un gran che. Oltretutto, ci chiede un cifra spropositata: 20.000 pesos a persona. Con quei soldi possiamo permetterci un hotel. Ci dice di contrattare con sua madre, che è la propietaria. Le diciamo che la cifra è assurda. Ci guarda un po’ infastidita e accetta ridurla a 15.000 a persona. Ce ne andiamo.

Nelle altre cabañas ci dicono che la unica che tratta con campeggiatori era la famosa madre. Un po’ delusi, cominciamo a chiedere per una cabaña. Scopriamo che sono tutti parenti tra di loro. Le poche cabañas che non sono già prenotate non sono niente di speciale, e costano abbastanza. Finalmente, riusciamo a trovare una sistemazione: una figlia (di 14) della madre ci permette mettere la tenda di fianco alla sua cabaña, per 10.000 a persona. E’ comunque caro, però accettiamo. Consci di avere scatenato una faida familiare e di esserci fatti conoscere da tutta la spiaggia. Un parente di non si sa bene che linea ci aiuta a ripulire uno spiazzo nel giardino, dove spuntano alcuni ananas tra le palme da cocco ed altre piante. Montiamo la tenda che fissiamo al terreno sabbioso con pali appuntiti a colpi di machete e completiamo l’opera con un telo di plastica comprato previamento a Bogotá, che sospendiamo su un filo tirato tra due palme.

Ripaghiamo l’aiuto di Colega (si chiama così!) con due giri di birra. Ormai è sera. Ci costumiamo e ci buttiamo in mare. Siamo stravolti dal viaggio. Ci docciamo a scodellate d’acqua raccolte da un bidone, di fianco a un bracere dove affumicano due tonni. E finalmente ceniamo: riso con cocco, tonno affumicato (la prima volta in vita mia che non lo mangio in scatoletta), patacón (platano schiacciato e fritto) e una ‘pipa’: un cocco con una cannuccia dentro. La notte minaccia di piovere, però finalmente la passiamo liscia.

La tenda serve soprattutto per le zanzare e le fameliche formiche. Non sarebbe possibilie dormire in amaca senza una zanzariera.

Il giorno dopo facciamo una breve corsetta sulla spiaggia, cercando di schivare le centinaia di granchi che scappano spaventati nei loro buchi nella sabbia, un bagno in mare e una colazione con salsiccia di pesce, torta di gamberetti, un’arepa (schiacciata di mais) e cioccolata in tazza. I meravigliosi fiori che crescono attorno alla cabaña attraggono un colibrí verde con la cosa rossa, che ci accompagnerà nei giorni a venire.

La cabaña è bella: il piano terra è adibito a ristorante-bar-discoteca (il sabato), cucina e bagno; nel secondo piano ci sono le stanze, che ospitano una famiglia di Bogotá. Ci incamminiamo lungo la spiaggia in direzione sud. Cominciamo davvero ad apprezzare questo angolo di paradiso: a destra l’Oceano Pacifico, tranquillo come dice il nome, punteggiato di scogli su cui cresce una ricca vegetazione e su cui nidificano vari uccelli marini: pellicani, fregate, gabbiani e moltissimi altri che non conosco. Davanti a noi la spiaggia di sabbia scura, anch’essa punteggiata di rocce; a sinistra la selva, interrotta qua e lá da alcune cabañas o da qualche coltivazione di banane o canna da zucchero. Come a 50 metri dalla costa, si ergono colline interamente ricoperte di giungla. La spiaggia è solcata da numerosi ruscelli d’acqua dolce che scende dalle colline boscose. Alcuni sono esigui, altri più grandi. E’ a uno di questi ruscelli che ci rechiamo questa mattina. Risalendolo, si arriva a una cascata nel mezzo delle giungla, con il rumore del mare dietro gli alberi. Rimaniamo a sguazzare nella pozza creata dalla cascata, ascoltando il silenzio e respirando il profumo della giungla. Enormi farfalle blu morfo svolazzano silenziosamente tra le eliconie e la spessa vegetazione Nel pomeriggio ciondoliamo sulla spiaggia adiacente la cabaña e vediamo passare una colonna dell’esercito, che pattuglia la zona in occasione delle vacanze pasquali.

La notte ci sorprende il primo temporale. Per fortuna il telo di plastica regge.

Il giorno dopo ripassiamo dal ruscello e proseguiamo più a sud verso Termales. Non è possibile proseguire lungo la spiaggia e prendiamo un sentiero che si inerpica sugli scogli costieri, ricoperti di vegetazione, tra cui immensi ceibos dalle radici contorte e ricoperti di liane e piante. In alcuni punti il sentiero è compeltamente acciottolato. Passiamo davanti a due lodge molto belli (il Cantil e il Piedra Piedra), e lungo un paio di spiagge deliziose. Il río Terco separa dalla costa una enorme soglio rocioso ricoperto di giungla. Dentro c’è una casa, non si vede pero immaginiamo che sia bellissima, soprattutto per la ubicazione. Una lunghissima spiaggia ci conduce a Termales, un paesino costiero dove è stanziata una compagnia dell’Esercito. Al principio li scambiamo per paramilitari, visto che per via del caldo non indossavano la divisa completa. Una stradina ci conduce a una vasca che raccoglie una sorgente di acqua termale (1 euro) di fianco a un fiumiciattolo nel bel mezzo della giungla. L’acqua è tiepida ed emette il caratteristico profumo (o puzza) di zolfo. Una sensazione incredibile. Quando comincia a riempirsi, ci sciacquiamo nel vicino ruscello di acqua fredda e torniamo in paese. Dopo un lauto pranzo a base di pargo rosso, riso e patacón, ci riposiamo sotto un albero che proietta ombra sulla spiaggia. Purtroppo abbiamo perso molto tempo: la marea si à alzata e il río Terco, che prima si attraversava con l’acqua al ginocchio, adesso è alto due metri! Aspettiamo che passi una barca, ma niente da fare. Prendo la decisione di nuotare fino all’altra riva, mantenendo furoi dall’acqua lo zaino. Però mia moglie non sa nuotare. Per fortuna che arriva una barca, prima di prendere la decisione di trainarla a nuoto.

In questa zona il tempo è scandito dalla marea: la mattina la marea è bassa; a mezzogiorno comincia ad innalzarsi fino a raggiungere il massimo verso le 5 del pomeriggio. La spiaggia enorme che vedi la mattina, al pomeriggio viene inghiottita dal mare. Le rocce della mattina diventano scogli ed isole nel pomeriggio. Ed alcuni ruscelli diventano intransitabili.

La notte piove di nuovo.

Il giorno seguente andiamo verso nord. La spiaggia lascia il posto ad un sentiero tra la selva. Passiamo senza difficoltà il río Joví e raggiungiamo l’omonimo paesino. Arrivati alla piazza principale ci beviamo tre gazzose e prenotiamo il pranzo in un ristorante. E’ ancora presto: decidiamo preseguire fino a Coquí. L’unico giorno in cui ci dimentichiamo di portare la crema solare, spunta un sole che in breve ci cuoce. La spiaggia è ricoperta di conchiglie, però la distanza ed il sole ci consigliano di non sofermarci troppo a raccorglierle. Incrociamo un signore, che stranamente è parente della signora della cabaña. Ci consiglia di visitare i sentieri ecologici di Coquí. Quando arriviamo, chiediamo in giro e ci indicano la casa della guida. Peró ci spiega che il sentiero tra le mangrovie si fa in barca e con la marea alta. Per cui bisognerebbe farlo dalle due in poi. La prossima volta. Torniamo a Joví morti, però ci rifacciamo con un succulento pranzo nel ristorante della zia della signora della cabaña… Dopo mangiato compriamo dell’artigianato nella capanna di una signora e incrociamo il barcaiolo che ci aveva portato a Guachalito. Ci dice che va in quella direzione e ne approfittiamo. Non facciamo in tempo ad arrivare che si scatena un nubifragio con un vento terribile. Stacchiamo il telo plastico per evitare che voli via.

La notte cessa il vento, però continua a piovere fino alla mattina seguente.

L’ultimo giorno lo passiamo pigramente sulla spiaggia. Nel pomeriggio cerchiamo di risalire il nostro ruscello preferito, dove andavamo la notte a fare il bagno per toglierci il sale di dosso.

Lultima notte, alle 4 inizia a piovere. Smontiamo la tenda e ci catapultiamo nel ristorante della cabaña. Alla luce della torcia elettrica (non c’è luce. La notte dalle 6 alle 9 accendono il generatore) prepariamo lo zaino. Alle 7 passa la lancia pubblica, che ci riporta a Nuquí. Poco prima di arrivare comincia a piovere. Per fortuna che lo zaino era avvolto in un sacco della spazzatura. Aspettiamo che parta l’aereo magnando caffé con pane e comprando alcuni oggetti di artigianato indigeno. Sull’aereo siamo gli unici passeggeri. A Quibdó invece salgono 5 persone. A Medellín prendiamo un taxi per il terminal del nord e arriviamo giusto in tempo per prendere un bus per Bogotá, dove arriviamo alle 11 di notte.



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