48 ore a Hong Kong

1 Euro = 9 dollari di HK circa. Mai fidarsi dei depliants degli alberghi. Moltiplicano a dismisura le distanze. Una short walk è almeno una maratona, a meno che non abbiano soprannominato anche voi "figlio del vento". Sudata come un lottatore di sumo, con 1/4 del mio peso appeso alla schiena, mi blocco ad una pensilina del bus. Non c'è verso...
Scritto da: Medialuna
48 ore a hong kong
Partenza il: 20/07/2003
Ritorno il: 22/07/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 500 €
1 Euro = 9 dollari di HK circa.

Mai fidarsi dei depliants degli alberghi. Moltiplicano a dismisura le distanze. Una short walk è almeno una maratona, a meno che non abbiano soprannominato anche voi “figlio del vento”.

Sudata come un lottatore di sumo, con 1/4 del mio peso appeso alla schiena, mi blocco ad una pensilina del bus. Non c’è verso di passare, dal ventre del pulman escono persone, persone, e ancora persone, pare un idrante rotto che schizza acqua dappertutto.

Welcome to Hong Kong Un’ora e mezza prima di tutto ciò, in una mattina dell’anno 2003, ore 6.30, giorno luglio 21, il nostro aereo Cathay Pacific è atterrato su questa magnifica baia, sulla verde isola di Lantau.

Ci fermeremo due giorni pieni ed una sola notte, in attesa del volo di collegamento successivo per Cairns, Australia.

L’Australia non era affatto nei nostri piani, dapprincipio, indecisi come eravamo fra Kenya e Guatemala, ma una favolosa promozione a 580 Euro + tax ci ha fatto volentieri accantonare i progetti iniziali.

La compagnia aerea, a differenza di altre, non ci dà gratis il pernottamento, ma ci permette di dormire in un sontuoso 4 stelle a prezzi ridotti. Scartata quindi l’ipotesi Chungking Mansions, il ghetto dei backpackers. Una Lonely Planet del 92, pescata in biblioteca, così recita a proposito di questo posto “siate grati ai gatti randagi per la loro opera”. In bolletta sì, scemi no!! Dato che l’enorme cifra di 18 Euro a cranio è già stata sborsata in anticipo per l’alloggio, ecco che bisogna subito pensare a recuperare soldi da un’altra parte, ossia il trasporto.

La città di Hong Kong è servita da una efficiente rete di autobus, trams, ferrovia e metropolitana, più i taxi, ovviamente.

La ferrovia, che parrebbe la cosa più ovvia e facile per arrivarci, ed è quella che tutti cercano di rifilarti, cartelli ovunque che ne notificano l’esistenza, è ovviamente la più cara, 150 HKD.

Spulciando i vari interventi sui forums Lonely Planet, ho scoperto che l’alternativa è quella di prendere un taxi fino alla più vicina stazione del metro, Tung Chung. Il taxi costa circa 30-40 HKD, da dividere fra gli occupanti, più 17 HKD di metropolitana per raggiungere il centro.

Ed è quello che cercheremo di fare. Ma prima dobbiamo arrivarci.

Coda mostruosa al controllo passaporti. Un solo sportello aperto. Sembra di essere all’ufficio postale in uno di quei fine mese dove la congiuntura astrale della sfiga porta alla scadenza simultanea di ICI, tassa auto, bollette, pensioni e compagnia bella.

Prevedo un’ora di attesa, se siamo fortunati.

Come per magia, la situazione si anima improvvisamente, arrivano impiegati di rinforzo, la folla scalpita e rumoreggia indisciplinata. Allora, ecco che compaiono due pseudo vigili a dirigere il traffico umano, e a cazziare i rincoglioniti che si spostano in continuazione per cercare la coda più veloce.

Cinque minuti e siamo dall’altra parte, altri cinque e i nostri zaini varcano trionfalmente il traguardo al nastro trasportatore. Sospirone di sollievo: lo sbarco più veloce della storia. Fuori dall’aeroporto, un’ondata di aria calda ed umida ci si appiccica addosso.

Taxi di 2 colori diversi stazionano nei paraggi. Verdi sono quelli di Lantau, rossi quelli di Kowloon. Nessuno vuol saperne di portarci a Tung Chung, data l’esiguità dell’incasso, immagino, e ci fanno rimbalzare da una parte all’altra come palline da tennis. So già che arrabbiandomi non otterrei niente, e vado a chiedere ragguagli ad una specie di ufficiale della polizia aeroportuale. Tre nanosecondi, e ci ritroviamo con le chiappe su un taxi.

La corsa ci costa 36 HKD.

Comprare i biglietti alle macchinette automatiche di Tung Chung ed arrivare a destinazione è un gioco da ragazzi, in quanto ci sono scritte in inglese ovunque.

Un po’ meno facile è riuscire ad orientarsi una volta che risaliamo in superficie, fra una folla di gente, formiche impazzite che ci arrivano addosso da ogni direzione, il rumore assordante del traffico, e la sagoma scura e minacciosa degli alti edifici. Anche il clima non aiuta nella concentrazione.

Io, se devo proprio ammetterlo, sono sfinita. Dodici ore insonni in un 747 pizzicata nel mezzo fra Hannu ed una gentile signora cinese, non sono che la degna conclusione di un’odissea iniziata due giorni prima e comprendente un estenuante Torino-Roma by intercity con aria condizionata al risparmio, più una notte nella capitale in una camera senza nemmeno un piccolo ventilatore da comodino.

Particolare di non poco conto, apparentemente siamo gli unici turisti in circolazione. Soltanto noi abbiamo osato sfidare la psicosi da SARS? L’OMS aveva cancellato Hong Kong dalla lista nera qualche tempo prima che io pagassi il biglietto, quindi mi sono detta why not? A tranquillizzarmi ulteriormente la notizia appresa poco prima della partenza che la malattia pareva avere subito un decisivo arresto dato che non si erano più verificati nuovi casi nemmeno a Pechino.

All’aeroporto ci hanno fatto compilare una specie di autocertificazione sulla nostra buona condizione di salute, dopo averci “scannerizzato” con un apparecchio che misura la temperatura corporea. In due giorni, vedrò in giro soltanto 4 o 5 persone con la mascherina, di cui una è un operatore ecologico e sospetto quindi che la indossi per altri motivi.

Detto questo, comunque, sta di fatto che gli unici occidentali che incontrerò in giro sono vestiti in abiti da lavoro, e devono quindi per forza non essere di passaggio.

Il nostro albergo, una volta che lo abbiamo individuato, qui sulla Prince Edward Road di Kowloon, è una favola. Ed è chiaro che, a tariffe normali, non sarebbe roba per tizi sgarruppati come noi. In perfetto look da viandanti pellegrini, infradito e gonna nera sfrangiata di lino da 10 Euro lei, braghette da surf strappate e scarpe ginniche lui, nella sede appropriata, ossia l’ostello, potremmo essere considerati eleganti. Qui impera invece il fresco lana stirato a puntino ed il mocassino di cuoio di fattura italiana. Fregandocene della nostra non-conformità, a braccetto attraversiamo la hall, tutti impettiti e fieri, manco fossimo i duchi di Windsor ..

Siamo molto di corsa, ma la comodità e il silenzio della nostra stanza si meritano un po’ di riconoscimento. Breve sonnellino e poi via, verso nuove avventure.. Oddio, che parola grossa.

Gli abitanti di Hong Kong sono fra le persone più gentili e disponibili del pianeta.

Avevo letto il racconto di un viaggiatore che narrava di alcune persone offertesi di aiutarlo a portare i suoi bagagli. Ora che sono qui non mi stupisco affatto.

Basta che ci si fermi un secondo, anche soltanto per litigare con la mappa della città che un raro buffo di vento ti ha improvvisamente spiegazzato, ed ecco che qualcuno si ferma e ti chiede se tutto è OK, se hai bisogno di qualcosa. Davvero una piacevole sorpresa. Bene, siamo turisti e facciamo cose da turisti! Cosa fanno i turisti ad Hong Kong? Semplice, fanno shopping!!! Apriamo la parentesi. L’unica cosa che davvero merita sono i generi elettronici. I grossi shopping centres non mi aggradano e non si discostano molto da quelli che trovo qua, quindi a che pro frequentarli? Molto più interessanti i negozi di Mongkok e Tsim Sha Tsui, ed i mercati. Contavo molto sull’abbigliamento (taroccato e non) e l’artigianato tipico, ma qui evidentemente le cose vanno diversamente da altri paesi e si trova soltanto ciarpame, e i vestiti e le scarpe sono decisamente osceni.

Quello che mi colpisce, nei mercati, sono dei veri e propri sexy shops all’aperto. Alcune bancarelle vendono soltanto biancheria intima; decine e decine di mutande e reggiseni di tutti i colori ed ogni genere di materia prima, velluti, sete, organze, gomma, piume, paillettes, metallo, vernice, plastica. Slippini a forma di farfalla, di conchiglia, di cuore, più altri che lasciamo perdere… E non parliamo poi della lingerie maschile … eh eh A Temple Street, invece, attrezzi vari, manette, fruste, vibratori, dildoes, cassette, riviste, manuali della serie “il kamasutra per non-contorsionisti che fa impazzire sia lui che lei” fanno bella mostra di sé. Di tutto di più. Questo mi dà da pensare. Dappertutto ho notato cartelli di divieto. In metropolitana non si mangia, beve e fuma perché è un’offesa, in strada non si sporca perché è un’offesa, in giro non si sputa perché è un’offesa, sui bus non si fa i portoghesi perché è un’offesa.

Ma … tutti questi cazzi (pardon) finti non sono un’offesa? Evidentemente, no. Ma vaglielo a spiegare, alla eventuale prole, cosa sono quelle teste di gomma dai riccioli d’oro, l’espressione bovina e la bocca spalancata … Pornografia a parte, la mia attenzione è tutta per gli aggeggi elettronici, che qui costano quasi la metà che in Italia, a seconda dei posti. Lo so per certo perché prima di partire mi sono divertita a dividermi fra Unieuro, Expert e Carrefour annotando modelli e prezzi su un taccuino che ora mi tengo in borsetta.

Le possibilità sono due: i grandi magazzini del settore, tipo Fortress o Broadway, che offrono prezzi leggermenti più alti, ma dove si è certi di comprare merce funzionante e non contraffatta, o i negozi dove invece si è meno al riparo dalle fregature.

Una Nikon F55, compresa di lente 28-80 mm me la offrono a 1690 HKD in un negozio che passa per serio da fonti Lonely Planet; pochi metri più avanti, in un altro negozio, un tizio mi dice prima 1700 poi mi strizza l’occhio e fa “trattiamo”, annuso il pacco e tiro innanzi. In Italia, per la cronaca, la stessa costa circa 290 Euro.

Nonostante i prezzi, decido di non comprare niente, dopotutto, ho già una Pentax che fa il suo dovere, anche se vecchia e pesante rispetto agli apparecchi moderni. Errore madornale, visto quello che succederà in Australia.

Hannu invece, e meno male, compra da Broadway una Nikon 2100 Coolpix per 1800 HKD. Per altri 200 HKD gli tirano dietro una memoria da 64 MB, più un cappellino di marca e due altoparlanti che si trascinerà appresso per tutto il viaggio.

Attenzione, però. Non c’è garanzia internazionale, quella che viene inclusa è valida solo per HK, e poi sono cavoli nostri.

Vale comunque la pena di tentare la sorte, se serve qualcosa.

Fra macchine fotografiche e bambole gonfiabili passeremo così allegramente la nostra unica serata in terra cinese.

Ed ora invece passiamo ai sightseeings, in primis il Victoria Peak, che è sull’isola di Hong Kong. Premessa: quello che comunemente è definita HK è in realtà l’insieme di alcune isole, Hong Kong, Lantau, Lamma, Chang Chau ed altre, più una parte di terraferma, la cui estremità peninsulare è Kowloon, e la zona retrostante è denominata Nuovi Territori.

Per passare da Kowloon ad Hong Kong si può usare la metropolitana, ma è altrettanto veloce, e più economico ed appagante per la vista usare il traghetto.

Esempio di economicità: il tratto da Tsim Sha Tsui a HK Central costa 5 HKD via underground. Lo Star Ferry costa 1.7 HKD sul ponte inferiore e 2.2 HKD su quello superiore.

Una volta che si è ad HK Central, per andare a Victoria Peak si hanno due alternative, l’autobus e la funicolare. Noi optiamo per quest’ultima (30 HKD andata e ritorno).

Attorno al belvedere ci sono alcuni sentieri dove fare brevi passeggiate. Ne vale la pena. Il panorama principale è offerto ovviamente dalla vista dei grattacieli di Kowloon e HK che si fronteggiano, ma non è da tralasciare, facendo quattro passi in direzione opposta, una sosta alla terrazza che invece si affaccia sulla Causaway Bay, molto più selvaggia, poco cementificata, e verde assai. Ho sempre pensato che la stagione delle piogge, se da un lato può essere avara di sole, dall’altra regala al cielo una vitalità, una corposità ed una luminosità inimmaginabili nei periodi di secca. L’umidità rende le nuvole più belle, ed evidenzia i contrasti con le eventuali sciabolate di luce.

Mi sento come sospesa, in equilibrio fra due emisferi completamente opposti che però combaciano perfettamente. Se guardo da una parte riesco ad immaginare la confusione, la freneticità che pullula fra quei cubi di cemento e cristallo. Dall’altra parte della terrazza respiro clorofilla, immagino canti di uccelli e grida di scimmie Piove a tratti. Veri e propri diluvi. In realtà, beccarsi acqua con questo caldo è una vera manna dal cielo. Il brutto viene quando ti tocca passare negli interni, dove purtroppo l’aria condizionata soffia a manetta.

Ridiscesi da Victoria Peak, e ormai destatici dall’incantesimo, prendiamo un autobus a due piani, uno a caso, che ci porti ad Aberdeen, a vedere il porto con le tipiche giunche da pescatore. Anche qui, stessa storia, stesso contrasto, prima grattacieli, un barcone-ristorante pieno di luci, rumore, e poi i genti lenti, ripetitivi dei barcaioli, sempre uguali a se stessi da mille anni a questa parte. Ci chiedono 100 HKD per fare un giro della baia. Il prezzo è quello solito, ma il sole sta tramontando, presto sarà buio e non vale forse la pena, dato che la poesia del luogo già l’abbiamo colta stando a riva. Decliniamo e torniamo a Kowloon.

Durante la traversata in ferry ci coglie un acquazzone di dimensioni bibliche, un vero e proprio tifone, che rende scivolosissimi i marciapiedi. Per cena vorremmo spendere poco, e contemporaneamente evitare Mc Donald’s.

Scoviamo un ristorante con prezzi economici, pieno fra l’altro di gente. Buon segno.

Piglio una cosa a caso sul menù. Ho una fame che non ci vedo. La cameriera si affanna in una serie di ammonimenti sulla varietà di noodles da me scelti. Non capisco. Non credo di averle dato ad intendere che sono il tipo da “vorrei una pizza quattro stagioni ma senza i funghi” e quindi il suo tono della serie “ma sei davvero sicura, dopo non venirmi a dire che non ti avevo avvertito” mi stupisce. Hannu, che ha ordinato la mia stessa cosa, assume un’espressione sospettosa ma, poiché nel suo paese nessuno si cura troppo di tradizioni gastronomiche, dopo un po’ fa spallucce. Pure io non mi allarmo più di tanto, ed insisto nel confermare la mia ordinazione. Ma che ci sarà mai di strano?? Aaah!! Dopo 10 minuti capisco il perché!! I noodles che da menù comparivano come stirfried, in realtà sono (o sembrano, che è meglio) crudi!!! Il lato buono è che sono talmente sottili, tipo capelli d’angelo che, a contatto col sugo della carne e le salse, tempo 2 secondi e si cuociono all’istante. La parte ai lati del piatto però, rimane secca.

Annuso. Assaggio. La cameriera osserva. Hannu pende dalle mie labbra. Mastico, ci penso un attimo su. Rido. Ma è buono!!!… Spazzolo in 5 minuti, e la cameriera, realizzata, sorride raggiante. Visti i prezzi e la buona qualità del cibo testimoniata dall’altra frequentazione, nominiamo il posto. Happy Garden Noodles, 76 Canton Road, Kowloon. Per dare un’idea, la media di una portata è di 35-40 HKD.

Il mattino seguente lascio Hannu in albergo a cazzeggiare e mi materializzo alle 10 di mattina a Mongkok per vedere il mercato delle donne, così definito in quanto vendono di tutto, ma espressamente abbigliamento di genere femminile. Alcuni passanti, intuendo le mie intenzioni dalla direzione verso cui mi muovo, sono molto cortesi e mi invitano a spendere meglio il mio tempo, dato che il mercato è aperto solo di pomeriggio.

Presa alla sprovvista decido di andare sulla Eastern Promenade, che offre invece un bel panorama sui grattacieli dell’isola di Hong Kong. Il sole oggi proprio non mi lascia in pace.

Prima di ri-sprofondare in metropolitana, fiaccata dal caldo già di prima mattina, opto per l’acquisto del secolo, una bottiglietta di plastica, visibilmente riciclata, contenente succo d’arancia. Anche il chioschetto non brilla certo per pulizia, ma la spremuta mi fa così gola da dimenticare anche le più elementari norme igieniche. Mi andrà bene, comunque, niente diarrea. L’aranciata è buona, 100% frutta e zero acqua, e mi ringalluzzisce alquanto.

In seguito, in giornata, mi ritroverò a passare da quelle parti, con grande gioia della proprietaria e del suo portafoglio.

Lungo la Nathan Road, passo accanto alle famigerate Chungking Mansions, proprio davanti alla fermata del metro di Tsim Sha Tsui. E’ una specie di palazzone brutto, sporco, vecchio ed in completo sfacelo. Si dice che le pensioni hanno stanze come sgabuzzini, almeno la maggior parte di esse, il traffico non promette certo sonni tranquilli, ma la cosa da cui bisogna maggiormente guardarsi non sono gli scarafaggi o i topi bensì gli incendi. Lonely Planet infatti raccomanda di soggiornare soltanto nelle guesthouses che hanno un’insegna all’esterno. Le altre sono illegali, in quanto non rispettano gli standards di sicurezza. Tanta schifezza merita una visita. L’ingresso, perpendicolare a Nathan Road, è collocato in un atrio piastrellato e lercio, dove ci sono parecchi negozi, alternati a degli ascensori che sono quelli da prendere per salire alle pensioni, se non si ha voglia di fare 17 piani a piedi.

La gente in fila in attesa degli ascensori è soprattutto di nazionalità indiana. Poi ci sono parecchie persone che hanno l’aspetto di africani, di etnia tipo nigeriana. Il che mi pare strano, ma di sicuro ci deve essere una ragione per cui devono essere lì, o forse io ho le traveggole per via del caldo e loro non sono affatto africani. Nessun cinese e nessun bianco, a parte me. Ovvio quindi che venga attorniata da indiani che cercano di propormi questa o quella pensione.

Sono molto insistenti, ed iniziano anche a litigare fra di loro. Un semplice “no thanks” non è sufficiente per liberarmene, devo arrivare ad un deciso “piss off”. Esteriormente esprimo irritazione, in realtà sono impaurita….. Me ne vado via con le orecchie basse e la coda fra le gambe, cercando di mantenere un contegno. Arrivata nei pressi della promenade, scopro che ci sono dei lavori sulla Salisbury Road, che le è parallela, ed è un’impresa riuscire ad attraversare per via delle numerose transenne. Dopo di queste, un altro centro commerciale si frappone fra me e la mia sospirata meta! Calcolo che, se lo attraverso da parte a parte, sicuramente arriverò dove voglio. Nel frattempo, mentre sono lì pensosa, almeno un paio di persone si offrono di aiutarmi e si mostrano perplesse quando spiego che io non sono lì perché voglio far shopping, ma perché voglio arrivare al mare. Ricevo solo spiegazioni vaghe e confuse. OK, faccio da me.

Dopo varie peregrinazioni sotto il sole impietoso, approdo finalmente all’agnognata passeggiata, mi sdraio all’ombra assieme a dei pescatori, mi rilasso e mi godo il panorama, grattacieli che si stagliano in un cielo azzurro senza più nuvole e si specchiano nell’acqua della baia.

Teoricamente, di interessante, ci sarebbe anche da vedere il Peninsula Hotel, che passa per essere uno degli alberghi più lussuosi del mondo. Uno fra i più antichi della città, e che conserva il fascino e l’atmosfera dei bei tempi andati. Mi immagino deliziose ed arzille vecchie signore inglesi in abiti di inizio secolo scorso, tè e pasticcini, ambientazione tipo film di Ivory.

Teoricamente, appunto. Dovrebbe essere qui da qualche parte, ma vai a sapere dove, e ne ho piene le balle di tutti questi cantieri e transenne. Adieu, promenade.

Nel pomeriggio, ho appuntamento con Hannu al baracchino delle aranciate per conseguente perlustrazione del mercato delle donne. Niente di che. Che delusione, tutti quei bei dollaroni che dal portafoglio gridavano impazienti “spendimi, spendimi!”, destinati invece a triste conversione in valuta australiana in un qualche tetro ufficio cambio dell’aeroporto… Ci ri-dirigiamo verso il mare. Il mio ragazzo mi prende bonariamente in giro quando gli racconto l’episodio delle Chungking Mansions. Poi, per tirarmi su, mi offre una sontuosa cena a lume di tramonto, menù patatine fritte e crocchette di pollo. Basta poco, per essere felici, in fondo. Restiamo a lungo seduti sul molo, con gli avanzi di cibo in grembo, e quando fa buio capiamo che è purtroppo ora di tornare in albergo, prendere la nostra mercanzia e tornare in aeroporto.

Salutiamo quindi Hong Kong, prima meta della nostra vacanza, soggiorno in un certo senso quasi forzato, e che ci sottrae giorni preziosi al viaggio nell’enorme Australia, ma siamo comunque contenti di essere passati di qui. Sinceramente, pero che mi capiti ancora di farci scalo, in attesa di altri voli ed altre coincidenze….



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