Scrittori per Caso: Il cavallo di Leonardo di Marco Caciolli, seconda parte

Ecco la seconda parte del romanzo di Marco Caciolli "Il cavallo di Leonardo", che pubblichiamo a puntate su Turistipercaso.it come un novello "feuilleton" del web. Dopo la prefazione e l'incipit pubblicati nella scorsa puntata, ecco il seguito del primo capitolo, tutto da leggere. Per commentare il romanzo come al solito basta inviare una email...
Turisti Per Caso.it, 24 Gen 2008
Ecco la seconda parte del romanzo di Marco Caciolli “Il cavallo di Leonardo”, che pubblichiamo a puntate su Turistipercaso.It come un novello “feuilleton” del web. Dopo la prefazione e l’incipit pubblicati nella scorsa puntata, ecco il seguito del primo capitolo, tutto da leggere.

Per commentare il romanzo come al solito basta inviare una email nel Posta & Risposta. Buona lettura! Napoleone stava scrutando con il binocolo le linee nemiche cercando di penetrare nella mente dell’avversario per poter anticipare ogni sua mossa, quando fu strappato alle sue riflessioni dal comandante Ney.

“Sire, perché aspettare ancora? L’esercito è pronto a battersi” “È ancora troppo presto, dannazione” rispose guardando accigliato il terreno fangoso “dobbiamo aspettare che il fango si indurisca, altrimenti non riusciremo a manovrare l’artiglieria” “Ma perderemo del tempo prezioso; attacchiamo adesso!” “Silenzio! Fate come vi ho detto: avvertite l’artiglieria che si tenga pronta in posizione ad un mio segnale, e pure i reparti di fanteria sulla sinistra”.

Ney si mosse velocemente, mentre Napoleone riprese a studiare con il binocolo le truppe nemiche a due tiri di fucile da lui: sembrava una tigre in gabbia, infuriata di non riuscire a mordere la preda. Ogni tanto poi si volgeva a osservare la campagna a pochi chilometri di distanza più a est, sperando di non veder arrivare il generale Blucher ostacolato dalle truppe di Grouchy: un minimo errore sarebbe stato fatale.

Il suo piano era molto semplice: attaccare per primo il castello-fattoria sulla sinistra dove si erano asserragliate le truppe inglesi, sfondare poi al centro conquistando la fattoria dell’Haye-Sainte e attaccare il grosso dell’esercito inglese. Napoleone sapeva di non dover concedere troppo tempo al nemico, ma d’altronde non poteva nemmeno rischiare di perdere uomini e cavalli per colpa del terreno fangoso: sarebbe stata un’imprudenza dal prezzo troppo alto.

Trascorsero così diverse ore con i due eserciti attenti alle mosse l’uno dell’altro, con i corrieri che portavano ordini ai vari reparti e con inni e cori che esaltavano il coraggio e il valore di quei soldati, molti dei quali sapevano che non sarebbero più tornati.

Alle 11.30 la battaglia ebbe inizio: le truppe francesi attaccarono la fattoria di Hougomont in un turbinio di urla e spari; quello che non potevano sapere però era che Wellington, aspettatosi quella mossa, aveva ordinato alle sue truppe di fortificarla il più possibile fin dalla notte precedente: 1.500 soldati inglesi, tra i migliori, erano appostati lungo le mura dietro a piccole feritoie dalle quali sparavano senza sosta contro una massa enorme di Francesi che si riversavano urlando di continuo. Difendevano strenuamente la fattoria massacrando quanti più soldati era possibile, tenendo così impegnato lontano dalla battaglia un grosso contingente dell’esercito francese: fu una vera carneficina, con file intere di soldati che cadevano sotto il fuoco nemico intralciando il passo ai cavalieri e alle retrovie che avanzavano.

I Francesi, impantanati nel fango, ostacolati dai cadaveri dei loro compagni, cadevano in ogni momento, e, alle urla dei pochi superstiti, si aggiungevano le grida strazianti dei moribondi e dei feriti dilaniati nelle varie parti del corpo.

Girolamo Bonaparte, fratello dell’Imperatore, al comando di questo battaglione, non credeva ai propri occhi: quello che si era annunciato un semplice assalto, si era trasformato in un vero massacro.

Intanto al centro della piana la battaglia infuriava; alle 2.00 del pomeriggio Napoleone, posizionata finalmente l’artiglieria, forte di quasi duecento cannoni, davanti alle proprie truppe, aveva cominciato il cannoneggiamento; gli Inglesi rimasero impietriti di fronte a quell’inferno e fu proprio in quel momento di panico che da dietro una densa coltre di fumo videro sbucare, come fantasmi, i fanti e i cavalieri Francesi: l’Imperatore aveva sferrato l’attacco al centro delle linee nemiche.

Dopo un primo momento di confusione totale, gli Inglesi riuscirono a organizzare la difesa; Wellington sfrecciava con il suo cavallo ovunque vi fosse una mischia, quasi volesse prendere al volo le pallottole e respingere da solo l’assalto: occorse tutta la sua abilità e tutto il coraggio e la tenacia dei soldati per tenere a freno quell’orda scatenata.

La conquista della fattoria dell’Haye-Sainte si trasformò così in un disastro: i Francesi, costretti a percorrere un tratto molto vasto completamente allo scoperto, furono massacrati senza pietà dai nemici appostati dietro le fortificazioni.

Pallottole, palle di cannone, sciabole si abbatterono sui reparti francesi con una tale violenza da non lasciare respiro: i fanti cadevano come foglie, i cavalli intralciati dai corpi e dal fango non riuscivano ad avanzare e cadevano anch’essi scaraventando pesantemente a terra i loro cavalieri.

I pochi che riuscirono a indietreggiare furono però frenati dal terreno pesante e morirono sotto l’assalto della cavalleria inglese.

Dovunque vi era morte e desolazione; migliaia di uomini giacevano inermi sul terreno, altri urlavano straziati dal dolore delle ferite, altri ancora venivano calpestati dagli zoccoli dei cavalli mentre cercavano invano di rialzarsi.

Entrambi gli eserciti avevano subito grosse perdite, eppure la battaglia non accennava a placarsi; i Francesi continuavano dalle retrovie a mandare sempre nuovi reparti verso la fattoria dell’Haye-Sainte, premendo con una tenacia impensabile, ma ancora una volta subirono uno scacco. Dai due lati sbucarono infatti al galoppo due brigate di cavalleria, una inglese e una scozzese per frenare l’assalto nemico. Forti di circa 2.300 uomini ed armati di lunghe sciabole, si fecero largo uccidendo il più possibile con una carica talmente irresistibile da riuscire a sfondare le linee nemiche e a raggiungere l’artiglieria mettendo così fuori combattimento gran parte degli artiglieri.

Questa volta però furono gli Inglesi a commettere un errore: i cavalli erano esausti, si erano spinti troppo all’interno e durante la ritirata furono raggiunti dai lancieri francesi che li trucidarono senza pietà.

Alle tre del pomeriggio la piana di Waterloo sembrava un inferno: il caldo soffocante era aggravato dal fumo denso sprigionato dai cannoni tanto che l’aria era divenuta irrespirabile; la stanchezza dei due eserciti che combattevano su un terreno difficile cominciava a farsi sentire, ma nessuno dei due voleva desistere: i tamburi continuavano a rombare incitando alla battaglia e le due bandiere erano ancora visibili ben alte in mezzo alla piana.

Fu in questa tremenda situazione che si verificò allora l’episodio forse più drammatico e decisivo dello scontro; Wellington ordinò alle sue truppe di indietreggiare di cento passi e Ney, comandante della cavalleria francese, cadde nella trappola: interpretò quella mossa come una ritirata e, credendo che la situazione si fosse finalmente girata a vantaggio dei Francesi, ordinò l’assalto immediato deciso a sferrare il colpo di grazia all’esercito nemico.

In un turbinio di urla, un’enorme massa di cavalieri si riversò oltre l’altura, con le sciabole alzate pronte a chiudersi sul corpo nemico; quello che però si trovarono davanti fu lo spettro della morte e subito si resero conto di essere caduti in una trappola: gli Inglesi avevano disposto le loro truppe in solidi quadrati, formati da quattro linee di fanti, con i fucili carichi e le baionette in canna e davanti, proprio a ridosso della cresta, tutta una fila di cannoni pronti a far fuoco.

Non appena la cavalleria oltrepassò la duna, gli artiglieri inglesi dettero il segnale e un rombo spaventoso squarciò l’aria riempiendo i pochi metri quadrati di terreno di un fumo carico di morte; le file francesi caddero senza possibilità alcuna di opposizione e il panico si diffuse anche alle retrovie; cavalli e cavalieri si andarono ad aggiungere ai già tanti morti sul terreno, impedendo ai compagni di mantenere un assetto solido e compatto.

Per ben tre volte i Francesi tentarono di passare e per altrettante volte gli Inglesi li ricevettero con la stessa accoglienza: le palle di cannone seminavano cadaveri ovunque, mentre i fanti, stretti nei loro quadrati, avevano ricevuto l’ordine di sparare prima ai cavalli e poi ai nemici in fuga.

Napoleone si era subito reso conto dell’enorme sbaglio del comandante Ney: come si poteva pensare di attaccare con la cavalleria senza l’appoggio della fanteria e soprattutto senza aver prima sgombrato il campo con il cannoneggiamento? Ormai però l’errore era stato fatto e per rimediare non restava altro che mandare dei rinforzi: i Francesi tornarono all’attacco ancora e ancora, finendo sempre uccisi sul campo.

Wellington e le sue truppe non risparmiavano nessuno: ammiravano quegli uomini coraggiosi, ma impietosamente falciavano ogni cavallo e ogni cavaliere.

Alla fine, nel tardo pomeriggio, la fattoria dell’Haye- Sainte venne presa dai Francesi: il battaglione tedesco cedette solo dopo aver finito le munizioni ed essere stato quasi interamente sterminato. I due eserciti erano ormai allo stremo delle forze: nove uomini su dieci erano fuori combattimento, non c’erano più truppe fresche e la notte si avvicinava; Wellington e Napoleone incitavano le loro truppe a tenere duro, sperando ciascuno nell’arrivo dei rinforzi. Ora tutto era nelle mani di Blucher e di Grouchy: chi dei due sarebbe arrivato per primo? Questo interrogativo assillava la mente stanca dei due generali, ma verso est tutto taceva.

Napoleone, nell’attesa, decise di giocare la sua ultima carta, schierando in campo la Vecchia Guardia: divisa in sei battaglioni, forti di circa tremila, quattromila uomini, era composta dalle truppe migliori, leggendarie, quelle che avevano combattuto tutte le battaglie dell’Imperatore, i fedelissimi che non lo avevano mai abbandonato. La loro sola presenza fece rabbrividire gli Inglesi: il panico si diffuse rapidamente, ma Wellington ridette fiducia ai suoi soldati ed ordinò di riunire tutte le truppe rimaste: la fanteria inglese si dispose così di fronte ai nemici e cominciò a far fuoco. Le pallottole erano così fitte e precise che per la prima volta la Vecchia Guardia fece fatica ad avanzare; il momento era cruciale: le truppe inglesi ripresero coraggio vedendo vacillare lo squadrone di Napoleone e proprio in quel momento da est si profilò, in tutta la sua grandezza, l’esercito del generale Blucher.

I Francesi erano sbigottiti: tutti si erano aspettati di veder arrivare Grouchy, mentre invece sul campo si riversò l’intero esercito prussiano; l’effetto fu devastante e la Vecchia Guardia fu costretta a ritirarsi.

Il panico avvolse l’intero esercito francese ormai alla mercè dei nemici; nessuno sapeva più dove andare, gli Inglesi e i Prussiani minacciavano un accerchiamento totale e c’era già chi cominciava a scappare per avere salva la pelle.

Il volto di Napoleone era livido di rabbia, non poteva fare più niente: ormai la battaglia era irrimediabilmente perduta. Non voleva però darsi ancora per vinto e, rifugiatosi all’interno dei quadrati formati dalle truppe della Vecchia Guardia, continuò ad incitare i suoi a combattere fino all’ultimo respiro.

L’artiglieria inglese però continuava a decimare le truppe francesi e alla fine anche Napoleone fu costretto a fuggire se voleva avere salva la vita: fu infatti visto in groppa ad un cavallo allontanarsi verso le retrovie, ancora illeso.

La piana di Waterloo era ormai invasa dall’esercito anglo-prussiano, che in un impeto di gioia e di furore aveva preso a massacrare tutti coloro che erano ancora in vita.

Da ogni parte si vedevano Francesi in fuga che cadevano sotto le lance, le sciabole, le fucilate nemiche: non c’era più resistenza né speranza. Ormai tutto era finito.

(continua) La Redazione



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