Route66… and beyond!

Da Chicago a Santa Monica lungo il tracciato originale della Route66 con deviazioni per i principali parchi nazionali del sud-ovest e allungo fino a San Francisco.
Scritto da: Vertical
route66... and beyond!
Partenza il: 07/07/2010
Ritorno il: 30/07/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
Inizio subito col dire che questo racconto sarà lungo, forse lunghissimo, quindi lasciate ogni speranza o voi che entrate. Ma tranquilli, non intendo tediare i pochi lettori che arriveranno al termine del viaggio con racconti prolissi e resoconti dettagliati dei luoghi visitati, quelli li può leggere chiunque in una guida; questa non è una guida, è un “racconto di viaggio” e quindi voglio che parli di esperienze e di sensazioni, con in più alcune diciamo “dritte” che possano aiutare chi volesse ripetere il nostro stesso tipo di viaggio, chissà se riuscirò a mantenere queste promesse. Ecco, mi sono dilungato già nella intro….quindi temo che andremo sul lunghissimo, anche perché in fin dei conti, si tratta pur sempre di attraversare 10 stati, oltre 4.700 miglia, 7.600 km…non può essere un racconto breve!

Dai, partiamo insomma!

Diciamo intanto che questo è il nostro viaggio di nozze; magari i più possono pensare che il viaggio di Nozze ( con la N maiuscola) tradizionale è andare a poltrire alle Maldive, o in Polinesia o ai Caraibi….ecco, noi invece abbiamo pensato che finchè siamo giovani possiamo fare qualcosa di più “avventuroso” e che le spiagge bianche e gli atolli li lasciamo per quando saremo pensionati eheh, quindi eravamo indecisi tra il campo Base del K2 e la Route66. Il campo base in 24 giorni però era strettino, mentre per la Route ci stavano giusti, quindi USA arriviamo! Un viaggio ben riuscito si prepara a tavolino, ma una traversata degli USA quasi coast to coast non si può organizzare nei minimi dettagli, così la decisione è stata: programmiamo un tragitto di massima, prenotiamo solo i voli , l’auto a noleggio e la prima notte arrivati là, il resto: come viene viene! Lo scopo era nella parte iniziale ricalcare il più possibile il tragitto originale della Route66 anni ’30, quindi di sicuro la partenza è la città ventosa: Chicago; da lì si fissa la bussola verso west e via attraverso Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona,( una “piccola” digressione in Utah per i parchi del Grand Canyon), Nevada e infine la California fino a Los Angeles. In più, dato che così ci sembra breve, abbiamo deciso di allungarci verso San Francisco, da cui poi saremmo ripartiti. Il volo lo prenotiamo ovviamente su internet ( Delta), così come l’albergo a Chicago, mentre per l’auto ho preferito la prenotazione telefonica in quanto volevo noleggiarla con “National” ( che tra le compagnie grosse è quella che applica il “drop off charge” ( la tassa perché si lascia l’auto in un altro stato rispetto a quello in cui la si è noleggiata) più basso e quest’ultima è convenzionata in Italia con Maggiore; in questo modo ho parlato con una operatrice italiana e il prezzo era più basso anche rispetto ad internet , ovvero, uguale ma con auto di categoria superiore.

Una cosa da pianificare bene se si vuole fare la Route66 è tenere conto che la Route66 in realtà non esiste più. Originariamente la strada è stata una delle prime highway d’America , fondata negli anni ’20 ma pezzo dopo pezzo è stata sostituita da tutto un sistema di autostrade nuove, alcune proprio affianco o sopra alla vecchia strada, e ufficialmente come highway federale non esiste più dal 1985. Quindi volendo è ben possibile percorrere tutto il percorso da Chicago a Santa Monica, senza mai uscire dalle nuove autostrade, solo che in questo caso non vedrete assolutamente nulla: nessun paese, nessun locale, nessuna di tutte le cose che uno si aspetta di trovare ( e per le quali è andato in viaggio) sulla Route66. Di conseguenza se si vuole seguire in maniera abbastanza precisa il tracciato originario, bisogna studiarselo prima molto bene e avere buone mappe, perché esclusi alcuni stati, che hanno investito molto nella cartellonistica della “nuova” Hystoric Route66, in altri luoghi il tragitto non è per nulla evidente.

Il sito di riferimento per tutte le informazioni, pubblicazioni e mappe è http://www.historic66.com/ . Qui si trovano anche tutte le indicazioni “turn by turn” per seguire la strada originale, tenendo anche conto che in certi casi il tracciato non è univoco, ben potendo coesistere in gran parte del tragitto diversi di quelli che loro chiamano “alignments”, varianti alla strada originale, che nell’arco degli anni dal ‘21 al ’70 è stata modificata più volte. Noi da questo punto di vista siamo stati abbastanza “radicali”, perché nel 90% del tragitto abbiamo seguito precisamente la strada più antica, quella “pre 1928”, che in teoria è quella che maggiormente passa attraverso i centri cittadini anche più piccoli. Sempre presso quel sito è possibile acquistare la guida “turn by turn”, che è fatta molto bene e consiglio vivamente di avere ( o di stampare direttamente dal sito, noi avevamo tutte e 2), la guida dei motel e dei locali tipici sulla Route, che è fatta abbastanza bene e aiuta, anche se in certi casi è ingannatrice, e tutta la serie di mappe storiche, che sono molto belle da vedere, ma formalmente inutili per il viaggio. Ulteriore aiuto, il navigatore; per carità se uno è un mago può fare anche senza, ma guidando per quasi 8000km in stradine e centri cittadini alle volte anche grossi, è praticamente impossibile non sbagliare neppure una svolta, e in quel caso è comodo accendere il navigatore e spegnere il cervello. Io da questo punto di vista avevo fatto anche un lavorone prima di partire: guida turn by turn da una parte e google maps dall’altra avevo ripercorso sulla cartina tutta la Route, impostando un segnalino ad ogni svolta problematica; sincronizzato il tutto con il navigatore avevo alla fine oltre 400 punti critici in cui stare più attenti. Così preparato, seguire il tracciato si è dimostrato molto facile. Pronti via, partiamo da Venezia, scalo ad Atlanta. L’aeroporto di Atlanta e piuttosto assurdo: in primo luogo perché nessuno va ad Atlanta perché sia la meta del viaggio; in realtà però è un hub enorme e quindi ogni giorno devono gestire un traffico smodato di viaggiatori di passaggio verso altri luoghi e devo dire che questa gestione è di una efficienza impressionante. Dal momento in cui si smonta dal volo in pratica si snoda una colonna di gente che corre da una parte all’altra dell’aeroporto per immigrazione-ritiro bagagli-controlli-deposito bagagli via via via…tutti di corsa: non avevo alcuna speranza di riuscire a prendere la coincidenza né di rivedere all’arrivo i miei bagagli e invece alla fine tutto perfetto. Arriviamo a Chicago verso sera, e il tempo è brutto, ma passando da un’aria condizionata all’altra finchè non usciamo dalla metro che ci porta in centro dalle parti del nostro Hotel , non ci rendiamo conto fino in fondo del clima che c’è fuori. Dalla fermata all’hotel ( Seneca Hotel, proprio dietro la Hancock Tower) saranno 400mt; ecco, senza scherzare non avevo mai sentito un clima simile: cilelo plumbeo, nebbiolina finissima e caldo tropicale (tipo 40°), si faceva quasi fatica a respirare. Arriviamo in hotel come fossimo passati sotto i nebulizzatori che mettono nei bar sulla spiaggia. La tipa alla reception ci guarda “malino” per come siamo conciati: “The weather here is always like this?” le faccio….non mi risponde e questo un po’ ammetto mi spaventa, saliamo in camera con l’idea di cambiarsi e fare un giretto in centro ; ma prima doccia e giusto 5 minutini sul lettone king size…..hmm svegliati la mattina dopo. La mattina il meteo è esattamente come la sera precedente e questo mi lascia alquanto contrariato perché abbiamo programmato solo un giorno e mezzo a Chicago ed è un peccato non vederla con un bel sole perché tutti me ne hanno parlato benissimo. Usciamo e per cominciare ci facciamo tutto il c.d. Magnificent Mile, che è la via commerciale di Chicago che si stende dal loop verso nord. Il meteo è tremendo quasi come il giorno prima, tant’è che anche la macchina fotografica dopo 15 minuti di foto si appanna ( internamente!) e non posso più fotografare…cominciamo bene. A sto punto anticipiamo la visita al “The Art Institute” così stiamo al coperto. Il museo è fantastico, sia dal punto di vista architettonico con anche l’Ala Moderna ad opera di Renzo Piano, che la collezione permanente che è davvero notevole e vale assolutamente la pena di visitare anche solo per ammirare “Nighthawks” di Edward Hopper, probabilmente il quadro più importante di tutta l’arte americana. Mentre giriamo per le sale ci accorgiamo che improvvisamente la luce cambia, in pochi minuti il sole fa capolino e quando usciamo è una giornata strepitosa con un cielo cobalto…ma vieni!

Purtroppo la macchina fotografica è ancora inutilizzabile e quindi siamo costretti a tornare di corsa in taxi in albergo per asciugarla, 20 minuti col phon e via di nuovo sulla stessa strada della mattina: con il tempo di adesso pare un’altra città. I palazzi sono modernissimi, tutto è curato in maniera maniacale, dalle aiuole alla pulizia (neppure una cicca perterra!), tutto nuovo luccicante. Ci dirigiamo verso il Millennium Park, che è la zona probabilmente più visitata della città e il motivo è evidente: tutto è fatto per stupire, dalla cura dei giardini, allo skiline imponente dei grattaceli che fanno da cornice, alle fontane e alle opere d’arte tutto è studiato con estrema cura e buon gusto. Per non parlare del Jay Pritzker Pavillion, disegnato da Frank Gehry,che per nostra fortuna quel giorno ospitava anche delle prove di una orchestra che ci ha fatto sentire l’effetto sonoro delle volute di titanio che compongono lo “scheletro” che posa sul prato.

Ora il clima è prettamente estivo, ci sono moltissimi turisti e ci fermiamo per un bel po’ a vedere i bambini che giocano nella vasca piena d’acqua della Crown Fountain, e si fermano sotto i getti che escono dalle due torri di vetro di 15 metri. Anche Livia si toglie le scarpe e si rinfresca, io invece furbescamente vedendo il brutto tempo la mattina ero uscito in jeans lunghi , ora sto morendo di caldo e giustamente sono sbeffeggiato per questa scelta infausta. Ripartiamo per una bellissima camminata lungo la parte nord del loop seguendo il fiume e la sua serie di ponti levatoi di ferro dipinto di rosso: i palazzi sono uno più impressionante dell’altro, tutti compressi uno affianco all’altro e i nomi degli architetti fanno la storia dell’architettura degli ultimi 100 anni. Non credo di dire una blasfemia dicendo che l’impatto è persino più impressionante che nel Financial District di New York. Arriviamo così sotto alla Willis Tower,che con i suoi 442 metri è il grattacielo più alto d’America e consente, nel corso della visita, di camminare anche sul cosiddetto Skydeck, un terrazzino di vetro sporgente nel vuoto che si trova al 103esimo piano. Una vista veramente privilegiata e devo ammettere che il primo passo quando si abbandona la sicurezza del pavimento è abbastanza tosto, poi ci si abitua e al massimo ci si pone solo qualche domanda sulla resistenza di questi terrazzini, visto che alle volte sono stipati di gente!

Scesi nuovamente completiamo il giro del loop girovagando un po’ in libertà e abbiamo anche una prima dimostrazione della ospitalità americana nei confronti dei turisti, una cosa che ogni volta che siamo andati negli USA ci ha notevolmente stupito e che durante questo lungo viaggio abbiamo avuto modo di sperimentare più e più volte. Arriviamo infatti di fronte ad un palazzo, il Rookery Building, che secondo la guida cela al suo interno un atrio in stile liberty disegnato da Frank Lloyd Wrigh e che sembra valga la pena di vedere. Però arrivati lì di fronte scopriamo che il palazzo è privato e il portone è ovviamente chiuso. Siamo lì che riflettiamo su questo contrattempo e da una porta esce un tipo che stava andando a casa dal lavoro ( erano circa le 18), ci saluta e si avvia. Dopo una decina di metri si volta e ci vede ancora lì mentre decidiamo cosa fare, torna indietro e chiede se volevamo visitare l’interno, ci fa entrare con il suo pass e dato che il guardiano non acconsente a lasciarci gironzolare da soli, rimane lì con noi ad aspettare che visitiamo l’atrio che è veramente notevole. Ci chiede se volevamo anche vedere i piani superiori ma lì decliniamo per non approfittare della generosità. Provate voi a fermare in Italia uno che sta andando a casa dal lavoro perché volete visitare il suo ufficio.

La giornata è volata e una volta cenato ci prepariamo psicologicamente al fatto che domani partiremo davvero per il nostro viaggio “On the Road”. Io sono un po’ preoccupato lo ammetto: non so che auto guiderò, dobbiamo partire dal centro di una megalopoli come Chicago, non ho mai guidato un’auto con cambio automatico e non so se sarà così facile seguire la strada che ho studiato solo dalle mappe, trovare da dormire, da mangiare ecc.

La mattina andiamo a vedere in Adam Street, proprio di fronte all’Art Institute la targa che indica “BEGIN – Route66”, un tabellone che ho letto da qualche parte hanno dovuto appendere a circa 3 metri d’altezza perché continuavano a rubarglielo come souvenir. All’autonoleggio i timori della sera prima trovano in parte risposta e in parte comincio subito benone: il garage delle auto è sotterraneo ed esattamente in una delle strade più centrali in assoluto. Mi indicano l’auto: un macchinone ( Chrisler 300D 3.500 benzina) nero ed enorme, praticamente nuova; già sono in ansia per fare la rampa a chiocciola che esce dal garage, non mi spiegano nulla e non ho mai guidato una automatica, cerco con calma di raccapezzarmi un po’ ed evidentmente l’addetta si impietosisce e viene a spiegarmi due robe al volo ( “ ti servono solo Neutral – Drive – e Retro, le altre marce sono inutili” ….vabbè, questa frase me la ricorderò due settimane dopo quando sono in mezzo alle strade di montagna….). Parto deciso verso la rampa nel timore di fermarmi a metà salita….e subito i primi insulti perché sbuco troppo veloce sul marciapiede in strada e rischio di investire i pedoni “sorry sorry” , arrivo su nello stradone, obbligo di svolta a destra….ma cavolo io devo andare giusto dalla parte opposta!….giro a destra, faccio 200 mt, la fortuna mi assiste non c’è molto traffico: inversione a U con multipla linea continua su strada 3 corsie per senso di marcia! Nessuno ha visto niente, riparto con nonchalance nella direzione giusta. Per fortuna mi ero studiato a memoria almeno il primo tratta di strada fino ad uscire dal centro di Chicago, così devo occuparmi solo di capire l’auto ( che in realtà è un salotto su ruote, comodissima e docile nonostante le dimensioni) , finchè giungiamo alla prima “roadside attraction” (definizione generica per locali storici, posti di interesse, parchi ecc. Ecc. Lungo la route): il ristorante White Fence Farm che che ci accoglie con un pupazzo del loro piatto forte: un pollo gigante di 3 metri. Ci fermiamo per fare il punto di questo primo tratto di strada e già i timori del giorno prima cominciano a sparire. A pochi km dal centro di Chicago siamo già nel mezzo della campagna, la strada scorre che più tranquilla non si potrebbe , incrociamo pochissime auto, la guida è rilassante e si comincia già a vedere i primi segni dell’atmosfera decadente che ci accompagnerà per quasi tutto il viaggio. In più lo stato dell’Illinois ha fatto un lavoro eccellente con le tabelle della “Historic Route66” e volendo potremmo anche fare a meno del navigatore e delle guide, perché in pratica hanno tabellonato ogni svolta. Questo lavoro certosino riflette anche la passione che evidentemente i cittadini di queste parti hanno nei confronti della Route e della loro regione in generale: sono infatti moltissimi i negozi, le pompe di benzina e i diner che hanno ristrutturato al meglio in puro stile anni ’40, le case stesse mostrano dettagli e citazioni degli stessi anni, i giardini sono curati in maniera maniacale ed in genere tutto lo stato è veramente bellissimo. Mentre poco distante corre veloce con il suo traffico la interstatale, noi bighelloniamo per tutti i paesini che incrociamo lungo la strada, in certi punti cominciamo a vedere alcuni tratti della caratteristica asfaltatura originale e crepata con ciuffi d’erba risalente a chissà quante decine di anni fa. A Pontiac ci fermiamo a visitare il Museo della Route66 dove i custodi ci chiedono fino a dove abbiamo in programma di seguire la “Mother Road”, domanda cui noi possiamo fieramente rispondere: “ All the way long!”. Evidentemente questo ci fa guadagnare dei punti ai loro occhi e quindi la moglie ci dice di seguirla fuori e vuole a tutti i costi farci una foto di fronte al gigantesco murales dello stemma della Route66 che si trova sul muro posteriore del Museo. Ci fornisce anche una mappa della città con segnalati tutti i murales di immagini d’epoca che hanno disseminato sui muri degli edifici più rappresentativi. Più avanti, credo a Springfiled ma non potrei giurarci, abbiamo una ulteriore dimostrazione della gentilezza e della disponibilità americana nei confronti dei turisti. Passando infatti per uno dei tipici quartieri residenziali tutti casette in legno e prati rasati vedo ad un certo punto una di quelle inconfondibili case delle confraternite universitarie con colonnato dorico e lettere greche sul frontone, tipo “Animal House” e non posso fare a meno di fermarmi per una foto. Mentre sono lì che scatto vediamo dall’altra parte della strada un’auto che si ferma, un tipo smonta di corsa lasciando l’auto accesa attraversa la strada e ci viene incontro ( già credevo di aver fatto qualcosa di illegale tipo parcheggiare sul prato…) invece tutto sorridente voleva soltanto chiederci se volevamo una foto insieme di fronte alla sua confraternita: pazzesco. Nel frattempo comincia a fare tardi e ci fermiamo in un paesino abbastanza assurdo che si chiama Carlinville: questo è esattamente quello che uno si aspetta quando pensa ad un paesino tipico americano; il centro è composto da un quadrato con un parchetto recintato al centro e l’immancabile gazebo in legno( come in “Hazzard”) , la strada entra da un lato, aggira il parchetto ed esce dalla parte opposta: finito il centro. Quella sera c’era un concerto con un gruppo di giovanissimi del posto, tremendi, e nonostante ciò in piazza c’era tutto il paese, con le sdraio. Credo che non ci siano dei grossi happening nella zona. A cena mangiamo in una pizzeria, gestita da un Italiano cui non possiamo fare a meno di chiedere come cavolo è finito ad aprire un locale a Carlinville…ci dice che ha valutato solo dove non aveva concorrenza e lì sta tranquillo dato che non ci sono altre pizzerie nell’arco di 50km; la cameriera, che invece è autoctona, origlia e ci svela che il suo sogno invece è venire a vivere in Italia a fare un corso …..di ceramica. Mah…. Per dormire ci fidiamo ciecamente della guida ai locali caratteristici che abbiamo comprato e in zona consigliava il “CarlinVilla” motel, vabbè, proviamo…per carità, caratteristico era caratteristico, storico anche, anzi probabilmente non era mai stato rimodernato dal 1930 ad oggi, però…..la proprietaria indiana ( intendo proprio dell’India eh..non pellerossa!) ci avvisa che c’è anche la piscina, andiamo a vederla, lasciamo perdere.Da lì abbiamo ignorato quella guida per il dormire e ci siamo affidati a motel di catena, magari abbiamo rinunciato a qualche posto caratteristico ma almeno lo standard minimo era garantito. La mattina dopo partenza verso Saint Louis ma prima del centro cittadino piccola deviazione verso il vecchio ponte sul Mississippi, il Chain of Rocks Bridge che un tempo era l’unico ponte della zona su cui oltrepassare il fiume; ora è invece chiuso al traffico veicolare ma è stato recuperato per il traffico di pedoni e biciclette. E’ una bella sensazione camminare su questo gigante di ferro rugginoso,prima sopra le paludi del Mississippi e poi nel mezzo del fiume stesso, pare di veder spuntare da un momento all’altro Tom Sawyer con una zattera. Quindi ci dirigiamo verso il famoso “Arco di Saint Louis”, il centro è piuttosto caotico, per fortuna la direzione è chiara, basta alzare lo sguardo e l’arco si vede sempre; e affianco c’è un parcheggio enorme. Ammetto che non ci siamo fermati molto, l’arco me lo immaginavo grandino ma da sotto è una cosa esagerata, inoltre pensavo fosse di cemento, invece è completamente ricoperto di acciaio e con il sole e la forma triangolare della struttura sembra una immensa lama, come una spada lucente verso il cielo. Saarinen già per aver pensato ad una cosa del genere è stato geniale. Volendo si poteva anche salire fino in cima, che deve essere una bella esperienza, ma la coda era sorprendentemente lunga. Nel fiume che è proprio di fronte all’arco sono ormeggiati due battelli a pale tutti addobbati con bandiere e coccarde che paiono arrivare direttamente dal passato. Uscendo da St Louis si attraversa probabilmente il tratto più degradato di tutta la route, ed anche le guide avvisano che la zona può non essere proprio sicura di notte, noi per fortuna ci passiamo a mezzogiorno e ho giusto un attimo di timore quando mi fermo a fare benzina, mi si avvicina un gruppo di giovinastri dall’aspetto molto gangsta e fanno il giro della macchina … invece mi volevano solo fare i complimenti per l’auto “Good choice man!” eheh. Ci fermiamo anche in una delle gelaterie storiche dello stato, che dalla guida dovrebbe servire dei gelati straordinari e quanto di più simile ai gelati “nostrani” si possa trovare nell’arco di svariate centinaia di miglia; la cosa divertente è che ogni dannata persona che prende una coppetta (anche se ne prende un’altra dopo 10 minuti) dopo aver messo il gelato devono per forza girarla sotto sopra (“Concrete!”) per far vedere che è solido e non cade….americani. ( il gelato comunque era discreto, ci mettono dentro praticamente qualsiasi cosa possibile, bombe da 3000kcal a coppetta). Usciti dalla città la campagna riprende il sopravvento, si passano dei paesi veramente caratteristici, saloon tipo far west rimodernati in mezzo al nulla, la sedia a dondolo più grande del mondo, trading post storici pieni di souvenir, tutto molto rilassato e ce la prendiamo con calma. Passiamo per un posto che si chiama “Devil’s Elbow”, dove troviamo presso un diner lungo il fiume un gruppo di harleysti che si fanno la griglia: fuori gente che fa il bagno nel fiume e dentro il locale, buio e fumoso, altri che giocano a biliardo e si ammazzano di birre al bancone, il soffitto completamente ricoperto di reggiseni usati. Qui siamo proprio nell’America più vera e ruspante, non credo ci fossero molti turisti e con più tempo a disposizione valeva sicuramente la pena fermarsi, ma la strada è ancora lunga. Più avanti, a Carthage, vediamo una coda di macchine ferme a bordo strada, con gente nei veicoli o nei cassoni dei pickup che mangia o beve birre, ci chiediamo cosa facciano e intanto li superiamo andando pianino, la coda non finisce più, ad un certo punto svolta in una stradina: un drive inn all’aperto! Erano le 6 del pomeriggio, luce piena e già erano tutti in coda per Toystory 3. Ancora poche miglia e siamo arrivati in Kansas, dove però la Route corre per un tratto brevissimo: a Webb City siamo fortunati e capitiamo probabilmente nell’unica giornata dell’anno in cui ci sia un minimo di vita, c’è infatti in centro una mostra di auto d’epoca,il paese ha l’aspetto di una città fantasma con parecchi edifici scrostati e fatiscenti , sembra di essere sul set di un film….con tutte le auto modificate e lucide direi “Cars”. Tutta questa parte del viaggio andiamo via veloci, guido per parecchie ore al giorno ma senza tuttavia stancarmi più di tanto, ora capisco perché tutte le auto americane hanno il cambio automatico ed il cruise, i limiti sono bassi ma dato che tutti ( indistintamente ) li rispettano in maniera acritica, uno deve solo impostare la velocità esatta e fregarsene del resto; d’altronde non è neppure consigliato mettersi a superare, perché se tutti vanno alla stessa velocità, uno che corra anche 10km/h più veloce deve per forza superare tutti…e quindi è visibilissimo.

Non ci sono molte cose da vedere qui, ci si gode le lunghe strade dritte in mezzo al nulla, si vede la strada in lontananza perdersi dietro una collina, sembra lontanissimo, invece poi si raggiunge quel punto e dietro la collina la strada continua imperterrita dritta colle dopo colle….attraversiamo comunque delle cose notevoli: uno che si è fatto un enorme totem di cemento dipinto in giardino, uno che ha trasformato la propria casa in una specie di autocelebrazione della route66 stessa, con installazioni di ferro e pezzi di recupero e un maggiolino della wolkswagen che spunta dal primo piano della casa, l’albero delle scarpe con centinaia di scarpe vecchie appese da gente passata chissà quanti anni fa. A Clinton visitiamo un altro bel museo sempre dedicato alla Mother Road: hanno ricostruito tutta una cittadina con arredi, attrezzi di lavoro e documenti d’epoca ( c’è anche la vera auto che hanno utilizzato nel film “Furore” di John Ford) e ristrutturato una bella casa coloniale con altri ricordi della storia della zona ; noi europei siamo abituati ad avere reliquie e monumenti con migliaia di anni di storia, e magari li lasciamo all’incuria, qui invece vanno talmente fieri della loro ( breve) storia che anche se il pezzo più antico probabilmente non ha più di 100 anni, tutto è ben curato e il custode ci segue a vista perché non camminiamo fuori dal vialetti.

Dormiamo non mi ricordo dove, probabilmente in Oklahoma in mezzo al nulla e la mattina dopo ci svegliamo presto, partiamo dal motel verso le 8 e in giro nel paesino non c’è anima viva, arrivo ad uno degli innumerevoli incroci deserti, visibilità di km a destra e sinistra, c’è lo stop, rallento solamente….100 metri….vedo lampeggianti nello specchietto retrovisore. “ Azz…ma ce l’ha con noi?” “ Magari ora ci supera” …non ci supera. Ok mi fermo a bordo strada, sono preparato e rimango in auto con le mani in vista, ci chiede da dove veniamo: “Chicago” ( 1300km indietro) e dove siamo diretti: mi sento un po’ idiota a dire “Los Angeles” …è come se un vigile in centro a Milano ti domandasse dove stai andando e tu gli rispondi “Mosca” , ma tant’è, era la verità. Mi ricorda che è obbligatorio fermarsi comunque a tutti gli stop ma è magnanimo e non ci solleva contravvenzioni, tutto sommato una esperienza positiva: “Siamo stati fermati dalla polizia!”, ci stava. Proseguendo capiamo di avvicinarci alle grandi pianure centrali, gli alberi cominciano a sparire e le case si diradano, il cielo è completamente limpido e vediamo i prati stendersi a 360° per miglia e miglia. L’aria si fa secca e sperimentiamo i primi famosi panorami del deserto, con le nuvolette che si stendono in lontananza, come fossero dei livelli separati uno dietro l’altro; non è facile da descrivere a parole, chi li ha visti sa di cosa parlo, ma da noi i cieli non sono così.

Entriamo in Texas e passiamo per il distributore e relativa torre ristrutturata della Conoco che si trova a Shamrock; anche qui se avete visto “Cars” il negozio di vernici di Ramon è esattamente identico a questa costruzione art-deco che è sicuramente uno dei simboli della vecchia Route66. Più avanti siamo costretti ad entrare in autostrada per un breve tratto: stiamo infatti attraversando una delle sezioni che agli albori della strada era considerata tra le più temibili. Si attraversa infatti quello che una volta era conosciuto con il nome di “Jericho Gap”, un sistema di praterie e canyon che è stato asfaltato solo in tempi recenti e che dopo una pioggia diventava una specie di trappola per le auto, che dovevano essere trainate fuori da queste sabbie mobili con i cavalli da tiro. Il posto è anche suggestivo e in cima ad una collina hanno costruito un centro visitatori panoramico completo di tavolini da picnic e ombrelloni, certo che poi se affianco ai tavolini riempi la zona di cartelli con scritto “Attenzione serpenti a sonagli ”, non è che venga poi così tanta voglia di fermarsi. Questo famoso fango Texano abbiamo modo di testarlo poco dopo, quando arriviamo ad un’altra delle roadside attraction più famose, che si trova ad Amarillo: il Cadillac Ranch. La cosa che colpisce di più oltre ovviamente all’assurdità di queste 10 auto conficcate nel terreno è il contrasto tra i colori sparati dalle bombolette di vernice sulle auto, il rosso della terra e l’azzurro del cielo. La luce è fortissima e fa un caldo notevole, ciò nonostante deve aver piovuto di recente e per mettere anche la nostra “firma” sulle auto tocca avvicinarsi alla zona fangosa. Risultato: mezz’ora persa a cercare ( inutilmente) di togliere dalle scarpe quel dannato fango rosso e interni dell’auto diciamo “compromessi”. Siamo partiti da pochi giorni ma poco più avanti ( dopo essere passati affianco al più antico “ascensore da grano al mondo”… mah!) arriviamo al “Mid point Cafè”, che è localizzato esattamente a metà strada tra Chicago e Santa Monica, sappiamo però che nella prima metà siamo andati via abbastanza veloci mentre da qui in poi faremo più deviazioni e soste per visitare quello che ci aspetta. Nella guida leggiamo che la specialità della casa è la famosa “Ugly Crust Pie” , dentro ci accoglie il proprietario (che veste una camicia assolutamente improbabile) ma quando ci fa vedere le torte non abbiamo coraggio di ordinarle, mi spiego, probabilmente erano buonissime ma una crostata alta 10cm pareva veramente troppo “Ugly” anche per il mio stomaco. Il cafè comunque è bellissimo, una piccola macchina del tempo negli anni ’50. Ora siamo proprio nel mezzo del Texas, intono a noi campi e campi sconfinati, con ogni tanto greggi di bovini di migliaia di capi, ci fermiamo in un paesino che si chiama Santa Rosa. Leggiamo che qui c’è un sito che è il punto di riferimento nell’arco di centinaia di miglia per chi fa sub, una specie di “cenote” messicano che si chiama “The blue hole”, così lasciata la roba in motel andiamo a cercarlo. Il navigatore cerca di mandarmi da tutt’altra parte ma per fortuna vedo un cartello e arriviamo a questa specie di piscina naturale, un pozzo circolare di una 20ina di metri, ma profondo oltre 80 metri, che effettivamente è proprio blu. Uno dei lati è a ridosso della collina e quindi si può anche tuffare da bella altezza, e ci sono diversi autoctoni che nuotano; non ci servono altri incentivi, così ci cambiamo in macchina e ci buttiamo anche noi, l’acqua è gelida e lo sbalzo con i 35° dell’aria non è male, ma è comunque un paradiso. La sera Santa Rosa è un deserto, io sbaglio clamorosamente ordinazione e mi portano un pollo fritto ( ottimo ) ricoperto però di una terribile salsa verdastra di non so cosa; facciamo un giro a piedi per smaltire la cena e vediamo delle vetrine di negozi di abbigliamento che definire assurde è poco: una vetrina con statua del Sacro Cuore di Cristo, con tunica rossa e affianco abbigliamento intimo e da sera esattamente in tinta con la tunica; l’altra vetrina con la Madonna in tunica azzurro e abiti parimenti in tinta!

Da qui si lascia la direzione verso west che abbiamo seguito negli ultimi 1000km e si punta decisamente verso nord perché la Route fa una grossa ansa in direzione Santa Fè! Avevamo delle aspettative contrastanti per questa tappa: da una parte il nome rievoca certamente le radici più lontane dello stato americano ( è infatti una delle città più antiche di tutti gli Stati Uniti), dall’altra ce la descrivono come una specie di luna park per i ricconi americani. Effettivamente queste due anime convivono: arrivando da est ( passando dal paesino di Pecos) godiamo di una strada veramente caratteristica che porta dritto fino in centro tra negozietti e locali in “adobe” ( le tipiche costruzioni in terracotta arrotondata). Si arriva quindi alla Missione di San Muguel, che è ritenuta la più antica chiesa degli Stati Uniti, essendo stata costruita intono al 1.600. E’ strano pensare che questo posto, sito a oltre 2000 metri di altezza, in mezzo al deserto sia stato in assoluto uno dei primissimi insediamenti europei di tutto il continente. Il centro è comunque bellissimo, tutte le costruzioni sono in stile adobe, ma conservate perfettamente; i negozi all’apparenza “rustici” poi in realtà si scopre sono antiquari, gioiellerie , ceramici tutti di un certo livello, con articoli anche molto belli. Le strade principali sono solo le 4 che si diramano dalla piazza quadrata centrale, ma dentro ogni palazzo si nascondono delle corti interne con giardini e ristoranti e negozietti che fanno la gioia di mia moglie. Entriamo anche in uno dei negozi più assurdi: in mezzo al deserto, a luglio, tutto un magazzino pieno di….addobbi per alberi di natale e presepi, cose di ogni tipo! Il centro è come dicevo la piazza quadrata con il giardino centrale: ci sono moltissimi turisti, suonatori con uno specie di xilofono fatto coi tubi e sotto il porticato del palazzo del Governatore tutta una serie di venditori indiani con un tappeto di argenteria e terracotte ( Jevelry, Turquoise & Pottery!) artigianali. Tutto è piuttosto turistico, sembra di stare in un set cinematografico, ma seduti sulla panchina del parco si sta benone e ci godiamo il contorno; facciamo anche due chiacchere con dei pensionati locali che ci illustrano tutta una serie di zone turistiche nei dintorni, forse non gli è chiaro che abbiamo ancora 4000km da fare, però ci consigliano anche di fermarci la sera a Flagstaff, e a posteriori sarà un ottimo consiglio. Mentre l’arrivo da est era stato così “dritto” e caratteristico, lasciare Santa Fè verso ovest è invece un disastro, lo stradone è una colonna di auto e semafori, intorno a noi solo centri commerciali. Passiamo velocemente Albuquerque, che è una cittadona di oltre mezzo milione di abitanti, magari rileva il fatto che qui è stata fondata la Microsoft, ma dal punto di vista turistico non ha grande interesse ( basti pensare che la principale attrazione della città è il teatro in stile “Pueblo Decò” …).

Torniamo in mezzo al deserto, passando in mezzo a miglia e miglia di nulla più assoluto, inframmezzati da colline di roccia policroma rosse, gialle, bianche e distese di cespugli seccati dal sole. Sembra una cacchiata ma il paesaggio ricorda i cartoon di Wile Coyote e Beep Beep…e infatti ad un certo punto ci attraversa la strada un roadrunner ( che effettivamente anche se spaventato dall’auto non vola via ma fa una corsa velocissima e ridicola con le sue zampette). Poco prima di Gallup passiamo per il parco di Red Rock in cui grosse montagne di arenaria si staccano dalla pianura formando dei canyon selvaggi e capiamo come mai Gallup fosse negli anni 30-40 il set cinematografico più importante per i film Western; andiamo quindi a mangiare all’El Rancho Hotel, che al tempo era il posto in cui tutte le grandi star di holliwood soggiornavano durante le riprese dei film ( era anche l’unico Hotel!). Il posto sembra essersi fermato a quel tempo: gli interni sono tutti in stile western in legno pietra e tappeti appesi, decisamente kitch, e alle pareti foto su foto autografate degli attori passati di lì: Wayne, Reagan, Bogart, Tracy, Hepburn, Crawford, Douglas ,Peck, Lancaster ecc. Ecc. …i nomi non servono vero? Gallup è anche definita la “Indian Capital of the World” con oltre un terzo della popolazione di origine pellerossa, infatti ovunque leggiamo insegne e negozi che richiamano alla cultura e all’artigianato indiano; si vedono anche a bordo strada in mezzo al deserto le classiche casette di legno con l’immancabile banchetto di argenteria……ed anche alla produzione di fuochi d’artificio, ogni 2 metri dei cartelli giganteschi di rivendita di fireworks: devono andare pazzi per ‘ste cose, sarà come la nostra Napoli.

E arriviamo così al primo dei grandi parchi che abbiamo in programma di visitare tra Arizona, Utah e California: poco più avanti infatti c’è il Petrified Forest National Park. Quasi tutti i parchi americani sono così smisurati che la visita avviene in auto propria, salvo poi fermarsi dove si vuole per visitare siti o viste di particolare interesse. Arrivati dunque al casello acquistiamo il pass annuale dei parchi statali ( che consiglio vivamente se si ha in programma di visitarne diversi, anche perché in questo modo si saltano anche le code spesso presenti nei parchi più famosi.) e veniamo gentilmente intimati a non portare via nulla dal parco, pena la fucilazione ( scherzo, ma multe salatissime!)

Il parco comunque si compone di due parti, uno è il “Deserto Dipinto” e l’altro è la vera a propria foresta pietrificata. Già il deserto dipinto presenta dei panorami da togliere il fiato: le rocce ricche di ferro e manganese e zolfo erose dal vento e dall’acqua creano delle vallate e delle strutture a forma di cono ( che infatti loro chiamano “The Teepee”) ,con delle stratificazioni a fasce nette, come degli arcobaleni di colore rosso, blu, nero, giallo, bianco e verdino. La strada corre in mezzo a questi canyon colorati dall’aspetto vagamente lunare. Qui si cominciano anche a vedere i primi pezzi di tronchi fossili spuntare dal terreno, ma è inutile fermarsi perché poco più avanti ci sono intere zone completamente ricoperte di frammenti o anche alberi cristallizzati interi. Il sentiero che hanno tracciato in mezzo alle colline più “ricche” è quasi deserto, ci saranno 40 gradi e sono più i corvi neri dei visitatori, ma gli alberi hanno dei colori in alcuni casi irreali, certi sono effettivamente simili al quarzo ed alcuni hanno delle dimensioni notevoli ma prima di avvicinarsi paiono in tutto e per tutto dei normali alberi caduti, peccato che invece abbiano oltre 200 milioni di anni. Qui inizia una delle varianti al tracciato della Route66 che abbiamo inserito per poter visitare altri parchi che erano troppo importanti per essere semplicemente ignorati; siamo così tornati indietro per qualche miglio e a Chambers, abbiamo svoltato verso nord e verso il Canyon de Chelly; non prima però di aver mangiato uno dei migliori hamburger con pancetta del viaggio in un saloon molto suggestivo dove abbiamo visto anche dei colibrì selvatici abbeverarsi ( ma non erano uccelli tropicali?).

Lungo il tragitto incontriamo anche un trading post ( i luoghi in cui ai primi del ‘900 gli indiani delle riserve barattavano i loro prodotti con gli europei) storico, con ancora il pavimento in assi di legno e tutti i prodotti esposti: ora è un sito storico nazionale ma si possono ancora comprare manufatti indiani originali, tipo un tappetino 1x1MT fatto a mano, 6.500$ !!

Arriviamo al Canyon nel pomeriggio, quando piano piano il sole comincia ad essere meno violento; il parco pur essendo statale è completamente all’interno della riserva indiana Navajo, quindi non è possibile gironzolare liberamente sul fondo del canyon dove scorre il fiume ( se non accompagnati da guide indiane); per fortuna esistono due comode strade che corrono giusto sul bordo superiore del parco e costeggiano i due bracci principali del canyon: il “Canyon del Muerto” e il “Canyon de Chelly” propriamente detto. (ah, per la cronaca si pronuncia “sciai” e non come il detergente intimo!). Noi scegliamo il secondo perché è anche l’unico che dà la possibilità in un punto di scendere sul greto del fiume con un sentiero panoramico fino a dei resti di alcune case degli antichi indiani Anasazi. Dico subito che questo parco è splendido, forse sarà stata anche la luce perfetta ma ha dei colori da rimanere a bocca aperta: il fondo della gola è verde e coltivato, ci sono alberi rigogliosi, ma il tutto è racchiuso da pareti verticali di quasi 300 metri di altezza di colore rosso mattone e completamente levigate dall’acqua. Scendendo sul fondo con il sentiero che hanno scavato nella roccia, sembra di entrare in un giardino segreto e isolato dal mondo. Si capisce perché già nella preistoria i primitivi avessero occupato questi luoghi e l’impressione è che da quei giorni in fin dei conti l’ambiente non sia cambiato poi moltissimo. Aggiungo qui una notazione riguardo ai tempi indicati qui come in tutti i principali parchi statali per i diversi sentieri panoramici: i tempi sono fatti tenendo conto che il 50% della popolazione è obesa o comunque fuori forma. Se scrivono 2 ore e siete persone “normali” considerate pure un’ora, se siete relativamente allenati anche meno. Questo anche per evitare di fare errori di valutazione del tipo: “Accidenti vorrei proprio fare quel giro, ma mettono 5 ore di cammino e non ho così tanto tempo!” ecco, probabilmente in 2 ore andate e tornate anche senza correre. La strada si dipana proprio sul bordo, con diversi stop sugli strapiombi nei punti maggiormente panoramici,(che come da tradizione USA hanno dei nomi altamente evocativi: Caverna del Massacro, Caverna della Mummia, Le case scivolanti, La Faccia di Pietra) fino ad arrivare al punto panoramico della “Spyder Rock”, una doppia torre di roccia che svetta solitaria per oltre 200mt proprio al centro del canyon, sembra finta da tanto è perfetta. A fine giornata tra camminate e sole siamo disidratati così sperimentiamo nel più vicino Mac la bibita king size, un quarto di gallone di coca, ( è poco meno di 1 litro), facevo fatica a tenerla con una sola mano!

Ormai il sole sta calando e cominciamo a cercare dove dormire, fino a qui infatti non abbiamo mai prenotato gli alloggi; a seconda di dove ci trovavamo, entravamo nel primo posto che ci pareva decente e non avevamo mai avuto problemi di disponibilità. Decidiamo così in maniera avventata di andare verso Kayenta, che è la città più vicina alla Monument Valley, che abbiamo in programma per il giorno successivo. Appena arrivati lì ci accorgiamo subito dell’errore: il posto è molto bello, soprattutto al tramonto, ma è un casino! C’è gente ovunque, i motel non sono poi moltissimi e tutti assolutamente pieni. Ci inseriamo in un turbine migratorio di persone che come noi saltano da un posto all’altro in cerca di un letto, che non c’è, e ci confrontiamo sulle rispettive zone da cui arriviamo per cercare di capire dove eventualmente conviene dirigersi. Ad un certo punto, evidentemente presa dalla pena( noi stavamo già valutando dove metterci a dormire in macchina…), una delle titolari di uno degli ultimi posti dove chiediamo, comincia direttamente lei a fare un giro di telefonate a posti che conosceva nei dintorni e ci dice che ci sono ancora delle camere a una quindicina di miglia da lì. A questo punto tutti quelli che fino a quel momento erano i nostri compagni di avventura, automaticamente diventano avversari e partiamo sparati verso il motel; dove per fortuna arriviamo per primi. ( Motel Anasazi Inn: posto diciamo molto “rustico”, quando siamo entrati nella,chiamiamola, reception eravamo in assoluto gli unici “bianchi”, gli altri tutti nativi, però alla fine decente anche se di sicuro un po’ se ne approfittano con i prezzi, ben sapendo che l’unica alternativa per noi erano i sedili dell’auto). Da qui in poi, perlomeno nella zona dei parchi, decidiamo che vale la pena prenotare almeno un giorno per l’altro per evitare sorprese.

Il giorno dopo alla mattina presto siamo a Monument Valley. Penso sia inutile dire una volta di più quale posto incredibile sia questa valle: chiunque sono certo ha ben presente il profilo di questa sequenza di pareti di roccia che si staccano verticali e solitarie dalla pianura e le lande sconfinate che le circondano, ma essere lì di persona ti fa davvero sentire nel Far West. L’idea per visitarla era valutare il giro a cavallo, ma in primo luogo non sono mai salito in vita mia su un cavallo, ed in secondo luogo facendo un po’ di conti con poco di più il cavallo me lo compravo! Veramente esosi. A questo punto la scelta era tra le loro jeep polverose e il giro con auto propria; mentre ero lì che valutavo se la mia auto era compatibile con la strada sterrata che si inoltra nel parco, vedo giusto giusto rientrare dal giro una famiglia di japponesi con la mia stessa identica auto, chiedo loro se è fattibile e mi confermano di si,andando però “very slow”. Ok, parto deciso: primo dosso, …scrrrronkkkk! Hmmm..forse meglio rallentare ancora. ( cmq a parte il primo pezzo che evidentemente lasciano volontariamente parecchio rovinato anche per dissuadere gli indecisi , poi la strada migliora ed è fattibilissima con qualsiasi auto). Forse anche per l’ora, pochissima gente in giro, l’auto corre senza problemi nella soffice sabbia rossa, in certi punti panoramici siamo proprio da soli, silenzio assoluto intorno, solo il soffio del vento caldo, una cosa mondiale. Da qui via a malincuore verso sud, lasciamo i bagagli a Flagstaff ( dove torneremo la sera) e proseguiamo per una veloce puntata a Sedona, che è un paese decisamente turistico incassato in una valle poco più a sud di Flagstaff. La strada per raggiungerlo è proprio montuosa, con tornanti e salite serie, noi siamo abituati ma gli americani, con le loro strade dritte evidentemente no e trovo in giro dei “piloti” non indifferenti. Poco prima di arrivare passiamo per il parco di “Slide Rock” dove vediamo un sacco di gente che fa il bagno nelle pozze d’acqua del torrente a bordo strada, bellissimo ma per noi è troppo tardi anche perché la valle è chiusa e il sole sta già andando via. Arriviamo a Sedona, che si trova effettivamente in un luogo decisamente bello, il centro della città è anche molto curato con case eleganti e negozi curati, però l’impressione che abbiamo è quella di un classico “trappolone per turisti”, certamente è più una città da usare come punto di partenza per le attività nei dintorni, che come luogo da godere da stanziali. Interessante però vedere tutta una serie di negozi a studi legati alla industria new age dei “vortici astrali”, che incredibilmente si concentrano nella zona intorno a Sedona…eheh. Torniamo a Flagstaff per cena e troviamo una delle cittadine più belle e attive incrociate in tutta la Route66 ( non lo avevo detto che qui siamo tornati nuovamente sulla Route?). Il centro brulica di vita, sia turisti che moltissimi giovani, dato che qui c’è la sede dell’Università dell’Arizona. Ci sono bar e ristoranti di ogni tipo, ed anche il centro ha delle costruzioni veramente originali con mattoni a vista su cui l’amministrazione ha affisso anche delle targhe interessanti con notizie di attività commerciali e fatti accaduti in passato presso questa o quella palazzina, il tutto corredato anche da foto d’epoca. Passiamo una bellissima serata mangiando in un locale, per cambiare una volta tanto, molto “europeo”, e la sera assistiamo in piazza ad una gara di “Guitar Hero” organizzata in grande stile, con premi in denaro, maxischermi e presentatori, di fronte ad un pubblico festoso: solo in America! In più qui anche il clima è vivibile, e dopo tanta calura la sera fa quasi fresco perché la città è circondata da foreste di conifere, e soprattutto si trova a oltre 2000mt di altitudine.

Grosse aspettative anche il giorno dopo: andiamo infatti verso il Grand Canyon. La cosa che colpisce di più è il fatto che in pratica fino a che non si arriva a ridosso del burrone, non si vede nulla, sembra di essere in mezzo alla pianura, poi si parcheggia, si passa per il centro visitatori e quando mancano una ventina di metri al bordo, appare il baratro immenso che si estende per miglia e miglia. Per noi purtroppo giornata non limpidissima, quindi l’impatto che pure è notevole, probabilmente è un po’ ridimensionato. Devo dire inoltre che in sé il tutto è fin troppo smisurato, si fa fatica a percepire l’aspetto di insieme e boh…per carità bello e unico al mondo ma altri posti ci sino piaciuti di più. Inoltre c’era, come prevedibile, moltissima gente e godersi bellezze naturalistiche nel marasma non è mai l’ideale. Facciamo il “classico” Rim trail fino a Grand Canyon village, e poi per vivere il canyon un po’ più da vicino e staccarsi in parte dalla folla facciamo un altro trail che parte vicino a Yaki Point. Non è uno dei sentieri più lunghi, ma offre con non moltissima fatica delle viste spettacolari. Vediamo gente di tutti i tipi: in ciabatte, sovrappeso, in jeans e maglione; nel canyon ci saranno 40 gradi e una umidità spaventosa, camminare non è proprio l’ideale ( inoltre saranno le 2 del pomeriggio) ma tutto sommato sono molto soddisfatto della scelta, in certi punti si cammina sullo spigolo di un avancorpo che partendo dal bordo si protende verso il centro del canyon, come su una passerella lastricata con il vuoto sia a destra che a sinistra. Mentre risaliamo si addensano dei nuvoloni neri, che tutto sommato ci fanno sperare che riceveremo uno scroscio rinfrescante, invece fa solo tipo 3 minuti di pioggia, il sentiero con l’acqua diventa gommoso e si attacca sotto le suole, l’umidità che prima era al 95% passerà al 150%, una bellezza, superiamo i tipi in sovrappeso di prima che boccheggiano, saranno ancora là. A questo punto da programma originale avevamo pensato di fiondarci direttamente a Las Vegas, ma facendo un po’ di conti ( avevamo perso completamente la nozione dei giorni ) ci accorgiamo che saremmo arrivati lì esattamente sabato sera, vuol dire in una bolgia infernale perché nel fine settimana calano tutti i “giocatori” ed inoltre gli alberghi solo per questo motivo semplicemente raddoppiano di prezzo. Noi possiamo andarci quando vogliamo, né ci interessa più di tanto giocare, quindi valutiamo alternative diverse: Bryce Canyon da qui sono “solo” 450km….massì, che sarà mai, una sgambata al Bryce! A questo punto facciamo un altro errore di valutazione per quanto riguarda gli alloggi: decidiamo infatti di fermarci a Page, che è circa a metà strada, perché ingannati dalla guida che non indica nessuna attrazione di grande interesse, pensiamo che Page sia un posto mezzo fantasma. In realtà Page un posto megaturstico, con una infinità di cose da fare e vedere, in più il lago Powell è lì a pochi km, e per chi ha l’oceano a 3000km un grosso lago è come il mare, ci sono porti turistici, barconi ecc. Ecc. E così ovviamente quando arriviamo lì è tutto pieno ( anzi una tipa mi dice che le era rimasta una camera, una suite 400$ a notte…sii cerrrto…400 sacchi a Page mi pare un affarone!). Sempre colpa della guida che non scrive nulla ci perdiamo L’Antelope Canyon, che è una cosa unica al mondo, io pensavo fosse a centinaia di miglia, invece era lì a 10 km! Alla fine troviamo da dormire in un motel in mezzo al nulla ( ma proprio nulla), gestito da un tipo con cappello e faccia assolutamente cow boy, molto tipico, tutto sommato eravamo anche contenti, poi nella notte mia moglie si alza col buio per andare in bagno e pesta una carta di caramelle, o almeno dal rumore quello sembrava, poi la mattina vediamo sulla moquette uno scarafaggione gigante spiaccicato eheh.

Ci allontaniamo dal fondo desertico del Grand Canyon e cominciamo ad innalzarci verso le foreste della zona del Bryce Canyon; la strada è bellissima già prima di arrivare anche solo vicini al parco: passiamo tutta una serie di paesini tipo “Casa nella Prateria”, con fattorie di legno e animali al pascolo. Poco prima del Bryce si passa per il Red Canyon, che presenta colori e strutture di roccia molto simili a quelle del suo fratello maggiore, già queste mi sembravano una cosa straordinaria. Arrivati al centro visitatori il tempo è proprio bruttino, ma abbiamo ormai capito che non vuol dire molto, perché da queste parti il meteo è molto variabile, in pochi minuti si passa dal nero più inquietante al sole splendente e infatti nei pochi minuti che impieghiamo per arrivare a “Sunrise Point” il cielo si apre e ci presenta una alternanza di cielo azzurro, nuvoloni neri residui e macchie di sole. Il primo impatto è strabiliante: il parco ha dei colori che paiono ritoccati, il rosso arancione è quasi fosforescente e in mezzo chiazze di gesso candido come zucchero a velo.

Partiamo veloci verso il Navajo Trail ( “the best 2 mile trail of the world” dicono loro) ed effettivamente è strepitoso , si passa in mezzo ai pilastri di roccia friabile erosi dall’acqua e dal vento ( Hoodoos), che sembrano costruiti ad arte e non dal caso per tanto sono perfetti, mentre pini svettanti e verdissimi crescono nei pochi interstizi fertili tra un canyon e l’altro. Ci si stampa un sorriso perpetuo sul viso e ci godiamo la camminata che non è per nulla faticosa su questi entierini perfettamente segnalati, fino ad arrivare alle strette pareti verticali e incombenti del canyon che loro chiamano “Wall Street” per l’aspetto simil grattacelo che hanno. Sicuramente valeva la pena l’allungo di 500km, una delle cose in assoluto più belle di tutto il viaggio. Appena finito il giro, neanche fatto tempo di arrivare al ristoro a rifocillarsi ed è venuto giù un diluvio universale con gocce da mezzo litro l’una e fuggi fuggi di gente da tutte le parti.

Per riportarsi ora verso Las Vegas decidiamo di tagliare attraverso la foresta nazionale di Dixie, passando per un lago di montagna incantevole con gente che campeggia e pesca o va in canoa in tipico stile USA. Il panorama è molto diverso da quelli che abbiamo visto fino ad ora, vediamo alberi e distese di prati più simili alle nostre montagne, con costruzioni che sembrano più dei rifugi che delle abitazioni . Smontiamo dall’auto per un giretto dalle parti del Cedar Breaks National Monument e sentiamo che anche l’aria è decisamente diversa. A casa poi leggerò che nel punto in cui ci siamo fermati eravamo a quasi 3.200mt di altezza! E quella strada normalmente chiude ai primi di novembre per riaprire solo a fine maggio, visto che vengono giù metri e metri di neve…ci credo che faceva freschino!

Ultima tappa prima di Las Vegas, ci fermiamo anche un giorno a Zion National Park. Questo dal punto di vista logistico è IL parco ideale, si arriva al Visitor Center con auto propria, lì si parcheggia e ci si muove solo con i bus elettrici gratuiti che vanno avanti e indietro costantemente sull’unica strada della valle. Leggevo non so dove che fino a pochi anni fa non era così, e infatti tutta la valle era invasa di auto e nei week end una bolgia: ora pur essendo domenica il parco è vivibilissimo, smontiamo come prima sosta allo Zion Lodge che è un bellissimo albergo posto al centro di un prato magnifico, contornato da alberi secolari e pareti montuose verticali. Facciamo due belle camminate fino alle Emerald Pools e poi alle cascate di Weeping Rock, ma il periodo evidentemente non è l’ideale perché l’acqua è scarsina, peccato perché in certi punti si passa sotto delle cornici da cui nel periodo più “umido” sicuramente cadrebbero delle bellissime e rinfrescanti cascate che farebbero la gioia di tutti i turisti visto che il sole è feroce e fa veramente molto caldo. Tornati al lodge saccheggiamo pesantemente la fountain delle bibite: mai come in questo caso la formula “free refill” ci sembra un paradiso in terra. Riposati e rifocillati partiamo per visitare il fondo estremo del parco: passiamo per il punto più spettacolare della valle, dove il fiume compie una doppia ansa molto stretta completamente incassata tra pareti di roccia levigate, la strada asfaltata finisce poi presso il “Temple of Sinawava” ( adoro tutti questi nomi!), la gola si stringe e si procede lungo il sentierino lastricato lungofiume. Qui finalmente fa fresco, intorno a noi decine di scoiattoli ( alcuni piuttosto grossi rispetto ai canoni europei) ci corrono intorno e si fermano in posa a farsi fotografare, e più si procede più stretto si fa il passaggio. Dopo un paio di km non c’è più spazio per il sentiero e si cammina direttamente sul greto del fiume fino a che, purtroppo per noi, non è più possibile proseguire senza andare direttamente dentro il torrente. A questo punto capiamo il senso di tutti quelli che vedevamo intorno a noi con delle strane scarpe da trekking di gomma e bastone da cammino: loro senza battere ciglio continuano anche nell’acqua bassa e scompaiono lentamente, con nostra somma invidia, dietro l’ansa successiva….leggerò poi che,compatibilmente con l’intensità della corrente, si può procedere in questo modo per km e km nella valle via via sempre più selvaggia.

Alla sera dobbiamo assolutamente essere a Las Vegas non troppo tardi perché abbiamo acquistato i biglietti per il teatro, quindi prendiamo una delle pochissime autostrade del viaggio e via verso Sin City. Se fino a qui la guida era sempre stata rilassata, rispettosa dei limiti e su strade dritte come fusi, qui passiamo per un canyon in forte discesa e pieno di curve e tutti inspiegabilmente corrono come ossessi, forse non sono abituati a guidare in discesa e semplicemente non trovavano il freno. Sono anche senza benzina e quindi appena arrivato in zona centro Las Vegas esco a cercare un distributore; dopo rifornito non rientro in autostrada e vado praticamente a caso verso la zona della “Strip”, la direzione pare più o meno giusta, faccio una svolta e quasi a sorpresa mi trovo in mezzo al casino più assoluto: di fronte a me il campanile del Venetian, a destra il galeone del Treasure Island, il vulcano del Mirage, migliaia di auto e tutti sembrano sapere esattamente dove andare….meno uno eheh. Un impatto strepitoso comunque, sembra di stare dentro un film, ci spariamo tutta la strip fino al nostro hotel, che è la piramide del Luxor. Sbrighiamo le pratiche di checkin rapidamente, la hall della piramide ha una dimensione assurda, doccia veloce e via subito di corsa in giro. Livia per la prima volta da 2 settimane si mette un vestito un minimo elegante, e si trucca in maniera normale; usciamo dall’albergo con aria condizionata a temperatura siberiana e siamo azzoppati dal vento bollente del deserto: un phon in faccia che ti toglie il fiato. Mia moglie chiude un attimo gli occhi e, giuro, le si incollano le ciglia tra loro: il rimmel solidificato all’istante. Un caldo così non lo avevo mai sentito,

Arriviamo alla fine al teatro del Treasure Island dove abbiamo preso i biglietti per uno degli spettacoli del Cirque du Soleil ( hanno 8 spettacoli permanenti diversi nella città, in pratica uno in ogni hotel!), che è veramente spettacolare, con balletti, acrobati, comici orchestra e canto tutto dal vivo. Non economicissimo ma siamo nella capitale mondiale dell’entertainment e non abbiamo mai visto nulla di simile, vorremmo vederne un altro la sera dopo.

Quando usciamo la città è nel suo massimo: c’è gente ovunque che sciama da una parte all’altra, è domenica sera, una delle serate più morte della settimana e ovunque ci si volti è una bolgia. Noi però a questo punto siamo degli zombie ( stamattina eravamo allo Zion!) e ci trasciniamo a fatica fino all’hotel, che sono comunque altri 3 km a piedi! La mattina dopo la prendiamo più comoda e la passiamo in piscina in ammollo. La cosa comica è che, forse per colpa nostra che non abbiamo trovato altre strade, ma per andare alle piscine passiamo dritti per la hall: pieno di gente coi bagagli e noi in costume e ciabatte manco fossimo al mare. Non resistiamo comunque troppo a lungo neppure lì, il sole è feroce e ad un certo punto non ce la faccio più dal caldo neppure stando completamente immerso in acqua, meglio quasi quasi il sollievo dell’aria condizionata. Nel pomeriggio altro giro selvaggio a piedi per più o meno tutti i casinò più famosi; non descrivo tutto, ma solo le cose più “assurde”: L’Excalibur è probabilmente l’hotel più kitch in assoluto , sia fuori che gli interni compresi i venditori di cappelli da fata e chincaglierie medievali; Il New York New York e la sua sala da gioco con un milione di slot e le ricostruzioni dei quartieri della City, i leoni in gabbia dell’MGM, gli interni ipermoderni e lussuosi del Crystal, il mall infinito del “Miracle Mile Shops”, con la tempesta di fulmini e pioggia finta ogni 30 minuti , Piazza San Marco e il canale navigabile al coperto e al secondo piano del palazzo (l’acqua è molto diversa dall’originale!), lo spettacolo delle fontane e gli interni lussuosissimi del Bellagio ( la serra è un qualcosa di spettacoloso!), l’eruzione del Mirage, le piratesse del TI ( spettacolo pessimo!). Alla sera non possiamo fare a meno di provare uno dei famosi pasti a buffet dei casinò; leggendo in giro dicono che il migliore rimanga quello del Bellagio, e a giudicare dalla coda che facciamo devono pensarlo in molti. Mangiamo fino a sfinirci di carne pesce sushi dolci ecc. Ecc. Tutto buonissimo, che ricordi! (però portatevi un maglione, dentro ci saranno 10 gradi!). A fine giornata avremo fatto 20 km tutti a piedi e con in media di 40° dentro e fuori dall’aria condizionata: provante. Siamo comunque molto felici da aver dedicato 2 giorni a LV ( non di più), è un posto troppo assurdo e unico al mondo per non fermarsi neppure una sera, era esattamente quello che mi aspettavo, un grandissimo luna park per adulti, preso per quello che è, secondo me è imperdibile. Il giorno dopo ci alziamo e mi sintonizzo subito su weather channel per vedere cosa ci aspetta; esattamente sopra al Las Vegas c’è un bollo rosso enorme con scritto “Warning – Extreme Heat”, e cronisti che avvisano di evitare escursioni in luoghi troppo caldi. Noi ovviamente cosa abbiamo in programma per oggi? La Valle della Morte! Perfetto! Check out dall’albergo, lasciamo la città del peccato e ci inoltriamo nel deserto: panorami sconfinati e distese di joshua trees, in relativamente poco tempo arriviamo a Zabriskie Point, il punto panoramico reso famoso dal film di Antonioni ( e anche da Jerry Calà in Vacanze in America per dire…!) ; smontiamo dall’auto, che ricordo essere anche completamente nera, e a prima sensazione non sembra neppure poi così caldo. Dopo pochi minuti a rimirare il panorama grandioso e lunare delle colline di arenaria seccate dal sole ci accorgiamo che la pelle comincia già a scottarsi e tempo di tornare all’auto siamo già mezzi ustionati…pauroso. Ci spingiamo fino a Furnace Creek, che credevo deserto e invece tutto sommato qualche casa c’è; al centro visitatori vedo il termometro, ci sono 48°! Proseguiamo verso la depressione di BadWater e sulla strada facciamo la deviazione di Artist Drive dove la strada passa attraverso vallate dai colori surreali, smontiamo per fare delle foto alla valle sottostante e ci soffia sulla faccia un vento bollente che secca all’istante il sudore dato dal caldo assurdo. Giungiamo velocemente a Badwater, con l’immancabile foto col cartello che indica quanti metri sotto il mare ci troviamo ( -85Mt), e camminata nella distesa di sale; è tipo l’una di pomeriggio e quindi non possiamo fermarci per più di una ventina di minuti. Prima di risalire in auto tocco il cofano e rimpiango di non aver portato delle uova, è più caldo di una antiaderente; infatti uno degli altri turisti non riesce a riaccendere la sua auto: lo lascio senza nessunissima invidia sotto quel sole ad aspettare i soccorsi. La nostra auto invece non fa una piega, nella giornata probabilmente più calda dell’anno la temperatura dell’acqua non si muove di una virgola; in previsione avevo preso 2 galloni di acqua per il radiatore che tutti mi dicevano essere fondamentali, mi sa che dovrò bermeli, meglio così. Attraversiamo tutta la valle della morte… non finisce più: qui si, decine e decine di miglia senza anima viva, né una casa, nulla. Valutiamo cosa dovesse essere nel periodo della frontiera attraversare a cavallo una valle del genere, magari da soli, senza certezza della direzione esatta…..il nome qui è sicuramente appropriato. Passiamo affianco alle Dumont Dunes, un complesso di dune di sabbia bellissime che probabilmente varrebbero la sosta, ma mia moglie non posso più tenerla perché le ho promesso che poco più avanti dovrebbe esserci uno degli outlet più rinomati della California, che si trova in quel di Barstow; qui ci riportiamo dopo questa lunga deviazione nuovamente sul tracciato della Route66 ( che avevamo abbandonato a Flagstaff). Arrivati lì rimaniamo un po’ delusi: l’outlet, che pure è effettivamente enorme, è in condizioni parecchio fatiscenti, ci sono pochi negozi aperti e neppure troppo belli, il resto è tutto transennato e praticamente non c’è anima viva in giro, boh! Facciamo per andarcene sconfortati al massimo e giusto dall’altra parte della strada vediamo il NUOVO outlet di Barstow, che invece è ricchissimo, con un sacco di gente e negozi bellissimi e decisamente convenienti ( contando anche il cambio favorevole!). Da Ralph Lauren sperimentiamo una delle assurdità USA: mi presento alla cassa per pagare e la commessa mi chiede se voglio farmi la tessera. Spiego che difficilmente passerò di lì prima di chissà quanti anni ma insiste che la tessera comporta uno sconto già sul primo acquisto ed è gratis. Beh, facciamola allora! risparmiati 40$ e tessera cestinata appena uscito dal negozio. Boh, contenti loro. Inutile aggiungere che alla fine hanno dovuto cacciarci dall’outlet perché dovevano chiudere i cancelli mentre mia moglie si lamentava perché chiudevano “solo” alle 19.30! La mattina dopo è il nostro ultimo giorno sulla Route66: ci manca solo l’ultimo tratto e saremo arrivati all’oceano!( e a Santa Monica).Quasi non ci crediamo dopo tutta questa strada e valutiamo di fare velocemente quest’ultimo tratto. In realtà questa è in assoluto la sezione più rognosa di tutto il viaggio; quando si arriva a San Bernardino comincia l’incubo: traffico infernale, panorama anonimo e una infilata infinita di semafori uno ogni 500 metri. In certi punti riuscivo a vedere fino a 20 semafori successivi, per fare un tratto relativamente breve impieghiamo un tempo mostruoso e arriviamo a Hollywood innervositi come mai durante il viaggio.

Hollywood è una bolgia tremenda e io sbaglio anche strada e mi infilo esattamente nella via della Walk of Fame, il cui traffico vi lascio solo immaginare; ad un certo punto svolto assolutamente a caso esasperato dalla coda e ho un colpo di fortuna e capito esattamente davanti al parcheggio comunale, che è pure gratuito se portate uno scontrino che dimostri che avete fatto un qualsiasi acquisto nei negozi nei dintorni. Facciamo rapidamente il giro di rigore a vedere le stelle con i nomi degli attori, il teatro Cinese e poco più ma veramente c’è troppa gente e scappiamo via subito. Più avanti ci fermiamo a Beverly Hills; parcheggio proprio in Rodeo Drive, non dove ci sono i negozi, ma diciamo a 100 metri in zona residenziale di fronte ad un villone. Boh, c’era un sacco di posto e secondo me ero in divieto ma non c’erano cartelli (comunque la macchina l’ho ritrovata senza sorprese). Facciamo un giro abbastanza rapido per vedere i negozi, dentro quasi nessuno, solo gente come noi in giro a passeggiare, la maggior parte: Italiani. Che tristezza, in tutto il viaggio il posto in cui abbiamo trovato più compatrioti: Rodeo Drive, abbastanza emblematico. Anche questo quartiere tutto sommato abbastanza anonimo, l’unica cosa che mi smuove un minimo è una bellissima Bugatti Veyeron parcheggiata .

Ora ci siamo davvero, ancora una 20ina di semafori e poi all’improvviso quasi senza accorgersene sbuchiamo sul lungomare di Ocean Drive, vediamo le palme prima e poi l’oceano pacifico. Quando avevamo progettato questo viaggio, mi ero già visto in questo momento, dopo quasi 5.000km già mi ero immaginato la gioia di aver attraversato in pratica tutti gli Stati Uniti da una parte all’altra, di aver ricalcato tutta la Route66 dall’inizio alla fine. Ora ci siamo realmente e anche se piccola sembra davvero una impresa, che siamo riusciti a portare a termine nei tempi e nelle modalità che ci eravamo prefissi, quindi siamo molto orgogliosi e finalmente rilassati dopo il lungo attraversamento dei sobborghi di Los Angeles. Parcheggiamo e ci dirigiamo a piedi verso il Santa Monica Pier: una specie di luna park con ristoranti e bar costruito sul molo. Foto di rito sotto alla targa “Route66 – End of the Trail”. Dopo e prima di noi praticamente tutti quelli che passano si fanno la stessa foto, ma vorremmo chiedere loro di farci vedere le prove se anche loro hanno “diritto “ di farsi quella foto! Andiamo avanti ancora, fino in fondo al molo, arriviamo sulla ringhiera ci appoggiamo e guardiamo verso il mare, più a ovest di così non si può andare. La Route è finita, ma noi abbiamo ancora un sacco di cose da vedere, quindi non vediamo l’ora di lasciare Los Angeles che, per il poco che abbiamo visto, non merita di perdere altro tempo. Ci muoviamo verso nord, sono le 7 di sera e l’autostrada che inforchiamo ricalca perfettamente il preconcetto negativo che chiunque si fa quando pensa al traffico caotico di una megalopoli americana: decine di corsie per senso di marcia, tutte rigorosamente intasate di auto dai pendolari che staccano dal lavoro, nel mezzo gente che sfreccia zizzagando da una corsia all’altra, noi che procediamo sulla corsia più a sinistra e il navigatore che pacatamente ti dice: “ Tra 500 metri prendere la prima uscita”. Per fortuna dobbiamo fare solo poche miglia, ci fermiamo a Santa Clarita che è un paesino totalmente inutile a 50 km da Los Angeles, escluso il fatto che qui si trova il parco divertimenti Six Flags Magic Mountains! Il giorno dopo infatti non faremo molta strada perché lo passiamo tutto lì. Chi è appassionato di montagne russe di sicuro già lo sa, per tutti gli altri dico solo che questo parco ( in concorrenza al massimo con Cedar Point e Six Flags Great Adventures, dove siamo già stati anni fa) è probabilmente il parco con i migliori roller coaster al mondo. Passiamo tutta la giornata sballottati da una attrazione all’altra: delle cose veramente uniche e la giornata ci vola. Non sto a descrivere tutto, che alla fine interessa solo gli appassionati, ma chi nella sua vita è andato solo a Gardaland non ha mai provato una montagna russa “vera”. Racconto solo un aneddoto secondo me divertente: prima della apertura del parco siamo già lì in coda davanti ai cancelli, ad un certo punto quando aprono “le gabbie” tutti ovviamente si dirigono con passo spedito verso le attrazioni migliori per fare almeno un giro senza coda. Noi ci sforziamo di non metterci a correre, altrimenti è la fine, ma affianco a noi ci sorpassano di corsa persone che erano dietro nella coda e quindi……tocca mettersi a correre. Facciamo una corsetta leggera, ad un certo punto c’è una salitella ( il parco è in collina), giuro che non stavamo correndo forte, ma tutti quelli che ci avevano superato, quasi tutti in evidente sovrappeso, vanno in crisi e li vedo annaspare, morale della storia arriviamo davanti al tornello di X2 ( per me l’attrazione più bella del parco) e siamo primi, in assoluto, eheh tripponi.

Il giorno successivo in teoria vorremmo passarlo in spiaggia a prendere il sole, ma è nuvoloso. Quindi facciamo un giro in auto lungo la One ( la strada costiera che va da Santa Monica a San Francisco e oltre), che è molto bella, ma col tempo così purtroppo dice poco. Ci fermiamo a Malibù per vedere i surfisti e la riserva naturale della Malibù Lagoon con migliaia di uccelli migratori diversi, ma fa veramente freddo e stare in spiaggia non se ne parla, se non con il maglione. Più avanti un pelo migliora e ci fermiamo in un’altra spiaggia dove grazie a un pallido sole riusciamo perfino a toglierci la maglietta! Ma è una battaglia persa e quindi ci dirigiamo nuovamente verso l’interno così ci avviciniamo al parco che andremo a visitare il giorno dopo : Sequoia National Park. La cosa assurda è che non appena lasciamo la costa, il clima cambia immediatamente; torniamo a vedere il sole splendente che ci ha accompagnato per tutto il viaggio e piombiamo nuovamente in un caldo torrido. Passiamo attraverso delle zone coltivate totalmente verdeggianti, con distese a perdita d’occhio delle famose arance della California, e altre piantagioni rigogliose, molto diverso dalle distese desertiche incontrate più indietro. Possiamo solo immaginare che luogo paradisiaco debba essere stato agli occhi di quelli che come noi percorrevano la Route dall’Oklaoma o dal Texas alla ricerca di fortuna e arrivavano qui vedendo lo stesso spettacolo. Dormiamo a Visalia, un paese tutto sommato carino con un centro abbastanza vivo, e mangiamo in un locale storico (che in pratica è il posto in cui vanno a mangiare tutti a giudicare dalla coda che facciamo), dove distillano la birra in casa e la accompagniamo con una bisteccona e delle patatine fritte con l’aglio che uccidono ogni mia speranza “coniugale” per i 3 giorni successivi (ma erano strepitose). La mattina dopo si torna a salire perché per arrivare dalla pianura fino a vedere le famose sequoie giganti bisogna fare una strada di vera montagna, con tornanti e salite, che non finisce più; sono oltre 40km che si inerpicano però fino ad una foresta incantata. I primi alberi decisamente grandi si incontrano nei pressi del Giant forest Museum, che è veramente in una pianura fantastica e sembra la casetta del ranger Smith di Yogi e Bubu. E’ anche piena di informazioni sugli alberi e le particolarità del parco e vale la pena capire un po’ il perché solo qui e in pochissimi altri luoghi al mondo si possono trovare alberi di queste dimensioni e perché effettivamente siano così longevi (esemplari con oltre 3000 anni di vita!).

Da questo punto parte una strada serpeggiante attraverso il bosco più fitto, e sembra di entrare in un mondo ingigantito , si vedono alberi enormi solitari o a gruppi di due o tre elementi, color rosso mattone e con cortecce spugnose; ci fermiamo e scendiamo ogni tanto per fare delle foto e la nostra auto sembra ridicolmente piccola in confronto a questi mostri. Passiamo vicino anche ad alberi caduti che per la particolare composizione chimica del tronco non si decompongono praticamente mai, tant’è che uno di questi alberi è stato anche scavato e ora la strada ci passa attraverso. In fondo a questa strada saliamo in cima alla Moro Rock: un torrione di granito che si protende sulla valle sottostante come un balcone naturale. Per scalarlo hanno scavato sulla roccia un breve sentiero gradinato panoramico fino al terrazzo sommitale da cui si apre la vista sulla catena della Sierra, con monti oltre i 4000 metri. Ancora poco più avanti lasciamo la strada e ci inoltriamo a piedi lungo il sentiero che passa in primo luogo per la splendida radura di Crescent Meadows ( “la gemma della Sierra” ) e poi sempre su un percorso fantastico tra sequoie e prati verdissimi giunge al cosiddetto “Tharp’s Log” : un tronco di sequoia caduto e successivamente scavato al suo interno in modo da ricavarne un rifugio da parte di questo Sig. Tharp, che è ritenuto il primo visitatore non indiano del parco di sequoia, il quale per tipo 15 anni ha passato lì tutti i mesi estivi in vacanza in completo isolamento.

Molti sono i sentieri e i luoghi visitabili, ma tutti quelli che vengono a Sequoia non mancano di vedere una cosa: il Generale Sherman che è l’albero più grande del mondo ( non il più alto, ma il più imponente). Effettivamente qui c’era anche parecchia gente, ma l’albero è sicuramente imperdibile: la sua dimensione è inimmaginabile per chi non lo ha visto di persona ed anche confrontandolo agli alberi a lui prossimi ( che pure sono monumentali) si vede che questo è esageratamente grande! Questa è una delle due zone del parco in cui si concentrano gli esemplari più mastodontici; l’altra si trova piuttosto lontana da qui ( altri 40 km di montagna), e a dirla tutta è anche in un altro parco nazionale, che però è collegato al Sequoia. In effetti il nome corretto del parco sarebbe “Sequoia and King’s Canyon National Park”.

Quest’ultimo è un parco molto diverso da Sequoia, più apprezzato come punto di partenza per i trekking in alta montagna che si possono fare partendo dal fondo della sua valle, ma proprio all’imbocco del Canyon ( quindi raggiungibile con una deviazione brevissima) si trova un altro dei punti di maggior concentrazione di alberi giganti, tra i quali spicca il Generale Grant, che è il secondo albero più voluminoso del mondo. Questo è solo poco più piccolo dell’altro gigante ma più solitario e dunque a mio parere ancora più imponente per il modo in cui le sue fronde si stagliano contro il blu del cielo. Inoltre anche tutte le altre sequoie con il nome (tutte le più grandi) sono decisamente mostruose. Secondo me qui è anche più bello che nella zona del Generale Sherman, anche perché oltretutto c’è molta meno gente e così si può camminare tranquillamente e nella pace del bosco riflettendo sulla grandiosità di questi esseri millenari: un posto strabiliante. …E in più il giorno dopo ci aspetta ancora quello che per quanto mi riguarda è il parco più atteso. Stiamo infatti per recarci nella mecca dell’arrampicata sportiva USA (e forse mondiale), quella che nel mondo arrampicatorio è conosciuta semplicemente con il nome “The valley”:sto parlando ovviamente di Yosemite.

Per arrivarci prendiamo l’ingresso da sud, ma prima di entrare nella valle vera e propria bisogna fare tutto un lungo percorso nel bosco, anche bello, se non per il problema che stavano riasfaltando il manto e quindi ci siamo dovuti beccare quasi 30 km di sterrato in colonna a 25 all’ora, scesi dall’auto vibravamo ancora. La prima sosta la facciamo a Glacier Point: una terrazza di granito che si affaccia quasi 1000 metri sopra la valle e che quindi consente di avere una visione d’insieme strabiliante della conformazione della valle e delle cime che le fanno da contorno. Io sono abbastanza sconfortato, perché non appena arriviamo lì il cielo si copre, nuvoloni grigi si addensano e si fa quasi buio, in pochi minuti viene giù un diluvio. Abituato alle nostre montagne già temo che rimarrà coperto tutto il giorno, invece ancora una volta, tempo mezz’ora e delle nubi non c’è più traccia.

Il punto panoramico è proprio in faccia all’Half Dome, la montagna a forma di mezza cupola (Half dome appunto…) di roccia granitica grigia così compatta da sembrare una unica colata di cemento, e permette altresì di spaziare sui prati e le cascate sottostanti come se si fosse a bordo di un aereo, si vede chiaramente la caratteristica forma a U delle valli glaciali, con il fondo perfettamente pianeggiante e prativo da cui partono praticamente verticali le pareti rocciose che lo sovrastano. Le attrattive principali del parco come ho detto sono sostanzialmente due: le rocce e l’acqua; quindi scesi finalmente sul fondo della valle ci portiamo presso il parcheggio visitatori di Curry Village e lasciamo l’auto. La prima sensazione è di trovarsi in un paradiso terrestre: ci sono persone che girano in bicicletta sui sentieri ben tenuti, gente a piedi con gli zaini, altri che scendono placidamente lungo il torrente con dei gommoncini che si possono noleggiare, gente che fa il bagno in una atmosfera di completo relax generale; si capisce subito che questo non è un posto “mordi e fuggi” in giornata, solo per vedere i due o tre “highlights” della zona e ripartire, ma è più un posto per fermarsi e godere anche del la semplice vita quotidiana. Poco distante c’è anche un campeggio fatto di casette di tela bianca, e un sacco di ragazzi giovani che fanno i fatti loro; quando andiamo a pranzo in un grill lì vicino loro non pagano neppure, si limitano a segnare il nome su una lista, con questa convenzione non serve neppure che si portino dietro soldi o altro, ammetto che li ho molto invidiati! Partiamo per una camminata fantastica risalendo il Merced River ( il fiume principale della valle) , più su si va più diventa impetuoso, con una portata d’acqua notevole che si incunea tra rocce granitiche nere spumeggiando, il tutto in mezzo ad una foresta di pini verdissimi. Giungiamo ad una prima cascata, la Vernal Fall che cade con un unico salto da una parete Tornati al villaggio ci rifocilliamo ad un ristoro e beviamo una birrozza gelata marchiata “Yosemite” ( che però a dirla tutta non è poi così splendida) e quando la ordiniamo, emblematico del rigore USA, la tipa alla cassa vuole vedere i miei documenti, ed anche quelli del tipo davanti a me che credo non avesse meno di 60 anni! Con estremo malincuore dobbiamo ripartire, anche se potendo ci saremmo fermati una settimana per quanto ci è piaciuta l’atmosfera di questo parco. Ora capiamo perché ci hanno detto che per soggiornare all’interno della valle non è inusuale dover prenotare un anno per il successivo, ma prima di partire mi tolgo un ultimo sfizio. Parcheggiamo proprio sotto la parete monumentale del Capitan, con i suoi quasi 1000 metri di granito completamente verticale e ci inerpichiamo su un sentiero fino alla base della montagna, dove iniziano le famose vie di arrampicata che solcano tutta la parete. Qui mi tolgo lo sfizio di “mettere le mani” sui primi metri della via più emblematica, quella denominata “The nose”, che corre proprio sullo spigolo che divide le due facce principali del monte. E’ una grande emozione anche se, senza attrezzatura, devo limitarmi a pochi metri da terra: sopra di noi alcune cordate sono impegnate a metà parete; in media per scalare questa via una cordata “normale” impiega 3 giorni e 2 bivacchi in parete.

Ora abbiamo proprio finito con la parte “naturalistica” del viaggio, ci rimane infatti solo San Francisco da cui poi ripartiremo alla volta dell’Italia. Siamo presi da una certa nostalgia ricordando tutto quello che abbiamo visto e ormai si avvicina anche la fine del viaggio; in più dopo il sole di tutti questi giorni, arrivati sulla baia di San Francisco siamo avvolti da un cielo plumbeo e freddo che non migliora il nostro umore. Andiamo a camminare a Golden Gate Park, che sulla mappa pare molto più piccolo di quanto sia in realtà e camminiamo non poco per visitarlo, prendiamo un hot dog dai baracchini e ci rendiamo conto che è il primo in assoluto di tutto il viaggio; quindi ci spostiamo all’immancabile Golden Gate Bridge dove soffia un vento gelido micidiale, e arriviamo a piedi fino a metà del ponte anche se è abbastanza inutile visto che il panorama è uggioso: per fare ciò oltretutto rischiamo di venire investiti dalla folla di ciclisti improvvisati che sfrecciano sul marciapiede in balia del vento e della palese inesperienza alla guida di mezzi a 2 ruote. La sera raggiungiamo due amici che si sono trasferiti a “Frisco” per lavoro e ci portano a mangiare in un ristorante thai dove ceniamo benissimo, ma ci confermano che sono 2 settimane che il meteo è esattamente come oggi e che non vedono il sole da un pezzo. La mattina dopo infatti ci svegliamo con lo stesso tempo terrificante ed è decisamente demoralizzante. Andiamo a Fisherman’s Wharf, il quartiere sul porto, che tutto sommato pur essendo uno dei posti più turistici della città mantiene ancora anche qualche scorcio caratteristico. Ci accodiamo per il cable car, il vecchio tram a cavo che orami è praticamente una attrazione per turisti e non un mezzo di trasporto ma incredibilmente mentre aspettiamo in coda la luce migliora

Ci sono moltissimi turisti e il centro pare estremamente “vivo”, facciamo un giro a piedi assurdo un po’ dappertutto: Chinatown è fantastica e piena di vita locale con palazzi che paiono trasportati lì direttamente dall’oriente, vediamo i grattaceli del financial district e ci andiamo a riposare agli Yerba Buena Gardens, dove c’è anche un palazzetto del ghiaccio…a luglio. Poi ancora su fino alla Coit Tower ( dal nome mi aspettavo una cosa decisamente diversa eheh!) da cui si vede un bel panorama sul centro cittadino e ancora a piedi fino alla infinita serie di tornanti di Lombard Street, la strada più tortuosa del mondo, che per fortuna nostra facciamo in discesa, altrimenti a fine giornata sarebbe il colpo di grazia. Non abbiamo però finito di camminare perché la sera siamo invitati a cena nuovamente dagli amici, stavolta a casa loro che si trova a Marina: un quartiere da ricconi con casette curatissime fronte mare. E’ ormai il tramonto e tutto il prato antistante il porticciolo è invaso di gente che corre, gioca con i cani, si passa il pallone da football e si gode evidentemente il bellissimo tramonto dopo tante nuvole. La sera prima, giuro senza malizia, avevamo proprio parlato di quanto eravamo stufi dopo tutto il viaggio di mangiare sempre e solo cibo autoctono e ci chiediamo cosa ci cucineranno. Arrivati lì sentiamo l’inconfondibile profumo del sugo di pomodoro e dopo 3 settimane di astinenza ci fanno la pasta!

Il giorno dopo il tempo è ancora bellissimo e facciamo un altro giro inimmaginabile sempre a piedi: dico solo che siamo partiti da Mission, poi fino a Castro che oltre ad essere il quartiere gay della città è anche probabilmente una delle zone più belle in assoluto, poi ancora sempre a piedi fino in cima ai twin peaks ( “Los Pechos de la Chola” ) le due colline che si elevano proprio al centro della penisola da cui si vede un panorama su tutta la città ( con un vento potentissimo che ci portava via!). Poi ancora in giro fino a High Ashbury dove visitiamo dei negozi hippy che probabilmente sono molto diversi rispetto al periodo della famosa “Summer of love” , ma in giro ci sono diversi personaggi che invece incarnano al meglio i “vecchi tempi”. Torniamo poi al Golden Gate Park per vederlo anche con il sole e l’effetto è decisamente diverso, con tutti i colori dei giardini floreali coloratissimi che lo abbelliscono. Al tramonto chiudiamo il giro con Alamo Square, la piazza che offre probabilmente la veduta più bella di tutta la città, con il suo contrasto tra le casette vittoriane in primo piano ad incorniciare il panorama sulla parte più moderna del centro; al tramonto è pieno di gente seduta sul prato ad aspettare il calare del sole e anche noi ci riposiamo dopo questa scarpinata. La sera su internet proverò anche a ricostruire per sommi capi il percorso effettuato in giornata e alla fine non mi stupisco neppure più di tanto del fatto che google maps mi dice 22km! ( con anche saliscendi continui). La sera, contravvenendo ai consigli degli amici che vivono qui ,che ci consigliavano altri posti, torniamo a cena al Fisherman’s Wharf ma siamo fortunati perché il cameriere del ristorante che scegliamo ci fa accomodare in un bellissimo tavolo vista mare al tramonto, in cui finalmente mangiamo il piatto nazionale di San Francisco: il King Crab, che è un po’ impressionante da vedere ma decisamente buono da mangiare ( anche se ci si sporca peggio che a mangiare l’aragosta!).

Con questa cena chiudiamo in bellezza il nostro ultimo giorno di viaggio e la mattina dopo non dobbiamo fare altro che restituire l’auto all’aeroporto di San Francisco, procedura organizzata in maniera straordinariamente efficiente. Totale del viaggio oltre 7.600km, almeno il 95% dei quali tutti rigorosamente non su autostrada ma anzi parecchi su strade proprio secondarie.

Chissà quanti di quelli che hanno cominciato a leggere questo diario sono arrivati a termine … word mi indica ora 22 pagine di racconto, non ho il minimo dubbio che saranno ben pochi quelli che sono arrivati qui. Il bello è che tutto ciò alla fine è solo relativo: come avevo premesso all’inizio questa non era una guida o un manuale da utilizzare, quanto piuttosto un voler ricordare questo fantastico viaggio, le sensazioni ( almeno in minima parte) provate di fronte agli spettacoli che abbiamo incontrato e quindi il racconto l’ho scritto più per me che per gli altri.

Premesso ciò, se qualcuno comunque ha gradito la lettura e vuole farmelo sapere oppure vuole chiedere consigli su qualsiasi cosa mi contatti pure su Facebook ( nome in firma!), dove sono presenti anche centinaia di foto del viaggio ( che modestamente mi dicono essere in media buone) oltre alle 7 che ho pubblicato qui su TpC.

Buon viaggio a tutti e buona Route66!

Paolo Mariuz

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