Uno stato, due guerre, tre religioni

Quando a Dicembre si elucubrava sulle destinazioni di un potenziale viaggio per l’imminente capodanno, il mio atteggiamento partecipativo nascondeva in realtà una vena di scetticismo. Mete impegnative (Libia, Pakistan, Israele, Balcani) e troppo poco tempo a disposizione per organizzare il tutto. Tanto più che il mio compagno di viaggio di lì...
Scritto da: Peppino Imparato
uno stato, due guerre, tre religioni
Quando a Dicembre si elucubrava sulle destinazioni di un potenziale viaggio per l’imminente capodanno, il mio atteggiamento partecipativo nascondeva in realtà una vena di scetticismo. Mete impegnative (Libia, Pakistan, Israele, Balcani) e troppo poco tempo a disposizione per organizzare il tutto. Tanto più che il mio compagno di viaggio di lì a due giorni sarebbe partito per New York e non sarebbe tornato che il 30 dicembre.

Ma a quanto pare più della ragione potè la fame.

Siamo a Gennaio e, complice una fredda domenica romana, un raffreddore debilitante e la saudade instillatami dal mio nuovo sfondo del desktop, le dita hanno iniziato a scorrere sulla tastiera come antenne per captare ricordi che altrimenti il lavacro del tempo avrebbe edulcorato.

*** E’ deciso: nessun programma. D’altronde è un peccato sacrificare la spontaneità del viaggio alla dea organizzazione. Così il 31 dicembre sono a Trieste: io barcollo a causa di una sveglia che, impertinente, è suonata alle 4:30 del mattino, Davide barcolla per il jet lag. Ma questo non ci impedisce di festeggiare col crisma dell’ubriacatura l’arrivo del nuovo anno e la nottata di bagordi termina solo alle 7:30 del giorno successivo. L’orario che avevamo previsto per la partenza diventa così l’orario per andare a dormire. Il bello di non essere stretti tra le briglia di un viaggio rigidamente pianificato.

Finalmente, tamponata in parte la sbornia e saccheggiata in toto la dispensa della mamma di Davide, verso le 16 si riesce a caricare la jeep. Siamo entrambi abituati a viaggiar da soli ma entrambi salutiamo con piacere la possibilità di condividere, una volta tornati a Roma, i ricordi e le sensazioni di questo girovagare improvvisato. Durante i miei viaggi mi son sempre rammaricato di non avere accanto a me i miei amici con i quali poter condividere la bellezza di un paesaggio, una riflessione, una scoperta. Mi è sempre dispiaciuto che le persone che via via incontravo nei posti e nelle situazioni più strane siano sempre rimaste chiuse in compartimenti stagni al di fuori della mia vita quotidiana. Ma su tutto questo aveva l’assoluta precedenza il senso di indipendenza e di libertà che il viaggiare da soli ti concede. Il non dover adeguarmi ad altrui esigenze o, peggio ancora, dovervi badare. Questa volta, invece, il compagno di viaggio è molto più scafato di me. Un ottimo presupposto.

Queste riflessioni fanno immancabilmente capolino anche durante il nostro tragitto verso Zagabria. Come sempre accade quando si viaggia in auto, il clima di confidenza che si crea e la rilassata conversazione che si intavola lasciano scivolare l’asfalto sotto di noi senza che ce se ne renda conto e dopo qualche ora ed un paio di frontiere si arriva nella capitale croata. Devo confessare i miei stupidi pregiudizi: immaginavo di trovare una città povera, immaginavo che nell’aria si respirasse tensione. Trovo invece una splendida capitale mitteleuropea, grandi viali con le luminarie natalizie, giovani e meno giovani a passeggio per le strade. Si decide di mescolarci agli autoctoni e –dopo un paio di tentativi in alcune trattorie i cui proprietari eran troppo indaffarati per badare a due turisti– si finisce per rendere onore all’usanza locale di acquistare una sorta di hot dog con l’ajvar, una salsa di peperoni e peperoncini, e mangiarlo su dei banconi allestiti nella piazza centrale all’ombra di potenti caloriferi. Non è difficile attaccar bottone. Nel nostro caso gli interlocutori sono due ragazzi nel cui corpo il tasso di alcool è probabilmente superiore alla quantità di sangue ma che, nonostante ogni tanto si appisolino, riescono ad imbastire una conversazione sull’effetto inflattivo dell’euro. Mah…

Passata la notte in un alberghetto dalle pareti scrostate che lasciavano intravedere una mano di vernice marrone del tempo che fu, ci rendiamo conto che i nostri propositi di shopping essenziale (biancheria, visto che uno di noi -che non ero io- aveva pensato di dimenticarla!) erano mandati in fumo dal fatto che fosse domenica. La prevista visita alla Cattedrale adocchiata la sera precedente, allora, diventa la partecipazione ad una splendida messa cantata, con coro e organo in pompa magna. Un bel modo per salutare una città la cui bellezza si è rivelata molto al di là le nostre aspettative. Ma il cammino è lungo, e noi smaniamo per arrivare a Sarajevo. Quando, uno in America e l’altro in Italia, ci si inviava sms cercando di capire se, come e quando si sarebbe partiti, la mia proposta di arrivare fino a Sarajevo ha sfondato una porta aperta. L’idea di un tranquillo week end tra le terme slovene e i vini bianchi croati ha subito lasciato il posto all’idea di portare un po’ di abiti dismessi, dei medicinali e dei giocattoli in Bosnia. Poco importa che Sarajevo sia lontana e che i giorni a disposizione siano pochi. E poco importa che le previsioni meteo segnalino “nevicate forti” e che il sito del Ministero degli Esteri consigli di non allontanarsi dalle strade asfaltate poiché solo il 30% dei campi sono stati sminati.

Lasciata così Zagabria e percorsa per alcune ore un’autostrada deserta, arriviamo finalmente alla frontiera con la Bosnia-Erzegovina. Il poliziotto addetto ai controlli ci guarda attoniti quando in tedesco gli rispondiamo che entriamo per turismo. Ma, tant’è. Basta addentrarsi per un chilometro per notare la differenza con la ricca Croazia. Siamo in un paese che fino a dieci anni fa era in guerra e che ora ne porta ancora le cicatrici. Non ci vuole molto per accorgersene. Il paesaggio che scandisce il ritmo che ci accompagnerà a destinazione è costituito da strade dissestate ai cui bordi ci sono improvvisati cimiteri d’auto –e ahimé non solo d’auto-, montagne brulle spazzate dal vento, costruzioni mai terminate ma nonostante ciò abitate, costruzioni terminate ma nonostante ciò abbandonate. E un fiume dall’acqua tersa, verde smeraldo, come un ruscello d’alta quota che segnerà il nostro cammino fino a Sarajevo.

Sarajevo ci accoglie con un grande boulevard di periferia illuminato e pieno di auto. Ci rendiamo presto conto che si tratta del famoso viale dei cecchini, e l’Holiday Inn ormai chiuso e sventrato alla nostra sinistra ce ne dà la triste conferma. Arrivati in centro e trovata una pensioncina –decisamente più decorosa di quella a Zagabria–, siamo pronti ad uscire curiosi di visitare una città che di primo acchito non si presenta come ce l’aspettavamo. Il primo sentimento che ci pervade è la percepibile, la tangibile e la spasmodica voglia di normalità della gente che vi abita. Direi che questa voglia di normalità diventa il collante che giustappone etnie e culture che fino a pochi anni orsono erano in guerra. E così, passeggiando in centro, vediamo chador e abiti talari, moschee, chiese cristiano ortodosse e minareti, ebrei e musulmani. Tutto sembra scorrere placidamente e solo i soldati delle forze di stabilizzazione della NATO ci rammentano che pochi anni fa questa placidità era solo un’utopia.

Il quartiere musulmano ricorda Istanbul e i suoi bazar. Negozi di tappeti e kebab. Un Impero Ottomano che arrivava sin qui fino al 1908, quando la Bosnia fu annessa dall’Austria-Ungheria per rinforzare il confine Sud contro la nemica Serbia. Tutte queste nozioni di storia riemergono confusamente quando ci imbattiamo nel punto in cui Gavrilo Princip uccise Francesco Ferdinando. L’ombelico della Grande Guerra che dopo qualche decennio torna ad essere teatro di stragi. Corsi e ricorsi storici. O conflitti di faglia. Li si chiami come si vuole, ma l’impatto emotivo è estremamente forte. Tant’è che dopo cena torniamo subito in albergo: nessuna voglia di mondanità.

La mattina successiva troviamo Sarajevo imbiancata. Dopo un’estenuante trattativa per l’acquisto di due kilim inforchiamo la nostra jeep e, sulle note di “Que será será”, ci dirigiamo verso Mostar. Cinque ore di viaggio, su strade tortuose e senza guard rail, anche a 2000 metri di altitudine. E infatti una parte del tragitto sarà su paesaggi bianchi e innevati. Un candore che avvolge i tanti cimiteri e il filo spinato che li circonda ma che non ne nasconde il dolore che da essi promana.

Superata una curva scorgiamo un posto di blocco e la pattuglia di polizia che lo presiede ci ferma. Ci guardano in cagnesco, chiedono i documenti dell’auto, i passaporti… Poi dicono a Davide di seguirli in auto. Ho sventolato un fazzoletto bianco a mo’ di estremo saluto e mi sono apprestato a chiamare il consolato italiano. Poi sono sceso, e, mentre scambiavo due parole con un poliziotto, ho visto che l’altro con fare affettuoso dava un paio di pacche sulla spalla di Davide. Si scusava per esser obbligato ad elevarci la multa più salata: superavamo il limite di velocità di 30 km/h. Quindici euro, la raccomandazione di non andare su strade sterrate per non incappare in campi minati e il consiglio della strada migliore per arrivare a destinazione. Una stretta di mano ed un’altra pacca sulla spalla, questa volta anche a me.

Giungiamo a Mostar nel primo pomeriggio. Uno shock. E’ qui che, lontani dalla capitale e persi nei brulli altopiani bosniaci, respiriamo venti di guerra. La cittadina è piccola, ci sono pochi abitanti. Non voglio immaginare perché. Spalmata in una vallata tra le colline, Mostar è circondata da campi santi a perdita d’occhio, senza soluzione di continuità. Ci assale nuovamente una grande tristezza. I pochi palazzi che sono ancora in piedi hanno le facciate crivellate da colpi di mitragliatrice. Ma la maggior parte degli edifici non è più in piedi. Ma anche qui, in questa scena desolante, c’è il seme della rinascita. Il cuore del centro storico medioevale, e soprattutto il famoso ponte a dorso d’asino, simbolo della città, sono stati ricostruiti. Qualche turista come noi si mescola alle forze NATO. Un mendicante ci ferma e noi abbiam modo di lasciare quanto all’uopo portato dall’Italia. Lingue tanto diverse non ci permettono di comunicare, e il pover uomo ci dice “Medjugorie”, che noi ci illudiamo di interpretare come un “pregherò per voi”. Ma questo balsamo per l’animo non è sufficiente ad alleviare il patema che l’immagine di tanti orrori ci ha provocato.

Decidiamo di rimetterci in auto e di non pernottare a Spalato o a Fiume come avevamo pensato di fare. Preferiamo tornare a casa, a Trieste, nonostante sia già tardi e il tragitto sia molto lungo. Tanti chilometri, tante chiacchiere, tante riflessioni ed un’amicizia che si salda.

Siamo a casa alle tre di notte. Ma nonostante la stanchezza Morfeo tarda ad arrivare. E il pensiero è immancabilmente rivolto a quanto qualche anno fa succedeva a poche ore d’auto dalla rassicurante Italia.



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