La Strada Romantica di e non solo

Due settimane on the road, in Baviera, con qualche deviazione
Scritto da: catcarlo
la strada romantica di e non solo
Partenza il: 06/08/2011
Ritorno il: 21/08/2011
Viaggiatori: 4
Spesa: 1000 €

INTRO

Il seme da cui è germogliata l’idea di un viaggio lungo la Strada Romantica (Romantische Straße) è stato piantato con ogni probabilità due anni fa, durante la visita al castello di Neuschwanstein e, soprattutto, della vicina Füssen. Così, quando arriva la richiesta ‘basta montagna’, viene naturale pensare a questo itinerario che, oltre a rimanere nello stesso ambito linguistico e a non allontanarsi troppo dalle Alpi, ha tutta una serie di lati postivi che in parte vediamo subito e in parte impariamo a conoscere con il passare del tempo.

Innanzitutto è (relativamente) vicino: sei ore circa fino a Epfach, da dove esploriamo la parte meridionale, e un paio in più per ritornare dai dintorni di Rothenburg più a nord – in entrambi i casi il percorso passa da Svizzera, con il tunnel del San Bernardino, e Austria, con quello di Bregenz. Poi è compresso, perché tutta la Strada è lunga trecento chilometri, il che consente di muoversi con facilità da una località all’altra. Infine consente deviazioni interessanti anch’esse entro un chilometraggio contenuto. Se si aggiungono l’abbondante offerta di sistemazioni – oltretutto a prezzi abbordabilissimi – e il diluvio di materiale informativo inviato dagli Uffici Turistici a fronte di una semplice richiesta, la decisione è presto presa: la consueta mitragliata di mail ci consente di trovare con rapidità i due appartamenti cercati e poi non resta che attendere il giorno della partenza (non è un’attesa breve, visto che dura sette mesi, dagli inizi di gennaio ad agosto).

ALTENSTADT

Il nostro giro per le chiese della parte meridionale della Strada Romantica inizia con l’eccezione. Lontanissima dal delirio barocco e rococò protagonista nel Cantone Dei Preti (Pfaffenwinkel) e non solo, la basilica romanica di San Michele (Basilika St. Michael) innalza le linee semplici della sua possente struttura sul borgo di Altenstadt, frazione di Schongau che, dominata da una moderna edilizia residenziale, non ha altri motivi d’interesse.

Altenstadt, come dice il nome stesso (‘città vecchia’) è l’antico insediamento poi abbandonato per la maggiore sicurezza data dalla collina su cui sorge Schongau. Così, nessuno ha più rimesso mano alla chiesa per ammodernarla e gli unici interventi nel corso dei secoli sono stati conservativi anche perchè la posizione periferica ha preservato il tempio dalla bufera della Guerra dei Trent’Anni. Questa piega della storia ha fatto sì che l’aspetto sia molto simile a quello che l’edificio doveva avere quando fu costruito all’inizio del dodicesimo secolo: le alte mura della struttura a capanna non sono intonacate, come pure l’abside che si eleva tra i due campanili che la affiancano. L’interno a tre navate scandite da colonne cilindriche è spoglio di decorazioni e dominato dalla sfumatura chiara della pietra: spicca così maggiormente il crocefisso di oltre tre metri che, affiancato dalle figure di Maria e Giovanni pure in legno dipinto, sovrasta l’altare maggiore.

Quando arriviamo, piove: dalle due gocce di Epfach, siamo passati a uno scroscio intenso. La speranza di lasciare la macchina il più vicino possibile si infrange sul piccolo parcheggio pieno e anche le vie attorno non offrono chissà quali spazi. Del resto, le undici della domenica mattina è ora di messa. Sotto una pioggia battente, infiliamo una porta nel muro che circonda la basilica e compiamo il periplo dell’edificio muovendoci fra le lapidi del cimitero infisse nell’erba verdissima. Fotografare non è facile: la distanza è ridotta, l’ombrello ingombra e i restauri innalzano ponteggi lungo due lati della chiesa.

Quando giungiamo di fronte al portale occidentale (Westportal) – ingentilito da una decorazione ad archi e sovrastato da un bassorilievo – decidiamo di sbirciare in ogni caso all’interno, scoprendo che non è in corso una funzione religiosa, ma un concerto d’organo. Una gentile signora ci informa che la durata non supera la mezzora: trovato posto nella navata alla nostra destra, abbiamo il tempo di ammirare l’architettura medioevale accompagnati dall’esibizione del maestro Bernhard Brosch che esegue musiche di Walond, Bach, Boëly e Merkel. Un modo diverso per godersi la basilica e si può ben dire che il giovane musicista si meriti l’applauso che ne saluta la fine dell’esibizione, comprensiva di un bis.

All’uscita raccolgono le offerte. Io e Diva, separati nella massa – la chiesa è quasi piena – offriamo entrambi il nostro obolo di cinque euro,ma in fondo ne è valsa la pena. Ripeschiamo i nostri ombrelli dal mucchio accanto al portone e ci rimettiamo in strada mentre il maltempo non concede tregua.

API

L’ordine, la precisione, il rispetto per il bene pubblico ci sono. E non mancano la birra, i würstel, le bionde (e anche le more, a essere precisi), insomma tutto quello che si associa di norma all’idea di Germania. Ma le vere, costanti protagoniste di questi quindici giorni sono senza alcun dubbio le api.

Numerose, invadenti, sfacciate. Come accade talvolta in montagna, magari a poca distanza da un pascolo, di essere assediati dalle mosche in special modo in presenza di qualcosa di commestibile, così lungo la Strada Romantica succede con le api. L’eccezione è costituita dalle città: altrimenti, non appena sul tavolo del bar o del ristorante compaiono le ordinazioni, ecco arrivare i fastidiosi insetti. Solo che non sono mosche: saranno anche piccole e forse inoffensive, ma chi se la sente di rischiare una puntura agitandosi e spaventandole? A parte a Weikersheim, dove il locale offre anche le palette per cercare di farle fuori, le si scaccia con piccoli movimenti secchi oppure si cerca di intrappolarle da qualche parte.

Abbiamo un’anticipazione di quanto ci aspetta già il primo mattino. Ci sediamo al Ballenhaus Cafè di Schongau sul far del mezzogiorno perchè un certo languorino inizia a farsi sentire dopo il lungo viaggio. Le bambine risolvono con il gelato o il frappè, l’unica altra cosa dolce che riusciamo a ottenere è un panino con la marmellata. Le api, che già ronzavano intorno ostentando indifferenza, si fiondano non appena apriamo lo scatolino di confettura e solo coprendo lo stesso quando tre o quattro insetti vi si sono infilati per succhiarne il fondo riusciamo ad avere un attimo di tranquillità. Sul momento, pensiamo sia una caratteristica del posto, ma in poco tempo capiamo di sbagliarci.

I volanti animaletti mettono in mostra una predilezione per il dolce, ma non si tirano indietro quando c’è da puntare un piatto di carne – per non parlare dei würstel bianchi con relativa senape non piccante – e hanno pure un certo debole per la birra. Si spingono fino ad appoggiarsi sul boccone quando è già sulla forchetta o a cercare di infilarsi nel boccale: sottobicchieri usati come coperchi, soffi e scuotimenti di posate rappresentano gli unici deterrenti.

Il motivo? Non abbiamo certezze, possiamo solo supporre. In una zona ricca di piante e di fiori, può darsi che numerosi siano gli allevatori, anche se, a dire il vero, non è che riusciamo a scorgere tutte queste arnie. E poi l’aria buona, grazie alla quasi totale mancanza di insediamenti industriali e alla relativa altezza, vuoi per la vicinanza alle Alpi, vuoi per le colline della Franconia. Numerose e colorate sono anche le farfalle.

AUGUSTA

La capitale della Svevia si rivela una delle più inattese sorprese della nostra esperienza bavarese. Una città tranquilla, ancora provinciale visti i suoi duecentocinquantamila abitanti, ma con un centro che mette in mostra grandi spazi aperti e una serie di bellezze che il visitatore deve un po’ andarsi a cercare. Anche qui, la parte storica è stata in gran parte ricostruita dopo la guerra con la consueta precisione che non fa notare le differenze.

Arriviamo in treno da Buchloe, ma già la passeggiata lungo il Viale della Stazione (Bahnhofstraße) ci convince che è stato un eccesso di prudenza. Le strade sono ampie e poco trafficate, i parcheggi numerosi e vicini al centro pedonale: è vero che la tangenziale, raccordo tra la B17 e la B2, è trafficata (anche perchè stretta, con due sole corsie per senso di marcia) ma le indicazioni sono chiare e, con ogni probabilità, non sarebbe stato un problema seguirle. Bisogna prestare attenzione, però, alla zona ambientale protetta che è abbastanza vasta ed è quindi necessario dotarsi dell’apposito bollino.

La Bahnhofstraße è un’ampia strada alberata sulla quale si affacciano numerosi servizi commerciali, fra i quali tanti bar e gelaterie che sfruttano i larghi marciapiedi per offrire al passante riposo accanto a tavoli ombreggiati. La percorriamo dopo esserci lasciati alle spalle la stazione – di medie dimensioni, con la sua decina di binari – e la piazza antistante, stranamente parca di passaggi pedonali: seguiamo gli indigeni e attraversiamo senza regole, anche perché le macchine sono poche e i tram che sferragliano avanti e indietro sono evitabili con un po’ di attenzione.

All’altra estremità del viale è situata l’ancor più grande Königsplatz, ricca di alberi, ma tormentata da una serie di cantieri che lavorano alla sua sistemazione. Passatala, sbuchiamo ai limiti della zona pedonale, nella quale ci inoltriamo piegando a manca e infilandoci in Annastraße che, all’inizio stretta, si allarga ben presto in una bella strada signorile ricca di negozi e di grandi alberi frondosi. Quasi subito, sulla sinistra, un portico conduce alla breve via che fiancheggia il chiostro adiacente alla chiesa di Sant’Anna (St. Anna Kirche). Nel passaggio, i muri bianchi riflettono brillanti i raggi di un sole che si fa via via più deciso e l’ingresso sotto il porticato ombreggiato è d’inevitabile contrasto. Intonacato anch’esso in tinte chiare, il chiostro è riccamente decorato soprattutto con antiche pietre tombali di notabili e di paffuti priori dell’originario convento carmelitano. Ora, invece, il tempio è protestante, anzi fu la prima chiesa evangelica della città dopo il soggiorno di Martin Lutero: peccato solo che dei massicci lavori di restauro rendano impossibile l’accesso. Possiamo ammirare le parti più preziose, come le cappelle arricchite dalle donazioni dei Fugger, solo dalle immagini sistemate in un piccolo ambiente accanto al chiostro e le testimonianze che ci portiamo a casa non sono altro che foto delle foto.

Tornati in Annastraße, ci concediamo il tempo per una seconda colazione sotto le piante, ai tavolini di un bar tutto per noi. La faccenda va un po’ per le lunghe prima per una lunga sosta in un negozio di articoli per la casa e poi perché, prima di accomodarci, aspettiamo pazientemente che gli uomini della nettezza urbana abbiano fatto il loro lavoro. Osservandoli, nasce una perplessità: i bidoni sono differenziati con cura, ma la raccolta, effettuata con ritmo alacre da api operaie, li fa finire tutti nello stesso camion…

RESIDENZ E DUOMO

Ripreso il cammino e superato un incrocio trafficato, proseguiamo nella tranquillità finchè, svoltati a sinistra lungo Peitingerstraße, giungiamo all’Arcivescovado (Bischöfliche Residenz). E’ un grande palazzo in stile barocco dai muri bianchi movimentati da decorazioni in grigio: qua e là, il rosso del tetto è interrotto da elaborati abbaini mentre all’accesso provvedono alcune profonde porte carraie. Un’alta torre sovrasta il vasto spazio verde interno (il Fronhof) mentre appena fuori si trova l’incantevole Hofgarten, delizioso giardino di gusto settecentesco circondato da una cancellata che, tra il silenzio e la natura, invita all’ozio rilassante. Dall’entrata, un largo sentiero bianco attraversa un prato tagliato con cura e delimitato da piccoli alberi dalle chiome modellate con precisione. Il vialetto finisce di fronte a una fontana in pietra larga alcuni metri e con al centro una sorta di tavola rotonda sovrastata di alt zampilli. Sulla destra, una piccola piscina ricoperta di piante acquatiche è circondata da panchine e da buffonesche statue di gnomi mentre ovunque macchie di fiori ravvivano con i loro colori l’ambiente. In un angolo, una piccola biblioteca: uno scaffale chiuso con un vetro scorrevole da cui chi viene a riposarsi nel giardino può prendere un libro da leggere per rendere ancora più interessante la sosta.

Si sta talmente bene che dobbiamo fare un piccolo sforzo per spostarci in duomo. Non torniamo sui nostri passi attraverso il Fronhof, ma facciamo il giro all’esterno dell’Arcivescovado lungo alcune strette strade lastricate in ciottoli finchè non sbuchiamo sulla larga Frauentorstraße e ci dirigiamo verso il lato nord della chiesa avendo sui lati alti palazzi ottocenteschi. Il duomo di Augusta è un grande edificio (supera i cento metri di lunghezza) che risale a prima dell’anno mille e poi è stato molte volte rimaneggiato fino a un’ultima sistemazione neogotica. Niente barocco quindi, ma un’alta navata sostenuta da colonne e sovrastata da volte a vela e una decorazione abbastanza essenziale. Ciò non toglie che numerosi siano gli affreschi e le decorazioni in bronzo mentre soprattutto preziose appaiano le grandi e strette vetrate dipinte miracolosamente conservatesi nel corso dei secoli anche perché il duomo è stato risparmiato dall’ultima guerra.

Dopo che Chiara ha giocato un po’ con la porta da ‘apriti sesamo’ (nel senso che è azionata da un sensore) passeggiamo a lungo all’interno della chiesa, così diversa da quelle visitate nei giorni precedenti. Scivoliamo fra le antiche tombe nel pavimento e cerchiamo di cogliere un’impressione complessiva, che varia a seconda del punto in cui ci si trova: forse a causa dei numerosi rifacimenti, infatti, è come se il duomo fosse stato ricavato dalla fusione di due chiese differenti, tanto che tra le absidi alle estremità esiste un dislivello lieve ma visibile a occhio nudo.

Sulla piazza antistante il lato meridionale, si possono ammirare i resti delle mura romane e tutto quello che rimane della chiesa di San Giovanni (Johanniskirche), edificio del decimo secolo di cui è sopravvissuta solo la pianta. All’ombra di alcuni alberi, sono sitemati i cartelli esplicativi che narrano la storia del luogo dai tempi di Roma e, benché siano scritti solo in tedesco, si rivelano abbastanza utili grazie a una serie di mappe con colori diversi a indicare i vari momenti storici.

RATHAUS

Proseguiamo verso sud lungo Hoher Weg, che altro non è che la continuazione di Frauentorstraße e che, in seguito, prende il nome prima di Karolinenstraße e poi, dopo la Piazza del Comune (Rathausplatz), Maximilianstraße a costituire l’asse viario principale del centro città. Ricostruita con cura dopo i bombardamenti, è la classica strada da centro mitteleuropeo: alte case su entrambi i lati, vetrine di negozi una dopo l’altra, passeggio intenso ma traffico tranquillo e, al centro della carreggiata, un continuo transitare di tram variamente colorati a scopo pubblicitario.

In fondo svetta l’agile Torre Perlach (Perlachturm) che, dopo una secolare carriera da torre di guardia, annuncia l’ingresso da nord sulla Piazza del Municipio (Rathausplatz). L’ultima trasformazione le ha regalato una veste bianca bordata di grigio e la sovrastante lanterna che culmina in una cupola a cipolla, in piena armonia stilistica con il vicino Municipio (Rathaus), uno dei capolavori del Rinascimento tedesco. Edificato nella prima metà del Seicento (e rifatto dopo l’ultima guerra, ovviamente) presenta un alto corpo centrale alleggerito da un decoro simile a quello della Torre Perlach e dalle numerosissime finestre, mentre un’aquila imperiale spicca nel timpano. Sui due fianchi, la struttura si abbassa per consentire a due torri terminanti a bulbo su una pianta ottagonale di ergersi sottolineando l’importanza dell’edificio.

Fra le finestre della facciata, si distinguono per altezza quelle della Sala d’Oro (Goldener Saal), il grande ambiente largo quanto tutto il palazzo utilizzato come salone dei ricevimenti e per le riunioni della Dieta Imperiale. Alta quattordici metri e con una superficie di oltre 500 metri quadri, è un capolavoro di architettura che prende il suo nome dalle lamine d’oro che ricoprono il decoro del soffitto, le grandi porte e le strutture che le circondano. Il visitatore se ne sta così con il naso all’insù, scorrendo fra tanto scintillio gli affreschi allegorici e, appena sotto al soffitto vero e proprio, quelli di figure storiche alternate a finestre. Più sotto, la decorazione è invece leggera e con colori chiari, così da far contrasto con i due imponenti accessi principali. Passeggiando sul pavimento di marmi colorati, ci si sofferma volentieri alle finestre, che consentono, da una parte, una bella panoramica sulla grande Piazza del Municipio (Rathausplatz) – con le case colorate sullo sfondo che ne seguono la forma quasi semicircolare – e, dall’altra, la visione dei tetti della città. Insomma, aggiunta anche una non imprescindibile visita alla mostra dedicata alle località gemellate, una visita che val bene i sei euro richiesti per l’entrata.

MAXIMILIANSTRAßE E LECHVIERTEL

Percorsa la vastissima Rathausplatz per andare a recuperare all’Ufficio Turistico una cartina un po’ più leggibile di quella in nostro possesso, ci avviamo per Maximilianstraße. La sede stradale molto larga, i tavolini dei numerosi bar su entrambi i marciapiedi, i begli edifici in stile antico che l’affiancano, le torri di St.Ulrich e St.Afra sullo sfondo (chiesa cattolica e protestante una accanto all’altra), il traffico ridottissimo anche perché è passato mezzogiorno: tutto contribuisce, assieme a un sole brillante, a rendere piacevole il momento. Ulteriore elemento decorativo sono le fontane: una dedicata a Mercurio (Merkursbrunnen) sistemata all’inizio e una a Ercole (Herkulesbrunnen) circa a metà costituiscono, con quella di Augusto (Augustusbrunnen) in Rathausplatz, un trio di vasche risalenti alla fine Cinquecento sovrastate da sculture in bronzo. La seconda, dedicata al semidio greco, colpisce più delle sorelle grazie a una posizione favorevole che crea belle prospettive tra gli zampilli che ne scaturiscono e l’architettura circostante.

In tale architettura, due sono i palazzi che spiccano, posti entrambi sul lato destro allontanandosi dal centro. Il primo è il grande Palazzo Fugger (Fuggerhäuser), dove Jacob Fugger aveva la residenza e le attività commerciali. La parte più interessante dell’edificio è l’interno Cortile delle Dame (Damenhof), delicato spazio rinascimentale circondato da un portico sostenuto da sottili colonne di marmo e finemente decorato: la visita è però possibile solo dall’esterno perché vi è situato un lussuoso ristorante i cui tavoli circondano il fresco, azzurro specchio d’acqua posto al centro.

Dopo una visita alla libreria sita nel (o, sarebbe meglio dire, nelle) Fuggerhäuser, giungiamo dopo pochi passi di fronte al Palazzo Schaezler (Schaezlerplais) che, con la sua bella facciata bianca a tre piani risalente al Settecento, sovrasta proprio la Herkulesbrunnen,. L’edificio è caratterizzato dallo stile rococò anche all’interno e sarebbe da visitare – contiene tra l’altro un’importante pinacoteca – ma non ne abbiamo la forza perché lo stomaco inizia a pretendere la sua parte. Alla ricerca di un posto dove mangiare, imbocchiamo una traversa sulla sinistra della Maximilianstraße e ci inoltriamo nel Lechviertel, il quartiere che si estende fino alla sponda sinistra del Lech ed è attraversato dai canali ottenuti deviando il corso del fiume. E’ un intrico di strette strade, perlopiù parallele alla più importante arteria che abbiamo appena lasciato, dove una volta avevano la loro sede numerose attività artigiane che sfruttavano la corrente: ora l’artigianato è rimasto nelle botteghe che si affacciano sulle viuzze – anche se quella in cui entrano Giulia e Diva vende prodotti provenienti dagli Stati Uniti – mentre l’acqua è solo una rinfrescante decorazione che scorre con buon ritmo di fianco alla sede stradale.

La zona è stata bonificata da poco e mette in mostra case intonacate di fresco, colori chiari e piccole oasi di verde tenute con cura. L’unico problema è quello per cui ci stiamo aggirando da quelle parti: scovare un posto dove rifocillarci. Scartati alcuni locali un po’ troppo turistici, risaliamo fin quasi all’altezza di Rathausplatz prima di fermarci in una piccola trattoria. Tre o quattro tavoli sotto alcuni ombrelloni sono sistemati nel piccolo spazio davanti al locale che fa angolo con un negozio. Uno solo è occupato: due tedeschi di buona stazza sono impegnati a svuotare boccali di weiße, facendo pensare che, più che in pausa pranzo, siano impegnati a far passare il tempo. La signora che serve ai tavoli ci aiuta a identificare il menù (il Leberkäse ha un altro nome) e, sebbene la lista sia essenziale, le porzioni sono abbondanti e gustose, oltre che preparate sul momento. Il Leberkäse di cui sopra, würstel, insalata di wurstel, wienerschnitzel: tutto ci viene servito da un’altra Frau, mentre la prima sparisce – forse perché il suo orario è finito. Quando, terminato il pranzo, entriamo per andare al bagno, ci accorgiamo che il locale non è male: ricorda certe avvolgenti e buie birrerie da Ispettore Derrick, ma con una scelta musicale di discreta qualità.

Mentre si radunano dei grossi nuvoloni, riprendiamo il cammino parallelo a Maximilianstraße e passata Elias-Holl-Platz – sulla quale domina la facciata posteriore del Rathaus, ancor più imponente perché ci troviamo più in basso rispetto a Rathausplatz – svoltiamo a destra in Barfußerstraße quando iniziano a cadere i primi, grossi goccioloni. Per fortuna, la pioggia dura poco e possiamo presto proseguire in direzione della Fuggerei dopo aver dato solo un’occhiata alla stretta via che, sulla sinistra, ospita la casa natale di Bertolt Brecht ora adibita a museo (anche se, a dire il vero, il drammaturgo ebbe un pessimo rapporto con la città natale, considerata provinciale e arretrata). Raggiungiamo la nostra meta con una passeggiata di una quindicina di minuti, durante la quale il panorama attorno a noi cambia velocemente: abbandonato il centro storico, le costruzioni diventano tutte quante moderne e si inizia a respirare già un’aria di periferia.

FUGGEREI

Un portone alla nostra destra ci conduce nel quartiere costruito, a inizio del cinquecento, da Jakob Fugger per i cittadini cattolici poveri della città (per evitare intrusi, una delle condizioni per entrarvi era – ed è – dire tre preghiere al giorno, di cui una almeno alla Madonna). Si tratta del primo esempio di edilizia popolare dell’età moderna e pazienza allora se servì a lavare la coscienza del ‘banchiere dei Papi’: funziona ancor oggi come quando fu fondato, inclusi l’obolo simbolico per viverci e le vie di accesso sbarrate durante la notte.

Pagati gli otto euro d’ingresso, ci si incammina per le vie disposte perpendicolarmente, lungo le quali sono allineate le abitazioni a due piani tutte uguali: muri di un giallo carico, porte e finestre verdi, tetti spioventi. Le differenze sono date da una pianta rampicante, dalle piccole personalizzazioni portate dagli abitanti e, soprattutto, dai pomoli dei campanelli (ai tempi in cui non c’era illuminazione, gli abitanti distinguevano il proprio al tatto). Il pieghevole ricevuto all’ingresso accompagna il turista sottolineando i vari aspetti dei secoli trascorsi nella Fuggerei (il bisnonno di Mozart fu ospite qui, circostanza ricordata anche da una targa sulla casa in cui visse) e conduce in due unità abitative, una con arredamento moderno e una di cui è stato recuperato l’aspetto originale. Le stanze visitabili di quest’ultima – cucina, soggiorno e camera da letto – fanno apprezzare la razionalità dell’impianto, tale da consentire il massimo sfruttamento del poco spazio a disposizione: le porte bassissime sono l’unica insidia. Peccato solo che, a un bel momento, arrivi una gita organizzata alla quale siamo costretti a lasciare il posto.

Interessante si rivela anche la discesa nel rifugio antiaereo della Fuggerei, che non fu risparmiata dai bombardieri alleati. Passata la pesantissima porta, si attraversano numerosi ambienti, nei primi dei quali è stata ricreata l’atmosfera di guerra (le maschere antigas, la piccola cucina, le brande) mentre i successivi raccontano la storia del nazismo ad Augusta, dagli inizi alle bombe incendiarie. Particolare cura è riservata alla documentazione relativa alla costruzione dei rifugi che racconta una volta di più come la Germania hitleriana puntasse già decisa verso il confilitto a metà degli anni Trenta.

Una volta riemersi, ci accorgiamo che il tempo a disposizione sta per scadere, anche perché ci troviamo dalla parte opposta rispetto alla stazione. Vi torniamo comunque con calma, in un pomeriggio riscaldato dal sole che è tornato ad avere la meglio, passando ancora in Rathausplatz e Annastraße prima di concederci un gelato e frappè da asporto lungo la Bahnhofstaße.

BAD MERGENTHEIM

Dopo il castello di Weikersheim, abbiamo qualche dubbio se completare il programma della giornata proseguendo fino a Bad Mergentheim. Non tanto per i tredici chilometri, ancora da percorrere – che, comunque, si assommano al ritorno – ma per la stanchezza accumulata tra la passeggiata mattutina fino alla Herrgottskirche di Creglingen e la lunga visita alla residenza dei Hohenlohe-Weikersheim. L’orario è però in bilico, le tre del pomeriggio sono troppo presto per rientrare, e allora decidiamo per una visita diciamo così senza impegno. Proseguiamo la lenta discesa lungo la L2251 per spostarci poi nella più grande, ma anche più trafficata B19 che ci conduce fino alla cittadina termale posta in una bella conca circondata da basse colline verdeggianti. Attraversata senza problemi la periferia, lasciamo l’auto al coperto nel parcheggio ‘Altstadt-Schloß’ in Oberer Graben (prima ora gratuita) e raggiungiamo in pochi minuti a piedi la Piazza del Mercato (Marktplatz).

Per arrivarci, sbuchiamo da una stradina laterale in Hans-Heinrich-Ehrler-Platz, proprio dove sulla destra c’è la semplice facciata della Marienkirche e a sinistra la massiccia struttura del Lyceum, cui un delicato color salmone e un terzo piano simil-graticcio con decorazioni più scure cercano di regalare un tocco di gentilezza. Non siamo ancora in zona pedonale e il traffico fluisce con costanza, tanto da consigliarci di allungare il passo disinteressandoci della fontana dedicata a Maria (Marienbrunnen), la cui statua svetta sulla vasca ottagonale grazie a un lungo e sottile piedistallo.

La situazione si fa molto più tranquilla non appena giungiamo all’altezza del Vecchio Municipio (Altes Rathaus), ai fianchi del quale scorrono le due strade, chiuse ai mezzi a motore, che conducono in Piazza del Mercato, dove si erge anche la facciata principale del cinquecentesco municipio. Quest’ultima è a capanna e intonacata di bianco, con i bordi degli spioventi e le finestre che contrastano grazie al loro colore rosa carico: un balcone sovrastante un piccolo portico ne indica l’entrata principale.

La piazza ha una forma irregolare: più stretta dove ci troviamo noi, si va allargando fino al lato opposto, dove stanno le Case Gemelle (Zwillinghäuser), due edifici signorili del Settecento di notevoli dimensioni che però non gravano sull’osservatore grazie alle linee leggere e ai tanti fiori alle finestre. Da notare che tra i due corpi separati c’è un ingresso ad arco, mentre sopra la costruzione di destra svetta il giallo campanile della retrostante Chiesa di San Giovanni (Münster St. Johannes): sono lo sfondo ideale per qualche foto con in primo piano il celeste della vasca ottagonale della fontana detta Milchlingsbrunnen, uno dei simboli cittadini presidiato dalla statua di un guerriero dell’Ordine Teutonico. Ho tutto il tempo per cercare la giusta inquadratura, anche aspettando che si spostino i molti che cercano un po’ di refrigerio nell’acqua fresca, perché le donne approfittano della visita disimpegnata per ficcanasare in un po’ di negozi. Del resto, qui comincia il centro storico e anche numerosi bar sono ospitati nelle vecchie case, molte delle quali in un graticcio restaurato con attenzione, che circondano la piazza con i loro tetti spioventi.

All’altezza della fontana sulla destra, ecco la larga Burgstraße, strada commerciale che conduce fino davanti alla facciata del Castello dell’Ordine Teutonico (Deutschordensschloss), nella piccola piazza omonima. Diamo solo un’occhiata alla casa d’angolo sulla sinistra che ha ospitato Beethoven – a piano terra un bar affollato – e poi rivolgiamo la nostra attenzione al maniero. Il corpo più antico è austeramente bianco con il tetto grigio: ai lati delle piccole torri circolari, al centro una ben più alta a base quadrangolare. Sulla sinistra, spicca invece una costruzione color ocra in cui si apre una profonda porta carraia sovrastata dallo stemma dell’ordine. Di qui passiamo per accedere al bel giardino, circondato da basse costruzioni sempre collegate al castello-monastero, in cui due file di alberi frondosi si allineano lungo un viale centrale: prima di percorrerlo, svoltiamo a destra dove, leggermente rialzata, incombe la struttura curvilinea dello Schloss vero e proprio. Una torre e un arco sovrastato da un grande stemma in pietra introducono nel cortile. Il decoro che incontriamo è analogo a quello esterno, se si eccettua la gialla facciata concava della chiesa, rifacimento barocco dell’originaria cappella palatina. Ogni parte del tempio è della stessa tinta, inclusi i due campanili posti all’altezza dell’abside che si possono ammirare solo ritornando in giardino, cosa che facciamo perché è ormai troppo tardi anche solo per ipotizzare qualsiasi visita al grande museo sito tra le antiche mura.

Tornati nel verde, seguiamo il viale circondati da anziani che passeggiano e da bambini piccoli intenti a giocare nell’erba. All’altra estremità, conduce ai grandi e curatissimi giardini circostanti un nuovo passaggio dove ha trovato sistemazione un musicista che cerca di ricavare qualche offerta dalla sua abilità con il flauto. Stiamo un po’ ad ascoltare, poi ci rendiamo conto che è venuto il momento di imboccare la strada del ritorno: torniamo con calma al parcheggio mentre i raggi del sole iniziano finalmente a colpire in modo un po’ meno diretto e Bad Mergentheim si va popolando di turisti per l’aperitivo.

BAMBERGA

Bamberga è la meta più eccentrica che ci concediamo rispetto alla Strada Romantica, ma la stanchezza accumulata durante la lunga visita è ampiamente giustificata dalla bellezza della città a nord di Norimberga, che conferma la piacevole impressione risalente ai tempi del liceo. Unici aspetti negativi sono un afflusso turistico abbastanza intenso e il clima insolitamente caldo – niente a che fare con la botta di calore di due giorni dopo a Lindau, ma il sole che brilla nel cielo azzurro da mattina a sera si fa sentire – oltre, ovviamente a un viaggio non breve.

E’ ancora presto quando percorriamo la consueta, tranquilla ST2419 in direzione di Rothenburg e la lasciamo, girando a sinistra, all’altezza di Reichelshofen. Sull’incrocio con la ST2416, sta la birreria Landswehr, con annessi albergo, ristorante e Weingarten. Ci sono anche la visita guidata e lo spaccio, ma, malgrado i propositi, finiamo per non fermarci mai anche se la birra lì prodotta è buona, come ci capita di assaggiare qua e là: un sapore più rotondo e fruttato che la differenzia dalle altre che nascono nel circondario e che potrebbe dispiacere, però, a chi non ama le birre troppo aromatiche.

Seguiamo per un tratto il percorso che ci aveva portati ad Ansbach, dove pochi giorni prima abbiamo preso il treno per Norimberga. La strada passa attraverso un paio di piccoli centri e poi, dopo l’incrocio con la A7, si allarga nella più frequentata B470. L’andamento lungo la valle dell’Aisch è pianeggiante o lievemente ondulato, ma la velocità di crociera resta bassa, tra camion di varie dimensioni, qualche mezzo agricolo e centri abitati da attraversare o a cui girare attorno con comunque rallentate circonvallazioni. Quando arriviamo a Höchstadt an der Aisch seguiamo le indicazioni del signor Zink e puntiamo verso Pommersfelden: qualche strada cittadina a senso unico e possiamo imboccare la ST2763 che, tra salite e discese, attraversa una zona di fitti boschi finchè, con una deviazione, ci consente di raggiungere la B505 che ci conduce fino alla nostra meta.

Quest’ultima strada, benché a doppia carreggiata, ci accoglie con un traffico vivace: lascerebbe presagire un accesso difficoltoso a Bamberga che però non ci sarà. Una serie di larghi viali ci conducono infatti fino in centro, dove lasciamo la macchina al parcheggio scoperto di Schillerplatz (quattro euro per circa sei ore). In meno di dieci minuti a piedi, siamo sulle rive del Regnitz, che scavalchiamo per inoltrarci nella città vecchia. Siamo nella zona dei mulini (Mühlswörth) e le abitazioni – molte delle quali a graticcio – si affacciano direttamente sull’acqua o vi si protendono addirittura sopra mentre il corso del fiume è deviato da alcune chiuse che ne regolano la velocità. Una rapida occhiata alla nostra destra consente di dare uno sguardo verso la parte più centrale della città, con ponti che si intersecano e le costruzioni che si innalzano al centro della corrente. Ma avremo tempo di vederle con più cura in un secondo tempo e, così, ci inoltriamo fra le case, risalendo fino a Concordiastraße.

STEPHANSBERG

Sulla via, in lieve pendenza e pavimentata a sampietrini, ci troviamo subito di fronte la facciata di Böttinger Haus, costruita a inizio Settecento in uno squisito stile barocco considerato uno dei più belli di Germania. La facciata, su tre piani, è di un caldo giallo-ocra ed è percorsa da complicate decorazioni che si fanno assai fitte nella parte centrale, dove il portone è tutto circondato da riccioli e bassorilievi e, sopra di esso, un complicato blasone nobiliare sembra essere radice alle ricche finestre che lo sovrastano. Il bello è che il padrone di cotanto palazzo, il signor Böttinger appunto, se ne stancò ben presto facendone costruire un altro, Villa Concordia. Questo si trova all’estremità sud di Concordiastraße, che a quel punto si è ristretta a neppure due metri di larghezza – il che costringe un furgone che si è infilato fin lì per consegnare qualcosa a fare le acrobazie per riuscire a uscirne. Villa Concordia (che ora è la Casa Internazionale degli Artisti) è certamente più grande di Böttinger Haus, ma ha molto meno fascino perché ritoccata più volte; inoltre, la strettezza dei luoghi non dà la possibilità di coglierne appieno l’architettura. Più interessante il quartiere che la circonda, fatto di vie strette, case dalle linee pulite in cui si aprono piccole finestre in stile, delicati lampioni a muro e una robusta fontana in stile barocco.

E’ un piacere passeggiare nella totale tranquillità: ci portiamo un po’ più in quota percorrendo Unterer e Oberer Stephansberg (che poi prosegue salendo fino allo Stephansberg medesimo) tra palazzi settecenteschi di notevoli dimensioni e ville private immerse in piccoli giardini. A quel punto, però, è giunta l’ora di tornare sui nostri passi e, ripresa la direzione nord, ci imbattiamo subito nel lato meridionale della chiesa di Santo Stefano (St. Stephanskirche). L’ingresso è dalla parte opposta, ombreggiato da un piccolo giardino con vista sui tetti sottostanti: all’interno il tempio, ora protestante, esalta in purissimo bianco le sue movimentate linee barocche, facendo spiccare ancor di più gli stucchi dorati dell’imponente organo.

Scendiamo poi lungo la stretta Eisgrube, su cui si affacciano case secolari con facciate a volte decorate in colori pastello, e ci troviamo ai piedi di Obere Pfarre, ovvero la chiesa di Nostra Signora: una massiccia costruzione gotica, ultimo esempio dello stile in città. La purezza delle linee è rimasta più all’esterno – nell’alta facciata a capanna, nella torre campanaria a base quadrata che l’affianca, nei massicci contrafforti che la sostengono – rispetto all’interno, dove allo slancio delle linee originali si sovrappone un decoro barocco sovraccarico, ad esempio, nelle dorature del pulpito o nella complicata struttura dell’altar maggiore. Qualche lavoro in corso non ci consente di apprezzare del tutto la chiesa e, ben presto, ci rimettiamo in marcia verso Piazza del Duomo (Domplatz) che raggiungiamo attraverso stradine secondarie poste su livelli diversi e collegate tra loro da brevi scalinate: la pavimentazione in pietra e le basse case che le affiancano (non si va oltre il terzo piano, sia in muratura, sia a graticcio) ricreano un’atmosfera che riporta agli anni del Rinascimento che le poche macchine dei residenti non riescono del tutto a rovinare.

DOMBERG

Il percorso – per forza di cose tortuoso e ombreggiato – aumenta l’effetto scenografico della piazza, molto grande, in lieve pendenza ed invasa sia da numerosi turisti, sia da un sole limpidissimo che crea decisi chiaroscuri fra le imponenti costruzioni che si ergono tutto attorno e ne staglia la struttura contro il cielo azzurro intenso. Alla nostra sinistra domina, rialzato da alcuni gradini, il possente duomo che sovrappone all’originale architettura romanica chiarissime caratteristiche gotiche senza dare alcuna impressione di pesantezza malgrado le dimensioni. A fianco di una struttura absidale alleggerita da trifore sotto il tetto, si innalzano due campanili, mentre altri due – diversi nello stile – svettano all’altra estremità, accanto al transetto. L’interno è a tre navate in cui domina la pietra viva dei muri e delle colonne che sostengono le volte a vela nella consueta fuga verso l’alto: le dimensioni complessive non lasciano indifferenti, visto che la lunghezza totale raggiunge quasi i cento metri. Non mancano però i decori, costituiti soprattutto dal alcune statue fra le quali si segnalano il misterioso ‘Cavaliere di Bamberga’ (Bamberger Reiter) – statua equestre di non-si-sa-bene-chi che, appoggiata a una colonna, stupisce per dalle linee curiosamente leggere e moderne – e la pietra tombale dell’imperatore Enrico II e della moglie Cunegonda frutto dell’opera dell’officina di Tilman Riemenschneider. Una nota a parte merita anche l’organo, addossato a una parete all’interno di un arco acuto e sfoggiante alcune canne puntate all’infuori a mo’ di mitragliatrice.

Usciti da uno dei massicci e decorati portali, ci manteniamo alla nostra sinistra per visitare il Palazzo Vecchio (o Corte Vecchia, cioè Alte Hofaltung), prima residenza dei vescovi-principi di Bamberga. Sulla piazza si affaccia una classica struttura a capanna affiancata dalla cosiddetta Porta Bella (Schöne Porte), che conduce all’ampio cortile interno. Questo è uno spazio vasto e acciottolato che è circondato da una grande costruzione a graticcio che si eleva sopra un piano terra in pietra e mette in mostra due balconate fiorite – una percorre praticamente tutti i lati – protette da un alto tetto in notevole pendenza. Alcune piante e un porticato regalano un po’ di piacevole frescura e ne approfittiamo per tirare il fiato e fare visita ai servizi – a pagamento, è necessario lasciare l’obolo al custode che li presidia.

I principi-vescovi di cui sopra ben presto si stancarono della sistemazione, malgrado le soluzioni rinascimentali specie all’interno, e così costruirono, per loro stessi e per la loro burocrazia, la Residenza Nuova (Neue Residenz) che occupa a forma di L i restanti lati della piazza: tre piani in stile barocco che allineano finestre e spalancano due portoni affiancati da colonne per poi finire a diventare quattro dove la piazza si fa più bassa. E’ qui, dove il palazzo termina, che, stando attenti alle macchine, si può attraversare la strada e, appoggiati al muro che chiude idealmente la piazza, fermarsi ad ammirare il panorama del centro città. Poco lontano, un passaggio conduce a Katzenberg che, con un’ampia scalinata pedonale posta accanto alla carreggiata, scende in Dominikanerstraße e nella parte più vecchia della città.

E’ inevitabile che ci sia qualche negozio di souvenir di troppo, ma questa stretta ed elegante via costringe a camminare con il naso per aria per ammirare le varie case che si succedono una accanto all’altra mostrando facciate di vari colori. Il graticcio (a volte storto), si alterna alla muratura senza stridere e la passeggiata è piacevole anche se il tempo comincia a farsi tiranno: non risaliamo così la strada, ma ci dirigiamo verso il Regnitz attraversandolo lungo il Ponte Inferiore (Untere Brücke) che di Dominikanerstraße è la continuazione. Alla nostra sinistra, si apre la Piccola Venezia (Kleine Venedig) che, sull’altra sponda, era il quartiere dei pescatori e che ora, tra case accuratamente restaurate e una serie di piante che ombreggia la riva, è diventata luogo di approdi privati e ristorantini romantici (non troppo a buon mercato). A destra invece, ecco il Ponte Superiore (Obere Brücke), al quale ci collega il Vecchio Municipio (Altes Rathaus), sistemato nel Quattrocento su una lingua di terra posta al centro del fiume e poi rinnovato tre secoli dopo nel suo aspetto attuale, con le grandi e movimentate figure affrescate in cui predominano il rosso, l’ocra e il giallo con tocchi di verde per alleggerire l’insieme.

Alla ricerca di un posto dove mangiare, ci avviamo prima verso la Piccola Venezia, ma desistiamo ben presto perché la confusione data dal traffico è fastidiosa. Ci dirigiamo quindi verso la zona del Grüner Markt, dove si svolge il mercato della frutta e della verdura, ma poi ci risolviamo a tornare verso il centro. Obstmarkt è uno slargo che si restringe in una strada in direzione del Ponte Superiore. Numerosi sono i bar e le tavole calde con tavolini all’aperto – al riparo di grandi ombrelloni – ma la zona centrale incide sui prezzi e allora stabiliamo di andare sul classico e decidiamo per la mescita della Birreria Schenkerla (Aecht Schenkerla Brauerai-Ausschank), casa della birra affumicata (Rauchbier).

Siccome è sistemata in Dominikanerstraße, è necessario riattraversare il fiume. A differenza di quello inferiore, che costeggia l’edificio, il Ponte Superiore attraversa il Vecchio Municipio passando sotto l’androne del torrione a pianta rettangolare: questo, sopra l’arco d’ingresso, è decorato da un piccolo balcone e termina con una piccola torre campanaria che sovrasta un frontone dotato di orologio. Alla nostra destra c’è il complesso in muratura affrescato, mentre la parte a graticcio dell’edificio sta quasi sospesa sopra la corrente. Il ponte sbocca nella più movimentata Karolinenstraße, ma, seguendo una traversa a destra, raggiungiamo presto la nostra meta.

AECHT SCHENKERLA BRAUERAI-AUSSCHANK

Il locale si trova dagli inizi del Quattrocento in una costruzione a graticcio che ospita alcune grandi sale al piano terra e alcune meno spaziose a quelli superiori – le cui piccole finestre sono decorate con gerani rossi. Quando arriviamo, gli avventori sono numerosi ed è una fortuna, quindi, che ci sia un piccolo Biergarten a cui si accede dal portone a fianco e che era parte, come tutti gli edifici circostanti, di un convento agostiniano di cui alcune tavole illustrano la storia. L’ordinazione non è semplicissima innanzitutto perché ci sono alcune pietanze servite solo prima di mezzogiorno o dopo le due (ovviamente, noi siamo lì tra mezzogiorno e le due) e poi perché il menù è scritto non in tedesco – e già non sarebbe semplice – ma in dialetto francone. In nostro soccorso arriva una gentile cameriera che, malgrado la fretta causata dal numero dei clienti, ci mima l’intera lista che risulta composta delle più svariate parti del maiale (di cui anche in Germania, con ogni evidenza, non si butta via nulla). I piatti si rivelano come al solito gustosi e abbondanti: per una volta abbandono gli arrosti per un musetto bollito che si rivela essere in quantità imbarazzante. Ottima è di sicuro la giovane birra – affumicata, non c’è neanche da dirlo – che è l’offerta del giorno: fresca e amara al punto giusto per essere piacevolmente dissetante.

INTELSTADT

Bamberga è divisa in tre parti. La più antica è detta Bergstadt, ovvero la città del monte – e difatti riposa addirittura su sette colli. A livello temporale, segue Inselstadt, la città dell’isola, perché delimitata dai due rami lungo i quali il Regnitz scorre nell’abitato. Infine, oltre il braccio più esterno, parte del canale di collegamento Meno-Danubio, si stende la più moderna Gärtnerstadt (città giardino) dove è situata anche la stazione ferroviaria.

Torniamo a Inselstadt, appena sfiorata prima di pranzo, attraversando il fiume lungo una bella passerella pedonale con forse la migliore vista del Municipio che si staglia come una nave al centro del corso d’acqua. Voltandosi, invece, si vede come le chiuse regolino la portata – la direzione è quella della zona dei mulini – mentre sulla sinistra si erge la massiccia, rinascimentale mole del Castello di Geyerswörth, roccaforte di città del vescovo contrassegnata dalle grandi finestre ad arco pieno (come i portoni) e da un se vogliamo incongruo color salmone. La zona in cui si trova l’ex fortificazione è però molto bella e riposante, ombreggiata com’è da piante frondose che inoltre accompagnano la passeggiata del tranquillo lungofiume pedonale. Data un’ultima occhiata alla sagoma del duomo che domina dall’alto della collina, raggiungiamo nuovamente Grüner Markt, la larga via (uno la direbbe la piazza) dominata dalla facciata barocca della chiesa di San Martino (gran movimento di linee curve) e ancora occupata da un bel numero di bancarelle. Su entrambi i lati si susseguono case in stile barocco al cui piano terreno sono posti negozi o bar più o meno pretenziosi: d’ogni tanto, qualche musicista di strada si ferma a intrattenerne i clienti – dal solitario suonatore di clarinetto di Obstmarkt ai tre ragazzi, decisamente più moderni, che ci fanno compagnia mentre mangiamo un gelato prima di proseguire – e poi riparte verso un altro locale non prima di aver fatto il giro per raccogliere le offerte. Al centro della strada-piazza ci sono alcune piante e la Fontana del Nettuno, con il dio armato di tridente in mezzo e una cancellata dal complicato decoro tutt’attorno, oltre a numerose panchine e alcuni lunghi sedili di pietra: è lì che mi tocca intrattenermi a lungo con l’ufficio mentre le donne si dedicano all’accurata visita di un negozietto da cui, però non cavano nulla.

Dove Grüner Markt inizia a stringersi prende il nome di Hauptwachstraße, una via abbastanza moderna che, dopo qualche decina di metri, si apre a sinistra nella vasta Maximiliansplatz, in cui spicca soprattutto l’ordinata facciata barocca del Municipio Nuovo (Neues Rathaus) che ne occupa un intero lato. Siamo ormai ai limiti della zona pedonale e anche delle forze in un pomeriggio quasi afoso: decidiamo così di avviare la procedura di rientro anche perché non è breve la strada verso casa.

BARGELD

(Per una volta, non è una citazione: il chitarrista degli Einsturzende Neubauten non c’entra nulla).

Uno degli aspetti più inattesi che il turista si trova ad affrontare è il ridotto utilizzo della moneta elettronica (magari, se il suddetto turista leggesse con maggiore attenzione le guide che pure si è comprato, la sorpresa sarebbe minore, ma questo è un altro discorso).

La carta di credito è accettata dalle grandi catene, come Staedtler a Norimberga, o da negozi di rinomanza internazionale – e ci mancava altro che non la prendessero da Käthe Wohlfart. Per il resto si va a macchia di leopardo. In tre distributori su quattro sì – nell’altro, a Weikersheim, l’anziano signore alla cassa borbotta scortese ‘solo bancomat tedeschi’ – ma nei musei spesso e volentieri no: a Weikersheim, posto contraddittorio in materia, è accolta con un sorriso però nella ben più visitata Residenz di Würzburg il panciuto cassiere chiede ‘cash’ strofinando per maggior chiarezza pollice e indice. Per Deutsche Bahn non ci sono problemi (vedi Käthe Wohlfart più sopra), a far la spesa invece sì, con le cassiere di Lidl che accettano molto dubbiose il bancomat solo per scusarsi quando si scopre che il circuito Maestro, almeno, funziona.

Per il resto, il monotono ritornello è ‘nur Bargeld’, cioè ‘solo contanti’, ristoranti e negozi con una certa pretesa compresi – come, ad esempio, quello di Augusta che vende ricercata oggettistica per la casa in cui Diva compra due delicate cornici portafoto. La conseguenza è che ci ritroviamo a prelevare per ben due volte da sportelli bancomat che più diversi non si può: se quello della Sparkasse di Rothenburg ci consegna banconote di tutti i tagli dai cinquanta euro in giù, il suo omologo della VR Bank di Uffenheim ci rifila anche un centone.

Alla fine, siamo talmente assuefatti che, approdando stremati in albergo a Nenzing, l’ultima sera, chiediamo subito se si può pagare con carta di credito. Il gentilissimo padrone si irrigidisce un attimo e risponde ‘Ja, natürlich’ (‘Sì, certo’) con l’aria di chi sta pensando ‘ma questi credono che siamo proprio così indietro?’.

CANTONE DEI PRETI (PFAFFENWINKEL)

Siccome si è sempre i terroni di qualcuno, è voce risaputa che i bavaresi siano diversi rispetto agli altri tedeschi. Si dice che siano più espansivi e casinisti, anche se, venendo dall’Italia, è una sfumatura che non si riesce ad apprezzare. La struttura fisica, poi, tende al tracagnotto, specie avvicinandosi alle montagne, perché secoli di alimentazione incompleta hanno lasciato inevitabili segni. Infine, la religione: la Baviera vera e propria – quella con capitale a Monaco già nei secoli passati – è sempre stata profondamente cattolica, in pratica neppure sfiorata dalla Riforma dopo il ‘cuius regius eius religio’ (con la conseguenza che la regione restò più arretrata e ignorante rispetto al resto del Paese e fu la culla ideale per le abili paranoie del nascente nazionalsocialismo – un discorso che, però, ci porterebbe troppo lontano).

La devozione del popolo e la munificenza dei signori hanno così disseminato queste terre di un numero di chiese e conventi difficile da trovare altrove. La concentrazione maggiore si ha nel Pfaffenwinkel vero e proprio – a sud-est di Landsberg, fra le verdi colline del bacino dell’Ammer – come anche nelle zone subito circostanti: chiese grandi, sovente sproporzionate rispetto alle località in cui sono collocate, che esibiscono una costanza stilistica che impressiona. Dominano il barocco e il rococò: il bianco accecante degli intonaci, interni ed esterni, fa risaltare e allo stesso tempo addolcisce l’effetto dei mille stucchi dorati, delle decorazioni rigogliose, dei grandi dipinti sovraccarichi di personaggi e particolari. Non mancano i marmi, di svariati colori e sfumature: non sempre, però, di pietra si tratta perché, magari in posizione laterale o comunque non essenziale, il semplice tocco della mano rivela che abbiamo di fronte un legno accuratamente modellato e dipinto. L’insieme ha un suo fascino magnetico, perverso forse, ma innegabile: si può dire del tutto raggiunto lo scopo di quegli anni, in cui si elaborava la maniera per giungere allo stupore anche esaltando la gloria del Signore.

L’uniformità rende le eccezioni, come la basilica di Altenstadt, delle vere mosche bianche. Solo la Wieskirche nasce in quegli anni: gli altri sono tutti edifici preesistenti trasformati in modo radicale: punto di partenza fu forse la riparazione dei danni della Guerra dei Trent’anni (vero e proprio trauma nazionale tedesco), ma anche testimonianza di una precisa scelta riguardo all’effetto da ottenere.

PEITING

Peiting è a soli quattro chilometri da Schongau, lungo la B23 che conduce a Garmisch. Si trova nel punto in cui i bacini dell’Ammer e del Lech arrivano ad essere vicinissimi – ‘si baciano’ come scritto nell’autopromozione locale – ma, a parte la discreta posizione naturale e il tanto verde (sia circostante, sia in centro) non ha particolari attrazioni da offrire.

In più, ci arriviamo a mezzogiorno di domenica e piove. Al primo colpo, sbagliamo strada e, seguendo i cartelli che indicano la direzione delle montagne, giriamo attorno al paese invece di entrarvi. Fatta manovra, troviamo con facilità parcheggio in centro, a poca distanza dalla chiesa. Un’occhiata alla facciata dipinta di una casa sulla destra della strada e torniamo sui nostri passi dirigendoci, in leggera salita, verso la parte più vecchia di Peiting. Superato il piccolo corso d’acqua del Peitnach che – affiancato ora dalle piante, ora dalle case – attraversa la piccola località, ci avviciniamo alla chiesa parrocchiale di San Michele (Pfarrkirche St. Michael) che ci sovrasta con la sua mole bianca circondata da un rigoglioso giardino ricco di alberi ad alto fusto e fiori colorati. La torre a base quadrata posta davanti alla facciata è l’unica parte non ritoccata all’inizio del Settecento: l’interno, dai muri sempre candidi, accoglie il visitatore con una struttura bassa e larga che si stringe improvvisamente all’altezza dell’abside. Le decorazioni ricercate sono limiate all’altare maggiore e ai due che lo affiancano – colonne a tortiglione, dorature e stucchi – mentre dalla parte opposta organo e coro si sporgono per quasi un quinto della lunghezza complessiva.

Usciti, facciamo due passi per la Hauptplatz. Le case attorno sono dignitose e in stile, ma colpiscono di più gli stand di una festa programmata per il fine settimana che si intristiscono sotto la pioggia battente. Ben presto siamo però costretti alla ritirata.

ROTTENBUCH

Antico monastero agostiniano, Rottenbuch ne ricalca la pianta, con le strutture secolari che hanno preso il posto dei frati dispersi all’avvento di Napoleone. Si entra dalla massiccia e profonda porta ad arco (intonacata in bianco come tutto il resto) che introduce in quella che era la corte interna del monastero. La strada carrozzabile svolta subito a destra, proprio davanti a un ristorante che sfrutta il monopolio per proporre prezzi non molto economici: nel resto del grande spiazzo, lungo un centinaio di metri e largo trenta si alternano aiuole, grandi alberi, un piccolo cimitero e alcuni posti auto per chi deve accedere agli uffici. Il comune di Rottenbuch ha difatti la sua sede nell’edificio che chiude il cortile in fondo, mentre la scuola e la biblioteca sono sul lato destro, appena oltre la chiesa.

Da Peiting, si arriva a Rottenbuch attraverso un piccolo passo che sfiora gli ottocento metri e consente di passare nella valle dell’Ammer. Causa maltempo, non riusciamo ad ammirare il panorama, ma ci rifaremo tornando da Oberammergau qualche giorno dopo, quando un sole limpido e caldo illumina il verde chiaro dei prati ben curati e quello più scuro delle pinete, oltre a consentirci di scorgere le molte fattorie poste alla sommità delle colline tondeggianti tutt’attorno. Quando arriviamo a destinazione, però, l’ora di pranzo è arrivata e pure già passata da un po’, così decidiamo di dare sollievo ai morsi della fame.

Il problema è come. Detto del ristorante in paese, le alternative non sono molte. Torniamo sui nostri passi: non molto dopo Peiting c’era un locale al limitare del bosco, anche se con un mucchio di macchine parcheggiate davanti. Invece, appena usciti da Rottenbuch, un cartello indica la Moosbeck Alm che, imboccata la stretta stradina di campagna, andiamo a cercare. Il viottolo dalla ridottissima carreggiata sfiora fattorie, attraversa campi coltivati, transita per la piccola frazione di Moos e poi si dirama a destra ancor più stretto: dopo una curva cieca con relativo strombazzamento, eccoci finalmente a destinazione. L’edificio in legno alla nostra destra è grande e accogliente, davanti le automobili dei clienti sono soprattutto di gente del posto, i prezzi sono giusti: ci fermiamo e va bene così, visto che l’orario non consentirebbe una nuova partenza. Il pranzo viene servito nel cosiddetto ‘Giardino d’inverno toscano’ (Toskanischer Wintergarten), una veranda tutta vetri ricca di fiori e decorazioni liberty che offre una bella vista sul giardino circostante delimitato dalla pineta. Le portate si rivelano all’altezza dell’ambientazione: scelte grazie a un cameriere gentile e a un menù anche in uno zoppicante italiano, consistono in abbondanti porzioni di carne preparata con cura e corredata da contorni in egual quantità. Con una quarantina di euro, ne usciamo più che saziati e abbiamo la soddisfazione di vedere che il brutto tempo si sta attenuando: finalmente smette di piovere, prima di sera potremo anche godere di qualche isolato squarcio di sereno.

Un’occhiata al prato antistante che digrada fino al fiume, accanto al quale è posta una piscina con zona nudisti, e torniamo a Rottenbuch. Lasciata la macchina fuori dalla porta, ci avviamo alla vera attrazione del posto, l’ex chiesa conventuale dedicata alla nascita di Maria (Ehemalige Klosterkirche Mariä Geburt). Superate le due pesanti porte tra le quali è posto un vestibolo abbastanza buio, il visitatore può essere colto da un capogiro. La navata centrale è un’esplosione di decorazione rococò: gli stucchi bianchi e dorati sembrano scaturire dalle colonne come rami dal tronco, aprendosi sul tratto di muro che le sovrasta. Qui fanno da cornice ad una serie di dipinti dai colori vivaci per poi proseguire attorno alle grandi finestre che scandiscono la parte più alta delle pareti e, infine, ingentilire il contorno dei grandi affreschi che decorano il soffitto. Sul lato sinistro un pulpito color oro sovrastato da un baldacchino finemente decorato, sul fondo un altare ricco di colonne, statue e angioletti svolazzanti: un sovraccarico di dettagli difficile da sopportare se non fosse per l’estrema luminosità dell’insieme.

La torre è staccata dalla chiesa. Non originale perché ricostruita dopo un crollo, mostra una struttura snella sovrastata da un allungato tetto a cipolla. Superatala, ci dirigiamo fino al muro che passa dietro l’attuale municipio. A sinistra di quest’ultimo, si apre una porta da cui inizia una strada sterrata in discesa verso una zona verde e incolta che conduce al letto del fiume: da essa si dipartono poi vari sentieri per passeggiate nella natura.

ILGEN

Il percorso più logico da Rottenbuch per la Wieskirche suggerisce di proseguire lungo la B23 per un paio di chilometri e poi tagliare verso ovest sulla ST2059, dalla quale si dirama verso sud la strada che conduce alla chiesa patrimonio UNESCO. Lasciato l’ex-monastero ci facciamo però sedurre da un cartello che indica immediatamente Steingaden e imbocchiamo così la ST2058 che porta velocemente in quota e poi, con curve che seguono il disegno dei campi e il limite del bosco, percorre una specie di altopiano punteggiato di fattorie in località chiamate Ölberg, Rudersau e Boschach. Non che fino ad ora abbiamo trovato molto movimento, ma qui viaggiamo in beata solitudine e possiamo ammirare i luoghi senza ostacoli.

All’incrocio con la B17 all’altra estremità della strada, si alza la discreta mole del santuario della Visitazione (Wallfahrtskirche Maria Heimsuchung) di Ilgen. Inconfondibile è il profilo barocco, tra mura bianche e tetto rosso, ma è soprattutto la posizione a colpire: i prati tutt’attorno, le piante che farebbero ombra se ci fosse il sole, la strada che piega sinuosa in una doppia curva, le montagne sullo sfondo. Non visitiamo l’interno, ma una foto che cerca di restituire almeno in parte tutto questo è ineludibile.

La B17 che riprendiamo verso sud non è più l’arteria dritta e larga a cui siamo abituati, ma una strada di montagna che sale lenta e sinuosa attraversando paesi in cui si è costretti ad andare piano anche se si riesce a evitare il quasi immancabile contadino che, alla guida di un trattore con più o meno lustri nel motore, trasporta l’erba al fienlile. I cinque chilometri che sono necessari per imboccare la ST2059 costringono così a una media sui cinquanta all’ora e di molto non si migliora quando lasciamo la B17.

WIESKIRCHE

La località di Wies, persa fra le colline e i boschi della Baviera a sud-est di Steingaden, era costituita da qualche fattoria e una locanda fino a quando – attorno alla metà del Settecento – una statua lignea del Cristo flagellato parve piangere. Grande agitazione e immediata decisione di erigere un Santuario che dal soggetto della statua stessa prende il nome (Wallfahrtskirche

Zum Gegeißelten Heiland auf der Wies, per gli amici Wieskirche). L’opera è il capolavoro rococò dei fratelli Zimmermann e, visitatissima da pellegrini e turisti, è entrata a far parte del patrimonio dell’umanità negli anni Novanta del secolo scorso, quando un restauro cercò di riportarla il più possibile vicina all’aspetto originario.

Ci accorgiamo subito di essere ritornati nel flusso turistico principale. Il Santuario domina il minuscolo centro abitato da una collina erbosa: ai suoi piedi c’è un parcheggio a pagamento quasi pieno. Il fatto che sia poco costoso, – con un euro si ha tutto il tempo per completare la visita – non compensa il fastidio per le bancarelle di ricordini vari e il grande ristorante non molto distante che tendono a snaturare la natura bucolica del luogo.

Come in molte altre mete di questo viaggio, anche qui ci sono lavori in corso. Sono in via di sistemazione il vialetto d’accesso occidentale e una parte della parete sempre sullo stesso versante, ma è un problema relativo: si tratta del lato da dove arrivano i turisti, le inquadrature migliori si hanno da quello opposto, dove a dominare è il verde dei prati in cui si inoltrano alcune stradine delimitate da staccionate. Attorno sta il bosco e sullo sfondo fanno da quinta le Alpi Bavaresi – peccato solo per le spesse nubi che, pur non nascondendole, le rendono cupe. Come detto, la mole non indifferente della Wieskirche è sopraelevata e spicca con i suoi muri candidi sulla vegetazione circostante. La costruzione mostra una facciata che digrada e si allarga nella navata ottagonale, quindi si stringe nuovamente all’altezza dell’abside e si conclude con il campanile.

Come a Rottenbuch, un vestibolo non troppo illuminato accentua l’effetto che l’interno ha sul visitatore. La differenza sta nelle persone che scorrono in entrata e in uscita e che costringono a proseguire per non bloccare la circolazione. Una volta trovato posto su una panca – anch’essa decorata con riccioli e scanalature – si possono rivolgere gli occhi verso l’alto per ammirare gli stucchi, i decori e il grande affresco della Resurrezione che occupa luminoso il soffitto. Del resto, è la luce che domina: malgrado fuori non brilli il sole, le alte finestre – alternate alle svettanti coppie di snelle colonne – e il bianco dell’intonaco rischiarano l’ambiente rendendolo leggero malgrado la sovrabbondanza di ornamenti e dorature. Più massiccio è di certo l’altare maggiore, con le quattro colonne avorio e porpora che affiancano la pala circondata da una cornice laminata oro sovrastante a sua volta la statua da cui tutto è cominciato. Quest’ultima è chiusa in una teca anch’essa dorata e, vista da vicino, fa una certa impressione per il realismo della sofferenza che ne traspare.

Tra lo spazio antistante l’altare e le pareti laterali che danno luce al tutto c’è uno spazio delimitato da colonne bianche e azzurre in cui sono conservati numerosissimi ex-voto, alcuni risalenti ai secoli passati e altri anche molto recenti: è l’ultima tappa della nostra visita, prima di affrontare la gimcana che porta all’aperto.

STEINGADEN

Come Rottenbuch, anche Steingaden nasce attorno a un’abbazia di monaci premostratensi (origine in Francia all’inizio del secondo millennio dell’Era Volgare, non si finisce mai di imparare…). Nel bel mezzo di quello che sembra a tutti gli effetti un normale paesino di montagna, si apre la grande Piazza del mercato (Marktplatz) sovrastata dalle torri gemelle della Welfenmünster, quella che era la chiesa del monastero, dedicata a San Giovanni Battista. Da notare che i due campanili, dall’ampia base quadrata e il tetto a punta, sono posti in parallelo rispetto alla navata e perciò si possono meglio ammirare osservando l’edificio di lato, come avviene, appunto, dalla Marktplatz.

Percorrendo la B17 verso sud, quasi non si nota l’accesso a quest’ultima, posto sulla sinistra e ombreggiato da grandi alberi. La piazza si spalanca immediatamente in leggera salita, illuminata, oltre che dalle facciate degli edifici che la circondano, dalla pavimentazione in pietra che mette in mostra le più chiare sfumature di grigio. Sul lato sinistro si trovano il massiccio ‘Gasthof zur Post’ e alcuni negozi, dall’altra le facciate di edifici pubblici sono alleggerite da una piccola fontana e da alcune aiuole colorate. E’ possibile parcheggiare, ma per prudenza ci infiliamo in una laterale e troviamo posto alle spalle di quello che era il muro dell’antico convento (anche in questa zona, il fondo stradale è analogo a quello della piazza).

Tornati sui nostri passi, iniziamo la visita della chiesa dopo essere passati sotto l’arco (posto fra due negozi) che la introduce e attraverso il cimitero che la circonda. Prima dell’ingresso nel tempio vero e proprio, è posto un atrio in cui, oltre a una struttura gotica, è conservato l’affresco che racconta – in piccoli quadri che possono ricordare un fumetto – la storia dei conti Welf, signori della zona: molte figurette e tanti colori, peccato solo per la poca luce. La chiesa, invece, richiama le sue consorelle circostanti, seppur con meno svolazzi di fantasia. Forse la causa è la struttura originaria, ma l’interno risulta meno agile, con le navate separate da grandi pilastri a cui sono accostati dipinti di notevoli dimensioni, quasi ci trovassimo al cospetto di piccoli altari. Le decorazioni finiscono per aver la meglio sul bianco delle pareti e – se si eccettua un elaborato pulpito in color oro e avorio – la parte migliore richiede di voltarsi: l’organo, dalle linee morbide e armoniose, sembra fluttuare sopra una balconata a onde mentre due affreschi si stagliano nella solita sovrabbondanza di stucchi e putti.

Attravreso una porta laterale, si accede a tutto ciò che rimane del chiostro: un unico lato, ricoperto con volte a vela e delimitato da un muro in cui si aprono trifore con archi a tutto sesto separati da sottili colonne cilindriche. Il giardino verso cui sono rivolte, con erba verde e piante frondose, ha dall’altra parte la canonica ed è collegato con un’ampia apertura alla pubblica via, tanto che è difficile ricostruire con la mente l’effetto originario.

CREGLINGEN

La strada che lascia Rothenburg col nome di ST1020 e si tuffa verso il Tauber in direzione nord-ovest, passando accanto alla zona dove si tiene il Festival, si trasforma ben presto in uno stretto budello dalla carreggiata piena di rattoppi. Passate le ultime costruzioni immerse nel verde, alcune male in arnese, ci si infila nel bosco che si stringe alle due banchine e con le radici contribuisce alla gibbosità della sede stradale. Sono una ventina di chilometri in cui i tratti rettilinei sono in nettissima minoranza e, quando si entra in qualche microscopico centro abitato, forse è anche peggio, tra curve cieche e spigoli di casa che paiono protesi verso l’automobilista. L’aspetto positivo sta in un traffico quasi inesistente e anche le moto, per le quali il percorso pare disegnato, non si fanno vedere.

Dove finisce la strettoia e la valle inizia ad allargarsi, si trova Creglingen, distesa sulla riva sinistra del fiume. C’è un ampio parcheggio appena passato il ponte sulla destra: ci saranno in tutto altre due macchine mentre da una casa vicina escono forti le note di ‘Deja-vu’ (chi ci abita dev’essere abbastanza monomaniaco perché, quando ci fermiamo al pomeriggio, Crosby Stlls Nash and Young stanno andando ancora a tutta manetta per poi venire alternati a un inopinato Celentano). Percorriamo quindi la Hauptstraße, che non presenta particolari attrattive se non un paio di negozi assai interessanti per lo stomaco: una panetteria che fa degli ottimi brezel normali ma ne vende anche un’altrettanto deliziosa versione dolce fatta con la pasta sfoglia e una macelleria-rosticceria nella quale, la sera, ci compreremo la cena con, fra il resto, una gustosa insalata di würstel.

Comunque, tutte le guide dicono che l’unica, vera attrazione di Creglingen è la chiesa di Nostro Signore (Herrgottskirche) e perciò tralasciamo la parte più vecchia del paese alla nostra destra e, all’incrocio con Kreuzstraße, svoltiamo a sinistra seguendo l’indicazione per la chiesa. Indicazione che crea un po’ di maretta perché la distanza riportata è superiore al chilometro, ma riusciamo a resistere alla tentazione di tornare a prendere l’auto e, camminando sul lato della L1005, ci avviamo verso la nostra meta (la ‘L’ nel Baden-Wüttemberg in cui ora ci troviamo ha lo stesso significato di ‘ST’ in Baviera descritto nel capitoletto dedicato alle strade).

La strada risale in lieve pendenza la Herrgottstal circondata da verdi colline che ci danno l’impressione di trovarci molto più in alto dei reali trecento metri scarsi: il sole limpido scalda, ma l’aria è fresca e, in neppure trenta minuti, siamo a destinazione. Poco prima di arrivare, sulla nostra destra c’è una stradina sterrata che scende fino a quella che si potrebbe definire come una grande cascina: lì ha sede un curioso museo del ditale, ma lo scarso tempo a disposizione (ci aspettano anche Weikersheim e Bad Mergentheim) ha la meglio sulla curiosità.

La Herrgottskirche è posta sull’altro lato e un po’ più in alto rispetto alla strada, con la quale è collegata da una breve salita che attraversa il piccolo cimitero che la circonda. Dalle linee semplici, con facciata a capanna, finiture gotiche e alcune antiche pietre tombali appoggiate ai muri, ha al suo interno il vero motivo d’interesse, il cinquecentesco altare dedicato a Maria scolpito in legno da Tilman Riemenschneider. Per vederlo è necessario pagare (quattro euro e mezzo il biglietto famiglia) ed è assolutamente vietato fotografare, ma ne vale sul serio la pena.

L’altare domina l’intera navata della chiesa, slanciandosi verso l’alto in concorrenza von il retrostante arco acuto che introduce l’abside. Le due ante aperte, adornate di bassorilievi, sono ai lati dell’immagine dell’ascensione di Maria circondata da figure adoranti sovrastata da una complessa decorazione che prosegue nella parte superiore: questa si fa sempre più stretta tra colonne e rami intrecciati fra i quali quasi non si nota la più piccola rappresentazione dell’incoronazione della Vergine. Le varie sfumature del legno sono l’unico colore ed esaltano sia la delicata tessitura di cornice, sia le tante figure umane ognuna con una propria personalità. Ovvio che, al confronto, il resto dell’arredo sbiadisca, compresi i coevi altari laterali: molto meglio sedersi sulle sedie o sulle panche che circondano l’altare maggiore e gustarne con calma i particolari invece di aggirarsi con cura su un pavimento di tombe, alcune delle quali recintate perché ormai rese quasi irriconoscibili dai troppi piedi che le hanno calpestate.

DEUTSCHE BAHN

Sarà scontato, ma è vero. E allora tanto vale ammetterlo subito: per chi è stato decenni assiduo cliente di Trenitalia e negli ultimi tempi è stato ‘ceduto’ a Trenord cadendo, se possibile, dalla padella nella brace, l’impatto con Deutsche Bahn è traumatico. Soprattutto dopo aver letto, neppure un paio di mesi prima, un articolo che racconta di come i Tedeschi si lamentino dei servizi di DB perché scaduti in modo forse irrimediabile in termini di puntualità e pulizia.

La nostra esperienza si limita a due suburbani (S4 da Geltendorf a Monaco e S7 da Ansbach a Norimberga) e un regionale (da Buchloe ad Augusta), ma con l’Italia non c’è proprio partita. Se proprio vogliamo cercare il pelo nell’uovo, possiamo dire che i primi due hanno sedili lievemente più scomodi degli omologhi nazionali perché più vicini al modello metropolitana, ma tutto il resto non è neanche paragonabile. A partire, ovviamente, dalla puntualità: qualche minuto a Marienplatz sia all’andata sia al ritorno (il che ci consente di prendere al volo il convoglio per Geltendorf) si giustificano con l’intenso traffico, il resto spacca il secondo malgrado l’affollamento – e il conseguente trasbordo alle fermate – sia sempre notevole. Subito dopo viene spontaneo parlare della pulizia, visto che gli arredi sono ovunque impeccabili e, in luogo dei nostrani, piccoli portacenere stracolmi, qui ci sono i contenitori per la raccolta differenziata.

I vagoni sono tutti condizionati e dotati di grandi finestroni non apribili, ma si suppone che l’impianto di raffreddamento non si rompa troppo spesso. Forse non potrebbero essere trasferiti di peso da noi perché quando il sole picchia la superficie in vetro risulterebbe troppo vasta: peccato perchè, così facendo, si è costretti a rinunciare alle segnalazioni sia scritte sia attraverso l’altoparlante che indicano la fermata successiva e il lato su cui si aprono le porte (se la voce è automatica, basta un tedesco minimale per capire, e verso Monaco c’è anche la traduzione in inglese, quando invece è il macchinista a parlare, come nel viaggio per Augusta, la faccenda si complica). Tutti i mezzi – ‘il materiale’, come lo chiamano i ferrovieri – sono silenziosi a tal punto che, senza saperlo prima, sarebbe difficile intuire il motore a gasolio del treno che ci porta nella capitale della Svevia.

Altro aspetto assai positivo sono i prezzi: c’è sempre un abbonamento famiglia o comitiva che abbatte i costi. Verso Monaco e Norimberga, per meno di venti euro viaggiamo tutti quanti con un solo biglietto comprendente anche i mezzi pubblici cittadini, mentre per Augusta paghiamo il prezzo standard di DB che è solo ventinove euro per quattro persone. Il giovane bigliettaio che ce lo vende, alla stazione di Buchloe, è assai gentile e prodigo di consigli in un fluente inglese, mentre più incerto è quello della sua collega nella più grande Ansbach. In ambedue i casi, niente vetro separatore e microfoni, ad Ansbach sembra più che altro di entrare in un incrocio tra un’agenzia di viaggi e una filiale di banca, con gli impiegati seduti alle scrivanie e gli utenti in paziente fila dietro alla linea di rispetto. Diversa, invece, la situazione a Geltendorf che, capolinea della S4, è più una stazione da cintura urbana, fornita di biglietterie automatiche, con cui litighiamo e perciò è quanto mai oppurtuno che i tagliandi vengano venduti anche nel piccolo bar-emporio.

Sempre a Geltendorf, troviamo posto non vicinissimo nell’ampio parcheggio che incontriamo quando ancora non siamo entrati in paese, sul limitare della campagna, fermandoci dalla parte opposta della stazione rispetto ai binari. Sistemazione analoga, a parte il fatto che è nel centro cittadino, ha l’ancora più grande parcheggio gratuito della stazione di Ansbach, solo che non riusciamo ad arrivarci. Ci avviamo anche nella direzione giusta, ma l’assoluta mancanza di segnalazioni ci costringe a chiedere aiuto ad alcuni operai che lavorano lungo i binari di servizio: probabilmente per difficoltà di comunicazione, ci rispediscono indietro. Finiamo così per sistemare l’auto a pagamento accanto all’edificio principale, anche se i quattro euro per l’intera giornata non sono certo una spesa eccessiva. Tutto tranquillo, invece, a Buchloe dove ci sono numerosi spazi nel parcheggio che si allunga tra i binari e un palazzo di uffici e negozi: sicuramente il piccolo centro non è una base di partenza per pendolari dell’importanza degli altri due.

DINKELSBÜHL

Se è permesso azzardare, direi che, in fondo, ha ragione il signor Zink, nostro padrone di casa a Reichardsroth. Capitasse l’occasione di tornare, infatti, e fossi costretto a scegliere, piuttosto che a Rothenburg preferirei ripassare da Dinkelsbühl, che sta neppure cinquanta minuti più a sud. Non è una questione di bellezza, ma di tranquillità: la prima è presa d’assalto dai turisti spesso e volentieri in carovana, risultandone condizionata in modo inevitabile, mentre la seconda mostra i suoi gioielli a visitatori che non hanno bisogno di fendere la calca e, perciò, possono goderseli fino in fondo.

Arriviamo a metà mattina, dopo un tranquillo viaggio su una bucolica B7, con le consuete colline da superare e il bosco che delimita i campi coltivati sui pendii. Durante l’andata, grossi nuvoloni bluastri chiudono il cielo regalando un’oscurità quasi innaturale e qualche scroscio di pioggia, ma la consueta schiarita pomeridiana ci consente di ammirare lo splendido panorama durante il ritorno.

Lasciamo l’auto nel parcheggio lungo il corso d’acqua (3 euro) e ci avviamo verso Porta Wörnitz che dal fiume prende il nome. E’ la più vecchia fra le porte che si aprono in una cinta muraria conservata nella sua interezza: sulla originale pianta quadrata, risalente al Basso Medioevo, si solleva un’alta struttura rinascimentale di un colore più arancione che rosso. Il tetto è invece a punta con, appena sotto il culmine, un orologio mentre, sul lato esterno, spicca lo stemma della città.

Dopo un cappuccino in un bar gestito da italiani posto dove Wörnitzstraße si allarga per diventare il sagrato della Cattedrale, torniamo di poco sui nostri passi per recuperare il percorso descritto dalla guida (in italiano) che ci ha inviato l’Ufficio Turistico. Torniamo così davanti alla massiccia mole in pietra del Vecchio Municipio (Altes Rathaus) un edificio del Quattrocento dalla forma squadrata e dalla facciata in pietra in cui si aprono finestre sempre più piccole passando dal primo al quinto dei suoi piani. Lasciatolo alla nostra destra, facciamo in pratica il giro dell’isolato, tra case a graticcio e intonaci decorati in colori pastello. La strada che ci riporta sui nostri passi sbuca direttamente dinanzi alla Cattedrale di San Giorgio (Münster St. Georg), ma, ancora una volta, differiamo la visita per risalire il primo tratto di Segringer Straße. Lo scopo principale non è vedere il Nuovo Municipio (Neues Rathaus), circa a metà della via sulla nostra destra, e neppure guardare i negozi qui più numerosi perché si tratta della via più importante del centro storico: la nostra guida indica la presenza di un piccolo giardino rimasto come qualche secolo fa, tra balconi in legno, acciottolato e piante fiorite. Vai su, torna giù, niente: ci infiliamo anche in un paio di stradette, ma quello che vediamo, seppur non banale, non vale certo la pena. Quando abbiamo ormai abbandonato, scopriamo che, per arrivarci, occorre passare nell’atrio di un albergo che si apre appena sotto la strada dopo aver pagato un ingiustificato balzello (un euro e mezzo a testa): rinunciamo.

Così, dopo tanto girarci intorno, giungiamo al cospetto dell’imponente struttura gotica della Cattedrale. Il campanile a pianta quadrata ne caratterizza la facciata mentre alleggeriscono il fianco grandi e acuti archi che rinchiudono alte finestre decorate. L’interno è rimasto quello originario della fine del Quattrocento, ritmato da alte colonne che terminano intrecciandosi sul soffitto a volta. Nelle tre navate domina la pietra nuda e, a parte qualche altare, la nota di colore maggiore è data dalle vetrate. Una di queste, nell’abside, è una delle curiosità del tempio: donata dai panettieri cittadini, è decorata nella parte esterna, da una serie di brezel intrecciati.

La chiesa si affaccia sul Mercato del Vino (Weinmarkt), piazza – anche se è uno slargo più di una piazza – che è il cuore della vita e della storia cittadina. Di fronte a San Giorgio, sono allineati cinque imponenti edifici a capanna la cui struttura ne racconta le origini rinascimentali. Si passa dalla rossa facciata della Gustav-Adolf-Haus, sovrastata proprio al culmine da una sottile torretta con campana, a quella ricca di particolari e figure decorative della Deutsches Haus per finire a quella gialla e lineare, della Schranne, ex-magazzino cittadino che si innalza con grazia molto maggiore di quella che lascerebbe supporre la funzione originaria. Sull’altro lato si susseguono case dall’aspetto più semplice, ma anche qui bar e ristoranti si fanno notare con tavoli all’aperto.

Weinmarkt si stringe verso nord diventando Doktor-Martin-Luther-Straße. A quel punto, facciamo dietro-front e ci avviamo al periplo della cittadina seguendo la cinta muraria. Iniziamo girando intorno alla cattedrale e infilandoci nelle stradine che, situate dietro l’abside, dovevano un tempo essere legate a qualche beneficio della chiesa stessa (almeno a giudicare dai nomi). Ora, a parte la canonica, è una zona contraddistinta da case popolari, tranquilla e, quando passiamo noi, un po’ scura – sarà il cielo che rimane nuvoloso, saranno le piante che occhieggiano oltre le mura… Unico segno di vita, una vecchia Mercedes da cui una coppia, che sembra uscita da un casting da ambientare in qualche quartiere malfamato, scarica delle borse per portarle dentro uno degli usci.

Quando ci troviamo di fronte la mole dello Spital deviamo fino alla suddetta Doktor-Martin-Luther-Straße, ma diamo solo un’occhiata al cortile interno dello Spital stesso – che è un grosso edificio a tre ali risalente al Medioevo – tralasciandone la chiesa. Ci dirigiamo invece verso la severa Porta di Rothenburg (Rothenburger Tor) che chiude la strada con la sua struttura massiccia sovrastata da una torre a base quadrata e che, all’esterno, è rinforzata da un barbacane dotato di mura molto spesse. Una volta usciti, riposiamo un attimo su una panchina accanto allo specchio d’acqua che incontriamo alla nostra sinistra per poi ritornare nel centro storico attraverso un passaggio che sfiora la cilindrica Faulturm,.

Da qui, non abbandoneremo le mura fino alla Porta di Nördlingen (Nördlinger Tor), dalla parte opposta della cittadina. Si inizia in leggera salita, lasciando sulla sinistra due grandi ex magazzini per il grano ora riciclati rispettivamente come sede di associazioni locali e ostello della gioventù: dall’alto dei loro sei piani a graticcio intonacati di bianco raccontano l’importanza che aveva un tempo fare opportuna scorta di cereali. Fra i due depositi, ci sono la chiesa dei Cappuccini, che ignoriamo, e una serie di abitazioni private, mentre alla nostra destra il muro di cinta è interrotto – con frequenza quasi regolare – da una serie di torri a pianta circolare.

Mentre inizia a sgocciolare, giungiamo all’altezza della Porta di Segringen (Segringer Tor), dove si conclude – anch’essa in leggera salita – la strada omonima che abbiamo visto partire dal Weinmarkt. Più che per essere un bastione insormontabile, la porta si fa ricordare per la sua funzione decorativa, difatti è di costruzione seicentesca. A base quadrata ma più sottile delle sue sorelle, testimonia l’origine barocca con sottili cornici che si alternano alle finestre dei suoi sei piani e la cupola a cipolla che, sovrastata da una lanterna, spicca rossa sul colore giallo delle pareti. Con la Porta di Segringen inizia il tratto superiore delle mura e, difatti, il percorso si fa quasi pianeggiante: le torri continuano a susseguirsi e qualche passaggio consente di arrivare aldilà della cinta, dove corre una passeggiata nel verde.

A un certo punto, siamo costretti a deviarvi perché il percorso – che in quel punto si chiama Oberer Mauerweg – è interrotto da dei lavori in corso. La gita fuori dai bastioni si rivela però sfortunata perché, tra percorsi per il jogging e piante frondose, non troviamo il modo per rientrare. Torniamo sui nostri passi e aggiriamo l’ostacolo dalla parte opposta, scendendo dalle parti del Castello dell’Ordine Teutonico (Deutschordensschloss) – che ora è un massiccio palazzo barocco – per risalire e avviarci, in una discesa lieve come la salita, in direzione della Porta di Nördlingen. Quest’ultima è una possente e profonda struttura dalle ampie mura, i cui due passi carrai sono sovrastati da una torre dalla struttura analoga a quella della Porta Wörnitz, solo dipinta di un colore chiaro. Lo stesso che decora la facciata del grande edificio, situato all’esterno sulla destra guardando la porta, che una volta era il mulino della città anche se concepito quasi come una fortezza, con un piccolo fossato e il cammino di ronda. Ora è adibito a museo, ma diamo solo un’occhiata all’esterno, visto che stanchezza e fame cominciano a farsi sentire: perdiamo forse più tempo a osservare l’ampia zona coltivata a orto, o piccolo giardino, che si allarga da entrambe le parti della strada, erede di quella data in concessione alle famiglie povere della città a metà dell’Ottocento.

Appena oltre la porta, il paesaggio è di una modernità stridente, da sobborgo nordico con le strade larghe, le aiuole ben rasate e le villette immerse nel verde. Risaliamo sulla macchina del tempo dirigendoci solitari verso il Weinmarkt lungo una deserta Nördlinger Straße (anche perché è l’una passata) dove incroceremo solo una comitiva organizzata di immancabili orientali. Sulla destra, a circa metà della via, scorgiamo un locale che pare faccia al caso nostro, una piccola trattoria che offre pasti del giorno a prezzi economici. L’interno è piuttosto disadorno, ma alcuni tavoli sistemati sul piccolo spiazzo che precede l’ingresso ci invoglia a fermarci: abbiamo qualche timore sulla tenuta del tempo – dopo uno squarcio di sereno nei pressi della Porta di Nördlingen le nubi paiono tornare ad ammassarsi – e, invece, a darci fastidio è il sole che spunta, limpido e bruciante, proprio quando arrivano in tavola i nostri abbondanti piatti (buoni e ben guarniti si dimostrano i miei sei Nürnberger e anche le altre pietanze non sono da meno, anche se Diva si prende la briga di togliere tutta la panatura al suo filetto di sogliola/platessa). Un pasto molto tedesco mentre davanti a noi fa bella mostra di sé la vetrina di un ristorantino turco…

E’ in pratica la fine della visita a Dinkelsbühl, non resta altro che la breve passeggiata di ritorno al parcheggio mentre il bel tempo riesce a imporsi in modo definitivo giusto in tempo perché possiamo andare ad ammirare il panorama a Schillingfürst.

DONAUWÖRTH

Curioso destino quello di – o, per meglio dire, della nostra visita a – Donauwörth. A cento chilometri a nord di Epfach è, al momento in cui vi arriviamo, il posto più settentrionale da noi toccato eppure è quello in cui la presenza italiana risulta più assidua. I nostri connazionali gestiscono un buon numero di esercizi commerciali – soprattutto nel settore ristorazione – e occupano i posti migliori dell’isola Ried, formata dal fiume Wörnitz sul fianco destro del paese, appena prima di gettarsi nel Danubio, e punto di maggior attrattiva turistica. Una pizzeria con bandiera tricolore è situata accanto al corso d’acqua, che può essere ammirato dai grandi finestroni o dai tavolini del vasto spazio aperto che le sta davanti, mentre un’altra occupa il piano terra dell’Hohe Meer, seicentesco palazzo di sei piani affacciato sulla grande piazza lastricata in cui si allarga Hindenburgstraße. Qui mangiamo quello che risulterà il meno soddisfacente fra i nostri pasti in Germania: la pizza e le bruschette sono senza infamia e senza lode, ma un cameriere scontroso (nonché distratto) annulla l’effetto benefico di ordinare in italiano e la finta ambientazione da taverna romana – il nome è ‘Römer Keller’, ovvero ‘Cantina Romana’, e si spreca il latinorum sui muri – finiscono per rinforzare l’impressione negativa. Per consolarci, all’uscita ci fermiamo alla gelateria (da asporto) poco distante, solo per scoprire che la proprietà è la stessa – il gelato, però, è buono.

Queste considerazioni sono lontane quando, a metà mattina sbuchiamo per la prima volta sulla Reichsstraße. L’ora di viaggio è trascorsa tranquilla e, quando lasciamo la B2 da poco diventata a una sola carreggiata, ci immergiamo in un panorama ricco di verde – prati e alberi ovunque – riuscendo a scorgere la nostra meta solo una volta raggiunto il ponte che attraversa il Danubio: Donauwörth è appoggiata al piede di basse colline dai pendii arrotondati proprio dove il Wörnitz unisce le proprie acque a quelle dirette nel Mar Nero. Entrati nella cittadina e risalita parzialmente Reichsstraße, troviamo posto nel parcheggio Am Munster in una laterale sulla destra (due euro per quattro o cinque ore) e torniamo sulla strada principale all’altezza della fontana della Città Imperiale (Reichsstadtbrunnen).

La strada è in lieve pendenza: prende le mosse di fronte al Municipio (Rathaus) – edificio neogotico dotato di guglie, carillon musicale, una facciata color pesca e un portone raggiungibile con due brevi scalinate laterali – e si conclude alla Casa Fugger (Fuggerhaus), imponente costruzione rinascimentale dalla bianca facciata a capanna. Lungo tutta la strada, i tetti spioventi sono una costante e sovrastano una serie di case che si susseguono alternando vari colori pastello stesi su muri la cui profondità – denotata dalle finestre – testimonia i secoli trascorsi dalla loro costruzione. A piano terra – talvolta caratterizzato dai portici, come nella massiccia Tanzhaus – ci sono i negozi per passeggiare davanti ai quali il marciapiede, che nella parte bassa è di larghezza normale, diventa via via più ampio.

La fontana di cui sopra celebra nel nome l’antico status di Donauwörth e nella forma l’aquila che ne è da sempre lo stemma. Il rapace in bronzo è ad ali spiegate e guarda il lato destro della chiesa protestante di Nostra Signora (Liebfrauenmünster), diposta parallelamente rispetto alla strada. Affiancato dal campanile a base quadrata che, senza intonaco, contrasta con il bianco dell’edificio, il tempio mantiene la sua originale struttura gotica. L’interno è a tre navate separate da colonne ottagonali e, malgrado la decorazione sia sobria e il colore chiaro domini, l’insieme non è molto luminoso (forse anche perché fuori il cielo è nuvoloso). Solo nella zona dell’altare maggiore, dominata dall’intrecciarsi di volte a vela, le alte finestre laterali regalano la giusta dose di luce mentre quelle dell’abside mettono in mostra un’elaborata decorazione.

Riprendiamo il cammino lungo Reichsstraße che, alla fine, si stringe nella quasi deserta Heilig-Kreuz-Straße attraverso la quale giungiamo al complesso monastico dallo stesso nome. Ammiriamo la millenaria struttura – rifatta più volte fino a che, nel Settecento, ha preso l’aspetto attuale – solo dall’esterno perché anche la chiesa non è accessibile causa lavori in corso. Diamo così solo un’occhiata al sottile campanile che la sovrasta e la nostra attenzione viene soprattutto catturata da un grande nido di cicogne piazzato sopra uno dei grandi camini dell’ex monastero.

Quando, al ritorno, svoltiamo in Pflegstraße, la fame di Chiara ci consente di scoprire una panetteria – posta appena oltre la Fuggerhaus – i cui brezel sono di gran lunga i migliori dei molti che abbiamo assaggiato. Data un’occhiata alla strada in cui l’interno delle antiche mura è stato trasformato prima in caserma, poi in ospizio ed ora in abitazioni private – alla fine è conservata una delle torri della cinta muraria – facciamo visita al museo di Käthe Kruse: un’attrice che, all’inizio del Novecento, lasciò le scene per amore del marito commediografo: essendole rimasto così del tempo libero, malgrado la numerosa prole, fondò una piccola officina in cui si fabbricavano artigianalmente le bambole. L’attività prese piede e ancor oggi il suo marchio è, in Germania, sinonimo di prodotto di qualità. Il museo è stato creato in una casa a cui si accede attraverso un giardino e mostra l’evoluzione delle bambole nel corso del tempo, illustrandone le tecniche di costruzione e inserendole in quadri – ora statici, ora animati – che consentono di ammirarne l’accurata lavorazione artigianale. C’è, ovviamente, una parte che illustra le tecniche e gli attrezzi utilizzati, ma l’aspetto che forse colpisce di più è l’evoluzione del gusto, con i bambolotti vestiti da soldato e bella contadinella d’inizio Novecento che lasciano lentamente il posto a figure sempre più moderne. Accanto al museo, in un’altra casa affacciata sul piccolo giardino interno, una mostra è dedicata ai giocattoli raffiguranti dame e cavalieri di un Medioevo fantastico – si va dal Lego ai plastici più dettagliati – ma l’interesse sembra soprattutto riservato ai più piccoli (specie se maschi) oltre che agli amanti del genere.

Tornati per poco sui nostri passi, imbocchiamo una stretta traversa sulla sinistra (Brabanterweg) e, come via del ritorno, scegliamo la passeggiata che costeggia i resti del lato orientale delle mura. Le attrazioni turistiche sono al minimo sindacale – uno de più vecchi tunnel ferroviari di Germania, ora pista ciclabile, e i resti della fortezza Mangold, già in rovina alla fine del diciassettesimo secolo e ora ridotta ali resti di un torrione e di un muro perimetrale al cui interno c’è un cinema all’aperto – ma il percorso pedonale è fresco e rilassante, anche perché il sole ha ormai avuto la meglio: a sinistra scorre un piccolo torrente scavalcato da un paio di ponti che conducono sull’altra sponda ricca di alberi e di verde.

Poco dopo aver passato un centro civico da morire d’invidia tanto pare moderno e luminoso, l’annuncio di lavori in corso costringe a tornare verso Reichsstraße prima del previsto. Sbuchiamo a una cinquantina di metri dal Municipio: in compenso, attraversando la strada parallela, ci imbattiamo in un altro forno che sta per chiudere e svende i brezel ancora in negozio. Placata così in parte la fame, c’è tempo per una sosta nei negozi della via principale – io resto fuori ad ammirare il Municipio e la cinquecentesca Baudrexlhaus (graticcio marrone, intonaco ocra) – prima di avviarci verso l’isola Ried. La strada che conduce all’imponente Porta Rieder (Riedertor) è occupata dalle bancarelle del mercato settimanale, che proseguono anche sull’isola. Vista l’ora, i commercianti – solo di generi alimentari – stanno ormai smontando, ma c’è tempo per rifornire la dispensa prima di dedicarci a immortalare la porta, che offre il meglio di sé vista dall’esterno.

Ingresso principale alla cittadina e rifatta più volte nei secoli – l’attuale aspetto risale all’inizio dell’Ottocento – è affiancata da due massicci torrioni a pianta circolare e si innalza per due piani sopra l’ingresso carraio. Il colore rosa e le modanature bianche che lo interrompono contribuiscono ad alleggerire la struttura, ma sottolineano la funzione decorativa già da tempo sostituiva di quella di difesa. La porta si apre sul ponte sovrastante il canale, formato dal Wörnitz, che contribuisce a creare l’isola: sulla sponda di terraferma, a sinistra guardando la Riedertor, si snoda un altro pezzo sopravvissuto di cinta muraria che, accompagnato da una pista ciclabile, si prolunga fino quasi alla Heilig Kreuz.

Dopo il ponte, inizia Hindenburgstraße che ben presto si allarga alle dimensioni di una piazza. Le pietre grigie e quadrate del selciato contrastano con i colori vivaci delle facciate, fra cui spiccano quella della sunnominata Hohe Meeer e quella rossa della Casa Hintermaier (Hintermaierhaus), edificio con cinque secoli di storia ora adibito a museo locale. Alla sua altezza, Hindenburgstraße ritorna a stringersi e, in un centinaio di metri, raggiungiamo il ponte sul Wörnitz che conduce fuori dalla zona storica: un’occhiata alle sponde immerse nel verde e poi siamo pronti al ritorno (ma prima di arrivare alla macchina, è d’obbligo ancora una volta la fermata in una libreria).

EPFACH

La scelta degli appartamenti è stata fatta badando solo alla qualità degli stessi ed è una curiosa coincidenza che siano situati in due località con un grande avvenire dietro le spalle. Se Reichardsroth ha brillato nel Medioevo, Epfach vanta origini romane: all’inizio dell’Era Volgare, un accampamento fu costruito sulla vicina collinetta chiamata Lorenzberg per difendere l’incrocio tra la Via Claudia Augusta, proveniente da Venezia, con quella del Sale che si originava a Salisburgo. L’accampamento si trasformò presto in un piccolo centro e la zona fu da allora sempre abitata. Oggi, però. sul Lorenzberg domina il bosco, ad eccezione di qualche antico cippo e della Lorenzkirche, chiesetta dalla bianca facciata la cui struttura attuale ne ricopre una versione romanica e una paleocristiana, per non parlare del tempio pagano che era in origine. Il paese, che conta qualche centinaio di abitanti, si è spostato solo un poco più a valle e all’interno, sempre sulla sponda sinistra del Lech.

Non stupisce allora che il primo accenno alla località che ci capita di scorgere sia sotto l’antico nome romano, Abodiacum. Lo troviamo dopo aver percorso una ventina di chilometri di B17 verso sud, una volta lasciata la A96 all’uscita di Landsberg West. L’indicazione Epfach segue a meno di in chilometro e conduce su una strada secondaria che attraversa i campi coltivati e poi scende per arrivare a destinazione. Scende sì, perché il bacino del Lech è una decina di metri sotto il piano della campagna circostante e le case di Epfach sono su un leggero pendio che termina in una vasta area di terreno pianeggiante estesa fino alla riva del fiume. La casa in cui è situato il nostro appartamento è proprio lungo la strada che costeggia tale terreno, poco distante dal ponte che rappresenta il confine della località e conduce sull’altra sponda del corso d’acqua, sponda che risale più ripidamente mostrando la ferita di una frana che pare abbastanza recente. Mentre nel resto della zona le piante sono abbastanza rade, lungo le rive il bosco cresce verde e rigoglioso, tanto che le due anse originate dal fiume sfiorando il Lorenzberg non possono essere scorte se non avvicinandosi e magari percorrendo le stradine che costeggiano l’acqua (ma non è il nostro caso perché, quando ci diamo all’esplorazione nel nostro primo pomeriggio tedesco, sono piene di fango per le piogge dei giorni precedenti).

Il paese in sé non presenta particolari attrattive, un tranquillo borgo rurale percorso più che altro da trattori e dominato dalla bianca mole della chiesa di San Bartolomeo. In una ex caserma dei pompieri, un minuscolo museo racconta l’antica Abodiacum, ricordata anche da una piccola statua di romano ad ogni ingresso di Epfach e dalla via nonché dalla tabella dedicate a Claudio Paterno, nato qui e protagonista di una discreta carriera pubblica agli inizi dell’Impero prima di tornare a morire in patria. Percorriamo le poche strade in un’afa opprimente che annuncia le piogge dei giorni seguenti: una sosta alla locanda ‘zur Sonne’ – dove, per ordinare una birra e il succo di ciliegia mentre cade qualche gocciolone, vengono comodi i rudimenti d’italiano del cuoco-cameriere visto che il mio tedesco è ancora tramortito – si va a piazzare tra la scoperta di una panetteria e una macelleria, unici negozi esistenti che però non frequenteremo mai. Per fortuna, verso sera il sole si fa più deciso e la passeggiata fino al Lech e alla Lorenzkirche gode di colori pieni che ben si armonizzano con il paesaggio.

FERIENWOHNUNG EPFACH

Va bene che Epfach è un paesino che un po’ bisogna andarsi a cercare, ma l’appartamento offerto dalla famiglia Martin costa davvero una miseria: 280 euro per una settimana, con il solo, piccolo neo di una caparra pari alla metà della somma. Come detto, la lunga costruzione che comprende la casa in cui vivono i padroni di casa, le rimesse degli attrezzi e anche un locale in cui vengono allevati i conigli è separata dalla sola Flößerstraße da un vasto appezzamento di terreno incolto su cui talvolta razzolano gli animali da cortile e dove il signor Martin taglia l’erba per fare il fieno. L’ingresso dell’appartamento è posto sul lato destro, all’incrocio con Auenfeldweg, stretta stradina che conduce al centro del paese: a parte qualche problema per lo scarico e il carico dei bagagli – c’è un piccolo spazio davanti alla porta dove si riesce a sistemare l’auto, ma con la preoccupazione che scenda qualcuno un po’ troppo vivace distoglie dal proposito – l’entrata potrebbe sembrare dimessa e non rende per nulla le dimensioni della sistemazione, disposta su tre livelli.

A piano terra, oltre al piccolo vestibolo d’ingresso, c’è l’ampia sala che a sinistra dell’ingresso ha la fornita cucina (comprensiva di lavastoviglie) e sulla destra il largo tavolo da pranzo e l’angolo salotto, dove davanti al televisore sono sistemati i divani con il tavolino, il raccoglitore dei depliant (numerosi ma tutti in tedesco) e quello con il ‘regolamento’ del soggiorno, che si rivela un po’ pedante ma non richiede nulla che una persona con un minimo di civiltà non farebbe da sola. Due finestre si aprono nella parete mentre accanto al tavolo una porta finestra larga alcuni metri conduce nel giardino. Qualche problema lo dà il sistema di apertura e chiusura, la cui cervelloticità richiede un paio di giorni per acquisire la sapienza manuale necessaria, mentre divertente – soprattutto per Chiara – risulta la tapparella elettrica. All’esterno si trovano, sotto una tettoia, un altro tavolo e alcune sedie a sdraio, il tutto affacciato sul piccolo giardino affollato di piante da frutto e chiuso da una siepe dalla parte di Auenfeldweg. Il verde e la frutta regalano un po’ di mosche e, in combinazione con l’umidità, in special modo nei primi giorni, anche qualche zanzara, ma la sistemazione si rivela rilassante anche per la vista che si ha dalla stanza dove dormiamo noi, affacciata sullo stesso angolo e che osserva, tra i rami degli alberi, il campanile di San Bartolomeo.

Per arrivare alle camera si sale la scala in legno accanto all’ingresso. La nostra, luminosa com’è, consente di non dare troppa importanza alle dimensioni ridotte, visto che oltre al letto e all’armadio resta appena lo spazio per muoversi (dalla mia parte non c’è neppure il comodino). Ben più grande, in proporzione e anche in termini assoluti, l’adiacente bagno – piastrellato in azzurro e con il riscaldamento a pavimento – e anche la vicina stanza di Giulia e Chiara. Un’altra rampa porta infine al sottotetto, dove sul pianerottolo domina una poltrona con lampada da lettura mentre in una piccola stanza sono ricavati altri due posti letto, peraltro da utilizzare con cura perché posti proprio sotto lo spiovente e, perciò, a rischio testata.

In un misto composto da un sessanta per cento di tedesco e quaranta d’inglese, ci illustra tutto questo il signor Martin che si rivela ben presto assai più espansivo della riservata moglie, con la quale la discussione più lunga verte sull’allineamento riguardo alla raccolta differenziata. Completano la famiglia due figli piccoli e tifosi del Bayern (mentre il padre pare simpatizzare per il neopromosso Augsburg): dal nome stampato sulle magliette con cui circolano per casa, scopro così che Mario Gomes è un idolo e non solo quel giocatore lento e con scarsa visione della porta che ho sempre potuto ammirare io, specie con la maglia della Germania.

ETTAL

Lasciamo Linderhof all’inizio del pomeriggio di una giornata che non ha ancora visto una nuvola. Abbiamo perciò un po’ di tempo a disposizione che decidiamo di passare fra le verdi montagne dell’alta valle dell’Ammer. La prima tappa è Ettal, che si incrocia appena dopo il ritorno sulla B23, in direzione sud. Per il minuscolo paesino – meno di mille abitanti – si potrebbe ripetere quanto si disse per l’Austria dopo la caduta dell’Impero: un nano con la testa da gigante (intendendo la capitale, Vienna). Nel nostro caso, il testone è l’abbazia benedettina e il paragone è ancora più giustificato dall’imponente cupola verde che sovrasta la chiesa abbaziale e termina in una lanterna.

Lasciata l’auto poco distante dall’entrata (un euro nel parcometro basta e avanza), entriamo nell’abbazia attraverso la profonda porta carraia. Davanti a noi, la facciata, bianca e curvilinea della chiesa è affiancata da due campanili dagli stessi colori dell’edificio principale, mentre attorno ci sono i grandi edifici che contengono il monastero e le scuole collegate. Complice anche il verde – prati e alberi – di cui è ricco l’ampio cortile, l’insieme ispira un’impressione di grande tranquillità anche se sono in corso di restauro le rampe conducenti al portale principale: un breve giro in internet racconta però anche un’altra storia, fatta di abusi sessuali e molestie agli studenti protrattisi per molti anni nella seconda metà del Novecento e venuti alla luce solo recentemente.

Da una parte vien da pensare che era meglio che l’abbazia restasse secolarizzata, come accadde per quasi un secolo dopo il passaggio delle truppe napoleoniche, ma poi si medita sul fatto che, così facendo, si rischiava di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Essendo il bambino, l’unica, grande navata ovale della chiesa, ricostruita in purissimo stile barocco dopo che, a metà Settecento, un incendio devastò la costruzione originaria. E quindi ecco il solito profluvio di intonaci bianchi o in tinte delicate, stucchi, dorature e un ricco pulpito ornato con statue a grandezza naturale. In più, le dodici alte finestre ogivali che illuminano il vasto ambiente conducono con naturalezza lo sguardo verso il soffitto completamente affrescato da Jakob Zeller con un’Incoronazione di San Benedetto su sfondo dorato che è ricchissima di personaggi ognuno ben distinto dagli altri. Qualcuno li ha anche contati (siamo nell’ordine delle centinaia) e l’osservazione di tutti quei volti porta il visitatore a stare a naso all’insù per più tempo di quanto la scomoda posizione farebbe pensare.

Uscendo, ci portiamo sulla sinistra, dove l’edificio fa ombra e la posizione sopraelevata consente comunque un bel colpo d’occhio che evita gli operai al lavoro e non è certo disturbato dai pochi turisti che circolano tra le grandi aiuole. Dalla stessa parte, poco più avanti, è situato un altro portico che sbocca all’esterno: lì ci sono le vetrine del negozio di souvenirs più o meno sacri che, tra gli oggetti ricordo di ogni foggia, vende anche la birra prodotta nell’abbazia. Non è proprio a buon mercato, ma è buona e la confezione da sei, che propone l’assaggio delle varie tipologie offerte, consente di avere un discreto risparmio.

GRATICCIO (COSTRUZIONE A)

“La costruzione a graticcio è un metodo di creazione di edifici con cornici in legno collegate tra di loro in diverse posizioni. In Tali edifici la struttura portante è costituita da una serie di travi in legno disposte orizzontalmente, verticalmente e obliquamente. Tali travi rimangono a vista nella facciata dell’edificio quando la costruzione è stata completata, conferendo un particolare e caratteristico stile agli edifici di questo genere. Gli spazi fra le travi sono generalmente riempiti da particolari composti di legno e limo, da pietre o da laterizi.”

Ecco fatto, copia-e-incolla da Wikipedia. A partire timidamente da Landsberg e poi in modo più accentuato man mano che si sale verso nord (con l’eccezione di Würzburg) le case a graticcio (Fachwerkhäuser) sono una presenza importante in ogni centro storico che visitiamo fino ad arrivare al predominio quasi assoluto, ad esempio, a Nördlingen e Dinkelsbühl. Si tratta perlopiù di costruzioni di dimensioni medio-grandi – abitazioni private ma anche edifici pubblici – che, sotto al tetto spiovente, alternano alla calda tonalità del legno una serie di colori che vivacizzano il colpo d’occhio oppure un bianco quasi immacolato. Lo spettro va dalle tinte tenui a squillanti rossi e gialli: tutti quanti sembrano appena stati stesi, a testimonianza di una cura quasi maniacale nella conservazione.

Perché la casa a graticcio soffre di decadimento veloce e, quando è lasciata a se stessa, invecchia male: lo testimoniano quelle poche in stato di abbandono o bisognose di una vigorosa rinfrescata che ci capita di trovare, magari in una strada secondaria di Nördlingen. Il legno è bello da vedere ma patisce le intemperie e le strutture che ne sono sostenute deperiscono di conseguenza.

Un’altra caratteristica del legno, la flessibilità, è invece all’origine del più curioso fra gli aspetti riguardanti questi edifici, in special modo se di dimensioni rilevanti. Di tanto in tanto, guardandosi intorno, il viandante può avere l’impressione di essere finito in un quadro di Dalì: i piani più alti delle case si piegano di lato o la facciata incombe sulla strada sottostante in un trionfo di linee curve che contrastano con il panorama urbano squadrato a cui siamo abituati. La sensazione è strana anche quando ci si è ormai abituati e porta con sé la curiosità (mai soddisfatta) di come possano essere gli ambienti all’interno.

LANDSBERG AM LECH

Forse non è il più bello, per monumenti o natura circostante, fra i luoghi che abbiamo visitato, ma se dovessi (potessi) andare a vivere in uno di essi, la scelta cadrebbe su Landsberg. Intanto perché il centro è comunque interessante e la posizione, sulla sponda del fiume e con tanto verde intorno, non è da buttar via. Poi perché i pregi regalati da dimensioni non troppo piccole e non troppo grandi (ventottomila abitanti circa) nonchè dalle distanze ridotte da Augusta (mezzora), Monaco, le montagne o il Lago di Costanza (attorno all’ora di viaggio) finiscono per prevalere su qualsiasi altra considerazione.

Arriviamo in una mattina senza sole, con grassi nuvoloni che, ora più chiari ora di una sfumatura tra il grigio e il blu, si rincorrono in cielo trasportati da un vento abbastanza sostenuto. In poco più di mezzora dalla partenza da Epfach, entriamo nel parcheggio della Lechstraße seguendo con facilità le indicazioni stradali. Riemergiamo dal garage interrato appena fuori dalla città vecchia, in una zona ricca di piante ed edifici scolastici che separa la vecchia cerchia dalla sponda destra del Lech.

Per prima cosa… torniamo di sotto a recuperare gli ombrelli, poi ci dirigiamo in centro attraverso le consecutive Porta dei Tintori (Färbertor) e dei Fornai (Bäckertor). La prima è bianca e squadrata, la seconda – più vecchia – mostra i suoi mattoni e presenta una parte superiore più larga rispetto all’arco sottostante. Fra le due, scorre il Canale dei Mulini (Mühlbach) sul quale, al posto degli antichi opifici, si affacciano alcuni appartamenti moderni e, almeno all’apparenza, luminosi.

Raggiunta Vorderer Anger, ritroviamo il traffico e il movimento, ma tutto molto misurato. Ci muoviamo in direzione della Porta di Sandau (Sandauertor), la cui struttura massiccia chiudeva l’antica Landsberg verso nord. Il suo arco è affiancato da quello adiacente al Cortile dei Tintori, consentendo al traffico un tranquillo doppio senso di marcia. Davanti alla porta, la strada che stiamo percorrendo fa un angolo di trenta gradi con Hinterer Angerer, che imbocchiamo per cominciare ad avvicinarci al centro vero e proprio. In tutto il percorso alterniamo l’attenzione alle case colorate sui lati con quello ad alcuni negozi: su Hinterer Anger fa bella mostra di sé una grande pizzeria dal nome italiano situata in un palazzo dalla facciata barocca.

Quasi alla fine, un vicolo sulla sinistra ci conduce in Ledergasse: un piccolo angolo di tranquillità fermo a qualche decennio orsono, caratterizzato com’è dal pavimento lastricato in pietra, dalle vecchie case con le facciate ricche di colore e ravvivate da piante rampicanti, dalle scalinate che costituiscono l’unico accesso alla città alta. Quando, una stradina parallela alla precedente ci riporta sull’arteria principale, ci troviamo davanti per la prima volta l’alta sagoma della Parrocchiale di Maria Assunta (Stadtpfarrkirche Mariä Himmelfahrt): muri bianchi in cui si aprono allungate finestre gotiche, tetto di una calda sfumatura di rosso – ripreso anche nel portale laterale che dà sulla pedonale Ludwigstraße – e uno snello campanile terminante a cipolla. Noi entriamo dalla parte opposta, dopo esser passati accanto a una vigilessa che commina multe per soste troppo prolungate in una piccola zona disco dietro l’edificio religioso.

La chiesa, in origine gotica come testimoniato dall’altezza della navata centrale, è diventata barocca alla fine del diciassettesimo secolo e quindi riprende lo schema di tutte le chiese della regione (vedi ‘Il Cantone dei Preti’). La struttura slanciata verso l’alto ne alleggerisce la decorazione che sul soffitto si fa assai fiorita, mentre le navate laterali sono coperte di volte a crociera messe in risalto dal consueto colore rosso ai bordi. L’altare maggiore è imponente e le decorazioni dorate non riescono a ovviare a una pesantezza che sembra incombere sul crocifisso posto davanti e viene solo parzialmente attenuata dalle belle finestre colorate che occupano l’intera parete dell’abside. Molto meglio l’organo che, pur assai lavorato, si innalza leggero sopra un loggiato sostenuto da due sottili colonne.

Usciamo sulla Ludwigstraße quando il tempo sta virando decisamente al brutto. Mentre Chiara si fa comprare un rigenerante brezel farcito con il burro, i negozianti si affrettano a ritirare le mercanzie esposte fuori dai negozi. Pochi minuti dopo, il vento cade e inizia a piovere, seppur in modo assai più blando di quanto potessimo aspettarci: si risolve tutto in circa un quarto d’ora di sgocciolamento, durante il quale ci aggiriamo per la centrale e vasta Hauptplatz.

La piazza è in lieve pendenza. Sul lato a ‘a valle’, tra una serie di case signorili pitturate in colori pastello, spicca il Municipio Storico (Historisches Rathaus). Si tratta di un edificio di quattro piani sovrastato da un alto timpano sulla cui facciata pallida Dominikus Zimmermann si è sbizzarrito con stucchi e decorazioni in tonalità tenui rosa e verdi. Voltandogli le spalle, possiamo osservare il pendio leggermente digradante su cui la strada compie un ampio arco che ha al suo interno la grande fontana dedicata alla Madonna; circondata da una zona interdetta al traffico, mette in mostra una statua della Vergine, su un agile piedistallo, che sovrasta la vasca sagomata secondo il gusto dell’epoca in cui fu costruita (fine del Settecento). Sul lato opposto, nel punto più sollevato, sta invece la severa Torre dello Strutto (Schmalzturm), la cui struttura, a base quadrata e senza intonaco, contrasta con le colorate abitazioni circostanti: l’arco sotto di essa conduce alla città alta.

Al momento, però, decidiamo di dirigerci verso il fiume Lech seguendo in discesa la Herkonerstraße che altro non è che la prosecuzione della Ludwigstraße. Lasciata alle spalle l’ennesima costruzione rococò dell’ex Convento delle Orsoline (Klosterkirche, la facciata a fondo giallo è insolitamente cupa) passiamo sulla sponda sinistra del fiume attraversando il Karolinenbrücke. Mentre verso monte entrambe le rive sono ombreggiate da una fitta vegetazione, a valle di dove ci troviamo si apre un parco verdeggiante, con bei prati punteggiati di piante secolari, a fianco del quale ci sono le cascate del Lech (Lechwehr). Si tratta di tre grandi scalini, costruiti per la prima volta nel Medioevo per deviare il fiume dal Canale dei Mulini, scendendo i quali la corrente, già forte di suo, biancheggia rimbombando mentre colonne di spruzzi si innalzano sullo sfondo della città sull’altra riva. Malgrado la luce non sia molta, il luogo chiama le fotografie e noi non ci tiriamo indietro, cercando di non riprendere i numerosi cartelli che proibiscono la balneazione: a dissuadere gli audaci dovrebbero bastare la velocità dell’acqua e i vortici che crea, ma è sempre più prudente mettere le cose in chiaro.

Ci avviamo sul sentiero lungofiume con l’intenzione di seguirlo fino al ponte successivo e, attraverso quello tornare in centro. La passeggiata consentirebbe anche di dare un’occhiata da vicino alla Torre della Madre (Mutterturm) costruita alla fine dell’Ottocento dal pittore Von Herkoner (di cui alla strada più sopra) nello stile di un Medioevo idealizzato – tondeggiante e con vari pinnacoli può riportare in mente Neuschwanstein. Il progetto naufraga però quasi subito perché incrociamo quattro tedeschi di mezza età che ci comunicano che una frana interrompe il percorso poco più avanti. Siamo ancora nei primi giorni e capisco pochino la prima spiegazione, per fortuna che una delle signore parla un più che discreto italiano e chiarisce la situazione. Torniamo sui nostri passi continuando la conversazione e scopriamo che una così buona conoscenza della nostra lingua è dovuta al fatto che lei e suo marito hanno, da anni, una roulotte fissa sulla Riviera Ligure e vi trascorrono quattro o cinque mesi l’anno.

Ritornati alla Hauptplatz, decidiamo di pranzare e, allo scopo, ci sovvengono una macelleria che vende anche piatti caldi (würstel, Leberkäse e delle saporite polpette di cui al momento mi sfugge il nome) e la rivendita di pane in cui abbiamo comprato il Brezel imburrato che offre panini di varie fogge e qualità. Alla fine optiamo per il secondo valutando la comodità del posto a sedere – entrambi hanno la saletta interna, quella scelta è arredata in modo moderno con tavoli chiari e sedie e divanetti scuri – e ci sfamiamo con i sandwich: in quello di Chiara c’è una delle suddette polpette, e qualcosa di dolce. Peccato solo che si tratti di un panettiere e non si vendano alcolici: quindi, niente birra.

All’uscita, ci accoglie un sole inatteso. Il vento ha ripreso a soffiare spazzando quasi del tutto il cielo: nell’azzurro intenso, sono rimaste a rincorrersi solo poche nuvolette bianche. Passando sotto la Schmalzturm, iniziamo a salire verso la città alta lungo la Alte Bergstraße, una strada non molto larga, affiancata da numerosi negozi in gran parte di artigiani, il cui tracciato si snoda in un’ampia curva. Dopo pochi minuti, imbocchiamo una scalinata che si erge ripida fra due case e, percorse un paio di lunghe e ripide rampe, giungiamo ai piedi della chiesa della Santa Croce (Heilig-Kreuz-Kirche): un tempio settecentesco dalla facciata mossa e ingentilita da due snelli campanili, ma resa seriosa dal colore del mattone che la domina. Stesso tinta anche per i due edifici lì accanto, uno sulla sinistra e uno di fronte, che non fanno nulla per smentire la loro origine di collegio dei Gesuiti, anche se gli spazi nel secondo sono stati recuperati per farne il museo della città. All’interno, la chiesa non si discosta dal solito stilema tra barocco e rococò – pareti bianche, numerosi altari riccamente decorati, grandi affreschi sul soffitto – e vi sostiamo a lungo soprattutto perché Chiara trova un gatto da coccolare e fatica a lasciarlo.

Essendoci portati in posizione più rialzata, il vento inizia a farsi fastidioso tanto da costringerci a chiudere le giacche a vento mentre ci avviamo alla passeggiata che consente di effettuare il periplo delle mura della fu cittadella fortificata. Impieghiamo circa un’oretta a percorrere lo stretto sentiero immerso nel bosco, facendo attenzione a evitare le radici che spuntano qua e là e a non scivolare nei pochi tratti leggermente ripidi. Riusciamo anche a sbagliare strada un paio di volte: il primo errore ha conseguenze limitate (scendiamo verso il centro e ci tocca risalire), il secondo meno. Alla polveriera (Pulverturm, torre che sorge solitaria e un po’ minacciosa fra gli alberi) proseguiamo su quella che pare la naturale continuazione del percorso e che, invece, costeggiata la staccionata di un quartiere residenziale di belle villette, ci porta direttamente in aperta campagna. Il dietro-front non è breve: lasciamo alla nostra destra un gruppo raffigurante la sacra famiglia ad altezza naturale che è meta di pellegrinaggio e finalmente raggiungiamo la Polveriera, accanto alla quale si stacca un sentiero in leggera pendenza che, in poco tempo, conduce lungo la parte orientale delle mura. Qui non c’è più il bosco e la struttura difensiva è ben in vista mentre si percorre il largo prato che occupa quello che una volta era il fossato e la separa dalla strada parallela.

Dove arriva l’asse viario proveniente da Monaco, si innalza la Porta Bavarese (Bayerntor), sovrastata da un’alta torre decorata con un grande bassorilievo centrale. La struttura risale all’inizio del quindicesimo secolo, ma molti sono stati gli abbellimenti successivi fino all’aspetto attuale: un colore chiaro su cui risaltano mattoni alternati in rosso e nero, le due torrette laterali con tetto a punta, il grande stemma dei duchi di Baviera sopra l’arco d’ingresso. Il sistema difensivo della porta è abbastanza complesso e la struttura ha una profondità di una ventina di metri – con affreschi e un piccolo museo – prima di giungere dalla parte opposta, da cui si può godere di uno splendido panorama dell’intera Landsberg e del territorio circostante. Scendendo lungo l’Alte Bergstraße, possiamo ammirarlo con comodo, come pure alcune belle case colorate, a volte ingentilite da piante rampicanti, che si fronteggiano lungo alcune strade che si aprono, il selciato lastricato, alla nostra destra.

Un gelato in Hauptplatz e la visita ad alcuni negozi in Vorderer Anger concludono la nostra visita a Landsberg, se non vogliamo contare la spesa al Lidl e un pieno nella periferia cittadina (a parte la seccatura che si trovano entrambi a sinistra, con la conseguente necessità di attraversare la strada, abbastanza larga, che ci riporta a casa).

LINDAU

La sosta a Lindau durante il viaggio di ritorno doveva, nelle intenzioni della vigilia, servire a spezzare la lunga percorrenza con una tranquilla giornata sul lago. La sosta a Ottobeuren e il susseguente giro turistico dell’Algovia Occidentale fanno sì che giungiamo alla cittadina sul Lago di Costanza (Bodensee) solo all’una del pomeriggio, quando ormai tutti i parcheggi vicino al centro sono pieni. Del resto, è un meraviglioso sabato di sole ed è inevitabile che i villeggianti – occasionali o meno – si siano riversati sulle sponde del grande specchio d’acqua posto tra Germania, Svizzera e Austria. Per fortuna che a Lindau sono organizzati e hanno messo i cartelli con il numero di posti liberi già a un paio di chilometri dall’isola che costituisce il cuore storico del paese: così, possiamo sistemare l’auto in un parcheggio posto sopra un centro commerciale, all’ombra e con poca spesa, prima di intraprendere la mezzoretta di cammino che ci conduce in riva al lago.

L’uscita dal grande magazzino è un trauma perché l’abbraccio dei trenta gradi giunge inatteso. Fortuna vuole che il viale che dobbiamo percorrere è ombreggiato da grandi piante che contribuiscono anche a contrastare gli scarichi dell’intenso traffico che ci scorre a fianco. Attraversato un passaggio a livello – che al ritorno ci costringerà a una lunga sosta – ci avviciniamo a una zona più tranquilla e residenziale, con ville e villette che spuntano fra gli alberi, per poi giungere in cinque minuti al Seebrücke, il ponte carrabile che collega la vecchia Lindau alla terraferma (un altro è riservato alla ferrovia). Mentre attraversiamo, il lago ci regala una brezza rinfrescante che subito scompare quando ci addentriamo nella zona pedonale.

La stanchezza del viaggio e la calura fanno il turista distratto. La nostra visita a Lindau si svolge così senza quasi l’ausilio della guida: ci limitiamo a guardarci attorno senza impegno, memorizzando quel che ci riesce di memorizzare. Malgrado vi si affaccino due chiese, una cattolica e una protestante, la bella Marktplatz scorre sulla nostra sinistra senza troppo catturare l’attenzione: a nostra scusante possiamo addurre il mercato che sta sbaraccando e il fatto di trovarci le facciate alle spalle. Faremo una sosta appena più lunga seguendo il percorso inverso, quando notiamo almeno la fontana del Nettuno al centro (Neptunbrunnern) e, soprattutto, il bel palazzo settecentesco che chiude il lato sud con la facciata affrescata: alla sua ombra, si esibisce un’arpista dai tratti andini. All’andata, ci fermiamo invece a fotografare un manifesto che annuncia un’esibizione in serata del gruppo di Gianluigi Trovesi, jazzman virtuoso di sassofono e clarinetto nonché vecchia conoscenza delle prime edizioni di Monticelli Jazz.

Dopo la piazza, la strada si infila tra vecchie case e, dopo aver piegato a sinistra in leggera discesa, dopo una svolta a destra si allarga in Maximilianstraße che giunge dritta fino ai binari della ferrovia rappresentando la via principale dell’isola. Ai lati si succedono vecchie case di tre o quattro piani, alcune a graticcio dipinte con colori vivaci: a piano terra, sovente ombreggiati da portici, sono numerosi i negozi alternati a bar e ristoranti che allungano i tavolini in mezzo alla strada. Il che ci ricorda che sarebbe anche ora di pranzo, ma i prezzi sono proporzionati al luogo in cui siamo, cuore di una delle località turistiche più rinomate di Germania. Ci soccorre un Nordea, self-service con piatti di pesce di qualità più che buona e con delle ottime patate fritte tagliate in pezzi più grandi del consueto: l’unico problema dell’affollamento, tanto che dobbiamo sistemarci a un tavolino su cui batte più sole di quanto vorremmo.

Del resto, il viavai è intenso e, viste le premesse, non potrebbe essere diversamente tra turisti armati di macchina fotografica e altri che – con canotta, salviettine e infradito – sono venuti alla ricerca di un bagno e di un’abbronzatura. Camminiamo fra di loro lungo Maximilianstraße fino dove le case iniziano a farsi meno imponenti, poi ci infiliamo in una via sulla sinistra diretti verso il porto: in tutta la zona le costruzioni sono forse più modeste, ma mettono in fila delle belle facciate di svariati colori pastello. E’ un momento di calma che si interrompe quando mettiamo piede sulla banchina affollatissima di gente che passeggia oppure deve salire o è appena scesa da uno dei numerosissimi traghetti di collegamento fra i vari paesi affacciati sul lago.

Camminiamo attorno al bacino fino al molo che lo chiude. All’estremità di questo è posta la Mangturm, antico faro che delimita l’uscita verso il largo. Dall’altra parte di tale sbocco sta un’imponente leone in pietra e poi il molo prosegue, proteggendo la parte più affollata del porto turistico. Sulla Mangturm si può salire, ma per farlo è necessaria una fila sotto il sole che non ci sentiamo di affrontare. Del resto, il panorama è splendido anche dal basso, con la vista della sponda austriaca – dove si trova Bregenz – e sullo sfondo il profilo delle Alpi che risalgono, attraverso il Bregenzerwald, fino all’Arlberg.

Il molo dove siamo si stacca dalla banchina al termine di una sorta di promontorio, dove, dietro gli edifici della compagnia di navigazione, si allungano i binari di servizio della stazione. In punta, tra le traversine e il lago, ci sono alcuni metri alberati in cui si nasconde un piccolo bar che cerca di intercettare i passanti mentre si inoltrano sul largo sentiero inghiaiato che, in pochi passi, conduce sulla sponda meridionale dell’isola per poi seguirne il disegno quasi rettilineo, prendendo il nome di Schutzingerweg. Nel primo tratto, si resta alti sull’acqua e solo una scala qua e là consente di scendere: da queste, alcuni coraggiosi e coraggiose si tuffano nel lago che, in quel punto, è cristallino e profondo. Con un po’ di invidia – l’acqua sarà anche fredda, ma abbiamo un gran bisogno di un sollievo dal sole che ci sta cuocendo – non ci resta che proseguire seguendo il percorso che digrada fino a raggiungere un grande prato dopo aver costeggiato un negozio di (vere o presunte) antichità con in mostra un gran numero di statue e vasi in un vasto spazio aperto. L’erba è punteggiata dagli asciugamani di un gran numero di bagnanti perché siamo ormai all’altezza della riva e scendere a fare il bagno non presenta alcuna difficoltà. Sostiamo in un piccolo giardino con panchine appena rialzato, da dove possiamo ammirare con cura la sponda opposta, che sta in Svizzera e ha anch’essa le montagne sullo sfondo, e le numerosissime imbarcazioni che solcano lo specchio d’acqua calmo come l’olio: resistiamo alle richieste di Chiara di andarsi davvero a bagnare e raccogliamo abbastanza forze per ripercorrere il sentiero.

Quando torniamo al porto, la ressa è ancora aumentata, tanto che in Hafenplatz (Piazza del Porto, per l’appunto) si fatica a camminare. Peggiora la situazione il fatto che non giri aria così decidiamo di integrare almeno gli zuccheri nella prima gelateria che abbia qualche posto libero: soddisfa il requisito lo Schreier Hotel-Cafe.Lounge, undici euro per quattro coppe (abbondanti) prese direttamente al banco perché non c’è servizio ai tavoli. Il ricarico di energie serve per la non breve passeggiata di ritorno, punteggiata solo da qualche rada fermata di fronte a un negozio, ma, quando arriviamo al centro commerciale, prima di ripartire ci riforniamo di brezel nella panetteria a piano terra, proprio accanto all’ingresso.

LINDERHOF

Quasi un’ora di strada in direzione Garmisch, seguendo la B23 oltre Rottenbuch in un paesaggio che si fa sempre più montano, tra prati verdi e foreste di conifere. Infine, tra Oberammergau ed Ettal, una svolta a destra nella più piccola ST2060 che percorre una stretta valle ricoperta di un fitto bosco spezzato solo ogni tanto da qualche fattoria isolata. La strada è bella e il pendio lieve, così i ciclisti che la percorrono non sono pochi anche se devono vedersela con il traffico che conduce al Linderhof, castello di caccia fatto edificare – dove, fino a metà Ottocento, c’erano solo poche baite – da Ludovico Secondo di Baviera in dimensioni più ridotte, ma con fantasia non meno sfrenata del più famoso Neuschwanstein.

Dopo aver svoltato di nuovo a destra ed essere finalmente giunti nel parcheggio del castello (due euro e mezzo), scopriamo però che, in fondo, dalla parte da cui siamo arrivati noi la situazione è ancora calma. Il movimento che abbiamo notato non può giustificare che alle dieci di mattina i posti siano già in gran parte occupati (e al pomeriggio si farà fatica a trovarne uno): la prosecuzione della ST2060 tocca l’Austria e arriva fino a Füssen, è da lì che proviene la maggior parte dei visitatori.

Lasciamo l’auto fra due piante: siamo infatti nel bosco, ai piedi delle montagne dell’Ammer che, verdeggianti fin quasi alle cime in roccia scura, fanno da quinta alla bianca mole del castello. Per arrivarvi, è però necessario pagare l’ingresso – nel quale è incluso tutto il parco, sistemato con cura, che circonda la costruzione principale – e salire a piedi per una decina di minuti.

La visita guidata sarà in italiano e l’ingresso ha un orario prefissato. Così, durante la passeggiata, abbiamo il tempo per una sosta al lago dei cigni – specchio d’acqua artificiale che beneficia della bella giornata piena di sole riflettendo le montagne circostanti – e la Casa Marocchina (Marokkanisches Haus) che è esattamente quanto promette: un ambiente che tra intarsi di colori, archi acuti e frange arabeggianti regala un abbastanza incongruo sapore d’Oriente tra le Alpi della Baviera.

Davanti al castello, una breve scalinata si diparte e scende fino al parterre, in cui una piscina è circondata da cespugli ricchi di fiori e vialetti in ghiaia. Al centro dello specchio d’acqua, alcune figure dorate ornano la fontana che zampilla brillando nella luce solare e che, a intervalli regolari, ingrossa lo spruzzo e lo spedisce a un’altezza di oltre venti metri creando una prospettiva affascinante in particolare con il giardino a terrazza che le fa da sfondo. Lasciata alle spalle la piscina e appena oltre un tiglio centenario, le scale salgono a destra e sinistra disegnando tre piani su di un pendio che culmina in un tempietto in cui bianche colonne circondano una statua di sapore classico raffigurante Venere. Ogni piano è rallegrato da fiori multicolori e al primo una grotta (ovviamente falsa) ospita un busto di Maria Antonietta (Ludwig era un tifoso della monarchia assoluta). Immagini d’insieme e tagli con primi piani floreali: inganniamo il tempo scattando un po’ di foto e l’ora di attesa passa quasi senza farsi notare.

L’ingresso, sulla sinistra della palazzina, è regolato da quattro cancelli girevoli delimitati in modo da non far passare più di una persona per volta: ognuno è dedicato a una lingua e porta l’indicazione della successiva partenza. Il ragazzo che ci accompagna saluta il gruppo più che altro a gesti, il che fa nascere qualche dubbio sciolto non appena giunti davanti alle colonne porpora e sotto gli stucchi sfolgoranti del vestibolo: il lusso della guida parlante è riservato al tedesco e all’inglese, per noi ci sono dei testi registrati che il nostro accompagnatore fa partire con un telecomando. Gli altoparlanti sono nascosti con abilità e il racconto è comunque interessante, ma quando ci capita di incontrare un gruppo anglofono finiamo per orecchiare perché una narrazione fatta da una persona in carne e ossa finisce inevitabilmente per essere più varia e ricca di particolari.

L’incrocio avviene quasi alla fine – quando noi stiamo uscendo e loro entrando – perché Linderhof è (relativamente) piccolo e i flussi di persone sono forzatamente costretti in percorsi regolati: non appena l’ultimo di noi entra in una stanza viene fatta partire la spiegazione e non appena questa è finita veniamo invitati a ripartire. Gli ambienti che si visitano sono una decina e sono talmente stracarichi di decorazioni, tappeti, stucchi, ori e dipinti da stordire. Due sono quelli principali: la sala degli specchi, sovraccarica di dorature alternate all’azzurro dei tessuti e dominata da un pesante lampadario a goccia, e la grandissima camera da letto in cui un enorme baldacchino separato dal resto della stanza da una balaustra riflette il blu dei suoi velluti nell’azzurro del cielo affrescato sulla volta. Colpiscono con altrettanta forza le due stanze ovali delle udienze e da pranzo, la prima con un grande trono sovrastato da un altro pesante baldacchino, la seconda decorata con colori più vivaci – giallo, celeste e rosso – e dove ancora funziona il meccanismo che fa salire il tavolo da pranzo direttamente dalle cucine. Quest’ultimo, utilizzato per l’ultima volta durante le riprese del film di Visconti, testimonia di come tanto sfarzo non avesse altro spettatore che Ludwig, che qui visse spesso negli ultimi anni, ormai grasso e sdentato (il tavolo mobile serviva proprio a questo: non farsi vedere dalla servitù mentre mangiava a fatica).

Al confronto, le altre stanze, che servivano più che altro di collegamento tra quelle principali, sono sobrie: i quattro gabinetti – giallo, blu, lilla e rosa – e le due stanze dei tappeti non mancano certo di decorazioni, ma si giovano del fatto di non essere stati fatti per impressionare. Tutti assieme, gli ambienti costituiscono una struttura regolare e armonica che forse non si coglie bene quando la si attraversa, ma appare chiara quando la si guarda in pianta – da sola o immersa nelle linee del giardino circostante. Le due stanze ovali, ad esempio, si aprono con piccoli balconi sui due parterre, di cui il più bello è quello occidentale, ricco di fiori colorati e con al centro una piccola fontana con le statue dorate della Fama e di Amore nell’atto di scoccare una freccia.

Lo attraversiamo per salire, in nemmeno dieci minuti, alla Grotta di Venere (Venusgrotte), una cavità artificiale ispirata al ‘Tannhäuser’ in cui trovano posto un laghetto artificiale, una barca dorata a forma di conchiglia e un piccolo palcoscenico: qui, infatti, grazie a una delle prime illuminazioni elettriche di Baviera, il re assisteva, sovente come unico spettatore, alla rappresentazioni di opere wagneriane. La visita è illuminata da luci vagamente psichedeliche e accompagnata dalle musiche del compositore tedesco mentre una voce registrata descrive il luogo in più lingue: non ci vogliono più di dieci-quindici minuti e anche in questo caso l’entrata è a scadenze periodiche.

Al ritorno, scegliamo una strada diversa, percorrendo i vialetti inghiaiati che scendono fino al Pavillon della Musica, un gazebo in legno, dipinto in verde per nascondersi nella natura circostante, che sovrasta il castello fronteggiando il giardino a terrazze. Sotto di esso scende ripida e gorgogliante, l’acqua limpida della cascata artificiale che poi andrà ad alimentare il laghetto e la fontana. Tutto è verde e tranquillità qui, dove nessuno ha mai suonato: la massa dei turisti rimane lontana permettendo di godere del colpo d’occhio senza rumori molesti e anche la discesa lungo uno dei due percorsi a semicerchio coperti dai rami degli alberi è tale che il ritorno a contatto con il via-vai è abbastanza traumatico.

Ma è ormai ora di mangiare qualcosa e, così, ci portiamo verso le biglietterie dove ci sono un ristorante e la tavola calda con self-service, qualcosa di simile a quanto già sperimentato a Neuschwanstein, al cui interno, un capocuoco che potrebbe essere un italiano di seconda generazione dà ordine a un biondo inserviente teutonico. Riusciamo così a ottenere i nostri panini con i würstel e le cotolette, consumati a un tavolo lì accanto le cui panche si liberano miracolosamente al nostro arrivo (le api insistenti a questo punto non fanno più notizia…).

MONACO DI BAVIERA

Monaco è la tappa più difficile. Non tanto dal punto di vista organizzativo – pure non semplice, tra l’accesso a una grande città e la scelta, per forza di cose restrittiva, dei luoghi da visitare – ma da quello psicologico. Questo riguarda solo me e chi non è interessato può passare al capoverso successivo. Tornare in un posto di cui si ha un ricordo molto positivo è a rischio delusione, figurarsi poi se si tratta della città in cui è si è svolta la prima ‘avventura’ al difuori della famiglia – le scarpe nell’intercapedine, il pitone non è una biscia, il primo (mezzo) Maß eccetera eccetera. E’ vero che ci sono già stati altri ritorni, e che anche le volte successive l’impressione iniziale è stata confermata, ma un po’ d’inquietudine rimane là in fondo, in un angolo non ben presidiato del cervello. Beh, va detto subito che, malgrado un tempo balbettante e una densità di turisti a volte fastidiosa, la prova viene superata alla grande.

Il treno suburbano S4, carico più che altro di pendolari, ci scarica sotto Marienplatz poco dopo le nove. Siamo di pochi minuti in ritardo rispetto alla tabella di marcia, a causa di qualche perdita di tempo accumulata nella periferia della città, quando ancora siamo in superficie. Restiamo infatti fermi per rispettare una precedenza prima dell’ingresso in una stazione decentrata, mentre attorno a noi si innalzano grandi palazzi da periferia urbana – tra edilizia ad alta densità abitativa e aggressive sedi di questa o quella società, tutte finestre a specchio e con un logo colorato in cima.

Ripartendo, il treno si trasforma a tutti gli effetti in una metropolitana e torniamo a vedere il cielo solo quando lo lasciamo e, non riuscendo a individuare una scala mobile, finiamo per litigare con l’ascensore. Riconosco che al momento non siamo molto lucidi, ma anche i pulsanti che, invece dei numeri, riportano l’iniziale del piano, non aiutano: così, avendo la stazione sotterranea ha i binari su tre livelli e arrivando noi a quello in mezzo, prima scendiamo e poi risaliamo.

MARIENPLATZ E CHIESA DI SAN PIETRO

Quando vi mettiamo piede, Marienplatz è ancora relativamente vuota. Al posto dei turisti, che stanno per arrivare, vi circolano qualche mezzo per la pulizia urbana e alcuni piccoli camion che stanno effettuando le consegne, mentre dalla parte del Vecchio Municipio (Altes Rathaus) si muovono le ditte per il restauro della facciata neogotica (perciò invisibile).

Se il Vecchio Municipio è neogotico perché si cercò di riportarlo all’originale trecentesco dopo le modifiche rinascimentali e barocche, il Nuovo (Neues Rathaus) lo è tout-court. Costruito nella seconda metà dell’Ottocento, occupa tutto il lato nord della piazza. Sopra il porticato a piano terra, c’è una terrazza ricca di fiori ritmata dalle ornate strutture che separano le finestre nei tre piani restanti. L’aspetto è simile ma diverso nella parte destra e nella parte sinistra della facciata: la prima, leggermente più scura, mette in mostra una decorazione maggiormente elaborata all’altezza dell’ingresso principale – con un’altra terrazza più piccola – mentre la seconda, di un niente più sobria, è dominata dall’imponente torre al cui centro è piazzato il grande carillon animato che è una delle più potenti calamite turistiche della città.

Su questa torre è possibile salire, ma noi preferiamo trasferirci alla vicina San Pietro (Sankt-Peter-Kirche), il cui campanile (der Alte Peter) è leggermente più alto, passando di poco i novanta metri, e, noi speriamo, meno frequentato. Prima diamo però un’occhiata alla chiesa che – di antica fondazione tanto che il cartello all’esterno ne vanta l’essere stata la prima parrocchia di Monaco – è però stata rifatta in stile barocco. L’interno a tre navate è perciò illuminato dal bianco delle pareti esaltando l’alto soffitto a vela affrescato in colori vivaci; gli archi che separano le navate sono ripresi al livello superiore da una serie di dipinti sovrastati da rosoni mentre nell’abside spicca l’imponente altare maggiore che, pur ricco di colonne, dorature e stucchi, non risulta in particolar modo pesante alla vista. Gironzoliamo per qualche tempo, quasi per prendere fiato prima della salita, e poi torniamo all’esterno avviandoci all’ingresso della torre, sistemata al centro della facciata

Pagati cinque euro all’omino nel bugigattolo accanto all’entrata – dove si vende qualche altro souvenir di San Pietro – aggrediamo i primi dei trecentosei gradini in uno stretto budello che sale a chiocciola. Visto che non sono ancora le dieci, non incontriamo nessuno e proseguiamo con regolarità (ben diverso sarà il ritorno, quando avremo problemi di precedenza con un folto gruppo di persone in salita): raggiungiamo il primo pianerottolo un po’ ansimanti e con le lamentele di Chiara in costante aumento. Da lì, una serie di rampe in legno sempre più strette sale lungo il corpo centrale, consentendo di rifiatare solo ogni tanto: stando attenti a dove mettiamo i piedi – e, di quando in quando, anche la testa – passiamo la cella campanaria con i suoi grandi meccanismi a ruota e finalmente giungiamo all’altezza dell’alloggio del campanaro da dove, attraverso una piccola porta, si esce sulla piattaforma che, girando attorno all’edificio, consente un panorama a trecentosessanta gradi della città. Protetti da una fitta grata, possiamo così osservare la distesa di tetti sotto di noi, i monumenti che visiteremo nel corso della giornata e anche quelli a cui ci sarà impossibile arrivare fino a scorgere, sullo sfondo, l’elelgante figura della Torre di Olimpia (Olympiaturm) e il copertone biancheggiante della Allianz Arena. Peccato solo per le nuvole bianche che affollano il cielo e spandono sul tutto un’uniforme luce lattiginosa.

DA VIKTUALIENMARKT ALL’ASAMKIRCHE

La discesa è meno faticosa – pur richiedendo qualche attenzione per i gradini a volte piccoli – e, precedenze a parte, raggiungiamo senza problemi il Viktualienmarkt dopo aver seguito il lato sinistro della chiesa e percorso una lieve discesa. Prima di infilarci fra le bancarelle, però, è assolutamente necessario stabilire dove si trovi l’Hard Rock Cafè. Allo scopo, mi infilo in una delle macellerie che costeggiano Hanauer Straße, resistendo a fatica al trionfo di golosità, la maggior parte insaccate, che mi ritrovo davanti. Il posto vende anche sostanziosi panini imbottiti e il rosso è il colore che domina: i gestori sono molto gentili anche se si capisce subito che non comprerò nulla (anche perché i prezzi non sono esattamente a buon mercato) e, pur parlando solo tedesco, si fanno capire con grande chiarezza – per fortuna il Café è piazzato davanti alla Hofbräuhaus, il che facilità la comprensione e la localizzazione mentale. Infine, lasciata a sinistra la mole barocca della chiesa dello Spirito Santo (Heilig-Geist-Kirche), iniziamo a passeggiare sotto alle piante che ombreggiano (non che al momento serva) il mercato delle primizie. E’ ancora presto e il movimento è ridotto: i lunghi tavoli affiancati dalle panche dei Biergarten sono quasi del tutto deserti mentre attorno ai banchi riccamente colorati e stracarichi di merce – frutta, verdura, fiori, carni, decorazioni per la casa – gironzolano i primi curiosi. Malgrado il luogo sia ad alto rischio di perdita di tempo, la prospettiva di avere una città da visitare limita la vista allo stretto necessario e ci spinge a proseguire lungo l’itinerario consigliato dalla nostra guida tascabile.

Imbocchiamo così Prälat-Zist-Straße, che non offre altro d’interesse se non la ‘casa’ della Hacker-Pschorr situata dove la via sbocca in Viktualienmarkt. Giunti circa a metà, svoltiamo a destra in Sebastianplatz, una piazza stretta e lunga dove ritroviamo la zona pedonale. Le nubi si fanno più scure, dobbiamo così rinunciare alla sosta ai tavolini di un bar che si allungano sul selciato rosso: proseguiamo in St-Jacobs-Platz, originata dal palcido allargarsi della prima. Alla nostra destra si impone il grande palazzo restaurato che ospita il Museo Civico (Münchner Stadtmuseum) al cui interno si racconta anche come la città sia stata culla del nazismo: a completare l’espiazione dei sensi di colpa stanno il parallelepipedo di acciaio, vetro e sasso della Sinagoga, proprio al centro della piazza, e le vetrine del museo ebraico (Jüdisches Musem) sul lato opposto. Visto che, per il non molto tempo a disposizione, abbiamo deciso di evitare i musei, non entriamo anche se l’interesse non mancherebbe: preferiamo invece fermarci allo Stadtcafè per riprendere fiato.

Situato accanto allo Stadtmuseum e a un cinema, il bar è grande e frequentato da una clientela giovane e con aspirazioni artistiche (almeno questa è l’impressione originata dall’atteggiamento e dai vestiti di qualche avventore: c’è pure una troupe televisiva che sta effettuando l’intervista a un barbuto e, si suppone, un certo qual modo importante signore). I prezzi vanno di conseguenza, ma la colazione è abbondante e ci consente di tornare ad affrontare un clima che si è fatto assai brutto, con la pioggia che inizia a cadere rada ma via via più insistente mentre sbagliamo strada e giungiamo sulla trafficata Blumenstraße (beh, non è mica facile studiare la cartina sotto l’acqua…). Il ritorno sulla retta via viene quasi subito salutato da un miglioramento climatico, tanto che quando sbuchiamo su Sendlinger Straße oramai ha smesso di piovere. Nell’ampia via commerciale – numerose vetrine e uno Starbucks – ritroviamo sia il traffico, sia il movimento turistico, anche perché, sul lato sinistro tornando verso il centro, sta, incastonata tra le case, la piccola Asamkirche, in origine cappella dell’adiacente palazzo Asam e ora aperta al pubblico che riesce a resistere al sovraccarico decoro rococò. Dominano le tinte scure, fra marmi screziati di cremisi e di blu: a questi si aggiunge la solita quantità smodata di dorature e baldacchini mentre l’altar maggiore risplende di argenti e di ori ripresi anche al piano superiore, dove una balconata chiude un grande rosone attorniato da colonne a tortiglione.

IL CARILLON

Un po’ storditi, riprendiamo la nostra marcia e, zigzagando fra due o tre strade, passiamo prima davanti al più antico ristorante della città (Hundskügel, che troviamo, chiuso, all’angolo tra Josephspitalstraße e Hotterstraße) e infine sbocchiamo nella pedonale Kaufingerstraße. Di fronte a noi si erge l’imponente struttura gotica dell’ex basilica agostiniana (Agostinerkirche), ora sede del museo della caccia e della pesca (Deutsches Jagd- un Fischereimuseum): anche questo sarebbe da visitare, ma il tempo fugge e, osservato per un attimo il massiccio cinghiale in bronzo accanto all’entrata, torniamo verso Marienplatz, nella quale la strada sbocca. E’ ormai prossimo, infatti, l’orario del carillon sul Nuovo Municipio e così ci portiamo nella piazza, stando ben attenti a evitare i massicci flussi di turisti che camminano in un senso o nell’altro. Kaufingerstraße è una delle strade del passeggio cittadino e, per questo motivo, è ricca di vetrine che si aprono al piano terra degli antichi palazzi che la costeggiano. Molti di essi sono caratterizzati dai portici, sotto i quali preferiscono piazzarsi gli artisti di strada, come il giovane violoncellista che Diva non può fare a meno di immortalare.

La folla riempie Marienplatz tanto che non riusciamo ad addentrarci più di qualche metro. Non è una sorpresa, stiamo aspettando uno dei momenti più attesi da chi visita la capitale della Baviera e allora pazienza. Pazienza anche per il cattivo gusto, chè le figure danzanti del carillon, sul momento e ancor di più a mente fredda, lasciano un po’ il tempo che trovano. Brillantemente colorate e rievocanti un matrimonio dei tempi che furono, si fanno più che altro ammirare per l’abilità degli artigiani che hanno pensato e costruito il meccanismo: le varie statue piroettano su se stesse e interagiscono al suono della musica per uno spettacolo che dura all’incirca una decina di minuti.

IL DUOMO

Al termine, l’assembramento si scioglie e, tornati per dove siamo venuti, svoltiamo a destra in direzione del duomo (Dom zu unseren Lieben Frau o, più semplicemente, Frauenkirche) di dimensioni tali da far svettare le sue imponenti pareti gotiche sul quartiere che lo circonda. La piazza su cui si affaccia con due alte torri terminanti a cipolla, al contrario, è piuttosto piccola, ma ombreggiata in modo piacevole dalle chiome verdi di alcune piante sotto le quali un piccolo muretto concede di sedere e riposare. Quando arriviamo, le fronde stormiscono perché si è alzato un vento impetuoso che ha liberato larghi spazi d’azzurro in cielo permettendo al sole di scaldare per la prima volta la giornata.

L’interno impressiona. Le forme gotiche risaltano pure grazie alle agilissime colonne che si spingono bianche fino all’alto soffitto a volta disegnando pulite vie di fuga in special modo nella navata centrale: la decorazione è minima – in questo, i bombardamenti hanno per così dire collaborato – e tutto l’effetto è lasciato all’architettura. Tocchi di colore vengono dati dalle vetrate e, in parte, da un imponente organo che può riportare alla memoria quello de ‘La bella e la bestia’ (inteso come cartone animato, ovviamente). In tanta luce spicca, con la sua massa oscura che evoca suggestioni da film dell’orrore, il cenotafio di Ludovico il Bavaro, posto poco dopo l’ingresso sulla destra: simboli guerrieri e di morte realizzati in opaco bronzo decorano il marmo nero del sepolcro mentre la statua del defunto minaccia il passante sollevando un affilato spadone.

HOFBRÄUHAUS

Usciti facendo la fila da bravi bambini come quando siamo entrati – sempre senza attese – stabiliamo che si dovrà pur mangiare e, per farlo, c’è la Hofbräuhaus, senza se e senza ma. Costeggiamo la Frauenkirche lungo quella che rimane Frauenplatz fin dietro l’abside: qui ci sono numerosi locali con i tavoli all’aperto, ma noi li ignoriamo per tornare in Marienplatz percorrendo la Weinstraße e da lì scendere lungo Tal finche non giunge ora di svoltare a sinistra e risalire sino alla Platzl dove è situata la Birreria di Corte. A dir la verità, non tutto scorre così liscio, ma alla fine troviamo la strada, anche perché basta fare con le altre persone come Pollicino con i sassolini: la nostra destinazione è un’altra delle grandi calamite di Monaco, ancor di più ora che si ritrova dall’altra parte della strada l’Hard Rock Cafè. L’unica minaccia al turista distratto è la nomenclatura: Platzl suona come piazzetta, ma arrivando da Tal ci si trova davanti una via che solo una cinquantina di metri più avanti si allarga effettivamente. Comunque, quando ci fermiamo di fronte alla birreria per l’estensore di queste note non è proprio un momento come un altro, visto che il luogo fa tornare alla memoria la prima, leggera alterazione da alcool – eppure il Maß era in condivisione con il Mio Compagno Di Banco, ultimamente conosciuto come la Spia – e, a ruota, tutta una serie di immagini che, a volerlo, ci sarebbe da perdersi nei ricordi.

Le ampie sale dalle volte a botte sono strapiene e il rimbombo è fastidioso anche se gli occupanti delle lunghe panche accanto ai tavoli di legno non si prendono sotto braccio e iniziano a cantare come nel flashback di quella lontana gita (flashback in cui c’è anche una compagnia di Italiani che prova a rivaleggiare intonando ‘O sole mio’, una roba di una tristezza infinita). Non va meglio nei lunghi spazi con vetrate affacciate sul Biergarten e perciò decidiamo di trovarci un posto all’esterno, visto che il tempo pare collaborare. Invece che sotto le piante, però, ci sistemiamo sulla balconata che, collegata con un ampia scala, sovrasta il Biergarten medesimo e ordiniamo con qualche collaborazione della cameriera nell’interpretazione del menù. I piatti di carne arrivano quasi subito, abbondanti e guarniti, mentre il salmone di Diva si fa aspettare un po’ di più, come se in cucina fossero stati colti di sorpresa dalla stravaganza. Arriva anche il Maß che mi son deciso a prendere anche se ho qualche dubbio sull’effettiva capacità di arrivarci alla fine – siamo a mezzogiorno, dopotutto – ma Diva collabora con alacrità allo svuotamento, tanto da vedermi costretto a farle presente che lì, volendo, di birra ne vendono anche dell’altra.

Insomma, andrebbe tutto per il meglio se non arrivasse una fantozziana nuvoletta quando i piatti sono stati solo spazzolati per metà. Siamo costretti a riparare all’interno, assistiti dalle cameriere che riescono a risistemarci tutti quanti (sulla balconata non eravamo pochi) nei locali al primo piano. L’ambiente è molto più tranquillo rispetto al pianterreno, con tavoli piccoli e medi sistemati in sale di dimensioni ridotte: i mobili e le decorazioni sono in legno, il soffitto non è molto alto e le signorine passano, bionde e veloci, con tre o quattro Maß per mano. L’affollamento non scherza neppure qui, ma non se ne avverte il disagio e quasi dispiace doversi rimettere per strada. Dopo l’inevitabile sosta ai servizi – che, bianchi dal pavimento al soffitto, stridono con i colori caldi della sala, ma sono immancabilmente lindi e tormentati da una musichetta folcloristica – facciamo un giro esplorativo al piano superiore – dove, nel grande salone che vide i primi passi da oratore di Hitler, c’è il pranzo di un convegno o ritrovo di qualche categoria produttiva – per poi scendere dall’ampio scalone d’onore alle cui pareti sono appese foto dei tempi andati e vecchi menù.

VERSO ODEONSPLATZ

All’uscita ho tutto il tempo per ammirare Platzl, dato che le donne si infilano nell’Hard Rock Cafè per comprare magliette e non ne escono, previa sollecitazione, che dopo un’oretta. La piccola piazza che, come detto, si allarga dopo l’edificio della birreria, è contornata da case di quattro o cinque piani con facciate settecentesche ora lisce, ora decorate attorno alle finestre e tra un piano e l’altro. A piano terra non mancano un paio di bar con tavola calda e tavolini messi all’aperto: racconta parecchio dei flussi turistici che percorrono la città il fatto che sopravvivano con tranquillità accanto a due colossi come la Hofbräuhaus e il Cafè. Quando entro nel buio di quest’ultimo, lo sbalzo è notevole perché, nel frattempo, il tempo si è messo di nuovo al bello: prima di uscirne, posso ammirare le chitarre autografate da qualche guitar hero di passaggio con il solo incomodo di evitare di pestare (o farmi pestare) i piedi nella ressa.

Alla fine, riusciamo a ripartire imboccando Pfisterstaße che inizia verso il fondo di Platzl sulla sinistra. Scattiamo una foto alla facciata a capanna, completamente coperta di edera da cui a fatica spuntano le finestre, della Hofpfisterei poi, passati sotto l’arco che, a un certo punto, collega le case sui due lati della strada, superiamo Hofgraben e, svoltati a destra, arriviamo in Max-Joseph-Platz su cui si affacciano alla nostra destra le colonne del Teatro Nazionale e, proprio di fronte a noi, l’imponente struttura della Residenz. Ritroviamo il traffico, ma i pochi veicoli commerciali e qualche tram che scivola silenzioso non disturbano più di tanto. Peccato invece che la bella facciata della Residenz (due piani lunghi quanto il lato nord della piazza, il terzo al centro con un’estensione della metà, parecchia somiglianza con Palazzo Pitti) sia in corso di restauro e perciò ricoperta dalla sua stessa foto che nasconde i ponteggi. Il palazzo è molto grande e contiene sia musei, sia uffici pubblici, ma ci limitiamo ad ammirarlo da fuori mentre percorriamo la Residenzstraße che ne costeggia il fianco sinistro. Accanto all’ingresso che si apre sulla strada sta una minacciosa quadriga di leoni, il cui bronzo mostra i segni dello scorrere del tempo escluso che all’altezza dei nasi degli animali, che brillano lucidi alla luce del sole: si dice che strofinarli porti fortuna e i passanti, magari con fare fintamente distratto, allungano tutti la mano per dare una grattatina. Trascinati da Chiara, non possiamo esimerci, anche se, per farlo, dobbiamo attraversare uscendo dall’ombra che ci protegge confortevole sul marciapiede opposto.

ODEONSPLATZ

Al termine di Residenzstraße, si stende davanti a noi il vasto spazio aperto di Odeonsplatz, un altro dei luoghi storici della capitale bavarese. Sul lato opposto a quello in cui ci troviamo inizia l’ampio viale di Ludwigstraße che attraversa l’ordinato ed elegante quartiere ottocentesco che collega il centro con Schwabing: il Ludwig in questione è il Primo del nome, avo dell’omonimo creatore di Neuschwanstein, a cui si deve la sistemazione definitiva della piazza e che, per questo, è pure omaggiato di una statua equestre.

Noi ci limitiamo a visitare i monumenti più vicini. Si comincia con la Feldherrnhalle, ovvero – pressappoco – Loggia dei Comandanti, copia esatta di quella fiorentina dei Lanzi ospitante le statue di un generale del tempo napoleonico e di uno dei più convinti macellai della Guerra dei Trent’Anni, il maresciallo conte di Tilly. Il luogo è passato alla storia anche per i cosiddetti ‘martiri di Odeonsplatz’, i venti militanti nazisti morti qui davanti durante gli scontri (cercati) con la polizia del 1923 e poi incensati come eroi dopo la presa del potere da parte del partito nazionalsocialista.

Alla sinistra della loggia, dopo lo sbocco della strada omonima, fa bella mostra di sé la gialla facciata barocca della Chiesa dei Teatini (Teatinerkirche), affiancata dalle due sottili torri che – un po’ per l’altezza, un po’ per il colore – si fanno notare da molti angoli della città. Prima di entrare, però, ci soffermiamo abbastanza a lungo ad ascoltare un gruppo musicale che si esibisce all’inizio di Theatinerstraße. Forti di una strumentazione ‘importante’ – pianoforte (a coda!), contrabbasso, violoncello, violino e flauto – alternano con bravura brani di repertorio classico e moderno: la qualità dell’esibizione è testimoniata anche dalla discreta e silenziosa folla che li circonda nonchè dal buon raccolto di offerte che spicca all’interno delle custodie degli strumenti (dove sono in vendita anche le copie di alcuni cd, a dimostrare che i musicisti non sono proprio gli ultimi arrivati).

L’interno della chiesa è capace di lasciare senza fiato: la decorazione barocca è alleggerita dall’assoluta predominanza del bianco (stucchi, figure allegoriche, colonne ritorte dell’altare e decorazioni compresi) e dall’altezza a cui sono posti i soffitti a botte sovrastanti i bracci della croce greca su cui è costruita la pianta. Dove questi si incrociano, si erge una cupola dalle linee leggere che regala a tutto l’edificio un’intensa luminosità. C’è anche una cripta dove sono sepolti un po’ di principi, ma preferiamo soprassedere e, attraversata la piazza, andiamo a cercare un attimo di relax ai Giardini di Corte (Hofgarten) che si estendono là dove la Residenz finisce e dai quali, volendo, si può fare una breve passeggiata che raggiunge il Giardino Inglese (Englischer Garten).

Accediamo al grande giardino all’italiana attraverso l’arco trionfale che lo collega a Odeonsplatz e ci incamminiamo lungo uno dei viali di ghiaia che delimitano le zone verdi nella parte centrale a forma di rettangolo con ai vertici quattro fontane. Tutto intorno stanno invece grandi alberi sotto i quali sono sistemate numerose panchine dove riposano turisti affaticati e anziani intenti a far passare il tempo. Lungo il lato da cui siamo entrati e lungo quello alla nostra sinistra, la struttura in muratura continua oltre l’arco in una galleria a due piani appoggiata su un lungo porticato che verrà utile quando arriverà un altro degli scrosci di pioggia improvvisi che caratterizzano la giornata. Al centro dei viali inghiaiati, sta un padiglione a pianta circolare dotato di una notevole acustica che, al momento della nostra visita, viene sfruttata da un chitarrista dalla barba brizzolata, armato di bandana, amplificatore e di un’aria vagamente tardo-hippy (o, a scelta, da hell’s angel in versione buonista). Ci sistemiamo dalla parte opposta rispetto a Odeonsplatz, tenendoci alle spalle il palazzo della Cancelleria Bavarese, ma, quando dietro alla cupola della chiesa dei Teatini scorgiamo avanzare dei grassi nuvoloni blu, ci vediamo costretti a riprendere la nostra strada

Come già accennato, non facciamo a tempo a uscire dal perimetro dei Giardini che inizia a piovere. Non appena la precipitazione si fa meno intensa, a ombrelli aperti percorriamo questa volta Theatinerstraße e Weinstraße: a metà strada, siamo costretti a una fermata perché l’acquazzone si fa di nuovo particolarmente violento e così Diva e le ragazze ne approfittano per infilarsi in un negozio di abbigliamento. Quando, dopo un quarto d’ora, spiove, il sole spunta beffardo tra le nuvole e, al nostro arrivo in Marienplatz, illumina il tutto con le avvisaglie di un bel tramonto. Prima di scendere nuovamente nella sotterranea, Diva e Giulia decidono di fare una ‘breve’ visita alla libreria Hugendhubel che si prolunga oltre ogni previsione: così io e Chiara – quasi schiacciati contro l’ingresso della libreria stessa da una folla ancor più straboccante di quella mattutina – possiamo ammirare la seconda esibizione giornaliera del carillon del Nuovo Municipio.

NENZING

Ripartiamo da Lindau nel tardo pomeriggio, quando la luce inizia ad abbassarsi di quel tanto da indorare il paesaggio con quella tonalità calda che oramai conosciamo bene. Costeggiamo il lago senza difficoltà e, passato il confine, entriamo a Bregenz che, malgrado un traffico abbastanza intenso, attraversiamo con sicurezza forti delle conoscenze accumulate nella nostra visita dell’anno precedente. Siccome non abbiamo intenzione di pagare il bollino autostradale per poco più di trenta chilometri, proseguiamo lungo la B190 in direzione Feldkirch, dove abbiamo deciso di cercare un posto dove dormire. Il viaggio si rivela più lento del previsto perché gli attraversamenti di centri abitati si succedono uno dopo l’altro, con i rigidi limiti di velocità e, almeno nelle località più grandi (Dornbirn, Götzis), un po’ di semafori più un paio di deviazioni. Arriviamo a destinazione alle sette circa: non sappiamo che, anche a causa dell’esigenza di contenere i costi, ci attende una ricerca tipo madonna-e-san-giuseppe a tratti snervante (e per fortuna che anche qui ci muoviamo con una certa sicurezza perché ci siamo stati dodici mesi prima…).

Lasciamo l’auto nel parcheggio sotterraneo di Busplatz (gratuito, vista l’ora) perché siamo vicini all’Ufficio del Turismo. Chiuso, ovvio, ma ha davanti un paio di pannelli con l’elenco di alberghi e affittacamere. L’attenzione si concentra su questi ultimi, ma un paio di telefonate ci convincono che è un’impresa disperata. Passiamo agli albergi che sembrano più a buon mercato e, visto che il cellulare fa le bizze, trascriviamo gli indirizzi e partiamo all’avventura. Il primo sta a Tosters, il sobborgo ai piedi delle alture che chiudono Feldkirch a ovest. E’ necessario tornare indietro per un breve tratto, poi, imboccata la L53 e passata una lunga galleria, si arriva: siamo ancora relativamente freschi, il senso dell’orientamento funziona e trovare l’Gasthof Löwen non è un problema.

Salgo i tre gradini della vecchia costruzione a tre piani per entrare nell’ingresso condiviso da albergo e ristorante. Dal secondo, affollato, arrivano odori di birra e arrosti, nel primo non c’è posto. Mi indicano un affittacamere due case più in là, ma anche lì niente da fare, così torniamo in centro per imboccare la B191 che conduce in Liechtenstein. Lì, in un quartiere residenziale sulla destra, ci dovrebbe essere un’altra pensione, ma, per quanto giriamo e chiediamo, riusciamo a scovare solo un ristorante. Però mi pareva di aver notato, verso il confine, alcuni Gasthöfe… impressione sbagliata, quando vediamo spuntare i doganieri abbiamo incontrato solo un postaccio deserto, isolato in un parcheggio di ghiaia, che ha tutto l’aspetto di un albergo a ore (diciamo così) dove è necessario dormire con il coltello sotto il cuscino.

E siamo di nuovo in Busplatz, che oltrepassiamo per raggiungere l’Hotel Bären che, con sole tre stelle e un po’ fuori dal centro potrebbe fare al caso nostro. Invece l’interno ci appare subito troppo lussuoso e il prezzo è di conseguenza. La tappa successiva è l’Hotel-Garni Post, all’imbocco della strada che conduce ai piedi del castello e poi prosegue come B190: qui probabilmente sbagliamo ad andar via – dove poi dormiremo, pagheremo solo pochi euro in meno e ci saremmo risparmiati un po’ di chilometri mentre qui l’unico difetto è di essere sulla strada – però evitiamo di dover vagare per Feldkirch per mangiare un boccone. Non resta che seguire la strada in direzione di Bludenz: passiamo sobborghi e frazioni che non offrono posti letto, un paio di strutture spartane ma chiuse e ci fermiamo a Frastanz dove facciamo sosta in una Weinstube senza pretese per chiedere informazioni.

Il titolare e cuoco prima si stringe nelle spalle, poi dice che, lì intorno, c’è solo il Gasthof Rössle della vicina Nenzing e, a quel punto, ci arrendiamo: prendiamo senza discutere la suite offerta dal gentile padrone dell’hotel, un mini-appartamento con cucina e frigorifero funzionante, così possiamo conservare le provviste che, nel frigo portatile, sono ormai arrivate allo stremo.

Per arrivare, lasciamo la B190 ed entriamo nel piccolo paese dato che l’albergo, vecchia stazione di posta, è al fianco di quello che era il vecchio tracciato della strada: la posizione è molto tranquilla (peraltro, non è che il traffico sulla statale fosse molto intenso), ma crea qualche problema per cenare. A Nenzing, difatti, c’è solo il ristorante, assai poco economico, dell’hotel: per le abitudini austriache comincia a essere tardi (sono le nove passate), perciò con un colpo di reni ci stacchiamo dai letti dove ci siamo stravaccati e torniamo a Frastanz, un po’ per pagare il debito di riconoscenza e soprattutto perchè sappiamo che c’è un locale aperto.

A Frastanz ci sono quattro case, di cui una è quella a due piani, rossa, un po’ vecchiotta e senza altre costruzioni attorno, sul cui fianco destro, quasi nascosta dietro a un albero, si trova la Weinstube che prende il nome dalla località (a prima vista non si direbbe, ma ha anche un sito internet). Il locale è per metà coperto da una struttura in legno e per metà all’aperto: nella parte più riparata ci sono il bancone con le spine e un piccolo palco dove suonare, mentre nella seconda sono sistemate le grandi griglie che costituiscono la gran parte della cucina. Ovunque, la clientela si deve sistemare su delle strette panche accanto ai lunghi tavoli: quando arriviamo, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, che cade su un posto non molto distante dall’entrata. Quando ci porta i menù, il cameriere si premura di dirci che non tutto è disponibile – così impariamo ad arrivare tardi – ma, tra wurstel, insalate e le uniche due bistecche rimaste abbiamo di che mangiare in abbondanza. Il resto della clientela è costituito da un nerboruto motociclista che pare decisamente carico, ma all’improvviso se ne riparte sul suo chopper mantenendo dritta la traiettoria: viene sostituito da un’allegra compagnia che, per fortuna, si sistema nella parte al coperto perché, tra birre e risate, la tranquillità della serata ne viene spezzata senza rimedio.

NORIMBERGA

Il treno lascia Ansbach illuminato da un sole deciso seppur non limpidissimo, ma ben presto nel nostro viaggio verso nord-ovest cominciano a farsi sempre più compatti i banchi di nubi. Quando giungiamo a destinazione – dopo aver attraversato tratti boschivi alternati a campagne coltivate in cui spiccano bianchi alcuni piccoli paesi – una nuvolosità grigiastra copre il cielo diffondendo una luminosità piatta che contribuisce a creare un vago senso di oppressione combinata alla pietra scura con cui i monumenti della città sono stati (ri)costruiti. Danneggiata in maniera pesante dai bombardamenti alleati, Norimberga è stata rifatta quanto più possibile uguale all’originale, ma, con ovviamente, materiali nuovi che, a volte, contrastano con le linee antiche che sono impegnati a rappresentare.

KÖNIGSTRAßE

Sbuchiamo alla Königstor dal sottopasso che la collega alla stazione quando la città non si è ancora messa in moto del tutto. Della porta sopravvive soprattutto il grosso torrione a forma cilindrica e le mura delle fortificazioni che l’affiancavano, dove si tiene una sorta di mercato permanente dell’artigianato che però, per cause miracolose, ignoriamo. Ci avviamo lungo l’ampia Königstraße, dove circolano pochi mezzi autorizzati – è zona pedonale, più che altro si tratta di veicoli commerciali per le consegne – e la tranquillità domina, con i tavolini dei bar ancora deserti che si alternano ad alcuni colorati banchi di frutta e verdura al momento senza clientela. La strada è ingentilita da alcune grandi aiuole in cui sono piantati alti alberi dal grosso fusto, il cui verde contrasta con l’ocra scuro e il marrone delle facciate delle case.

Dopo lo slargo, alla nostra sinistra, di Kommarkthallplatz, la via inizia a farsi più stretta, con i palazzi di quattro o cinque piani che l’affiancano facendo convivere architetture antiche e moderne. In questa confusione di stili, spiccano gli edifici più antichi, come la squadrata e massiccia Nassauer Haus, alleggerita solo da alcune decorazioni sulla facciata e sugli angoli del cammino di ronda che passa sotto al ripido tetto. Al piano terra delle costruzioni non in stile, invece, sfilano le vetrine e così inciampiamo subito nella nostra seconda sosta fermandoci – dopo l’immancabile cappuccino al bar – al negozio della Staedtler, fra matite, colori e ogni altra cosa che fa cartoleria (ma impacchettata in modo assai accattivante, va riconosciuto).

Davanti a noi si profila già il lato destro della chiesa di San Lorenzo (St. Lorenz), con l’alto campanile che termina a punta. Le torri campanarie, in realtà, sono due poste ai lati della facciata, come possiamo ben vedere non appena siamo giunti nell’omonima piazza. Entrambe a pianta quadrata, stringono un ampio portale ad arco acuto sovrastato da un grande rosone dando all’aspetto complessivo uno slancio verso l’alto che ben riflette l’anima profondamente gotica dell’architettura.

Passata piazza San Lorenzo, la strada sale per un tratto per poi ridiscendere verso l’attraversamento del Pegnitz: la pavimentazione è in pietra, qua e là un albero o gruppi di lampioni dalla foggia antica movimentano la vista. Sullo sfondo, inizia a stagliarsi la città alta, con le varie fogge delle torri del castello (tonde e snelle o quadrate e tozze) a dominare il panorama: stiamo per entrare nel cuore della città vecchia, davanti a noi non appena varcato il ponte. Ponte (Museumsbrücke) che però non va superato di fretta perché il fiume, verso valle, si divide e da una parte si infila sotto le due arcate dell’Ospedale dello Spirito Santo (Heilig-Geist-Spital) – costruzione quattrocentesca ora adibita a casa di riposo – e dall’altra scorre affiancato sulla riva sinistra da una successione di grandi alberi verdeggianti.

HAUPTMARKT

In pochi passi raggiungiamo Hauptmarkt, vastissima piazza in cui ogni giorno si svolge il mercato di generi alimentari. Viste le dimensioni, fu punto focale delle manifestazioni naziste in città, così che le bombe non l’hanno certo risparmiata: tutto attorno gli edifici – a quattro o cinque piani – sono moderni, anche se le linee sobrie non stonano con l’architettura del centro cittadino. Unica eccezione, alla nostra destra, la chiesa di Nostra Signora (Stadtpfarrkirche Unserer Lieben Frau, anche qui, come a Monaco, abbreviato in Frauenkirche) che spicca grazie allo stile gotico risalente alla sua fondazione, nel Trecento. La facciata è a capanna, con i due spioventi ritmati da una serie di pinnacoli e, al culmine, una cilindrica torre campanaria, mentre il portale ad arco acuto si apre in una sorta di nartece, affiancato da due piccole torrette: sopra di esso, si trovano un’ampia vetrata e un orologio con carillon che mette in movimento alcune statue colorate.

Attraversiamo in diagonale la piazza per raggiungere la Fontana Bella (Schöner Brunnen) che si innalza sopra la vasca in pietra con tre ordini di decorazioni goticheggianti di cui i due più bassi sono ornati di piccole statue. La doratura rende l’insieme più brillante e la punta sottile ha il compito di alleggerire ulteriormente: peccato che si tratti solo di una copia dell’originale di fine trecento conservata in un museo. La fontana è protetta da una cancellata sulla quale, ai due lati opposti, sono situati dei cerchi d’ottone che, fatti girare, portano rispettivamente la felicità e la gravidanza: inutile dire che il primo è assediato dai turisti che lo rendono lucido a furia di rotazioni mentre il secondo resta ignorato.

Lasciata Hauptmarkt lungo la Burgstraße, ci imbattiamo subito nella possente struttura del Municipio (Rathhaus), la cui lunga facciata rinascimentale si estende per un centinaio di metri lungo la strada, interrotta ritmicamente da tre alti portali contornati di colonne e statue. I quattro piani sono rialzati da ulteriori strutture sia al centro, sia ai due estremi mentre nei sotterranei si ha l’imbocco di uno dei percorsi che conducono a visitare una Norimberga segreta scavata sotto il piano stradale e fatta di prigioni, camere di sicurezza, ma anche di cantine e altri ambienti. La visita è però solo guidata e impegnerebbe abbastanza tempo da far saltare i piani, perciò preferiamo passare dall’altra parte della strada per dare un’occhiata alla chiesa di San Sebaldo (St. Sebalduskirche) e poi dirigerci verso il castello. Anche qui, è il gotico a dominare, anche se l’edificio ha origini romaniche. Noi ammiriamo soprattutto il fianco a nord, da cui si possono ancora distinguere le diverse architetture: la parte alla nostra destra, verso la facciata che ripropone il motivo delle due torri, ha ancora il tetto e parte della struttura delle origini, mentre quella a sinistra – verso l’abside – fa una specie di gobba perché ben più alta e a dominare sono le finestre decorate, che quasi dal pavimento giungono fino al tetto, e gli archi acuti.

LA CITTÀ ALTA

Imboccata la Obere Burgstraße, giungiamo infine ai piedi dell’imponente e variegata struttura del castello (Kaiserburg), costruito in tempi successivi seguendo vari stili e situato in posizione dominante su tutta la città. Prima di visitarlo, passeggiamo però per la Obere Schmiedgasse e la piazza vicina (Platz am Tiergärtnertor) dove alle case di mattoni si sostituiscono all’improvviso quelle a graticcio, alleggerendo non di poco il colpo d’occhio. A metà strada – nel senso che fino al primo piano è in muratura – si situa la casa di Albrecht Dürer (Albrecht-Dürer-Haus, l’incisore è omaggiato poco lontano con un monumento nell’omonima piazza), la cui parte superiore è così schiacciata e ondulata da ricordare un’architettura orientale. All’altro capo della strada, sta invece la più classica Pilatushaus: sei piani, tetto a capanna e inserti di legno marrone per un’architettura da manuale le cui linee leggere culminano nella lanterna che domina il tetto. La Tiergärtnertor, in contrasto, è una sorta di piccola galleria scavata sotto al castello: bisogna fare attenzione perché è in curva e gran parte del traffico autorizzato ad accedere alla città alta (non molto, comunque) passa di lì.

Una lunga rampa che costeggia il muro e la roccia ci porta, attraverso un ingresso relativamente piccolo, al cortile interno del castello in cui edifici secondari a graticcio si appoggiano al corpo centrale in pietra mentre un’alta torre circolare controlla il tutto dall’alto. Al termine di una mattinata tranquilla, ritroviamo qui numerosi turisti soprattutto inquadrati in gite organizzate, tra anziani tedeschi e giovani orientali. L’idea sarebbe quella di visitare anche l’interno, ma alla biglietteria ci sconsigliano (eh sì, capita anche questo): i giri guidati in partenza sono solo in tedesco – per l’inglese bisogna attendere la metà pomeriggio – e gli ambienti sono spogli perché anche qui è stato necessario ricostruire tutto.

Ci limitiamo così a gironzolare per gli spazi aperti che, sul lato sud, consentono di vagare con lo sguardo sull’intero centro abitato e, dalla parte opposta, regalano un ampio angolo alberato in cui troviamo le panchine su cui concederci una sosta. Il giardino, tra prati tagliati con cura e mazzi di fiori colorati, è fuori dalla fortezza – per giungervi è necessario passare sotto una profonda volta – ma vi si possono scorgere alcuni dei corpi più antichi del complesso. In ogni caso, è situato sull’alto dei bastioni: sotto di noi scorrono ampi e moderni viali ombreggiati dagli alberi sui quali automobili e tram danno vita a un traffico abbastanza vivace.

E’ ormai ora di pranzo e, lentamente, torniamo sui nostri passi. Per scendere, utilizziamo la scalinata di Am Ölberg, dalla cui sommità si ha un bel colpo d’occhio sulle case a graticcio, e in cinque minuti ci troviamo davanti alla Bratwursthäusle, vero e proprio tempio del würstel di Norimberga (quello sottile e della dimensione di un dito, per intenderci). Il posto è famosissimo e, di conseguenza, ci sediamo per miracolo a uno dei numerosi tavoli all’aperto posti proprio davanti al municipio: i prezzi non sono proprio popolarissimi (attenzione al gustosissimo pane insaporito con aglio e semi vari che si trova sul tavolo, si paga al pezzo) ma la mezza dozzina di würstel e i crauti, serviti come porzione, valgono ampiamente la pena. Va tenuto presente che il posto si vanta di preparare giornalmente i salsicciotti serviti (quel che resta viene venduto in serata) e che, trovando tutto occupato, ci si puà far servire direttamente al banco: un panino, due würstel, senape, tovagliolino e via con una spesa in questo caso davvero modica.

EHEMALIGES REICHSPARTEITAGSGELÄNDE

Tradotto suona, pressappoco, come ‘luogo dedicato in precedenza ai raduni del partito dell’impero’, ma in originale ben illustra la passione – tutta tedesca – per l’accumulo di termini in poche, interminabili parole. Che, poi, hai un bello spiegare che, per leggerla tutta senza rischiare l’asfissia, bisogna pronunciarla staccando i singoli vocaboli: se uno non sa il tedesco, come fa a riconoscerli, i singoli vocaboli?

Comunque, se la particolarità linguistica è stravagante, il luogo è la testimonianza di un delirio di potenza che, senza una visita, si fa persino fatica a immaginare. Seguendo i progetti di Albert Speer, il regime nazista edificò qui quelli che dovevano essere gli eterni monumenti alla sua gloria e, a dispetto dell’incompletezza, dell’incuria e del riciclo, l’effetto è ancora impressionante.

Per arrivarci, è necessario un viaggio di una ventina di minuti con il tram n. 9. Forti dell’abbondante documentazione ricevuta dall’Ufficio Turistico, lasciamo la Bratwursthäusle e iniziamo a spostarci verso est, prima attraversando Hauptmarkt e poi abbassandoci sino al Pegnitz che costeggiamo lungo un percorso ciclopedonale al momento quasi deserto. Passata la piazza dedicata a Sacharov (Andreij-Sacharow-Platz) dove spiccano la casa dello studente con caffetteria universitaria e, soprattutto, un curioso monumento raffigurante in blu un cavallo con due cavalieri circondato da quattro tozze colonne vagamente cilindriche, raggiungiamo le mura attraverso una zona molto tranquilla e verdeggiante. Passate le fortificazioni non senza difficoltà a causa dei cantieri per il restauro, giungiamo alla fermata del tram su Laufertorgraben… solo per scoprire che è soppressa. I lavori sulla piazza della stazione interrompono il percorso e perciò il capolinea è stata portato accanto alla stazione stessa. Sulla palina è però ben specificato il piano di emergenza: a pochissima distanza c’è la stazione della metropolitana U3 di Wöhrder Wiese e in due fermate siamo in stazione dove una serie di chiare indicazioni ci conducono lungo i corridoi sotterranei fino a farci emergere accanto alla partenza di numerose linee tranviarie. La nostra è la più lontana, ma anche la meno affollata.

Il viaggio verso sud è tranquillo e silenzioso, interrotto solo dallo scampanellare delle fermate e dall’apertura delle porte per far salire o, soprattutto, scendere i radi viaggiatori. Attraversiamo i larghi viali di zone via via più residenziali: i negozi del primo tratto – fra i quali spiccano pizzerie e gelatai italiani – lasciano il posto a palazzi d’appartamenti e condomini che si diradano fino alla prevalenza del verde nel tratto vicino alla destinazione. Scendiamo di fronte alla facciata di granito del Palazzo dei Congressi (Kongresshalle), massiccia costruzione alta 35 metri (e dovevano essere 70) e con un diametro di 250 (duecentocinquanta) ispirato al Colosseo. All’interno è ora presente un moderno centro di documentazione con un museo che racconta il lungo, sciagurato rapporto del NSDAP con Norimberga, causa non ultima dei pesantissimi bombardamenti subiti dalla città: ne approfittiamo per recuperare qualche pieghevole, fra i quali uno che spiega in inglese e tedesco i vari edifici (esistenti o progettati) disegnando un percorso che compie il periplo del Dutzendteich, il piccolo lago artificiale che caratterizzava la zona prima dell’avvento degli architetti nazisti. Lo specchio d’acqua, sistemato nella seconda metà dell’Ottocento come luogo di svago cittadino – tra Weingarten, picnic, pesca sportiva e tranquille gite in barca – fu ridotto nelle dimensioni durante gli anni Trenta del Novecento – nonché diviso in due dalla Grande Strada – ma per ritornare al punto di partenza impieghiamo comunque un’ora abbondante con la colonna sonora delle frequenti lamentele di Chiara. A sua parziale scusante, va detto che il pomeriggio è afoso e, anche se il sole è sempre nascosto, l’umidità è fastidiosa, alimentata anche dalle gocce che cadono, infrequenti ma fastidiose, durante il primo terzo della passeggiata.

Il Palazzo dei Congressi è a forma di U con due edifici a parallelepipedo al termine di ciascuno dei bracci. Il progetto originale prevedeva che nel cortile interno trovasse posto un’arena da cinquantamila posti coperta da un soffitto sospeso: vi si entra da un’entrata laterale, con la strada in lieve discesa che conduce a un accesso che può ricordare una porta di Maratona. Le dimensioni colpiscono ancora una volta l’immaginazione, anche se quel che si vede è solo un grande spazio vuoto – usato come parcheggio e deposito – circondato da mura incompiute in cui spicca il colore rosso dei mattoni. All’uscita, si prosegue lungo il percorso tra il Palazzo e il lago e, in pochi minuti, si raggiunge la Strada Grande, palcoscenico pensato per le parate militari con una lunghezza di due chilometri e una larghezza di quaranta metri.

Progettata per avere sullo sfondo a nord il castello e per raggiungere a sud la stazione di Campo di Marte – in cui sbarcavano i militanti, ma da cui partirono anche i treni dei deportati – presenta ancora per un bel tratto l’originale pavimentazione in cemento, ma in buona parte è stata recuperata per altri usi. Nella parte nord, si stanno allestendo le strutture di una grande Festa Popolare (Volksfest) dove si suppone scorreranno fiumi di birra, mentre nell’altra direzione l’utilizzo principale è quello di grande parcheggio per la festa medesima – o le altre manifestazioni che si svolgono nella stessa area – e per lo stadio di calcio situato più avanti sulla sinistra. Il moderno impianto in cui gioca il Norimberga – l’ultimo rifacimento risale ai Mondiali del 2006 – ha anch’esso i suoi scheletri nell’armadio: adesso si chiama Stadio della Franconia (Frankenstadion), ma al momento della fondazione fu denominato ‘Stadio della Gioventù Hitleriana’ (Stadion der Hitlerjugend) e, essendo il più piccolo, veniva usato per i raduni della parte più giovane o di quella femminile del partito.

Seguendo la Strada Grande verso sud – in fondo non c’è la stazione, ma un’arteria a grande scorrimento – abbiamo alla nostra sinistra il Dutzendteich e a destra un’estesa zona verde, ricca di grandi alberi e prati verdeggianti. Non arriviamo a vederla, ma lì sta la pietra di fondazione dello Stadio Tedesco (Deutsches Stadion) che, nei progetti, doveva essere un mostro da quattrocentomila spettatori costruito tenendo a mente il Circo Massimo di Roma.

Continuiamo il giro del lago e, tra gente che fa jogging, mamme col passeggino e anziani che passeggiano, giungiamo infine al Campo Zeppelin (Zeppelinfeld), uno dei primi lavori di Albert Speer che solo una mente malata può definire piccolo – ulteriore dimostrazione che quelle dei nazisti lo erano, visto il progetto del sullodato Stadio Tedesco. Attorno a una superficie vasta quanto dieci campi da calcio, stanno su tre lati delle basse tribune accessibili con scalinate dall’esterno e sul quarto la Tribuna Centrale, costruita sul modello dell’Altare di Pergamo (una fissazione, quella della classicità…), e in origine sovrastata da una svastica fatta saltare nel 1945. Le dimensioni sono tali che davanti alla tribuna è ora posto l’arrivo di un circuito per corse in moto che si sviluppa tutto attorno alla costruzione stessa: l’incuria ha richiesto un pesante prezzo e quando arriviamo noi sulle gradinate stanno soprattutto tifosi turchi (Fenerbahce, mi pare) in attesa di un’amichevole serale con il Norimberga, ma l’imponenza dell’edificio fa ancora colpo.

A questo punto, iniziamo il percorso di ritorno. Lasciamo alle nostre spalle il Campo e i camioncini che vendono panini e bibite per percorrere un vialetto alberato su cui sono allineate numerose panchine. Alla nostra sinistra, il Dutzendteich è dominato sullo sfondo il Palazzo dei Congressi mentre poche imbarcazioni si muovono lente sullo specchio d’acqua: una di esse, a forma di cigno, viene presa per un vero animale da Giulia alla quale la lucidità comincia a fare difetto. Non a torto, visto che, tra clima e distanza percorsa, la stanchezza si fa sentire: cade perciò a fagiolo il Biergarten posto a poca distanza dalla riva, in cui ci riposiamo un attimo prima di percorrere i pochi minuti che ancora ci separano dalla fermata del tram.

NÖRDLINGEN

Nel mezzo del cammino (ovvero della tappa di trasferimento) da Epfach a Reichardsroth, facciamo sosta a Nördlingen che, altrimenti, sarebbe stata troppo lontana da entrambi i nostri campi base. La strada è la stessa percorsa per arrivare a Donauwörth – tra i due centri ci sono meno di trenta chilometri – con due differenze, una negativa e una positiva: la macchina questa volta è carica, ma il pezzo di tangenziale di Augusta che collega la B17 e la B2 risulta molto più tranquillo perché è sabato mattina. Arrivati a destinazione, attraversiamo senza difficoltà l’ordinata periferia della cittadina – prima artigianale, poi residenziale – per giungere fino alla cinta di mura che ancora cinge completamente il centro storico all’altezza della Porta Reimling (Reimlinger Tor). Alla nostra destra, accanto al ponte che conduce al varco nei bastioni, una strada conduce in basso al parcheggio realizzato all’altezza dell’antico fossato. L’asfalto è finito non appena abbiamo cominciato a scendere, sostituito da una pavimentazione in pietra che tiene in ordine la terra battuta del fondo, mentre alcune piante scandiscono i posti-macchina. Lasciamo l’auto senza difficoltà – nel caso ci fosse pieno, comunque, c’è la possibilità di passare sotto al ponte e cercare dall’altra parte – e senza studio particolare perché il cielo è ricoperto da un’uniforme nuvolaglia grigiastra che non dà al sole molte speranze di far capolino.

La fondazione della porta davanti alla quale risaliamo risale al Trecento, facendone il più antico accesso a Nördlingen. Essa controlla e difende la strada proveniente da Augusta e dalle Alpi con un alta torre rettangolare rafforzata da un profondo rivellino alto la metà ma largo il doppio sopra il cui ingresso spicca una nera aquila dipinta su sfondo oro, molto simile all’attuale emblema della Repubblica Federale. Noi decidiamo, però, di non entrare in paese, ma di seguire da qui (l’inizio ‘ufficiale’ è in centro) il percorso della guida che ci abbiamo ricevuto dall’Ufficio del Turismo: saliamo una stretta scala sulla destra della porta e ci avviamo lungo il cammino di ronda.

Le mura di Nördlingen sono la cerchia meglio conservata di Germania e, volendo, si potrebbe seguirne tutto il tracciato su un percorso largo poco meno di un metro dove, almeno i più alti, devono stare attenti a non dare zuccate nelle travature che sostengono il tetto fatto di legno come il parapetto. Nel primo tratto, incrociamo sì e no un paio di persone e abbiamo così tutto il tempo per guardarci intorno: sulla destra, le feritoie ci offrono squarci dei quartieri più moderni immersi nel verde, mentre alla sinistra scorre un quartiere di vecchie case, comunque ben tenute, molte delle quali a graticcio. La più rilevante, e più vecchia di queste, è la Casa della Zecca (Münzhaus), un edificio a capanna di quattro piani, intonacato in un giallo su cui spicca il marrone del legno, risalente al Cinquecento.

Molti edifici del quartiere sono circondati da giardini con alberi ad alto fusto che ombreggiano le facciate oppure trasformati in piccoli parchi giochi grazie ad altalene e tappeti elastici: il colore predominante è però il rosso dei tetti che si stende fino alla mole scura della chiesa di San Giorgio (St.-Georgs-Kirche) e del suo campanile soprannominato Daniel. Altre abitazioni, più modeste, si appoggiano invece per un tratto al lato interno delle mura e le loro tegole formano dei ripidi scivoli che partono appena sotto la passerella.

Le torri della cinta sono nel complesso tredici e le prime tre che incrociamo hanno tutte pianta circolare. Dopo pochi passi, una fortificazione si protende nel fossato terminando nella Reißturm dotata di un rosso tetto che ricorda nella forma i campanelli alle reception degli alberghi. Poco dopo, passiamo sopra la Porta Deininger (Deininger Tor) che, su di una base quadrangolare, innalza un torrione intonacato di bianco – risistemato l’ultima volta nel Seicento – che potrebbe far pensare a un grande faro. Stessa struttura, ma dimensioni maggiori per la successiva Porta Löpsinger (Löpsinger Tor), posta sulla strada diretta a Norimberga. In entrambe le torri, gli ampi spazi interni sono riutilizzati, ma mentre nella prima ci sono solo porte sbarrate di diverse associazioni, nei vari piani della seconda è ospitato il Museo Civico delle Mura (Stadtmauermuseum) che, secondo tradizione, ci guardiamo bene dal visitare.

Dalla Löpsinger Tor scendiamo attraverso una scala a chiocciola scavata nel muro – incrocianmo una famiglia italiana che sale – e ci avviamo lungo la strada omonima (Löpsinger Straße), una larga arteria blandamente trafficata sulla quale si allinea ordinata una serie di alte case con tetto a capanna. Benchè appena meno curate degli edifici in centro – un’intonacatura non freschissima qui, un infusso un po’ sbrecciato là – queste costruzioni presentano le caratteristiche che contraddistinguono, senza quasi eccezioni, l’intera parte storica di Nördlingen: spioventi in notevole pendenza ma ammorbiditi da linee curve lungo i bordi, piani superiori che si stringono rapidamente, muri profondi, finestre piccole e predominante struttura a graticcio con alcune facciate che sembrano perennemente in bilico tanto si piegano all’indietro o incombono in avanti sulla strada.

Quando giriamo a sinistra in Judengasse, le finiture degli edifici – alcuni di notevoli dimensioni – diventano ancora più curate, con il legno dipinto in rosso che spicca contro l’intonaco bianco. Quando la strada finisce, sbuchiamo dritti nel mercato, dove la gente che cammina fra le bancarelle rende difficoltoso procedere. Facciamo prima una svolta a sinistra per raggiungere la rossa mole dell’Alte Schranne (Vecchio Magazzino), sede per secoli del mercato delle granaglie – la prima costruzione risale al Quattrocento – e ora utilizzato come mercato coperto. All’interno, ci sono anche delle macellerie-rosticcerie che offrono degli spuntini caldi assai invitanti: sarebbero la soluzione ideale per il pranzo non ci fosse la chiusura fissata per l’una perché è sabato.

Ritorniamo sui nostri passi e , muovendoci fra la folla, percorriamo la strada che va lentamente allargandosi fino a sboccare in Piazza del Mercato (Marktplatz) all’altezza della Kriegersbrunnen – la Fontana del Guerriero, costruita in onore dei caduti in qualche conflitto ottocentesco sul sito di una fonte precedente. I banchi offrono pressappoco le stesse mercanzie che si possono trovare dalle nostre parti, ma si nota una maggior presenza di generi alimentari: frutta e verdura, pollame, insaccati, formaggi oltre alle immancabili rivendite di würstel. Una di queste ultime, occupa un piccolo baracchino di legno all’apparenza fisso: chi vi si serve, riceve due lunghi salsicciotti fra due fette di pane e può condirli a piacere con senape e ketchup da spremere da due grandi contenitori presenti sul banco. Noi giriamo, curiosiamo, soppesiamo e poi –dopo la visita a San Giorgio e a Daniel – finiamo per far la spesa in negozio da una fruttivendola che ha ormai venduto gran parte della merce e in un’affollata macelleria. L’unico acquisto sul mercato – un po’ incongruo, va ammesso – è un sacchetto di pasta, dalla vaga forma di ruota, che non darà grandi risultati alla prova della cottura.

All’improvviso, le gocce, fino a ora son cadute sparse, si trasformano in una pioggerella insistente che, anche se ci siamo portati gli ombrelli, consiglia di cogliere l’attimo per visitare la chiesa che punta l’abside nella direzione di Rübenmarkt da cui noi stiamo arrivando. San Giorgio è una grande chiesa costruita in stile tardogotico nella prima metà del Quattrocento che, forse troppo grande rispetto alla piazza e alle costruzioni attorno, gode all’interno di una notevole armonia di proporzioni. Il canone dello stile è rispettato: tre alte navate a vela sostenute da colonne tondeggianti, luce copiosa dalle grandi vetrate in prevalenza bianche, intonaco chiaro e modanature su cui risaltano i radi elementi decorativi. Una vasta tribuna sostenuta da tre grandi archi riempie la parte finale delle navate: quella centrale è occupata dall’organo più grande, essendo il secondo appoggiato alla parete di destra sopra una piccola balconata dipinta.

La nostra visita termina mentre sta per iniziare un concerto d’organo: usciamo dal portale laterale per cui siamo entrati e, svoltati a sinistra, iniziamo a salire i novanta metri di Daniel, il campanile che – a base quadrata nella metà di sotto e ottagonale verso la cima – domina la facciata della chiesa. L’arrampicata è simile a quella della torre di San Pietro a Monaco (comprese le lamentele di Chiara): prima una stretta scala a chiocciola, poi le rampe di legno addossate ai muri con pendenze, dimensioni dei gradini e rischio di capocciate assai variabili. La differenza sta nella biglietteria che è posta quasi in cima, dopo la cella campanaria e quando manca solo una minima parte dei trecentocinquanta gradini complessivi: se qualcuno esaurisce le forze o semplicemente si stufa di far fatica, può tornarsene indietro senza la seccatura di aver già sborsato i soldi.

I cinque euro e il fiatone vengono ripagati da quel che si vede appena sbucati sullo stretto camminamento che fa il giro attorno alla torre all’altezza delle ultime finestre, appena sotto il tetto di rame che sostiene la lanterna. C’è una nuova prospettiva della piazza e delle vie sottostanti, dove le formichine del mercato stanno cominciando a sbaraccare, poi lo sguardo si allarga fino alle mura che si chiudono in un cerchio quasi perfetto: ancora una volta è il rosso dei tetti a dominare. Le porte e le torri spiccano una per una sullo sfondo di una periferia che si perde velocemente nel verde della campagna e dei boschi circostanti fino al bordo del cratere del Ries che chiude l’orizzonte: Nördlingen è quasi al centro di un grande avvallamento – il diametro è circa di 24 chilometri – originato dall’impatto di un meteorite circa quindici milioni di anni fa (si fa fatica solo ad immaginarne le conseguenze di una simile botta, di certo c’è che in quei tempi, a metà del Miocene, si estinsero un bel numero di specie animali).

Una volta ridiscesi in piazza, si ha forse la migliore prospettiva della stessa. Sulla sinistra, dopo una grande casa a graticcio dominata dal colore ocra, si erge la mole bianca con bordi rossi della Brot- und Tanzhaus, edificio pubblico la cui fondazione risale al Quattrocento e che nel corso dei secoli ha visto mutare più volte la propria destinazione d’uso. Tali cambiamenti sono rimasti più che altro in ambito commerciale e di due di essi è rimasta traccia nel nome: nel grande salone si tenevano balli di rappresentanza (Tanz) e nelle botteghe a piano terra si vendette a lungo il pane (Brot). Dalla parte opposta, dopo due belle case in muratura, c’è invece il trecentesco Municipio (Rathaus) che fu la prima costruzione in muratura della cittadina. La lunga facciata si affaccia sulla piazza con al centro una mezza torre poggiante sull’alto tetto immancabilmente rosso. Il lato corto voltato verso di noi mostra invece il tetto a capanna che sovrasta i quattro piani della base e culmina con una lanterna. Fra le due costruzioni, Marktplatz, lastricata in pietra e delimitata da fioriere, è completamente pedonale e ospita i tavoli del locale situato nel palazzo che la chiude dalla parte opposta rispetto alla chiesa.

Per pranzo, ci infiliamo di nuovo nel mercato che sta iniziando a sbaraccare, ma, dopo aver soppesato le varie possibilità, proseguiamo fino a Am Rübenmarkt dove c’è l’Ihle-Cafè. La Ihle è un marchio di panetterie diffuso in tutta la Germania e i Cafè sono locali in cui, oltre a comprare il pane, è possibile mangiare sandwich di varie dimensioni o piatti caldi – costituiti perlopiù dai consueti würstel e Leberkäse. L’interno è molto grande e luminoso, accanto alla vetrina c’è la rivendita vera e propria (dove alla fine facciamo spesa perché il pane è buono) poi il banco della tavola calda e infine i tavoli su cui accomodarsi. Noi però ne scoviamo uno all’esterno e, visto che il cielo va schiarendo, ci piazziamo Giulia e Chiara a tenere il posto: il servizio è difatti self-service e ci costringe a qualche viaggio avanti e indietro: tutto quel che mangiamo è soddisfacente, compresi i miei würstel bianchi che mi spingono al bis (un po’ per la fame, un po’ perché – fai assaggiare a questa, fai assaggiare a quella – la prima porzione si è ridotta in modo drastico).

Occupiamo il pomeriggio con una lunga passeggiata per le stradine di Nördlingen, un po’ appesantiti da un clima che si è fatto all’improvviso afoso anche se il sole si è di nuovo nascosto dietro le nubi. Tornati in Marktplatz, giungiamo in Hafenmarkt che dopo poco incrocia una strada dalla sinistra chiamata Bei Klösterle. Sull’angolo sta, per l’appunto, il Klösterle che, dopo essere stato parte di un convento e un magazzino, ora è un albergo che cattura l’attenzione del viandante per l’alta e stretta facciata con le finestre solo al centro: ne ravvivano l’aspetto le decorazioni in giallo brillante sui contorni.

La zona più interessante è però quella artigianale, dove erano sistemate soprattutto le concerie. La si raggiunge in dieci minuti sempre dirigendosi verso nord: qui scorre un torrente artificiale scavalcato da alcuni ponti mentre le case, più lontane fra di loro, lasciano spazio a piccoli giardini e alcune piante. Il corso d’acqua entra in città passando sotto alla Torre Inferiore dell’Acqua (Untere Wasserturm) ricoperta di edera per poi scorrere di fianco alla grande ruota del Nuovo Mulino (Neumühle). Ne seguiamo pressappoco il percorso fino a quando siamo di fronte alla grande cascina dove è ospitato il Museo del Cratere del Ries, dove si raccontano la genesi della depressione e le numerose scoperte geologiche derivate dallo studio del territorio (nella zona, ci sono numerosi percorsi, soprattutto ciclistici, che conducono a visitare i luoghi più significativi).

Giunti a questo punto, realizziamo che, per arrivare a Reichardsroth in un orario decente, è meglio accelerare. Evitiamo perciò di attraversare di nuovo il centro: lo aggiriamo percorrendo Herrengasse per poi allargare ancora a destra fino a passare davanti alle pulite forme gotiche di San Salvatore (St.-Salvator-Kirche), la parrocchia cattolica della città. Nel mentre, passiamo davanti a un’infinita serie di case a graticcio fra le quali, di quando in quando, si intrufolano strette stradine in pietra che sbucano in cortili interni. L’unica fermata extra è in un caffè-libreria circa a metà strada, dove, oltre che ai libri, è possibile dare un’occhiata alla riproduzione di vecchie stampe che riproducono il profilo dell’antica Nördlingen (non così diversa da quella attuale…).

Infine, all’altezza del Vecchio Bastione – Alte Bastei, un grande torrione che ora ospita un centro culturale – usciamo dalle mura e, dopo una sosta su una panchina, chiudiamo il cerchio raggiungendo in pochi minuti l’auto.

OBERAMMERGAU

Lungo le Alpi, anche sul versante italiano, non è raro incontrare paesi le cui abitazioni siano dipinte all’esterno con motivi decorativi o con veri e propri affreschi, spesso a tema religioso e solo più raramente raffiguranti scene di vita quotidiana, di caccia o di festa popolare. A Oberammergau, tale arte è stata eletta a sistema e, specie nel nucleo più vecchio del borgo, le facciate sono tutte decorate con i colori e i disegni più vari.

Il paese è una località di villeggiatura posta a oltre ottocento metri sul livello del mare fra le verdi montagne dell’Ammer: in questa zona, è difficile scorgere la roccia e, quando capita, si tratta di spuntoni scuri posti a guisa di cresta sui rilievi più elevati. Il nostro ingresso proviene da sud, abbandonando la B23 sulla destra, e, visto che abbiamo appena lasciato Ettal, è inevitabile trovarsi a percorrere la dritta Ettaler Straße che altro non è se non il vecchio tracciato della statale, ora sostituito da una circonvallazione (Oberammergau è uno dei pochissimi centri della zona a poterne sfoggiare una). A circa metà strada, scorgiamo sulla sinistra l’indicazione di un parcheggio che raggiungiamo attraversando un quartiere fatto di piccole villette con giardino – e magari piccola piscina – circondato da una siepe o da una staccionata. Lasciamo l’auto ai margini di un’area verde in lieve discesa fino alla sponda del fiume. Lo spazio è presidiato solo da un paio di altre vetture e scopriamo presto il perché: per arrivare alla zona più centrale dobbiamo camminare ancora per dieci o quindici minuti.

Non tutto il male vien per nuocere. Tornati su Ettaler Straße per un passaggio pedonale, ci troviamo davanti la ‘Casa di Hänsel e Gretel’ (Hänsl und Gretl Haus), una lunga costruzione, costituita da due grandi corpi laterali uniti da un più piccolo al centro, sulla quale sono dipinte le immagini ispirate alla truculenta fiaba omonima: la narrazione si sviluppa in tante piccole scene poste principalmente aldisopra delle numerose finestre dalle ante verdi. Poco più avanti sulla sinistra, invece, la più piccola ‘Casa di Cappuccetto rosso’ (Rotkäppchen Haus), circondata da un piccolo giardino, dimostra una scelta stilistica diversa: i momenti salienti della fiaba sono illustrati in immagini di notevoli dimensioni che si allargano sulle pareti quasi inglobandone gli elementi costitutivi come il bel balcone in legno della facciata.

Le altre case della strada, pur con decorazioni colorate, non recano invece tracce di Lüftlmalerei (che potrebbe suonare come ‘pittura ad aria o ‘pittura dell’aria’, ma si chiama così solo perché il primo edificio affrescato apparteneva a un tizio soprannominato Lüftl). Questa si ritrova invece nel piccolo slargo dominato dalla chiesa dei Santi Pietro e Paolo (Sankt Peter und Paul Kirche) che, per una volta, evitiamo di visitare – è barocca anch’essa, comunque. Inizia qui il centro cittadino e quasi tutte le facciate sono dipinte, si tratti di alberghi, esercizi commerciali o abitazioni: i colori sono sempre brillanti, come se fossero stati appena ripassati, e risaltano nellla luce del sole. Il blando traffico consente di passeggiare soppesando i vari soggetti e meglio ancora va nella zona pedonale dove si affollano hotel, bar e negozi che finiscono per imporre una sosta.

Per ingannare l’attesa, attraverso la strada e mi immergo, per quanto è possibile, nell’altra grande attrazione di Oberammergau, la rappresentazione della Passione di Gesù in cui viene coinvolto tutto il paese. Tradizione che risale a un ex-voto legato alla peste manzoniana, non si può dire che sia uno spettacolo inflazionato, visto che si svolge ogni dieci anni e la prossima volta sarà nel 2020. In una serie di vetrine, si possono osservare le immagini degli interpreti dei ruoli principali a partire pressappoco dall’invenzione della fotografia: è curioso notare come gli attori siano per molte edizioni gli stessi, al limite cambiando ruolo quando la loro età non si adatta più al personaggio di cui erano soliti rivestire i panni.

Tra i molti edifici affrescati, spicca per bellezza ed equilibrio la Casa di Pilato (Pilatushaus) che prende il nome dal dipinto trompe-l’oeil, raffigurante Gesù dal Procuratore romano, sovrastante l’ingresso che dà sul piccolo giardino e consiste nella raffigurazione di un portico con colonne e di due scale, che con curve simmetriche, salgono fino ai personaggi rappresentati al primo piano. Nella Pilatushaus ha sede l’associazione degli artigiani locali e, al piano terra, alcuni di loro danno dimostrazione di come era il lavoro nei secoli passati: Diva è l’unica che entra a curiosare, riuscendo anche a scattare qualche foto agli stupiti presenti.

ORARI E RISVEGLI

Si comincia presto e si finisce presto: la regola imparata in Austria si applica anche in Germania – il che è tutto meno che una sorpresa – e bisogna dire che ormai ci siamo abituati. Rimaniamo anzi sorpresi in modo piacevole dallo scoprire negozi e supermercati aperti addirittura fino alle sette e mezza o alle otto. Si conferma anche il fatto che quando è festa è festa, con una specie di serrata generale: nei piccoli paesi qualsiasi esercizio pubblico che non sia un bar o un ristorante è coinvolto. L’unica, evidente eccezione è Rothenburg, ma la versa sorpresa è la piccola Altenstadt, dove scoviamo aperta la domenica mattina una pasticceria che vende anche il pane fresco.

La questione degli orari ha anche un’altra ricaduta: i campanili cominciano a martellare alle cinque del mattino e se – come capita a Reichardsroth – è necessario lasciare aperte le finestre perché il caldo si fa sentire, il risveglio avviene ben prima che il gallo canti. Anche perché le suddette finestre non sono oscurate da ante o almeno persiane – è già una festa quando scopriamo che a Epfach c’è almeno qualche tapparella: una semplice tenda, per quanto spessa, non può certo fermare la luce di un sole che sorge sempre prestissimo.

ORGANI

Cattoliche o protestanti. Romaniche, gotiche, barocche o rococò. In grandi città o in piccoli paesi, accanto a un monastero o con la dignità di duomo. Non importano le differenze, nelle chiese che visitiamo uno dei protagonisti è quasi sempre l’organo. E non importa neppure se l’edificio sia stato bombardato o il manufatto originario in qualche modo danneggiato, al massimo al posto delle antiche decorazioni c’è una struttura in lisci pannelli di legno.

Alto sopra il portone d’ingresso, lo strumento domina la navata: le eccezioni più rilevanti sono Augusta – dove in duomo ce ne sono addirittura due, che si fronteggiano sui lati della chiesa – e Ottobeuren, che ne ha sparsi un po’ qui e un po’ là. Imponenti sono le innumerevoli canne lucide color dell’acciaio, di diametro e lunghezza differente: disegnano un profilo che, socchiudendo gli occhi, può ricordare un castello fantastico. Le dimensioni incombono sul visitatore che, senza fatica, può immaginare il suono possente che ne può scaturire, qualora un omino si arrampicasse lassù e mettesse mano alla tastiera che, da lontano, pare minuscola.

Spesso non è neppure necessario immaginare, almeno in estate. Come ad Altenstadt, in moltissime chiese sono programmati concerti con cadenza settimanale, a volte anche più spesso. Si svolgono nella tarda mattinata o all’ora del vespro, raccogliendo sempre un pubblico discreto, composto principalmente di persone di una certa età, che scivola silenzioso e sovente elegante all’interno del tempio, così diverso dai turisti armati di macchina fotografica che gironzolano senza sosta.

OTTOBEUREN

Quando, nel viaggio di ritorno, decidiamo di dar retta alla guida e, sulla strada per Lindau, ci dirigiamo verso Ottobeuren, sappiamo che, per arrivare al Lago di Costanza, sarà necessaria qualche contorsione. Giunti a Memmingen, ignoriamo lo svincolo verso la A96, che conduce a Lindau e poi in Austria, proseguendo verso sud sulla A7 abbandonata dopo una decina di chilometri. A quel punto, non possiamo più tornare indietro, perché un incidente blocca per chilometri la direzione nord e da questa necessità scaturisce il giro turistico descritto più oltre ne ‘Le strade’.

Dopo l’uscita, impieghiamo cinque minuti a liberarci dalle propaggini della periferia artigianale di Memmingen, poi proseguiamo su una strada, la St2013, che sale lentamente in un panorama sempre più verdeggiante. La nostra meta è una località di villeggiatura rinomata – in Germania – per il clima particolarmente salubre che si respira fra le basse colline dell’Algovia, ma il motivo principale per visitarla sono il monastero benedettino, con i suoi tredici secoli di storia, e soprattutto l’imponente chiesa abbaziale. Quest’ultima fu costruita nel Seicento, quando si rimise mano all’intera struttura, cancellando qualsiasi testimonianza del periodo precedente: lo dimostrano le linee essenziali e squadrate dell’impianto monastico, sia all’interno, sia nei chiostri che, eliminati i portici, sono diventati semplici giardini fra i corpi dell’edificio.

Dopo poche case e un distributore di cui approfittiamo per il rifornimento, è proprio la grande mole della chiesa a venirci incontro per prima facendosi largo con i suoi muri candidi attraverso il verde degli alberi. Non abbiamo problemi a trovare posto nel parcheggio accanto. Saliamo quindi il prato in lieve pendenza in direzione del sagrato e scopriamo che l’abbazia sovrasta letteralmente il paese, la cui piazza principale – grande e ordinata, circondata di alberi e antiche case – si stende sotto di noi ed è raggiungibile scendendo una larga scalinata. Non abbiamo però abbastanza tempo per un giro turistico e ci dirigiamo in chiesa in cui, entriamo da un ingresso laterale.

Se la caratteristica più spiccata del tempio è la facciata convessa, affiancata da due agili campanili, l’interno colpisce per il barocco sovraccarico, nel solito tripudio di colonne colorate, (finti) marmi, stucchi colorati e volte dipinte. Siccome le dimensioni non scherzano – la lunghezza sfiora i novanta metri – il visitatore viene travolto da cotanta decorazione anche se, al momento della visita, sono in corso dei lavori di restauro. Tra le altre cose, colpiscono gli organi lavorati con finezza, in special modo i due che affiancano uno degli altari a sua volta sovrastato da un crocifisso sfolgorante e attorniato di angeli color dell’oro che danzano come fossero dei putti. Alle spalle, non mancano le consuete colonne in apparenza desiderose di mostrare tutte le sfumature tra il rosso e il rosa:esse hanno ancora maggiore importanza su un altar maggiore che riesce a essere –se possibile – meno sobrio. C’è anche un tocco di macabro: ai quattro angoli del vasto spazio creato dall’incrocio dei due bracci, ci sono teche di cristallo contenenti corpi ormai ridotti a scheletri o poco più: non riusciamo a capirne l’origine e, a dir la verità, neppure se siano veri oppure rappresentazioni messe lì per ricordare ai fedeli l’inevitabile destino della carne.

Prima di ripartire, passeggiamo un po’ per i grandi corridoi a piano terra dell’abbazia. In un angolo c’è un bar-tavola calda che offre splendide torte, ma solo quelle, mentre gli ampi finestroni si aprono sui cortili interni circondati dalle grandi strutture di un monastero che, nelle sue linee pulite, finisce per ricordare un po’ una caserma. Una bella scala, che sale girando su se stessa sotto un soffitto affrescato con vivaci colori, conduce alla biblioteca: è tardi e non ha senso pagare il biglietto, ma possiamo lo stesso ammirare la grande sala accanto all’ingresso – ora utilizzata per concerti di musica da camera – e. oltre la porta, gli ambienti che contengono i libri: sono tutti in stile, con affreschi, grandi finestre e le immancabili colonne colorate che creano un’atmosfera molto leggera, quasi non facendo notare gli scaffali distribuiti su due piani.

REICHARDSROTH

Fai questo e ricordati di quello, nei preparativi per la partenza c’è una falla che scopriamo solo dopo una settimana. Mi dimentico, infatti, di stampare il percorso che porta da Epfach a Reichardsroth: trovare una località in cui vivono appena un’ottantina di persone e di cui si sa solo che è a una decina di chilometri a nord di Rothenburg si rivela per niente facile. La cartina non la riporta e neppure il navigatore – seppur tedesco su una macchina tedesca – ne fa menzione: prima di lasciare Nördlingen, ci affidiamo comunque alla macchinetta indicandole il capoluogo Ohrenbach, ma l’operazione ci facilita solo relativamente.

La voce elettronica ci trascina, con qualche contorsione, fino all’autostrada A7 e lì, passata Rothenburg, propone di continuare oltre l’uscita 107. Eppure sul cartello prima dello svincolo è elencata anche Ohrenbach: decidiamo di fare di testa nostra e mal ce ne incoglie. Svoltiamo in direzione di Rothenburg sul quella B470 che impareremo a conoscere bene solo nei giorni successivi e subito a destra un cartello indica una strada di campagna che ci conduce a Ohrenbach. Un piccolo paese, qualche fattoria, una chiesa e quasi nessuno in giro. Ci arrendiamo e alla persona meno anziana che riusciamo a trovare chiediamo come tornare sulla retta via: la signora è gentile e si sforza di parlare lentamente, noi seguiamo le istruzioni e – anche se giriamo a destra troppo presto e ci ritroviamo a passare pure per un altro minuscolo insieme di case chiamato Gailshofen – riusciamo in qualche modo arrivare sulla ST2419 che collega Rothenburg a Uffenheim. L’aver abbandonato le stradine ci consola e – dopo un paio di chilometri, al culmine di uno dei tanti saliscendi tipici della zona – ecco spuntare l’imponente torre della fu Chiesa di S. Giovanni (Johanniskirche) che caratterizza Reichardsroth.

Il piccolo centro sembra niente adesso, ma è stato qualcosa nella prima metà del passato millennio. Tutto nasce da un eremita di nome Riccardo (Reichard) che, poco prima dell’anno mille visse nel bosco che qui ricopriva l’intera zona. La località era detta Rode, e quando egli morì in odor di santità, iniziarono i pellegrinaggi alla tomba di Reichard a Rode, da cui il toponimo difficile da pronunciare. Sorsero alla bisogna un ospizio e una chiesa via via più imponente, gestiti ben presto dai Cavalieri di San Giovanni, ordine combattente sul modello dei Templari. Ai proventi dell’ospitalità si aggiunsero ben presto quelli di una notevole porzione di territorio, commenda affidata a una decina di famiglie di contadini. La memoria di Riccardo andò però perdendosi e, complice la Riforma, il luogo prese a decadere fino a che, nel Settecento, la chiesa crollò definitivamente: il borgo era nel frattempo già passato sotto il controllo di Rothenburg e, nel secolo successivo, le famiglie divennero padrone collettivamente del beneficio ecclesiastico.

Di tutto questo oggi resta assai poco. L’antica abside della chiesa è stata trasformata in cappella su cui svetta la torre sopra citata – forse ottenuta accoppiando le torri gemelle originarie; del muro che tutto circondava si conserva l’imponente arco d’ingresso; l’ospizio è una grande casa di pietra di cui nessuno, a prima vista, saprebbe riconoscere l’antica funzione. Le fattorie, invece, ci sono ancora, con le strutture in mattoni alternate alle più pittoresche intelaiature a graticcio, sovente tinteggiate con vivaci colori. Non c’è alcuna separazione fra l’una e l’altra, così che si può tranquillamente passeggiare andando dal cortile di questa all’aia di quella, tra animali da cortile e forti odori di campagna. Nel terreno sono fissate placche che indicano le date importanti per il villaggio: alcune riportano anche informazioni storiche, ma, ovviamente sono solo in tedesco. Scopriamo così che una delle case vicino alla nostra era l’antica dogana del territorio di Rothenburg – la strada, che ora passa all’esterno, transitava fra le case – però capirci qualcosa di più risulta difficile.

In tutto, a Reichardsorth, vivono adesso un’ottantina di persone dedite all’agricoltura, come quella famiglia che, nella fattoria a graticcio gialla davanti a quella dove siamo ospitati noi, vende uova e miele freschi: il marito, barbuto come un mormone e scapigliato come chi non ha tempo di guardarsi mai allo specchio, transita rombando sull’unica via nelle ore più impensate – il mattino presto, la sera ben oltre il crepuscolo – alla guida di un trattore a cui spesso è attaccato un cigolante rimorchio.

Attorno al piccolo centro, sopravvive uno spezzone del vecchio bosco con un laghetto celato al suo interno: oltre a quello ‘storico’, c’è anche un percorso naturalistico che lo attraversa, ma l’idea di seguirlo, magari con le biciclette offerte dal nostro alloggio, non verrà mai concretizzata: arriviamo a sera già abbastanza stanchi.

FERIENHOF ZINK

Noi non ci siamo limitati a vedere case a graticcio fino a farcele uscire dagli occhi: abbiamo anche vissuto in una di esse per una settimana. Tale è, infatti, la struttura in cui si trova l’appartamento che affittiamo presso la famiglia Zink, costruito nel 1872 e restaurato in modo da offrire le comodità della casa vacanza in un’atmosfera fuori dal tempo (e, quando prenotiamo, non ci chiedono neppure la caparra…). Se si eccettua il problema delle porte basse – in tutte devo ricordarmi di chinare la testa – si tratta di un’esperienza da consigliare a occhi chiusi.

E’ ovvio che il protagonista sia il legno. A partire dalle travi a vista della facciata che dà sull’aia, dipinte di rosso in contrasto con il bianco dell’intonaco e l’azzurro di porte e ante del piano terra: gli stessi colori si ritrovano a decorare le finestre ad abbaino che si aprono nel tetto spiovente che fa da soffitto al primo piano. L’interno non è da meno: in legno sono il mobilio, i pavimenti, la scala che conduce al piano superiore e quasi tutto ciò che si trova in quest’ultimo. L’eccezione più evidente, oltre al bagno, è l’ampia sala da pranzo, alla quale l’intonaco bianco regala quella luminosità che non sempre riescono a dare le finestre, ben sei ma non grandissime e aperte in muri profondi.

Le quattro rivolte verso la strada sono ricavate nell’unica facciata tutta in mattoni, come pure le due della camera delle bambine posta proprio sopra. Imbiancata anch’essa, è arredata con due letti e un armadio in legno, mentre il soffitto basso – sui due metri – crea una bell’atmosfera di calore e intimità. La dimensione ridotta è dovuta al fatto che nel sottotetto sono ricavati altri due posti letto, raggiungibili solo con una scala a pioli da sistemare in caso di necessità: dormirci avrebbe un tocco di insolito che attira, ma il pensiero viene presto abbandonato a causa dell’evidente scomodità (e se, per caso, mi venisse voglia di andare in bagno?). La nostra stanza, separata da un piccolo ballatoio, è invece completamente in legno, un vasto spazio in cui il letto è sovrastato dagli spioventi del tetto a capanna. La luce, proveniente dal solo abbaino, non è molta, ma la relativa oscurità contribuisce all’atmosfera da tempo che fu: l’unico problema sono due travi portanti che, ad altezza d’uomo, attraversano la stanza per il lungo richiedendo un supplemento d’attenzione.

Oltre ai numerosi fiori alle finestre, completano il tutto tanti piccoli oggetti in stile. Gli interruttori, ad esempio, sono di foggia antica, anche se accendono lampade ad alto risparmio energetico: neri e rialzati, con una manopolina da girare in senso orario o antiorario per chiudere o aprire i circuiti. Anche nella piccola cucina, malgrado la modernità Ikea dei mobili e gli elettrodomestici, ci aspetta una sorpresa: la momentanea delusione per l’apparente introvabilità dei bicchieri per la birra viene subito sostituita dalla piacevole sorpresa di scoprire più consoni boccali in coccio.

Come anticipato, il nostro appartamento dà sull’aia. Di fronte sta la casa dei signori Zink ingentilita da un piccolo giardino ricco di piante mentre sulla sinistra troneggia un grande granaio, utilizzato più che altro come deposito di mezzi, fra i quali i memorabilia militari (contiamo almeno tre jeep) del padrone di casa. Un piccolo laboratorio per lavorare la terracotta ricavato nella lavanderia (uno degli oggetti lì prodotti ci viene regalato prima della partenza) e un’attrezzata officina completano il tutto, frequentato da un buon numero di animali per la felicità di Chiara: l’affettuoso golden retriver Timo – amante dei viaggi in macchina – i due gatti di casa e qualcuno ospite, i conigli e un porcellino d’India. Due capre sono invece alloggiate in un recinto accanto alla zona verde oltre il granaio, dove sono stesi i fili per i panni e ci si può rilassare al fresco di una brezza di cui non sentiremo mai il bisogno.

Siamo solo la terza famiglia italiana ospite nella storia della casa, meta solitamente di turisti nordici – Scandinavia, Olanda e qualche britannico. Lo apprendiamo dalla signora Zink che, complice il mio tedesco in miglioramento col passare dei giorni, si intrattiene volentieri a raccontare di un’estate che non c’è stata con l’esclusione della nostra, fortunata settimana come pure della difficoltà dell’intendersi con chi proviene dai paesi latini: sia lei, sia il marito parlano quasi solo tedesco ed è uno dei figli a tenere i rapporti con i villeggianti in difficoltà con l’idioma locale.

ROTHENBURG OB DER TAUBER

Dopo la giornata di trasferimento da Epfach a Reichardsroth – che, includendo la visita a Nördlingen, non è stata proprio riposante –Rothenburg, lontana solo quattordici chilometri, è la scelta più ovvia. Oltretutto, la giornata pare mantenere le promesse del pomeriggio precedente, presentando un cielo quasi sgombro di nubi: la scelta è presto fatta, anche se è domenica e c’è il rischio di imbattersi in un movimento turistico ancora maggiore rispetto a quello standard comunque consistente visto che la cittadina è forse la meta più famosa dell’intera Strada Romantica.

Al nostro arrivo, la situazione è ancora tranquilla: ci siamo mossi presto e il percorso vallonato della ST2419 ha richiesto una manciata di minuti, così che non sono ancora le dieci quando lasciamo l’auto sotto le piante del parcheggio accanto alla Porta Galgen, cioè ‘della forca’ (Galgentor).

DA GALGENTOR A MARKTPLATZ

Preceduta da una massiccia costruzione di rinforzo con due torrette agli spigoli, la porta è sovrastata da una torre a base quadrata dall’aspetto agile, color mattone all’esterno e intonacata in bianco verso la città. E’ l’accesso per chi proviene da Würzburg e introduce in una larga strada dallo stesso nome (Galgenstraße) non ancora in zona pedonale, ma, data la giornata festiva, senza traffico. Sui lati, ci sono grandi case con il tetto a capanna al cui piano terra iniziano già a comparire i primi negozi di souvenir e alcuni bar: l’impronta turistica viene subito confermata da una carrozza trainata da un tiro a due che si avvicina trasportando un gruppo di asiatici.

All’altra estremità di Galgenstraße c’è la Torre Bianca (Weißer Turm), originariamente inserita nella cinta muraria medioevale e oggi ingresso alla parte più antica di Rothenburg. Anch’essa a base quadrata e terminante con una lanterna, ha alla sua sinistra la grande Judentanzhaus, un bell’edificio a graticcio in color salmone che fu per secoli uno dei centri nevralgici della vasta comunità ebraica che una volta qui risiedeva. Siccome le bombe non mancarono neppure da queste parti, la casa fu completamente distrutta durante la guerra e ricostruita in modo filologico anche grazie alle copiose donazioni internazionali.

Transitati per l’arco sottostante la torre o lungo il più piccolo passaggio pedonale appena più a destra, si fa un piccolo salto all’indietro nei secoli immergendosi tra i vicoli dall’aspetto che si puà far risalire all’Età di Mezzo per cui Rothenburg va giustamente famosa. Mentre in Galgenstraße a prevalere sono le strutture in muratura, qui inizia il dominio del graticcio con i piani superiori che, a volte, si sporgono, rispetto al pianterreno, sulla carreggiata assai stretta. Markt è la strada appena più ampia che imbocchiamo sulla sinistra per raggiungere la Piazza del Mercato (Marktplatz): qui troviamo la confusione fino ad ora evitata e c’è assai poco da stupirsi perché le avvisaglie, una volta passata la Weißer Turm, erano state chiare.

Lungo Markt, alla nostra destra, è posto il grande palazzo cinquecentesco chiamato Ratstrinkstube, nome traducibile, in modo un po’ pedestre, come ‘locale per le bevute del Consiglio’: nei secoli andati, vi si recavano i consiglieri comunali a rifocillarsi dopo le fatiche dei lavori municipali e a nessun altro era consentito l’accesso. Al giorno d’oggi ospita l’Ufficio Turistico, dove recuperiamo un pieghevole con guida in italiano, ma il maggior motivo d’interesse è il complesso orologio, situato nella parte alta della facciata color salmone che guarda Marktplatz, con un quadrante che indica l’ora e uno che indica la data oltre, ad ogni buon conto, a una meridiana dove gli spioventi si stanno ormai stringendo sotto la lanterna.

Sulla piazza rettangolare spicca soprattutto, occupandone l’intero lato lungo alla nostra destra, la facciata rinascimentale del Municipio (Rathaus). Sopra il porticato a piano terra, una lunga balconata ornata di fiori introduce ai due piani in cui si aprono una serie di finestre a coppie e al rosso tetto tetto caratterizzato dai numerosi abbaini. Siccome Marktplatz è in lieve pendenza, una scalinata colma il dislivello grazie a un numero di gradini sempre maggiore man mano che aumenta la distanza dal punto in cui ci troviamo. Al centro, sopra l’ingresso, una torre esce dalla struttura principale mostrando come all’interno sia presente una scala a chiocciola grazie all’andamento delle finestre. Il colore dei muri è ocra e questo consente di distinguere con sicurezza il corpo che risale alla seconda metà del Cinquecento da quello in stile gotico di due secoli precedente, la cui mole bianca si può ammirare svoltando l’angolo, lì dove inizia Herrngasse. Qui le due facciate sono una accanto all’altra e i due edifici sono uniti (o divisi) da un passaggio ad arco attraverso il quale si può accedere all’interno e alla torre – più tarda – che, nella seconda, arricchisce la liscia linea duecentesca. A parte la positiva impressione complessiva e un grigio cielo autunnale, la visita alla torre del Municipio è il ricordo più nitido della mia precedente visita a Rothenburg, nell’anno 1983: indimenticabili soprattutto il poco posto una volta arrivati a una cima assai esile e il parapetto basso in maniera inquietante. L’idea di ripetere l’esperimento non viene neppure presa in considerazione perché la fila alla cassa è già lunga e lascia facilmente immaginare le difficoltà di movimento che ci attenderebbero sugli stretti gradini.

Di fronte alle facciate gemelle è situata la Fontana di San Giorgio (St. Georgsbrunnen), la cui costruzione risale al quindicesimo secolo. La vasca dodecagonale, la più grande della città, è profonda fino a otto metri e piena di acqua limpida e fresca: al centro una sottile colonna, in pietra come il resto della fonte, sostiene una piccola statua del santo che uccide il drago. Dietro e accannto alla fontana, non possiamo non notare due belle case a graticcio di numerosi piani, con il legno intrecciato fitto attorno alle piccole finestre. Sono gli edifici, in origine forse appartenenti alle famiglie bene della città, chiamati Fleischhaus e Tanzhaus: in quello verso Herrngasse, a piano terra c’è la Marien-Apotheke, farmacia che ha cercato di mantenere l’aspetto vecchio stile consono ai muri che la ospitano.

Poco più avanti lungo la strada, sempre sul lato sinistro, si nasconde una trappola capace di inghiottire il turista e di non rispedirlo all’aria aperta che dopo ore: l’emporio dedicato al Natale ‘Käthe Wohlfahrt’. Ci sono varie filiali sparse qua e là, in Baviera (Oberammergau, Norimberga, Bamberga) e fuori, ma sono semplici negozi, mentre questa è la sede centrale e si vede. Dal difuori non dà alcuna indicazione delle dimensioni: le vetrine accanto all’ingresso sembrano aprirsi su un magazzino forse più grande del normale, ma niente di più: è vero che la scritta ‘villaggio natalizio’ (Weihnachtsdorf) dovrebbe mettere sull’avviso, ma il turista ignaro entra con l’idea di cavarsela con qualche decina di minuti. Sbagliato: l’esposizione di qualsiasi oggetto che possa essere legato al Natale occupa l’intero palazzo, con un percorso obbligato che costringe a passare davanti a ogni tipo di mercanzia in una serie di su e giù fra i piani che alla fine intontisce. Anche perché ci si ritrova in un inverno artificiale del tutto privo della luce del sole: un grande albero al centro, musiche in tema e prezzi non esattamente popolari che, nel caso di addobbi particolarmente ricercati lavorati in legno, possono raggiungere importi a tre o quattro cifre. Ovviamente, non riusciamo a uscirne a mani vuote, ma, a parte qualche regalo, ci limitiamo quasi solo a una delicata palla da mettere sull’albero (con estrema cura).

DA KIRCHPLATZ ALL’ORA DI PRANZO

Quando, dopo aver atteso un po’ prima di riuscire a pagare, torniamo in strada, è quasi mezzogiorno. Passiamo attraverso il Municipio e raggiungiamo la Piazza della Chiesa (Kirchplatz), così chiamata anche se è più che altro una larga via che, partendo da dietro l’abside, costeggia il lato sud della parrocchiale protestante di San Giacomo (St.-Jakobs-Kirche); costruita tra Trecento e Quattrocento, mantiene le sue forme gotiche ed è caratterizzata dalle due torri quadrate che si affiancano all’altezza del transetto. E’ però tardi e decidiamo di soprassedere, imboccando Klingengasse che, curiosamente, passa sotto all’inizio della navata. La strada conduce in direzione nord verso la cinta muraria dove si trova la porta omonima (Klingentor). Circa a metà strada, sulla destra all’incrocio con Judengasse, c’è la sagoma vecchio stile dell’Hotel Aquila Nera (Zum schwarzen Adler) che sottolinea la ragione sociale con una metallica insegna dorata posta sopra l’ingresso. Lungo Judengasse, la facciata dipinta in celeste è affiancata da un lavatoio (o abbeveratoio) alla cui estremità sta una colonnina sormontata da quello che pare un leone rampante.

Dopo la doverosa foto, deviamo sulla sinistra verso il luogo dove sorgeva il monastero domenicano. Quello che ne rimane è diventato il museo cittadino (Rothenburger Reichsstadtmuseum), ma poco distante c’è anche l’ampio spazio verde che una volta ne era l’orto (Klostergarten) con ancora qualche tratto di muro della costruzione originaria: più importante è però che offra un’oasi di pace e di tranquillità. Il momento magico prosegue anche quando giungiamo ai piedi degli oltre trenta metri della Klingentor, bastione cittadino eretto nel Cinquecento. La porta non sbocca direttamente sulla campagna, bensì in una sorta di cortile interno, chiuso sullo sfondo dal profilo tardogotico della chiesa di St. Wolfgang (St.-Wolfgangs-Kirche) che, in caso di bisogno, poteva diventare parte del sistema difensivo cittadino assieme alla torre alla quale è collegata attraverso un edificio fortificato.

Un altro arco conduce all’esterno, dove, subito a sinistra, inizia un largo sentiero inghiaiato che consente di fare il giro delle mura fino ad arrivare al Burggarten. A sinistra, come detto, ci sono i bastioni, a destra un bosco fitto che scende abbastanza velocemente nella vallata sottostante (Rothenburg si chiama ‘ob’ – sopra – e non ‘an’ – su – il Tauber perché posta su un pianoro sopraelevato rispetto al fiume). Lungo il percorso, ci sono numerose panchine che ospitano ragazzi innamorati che si sbaciucchiano e altri che fanno uno spuntino, mentre altri ancora schiacciano un pisolino sull’erba. La loro presenza non sarebbe del tutto spiegabile se il luogo non fosse un balcone affacciato sul sottostante ‘Taubertal Festival’, manifestazione rock che, in serata, avrà come attrazione principale Iggy Pop. Non si sta ancora suonando – la musica inizierà di lì a poco – ma il soundcheck arriva forte e chiaro e, quindi, se la visibilità è limitata dalla distanza, il concerto gratuito ascoltato da lì può essere un ripiego più che accettabile. Mentre stiamo dando un’occhiata disotto, una signora sulla sessantina si ferma accanto a noi lamentando (in tedesco) i due giorni di rumore che il festival la costringe a sopportare: non ho cuore (e voglia, visto che sarebbe necessario inerpicarsi nella traduzione) di mettermi a spiegare che a me quella roba piace e così ci limitiamo ad annuire.

Giungiamo al Burggarten proprio quando là sotto cominciano a fare sul serio. Il giardino si trova su uno sperone roccioso che si allunga a mo’ di peduncolo in direzione sud-ovest: qui era situata la cittadella fortificata del dodicesimo secolo, da cui il prefisso “Burg”. Quando il castello cadde in rovina e vennero rafforzate le altre difese cittadine, il verde riprese il sopravvento fino a che, a iniziare dal Seicento, fu regolato nel parco attuale percorso da bianchi vialetti pedonali e ombreggiato da numerose piante. Dell’antico maniero rimane solo la spoglia Blasiuskapelle che, considerate l’altezza e le dimensioni, non era probabilmente in origine la cappella di corte, ma una qualche sala di ricevimento: in ogni caso, ora ospita i monumenti dedicati ai caduti delle due guerre mondiali.

Dal Burggarten si gode di un ottimo panorama: se nelle righe sopra mi sono dilungato sul lato nord affacciato sulla valle del Tauber, non meno bello è quello meridionale che consente di ammirare un lungo tratto di Rothenburg a picco sulle aree circostanti e racchiusa nelle sue mura con le torri delle porte che svettano sui tetti rossi. Mentre scappa qualche goccia rada, Diva compie il giro del giardino mentre noi ce ne stiamo ad ammirare la città dalle parti della Blasiuskapelle, dove non mancano numerose aiuole fiorite.

Tutto questo gironzolare fa sì che l’ora di pranzo arrivi senza quasi accorgersene. Torniamo perciò verso il centro attraversando la complessa Burgtor: due strutture semicircolari con il tetto a punta, collegate da un arco in pietra, introducono in un piccolo cortile interno dominato da uno squadrato rivellino che precede la porta vera e propria su cui si alza la torre a base quadrata. Imboccata Herngasse, troviamo dopo poco sulla sinistra il ristorante Bürgerkeller, dove ci fermiamo anche perché la guida Lonely Planet lo consiglia. All’interno il locale, raggiungibile scendendo pochi gradini, è molto in vecchio stile grazie alle panche in legno scuro e alle pareti completamente affrescate, ma alla sua oscurità deserta preferiamo i tavolini allineati sul largo marciapiede perché all’improvviso è spuntato un sole brillante. I problemi creati dal vento e dalle consuete api disturbatrici sono minimi e la cucina francone del ristorante è davvero buona a prezzi ragionevoli (spendiamo poco più di trenta euro, ma va detto che Diva prende solo una Suppe): l’unica pecca è un servizio, affidato a un unico cameriere, molto lento – a un certo punto, siamo spinti a pensare che dentro si sia riempito di avventori a nostra insaputa.

Dopo aver dato solo un’occhiata alla gotica chiesa dei Francescani (Franziskanerkirche) sita per il lungo sull’altro lato della strada, risaliamo per un breve tratto ancora Herrngasse prima di deviare sulla destra tanto per uscire un po’ dalla calca. Finiamo così per incrociare una delle tante pasticcerie aperte (a Rothenburg la chiusura festiva proprio non vale e quasi ovunque c’è orario continuato) che in vetrina espone pile di quelle ‘palle di neve’ (Schneebälle) che abbiamo visto un po’ ovunque in città ed è giunta l’ora di assaggiare. Si tratta di dolci della dimensione di una palla da baseball fatti con una pasta molto simile a quella delle sprelle (o chiacchiere o lattughe: i dolci di carnevale, insomma) accuratamente ripiegata. Vengono preparate ‘lisce’, al massimo imbiancate di zucchero a velo, o ricoperte di cioccolato o ancora variamente farcite: io preferisco le prime, ma anche le versioni più elaborate hanno il loro perché.

DA BURGGASSE AL TEMPORALE

A questo punto, urge fare due passi per digerire il pranzo nonché l’aggiunta. Raggiungiamo così la Burggasse che segue il perimetro delle mura nel tratto già ammirato dal Burggarten e restiamo relativamente soli finchè la strada non rientra nel centro cittadino passando accanto al Museo Criminale del Medioevo (Mittelalterliches Kriminalmuseum) situato in un bel palazzo dalle mura bianche che troviamo alla nostra destra. Per accedere, è necessario passare sotto un arco che introduce in un portico al nostro arrivo fittamente popolato di turisti. Prima di proseguire, facciamo a tempo ad ascoltare da una guida la storia della gabbia sospesa sopra il giardino, una volta utilizzata per esporre al pubblico ludibrio soprattutto i fornai che facevano (o si diceva che facessero, i ‘Promessi Sposi’ in materia insegnano parecchio) un po’ troppo i furbi nell’esercizio del loro mestiere.

Una breve sosta anche alla chiesa cattolica di San Giovanni (St. Johannis-Kirche), con il suo miscuglio di elementi gotici e rinascimentali, precede il nostro arrivo su Schmiedgasse proprio davanti alla bella facciata dell’Hotel del gallo rosso (Roter Hahn) ingentilita da fiori e piante rampicanti. La folla ci raggiunge di nuovo, ma questa volta è inevitabile: svoltando a destra, si giunge presto nell’ angolo da cartolina di maggior fama dell’intera Rotheburg, nonché uno dei più conosciuti dell’intera Germania medievale. A voler banalizzare, il Plönlein è un incrocio o, meglio, una biforcazione della Untere Schmiedgasse: a destra la strada scende alla Porta Kobolzell (Kobolzeller Tor), a sinistra si mantiene in piano e prosegue verso sud passando sotto l’arco della Torre Sieber (Siebersturm). Però, sarnno le torri dalla struttura simile (in origine, porte della prima cinta, rifatte con un corpo chiaro e un tetto rosso a punta), sarà il selciato in pietra, saranno le belle e colorate case signorili ai lati o quella a graticcio al centro, con davanti a una fontana, ma l’insieme ha un suo fascino fuori dal tempo che avvolge il visitatore. Abbiamo solo il problema di trovare un angolo per una fotografia decente, perché lo spazio non è molto e i turisti si affollano, attratti anche dai numerosi negozi distribuiti nella zona.

Quando finalmente riusciamo nell’impresa, passiamo la Siebersturm e il suo grande orologio per giungere nel ‘quartiere dell’ospedale’, dove Spitalgasse conduce dritta fino alla porta (Spitaltor) e al bastione (Spitalbastei) omonimi posti a difesa dell’ingresso sud della cittadina. E’ una zona analoga a quella della Galgenstraße che abbiamo percorso alla mattina: la strada è abbastanza lunga e il sole comincia a scaldare in modo fastidioso, così ci trasciniamo fino alla severa Spitaltor (il tetto e la lanterna ravvivano a fatica i muri grigi della torre) accompagnati dalle lamentele di Chiara e senza prestare particolare attenzione a ciò che vediamo. Una volta arrivati, saliamo sulle mura e iniziamo a seguirne il perimetro lungo il camminamento coperto sugli spalti. Anche qui le bombe hanno lasciato il segno, tanto che la ricostruzione ha richiesto alcuni decenni: le targhe di coloro che, con le loro donazioni da tutto il mondo, hanno contribuito al ripristino dell’aspetto originario, sono murate tra una feritoia e l’altra.

La passeggiata rialzata guarda su case e giardini privati, spesso vecchie abitazioni rimesse in ordine con cura: fra queste spicca la Gerlachschmiede, una delicata casa a graticcio gialla e rossa dai tetti spioventi piazzata alla convergenza di due strade nei pressi della Porta Röder (Rödertor). Completamente ricostruita nella seconda metà del Novecento, ha un aspetto ‘leggero’, quasi da casa delle fiabe, ingentilito dal portico in legno che, nel punto più stretto, si affaccia su un piccolo giardino.

All’altezza della massiccia torre posta a difesa della Rödertor, scendiamo e torniamo per l’ultima volta verso il centro di Rothenburg lungo la (sorpresa!) Rödergasse che, avvicinandosi al centro si stringe leggermente, ingentilita dalla vasca rettangolare della fontana che con fantasia si chiama Röderbrunnen e da alcune belle case a graticcio. L’ingresso nella parte più antica avviene questa volta attraverso il Röderbogen, un ampio arco sopra al quale si eleva una struttura in muratura con un grande orologio mentre a difesa del tutto sta, sulla destra, la massiccia Torre di Markus (Markusturm) la cui fondazione risale al dodicesimo secolo. Giunti a questo punto, però, decidiamo che quel che c’era da vedere l’abbiamo visto e andiamo a sistemarci in una gelateria vicina a Marktplatz: un tavolo si libera per miracolo e possiamo godere il meritato riposo con la ciliegina sulla torta della cameriera italiana (come la gestione del locale, del resto).

Quando arrivano le consumazioni, le nuvole si sono chiuse verso nord e iniziano a prendere un’inquitante tinta bluastra. Il primo soffio di un vento freddo fa scattare l’allarme temporale e così imbocchiamo Galgengasse a passo di carica, rallentati solo da Diva che va alla ricerca della foto artistica. Facciamo appena in tempo a infilare i cinque euro nel parcometro e a rifugiarci in macchina prima che inizino a cadere le prime gocce che diventano ben presto in un uragano trasformando la strada in un lago mentre i tergicristalli perdono la loro battaglia per togliere l’acqua dal vetro. Le raffiche di vento fanno il resto, tanto che i cinquanta all’ora finiscono per sembrare una velocità spericolata: la forza degli elementi, però, come ha avvicinato velocemente le nubì, così alla svelta le allontana e, al nostro arrivo a Reichardsroth, sta ormai spiovendo. Il termometro segna parecchi gradi in meno ma, mentre scopriamo con piacere che la signora Zink ha raccolto il bucato che avevamo steso alla mattina, la luce del sole al tramonto inizia a filtrare tra le nuvole.

SCHILLINGFÜRST

Dopo una mattinata imbronciata, il ritorno da Dinkelsbühl è rallegrato da un bel cielo azzurro e così decidiamo che c’è il tempo per una deviazione a Schillingfürst, chè, tanto, è di strada. Poco oltre aver percorso una ventina di chilometri, abbandoniamo la B25 svoltando a destra, dove inizia la dolce salita che conduce alla nostra meta con un percorso di ampie svolte lungo le ondulazioni della collina.

In sé, la piccola località offre poco: pulita e ordinata, si stende su un pendio esposto al sole, ma non mette in mostra nulla di memorabile. L’interesse vero si accentra sul castello, residenza barocca di un ennesimo ramo degli Hohenlohe che da Schillingfürst prende il nome. Situato sull’altura che svetta sul circondario – siamo tra i cinquecento e i seicento metri – il palazzo si compone di tre ali ed è a forma di U: immerso in un fitto bosco, vi si accede attraverso un viale che taglia in due un giardino anch’esso fittamente alberato.

Lasciata l’auto in un parcheggio sterrato poco distante, giungiamo all’ingresso solo per scoprire che la visita guidata all’interno (dove sono numerose le stanze con ricco decoro originario) è appena partita e che è possibile visitare solo la falconeria da caccia ospitata fra l’intricato verde attorno al castello. Un po’ per il prezzo non proprio economico, un po’ per la paventata aggressività dei rapaci raccontata da una signora italiana che sta uscendo in quel momento, un po’ perché abbiamo poca voglia di altre fatiche, decidiamo di soprassedere e di prenderci una pausa nello Schlosscafè, il bar-ristorante lì accanto.

L’idea si rivela ben presto azzeccata. A fronte di prezzi solo di poco più alti della norma, possiamo accomodarci a uno dei tavoli che, ombreggiati da rami frondosi, si allineano lungo uno splendido balcone affacciato sulla valle sottostante. Il panorama, illuminato dalla luce rotonda del pomeriggio, è veramente bello e riposante, con le colline che si susseguono punteggiate dai tetti rossi della sottostante Schillingfürst e di altri piccoli centri. Qua e là c’è anche qualche capannone o uno spazio cementificato, specie in direzione della B25, che però non rovina la visione d’insieme: una leggera brezza che rinfresca senza disturbare completa il bel momento e così risulta faticoso rimettersi per strada. Ancor di più lo è per Chiara, incantata da un minuscolo cagnolino al tavolo accanto e che, in un modo o nell’altro, riesce a farsene raccontare razza, dimensioni, età, informazioni varie dalla signora che lo ha con sé.

SCHONGAU

Schongau, autoproclamata Porta del Cantone dei Preti (Pfaffenwinkel), è la nostra base logistica nella settimana trascorsa a Epfach, che ne dista non più di cinque minuti in automobile, sia utilizzando la più diretta B17, sia seguendo le tortuose stradine di campagna. Lì ci sono i supermercati più vicini e lì finiamo subito il primo giorno, quando arriviamo troppo presto – tra le nove e le dieci – e l’appartamento non è ancora pronto. Però non ci andiamo spesso, anche se ci ripromettiamo qualche scappata serale, attirati anche da una festa medioevale nella centrale Marienplatz, perché la stanchezza al ritorno dalle escursioni si fa sempre sentire. Così, tra un passaggio quando siamo ancora rintronati dal viaggio e uno di ritorno da Oberammergau a seguito di una sosta al locale Lidl, non vi facciamo mai una visita attentamente strutturata come in altre località lungo la Strada Romantica.

La città vecchia è costruita su una collina che sovrasta la sponda sinistra del Lech ed è ancora completamente circondata dalle mura. Il declivio del perimetro esterno è ricco di piante ad alto fusto fra le quali corrono alcuni percorsi pedonali: se sul lato ovest, la salita verso la Frauentor attraversa lievemente obliqua il parco, dalla parte opposta si raggiungono le mura lungo una stradina che sale a zig-zag tra una vegetazione ancora più fitta. Verde e ordinata è, infine, la parte che, a sud, si incontra uscendo da Alter Einlass: una passeggiata affiancata da panchine sovrasta una serie di gradoni verdeggianti favoriti dalla maggiore esposizione al sole e consente di ammirare il panorama montano sullo sfondo.

La nostra prima entrata avviene appunto dalla Frauentor, dopo aver lasciato l’auto nel quasi deserto parcheggio accanto al Jugendszentrum ed esserci acclimatati a un’afa tanto pesante quanto sorprendente. All’esterno, la porta si apre, abbastanza piccola, nelle massicce mura di cinta di colore grigio, mentre dall’interno sembra più che altro un arco aperto in una tranquilla fattoria di campagna. Sarà l’intonaco bianco o l’edicola con l’immagina della Madonna (a fronte del più severo bassorilievo esterno) o magari i cespugli e i fiori che affiancano, assieme ad alcune piante, la breve salita che sbocca in Christofstraße, ma il contrasto è netto. Non sapendo bene dove andare, pieghiamo prima a destra, poi a sinistra e proseguiamo lungo Lechtorstraße ammirando gli infissi (ante, porte e portone) in legno, pesanti e lavorati, di un’ampia birreria sulla destra: ricavata in un palazzo secolare che per lunghi decenni fu la farmacia cittadina (Ehem. Stadtapotheke), ha una facciata su cui predomina il color porpora ed è impreziosita da una bella corte interna. Poco dopo, troviamo sulla destra uno slargo, adibito a parcheggio, chiuso dalle mura con al centro l’Alter Einlass mentre a sinistra abbiamo la Ballenhaus. Il primo è una solida torre intonacata di bianco con tetto a punta, mentre il secondo è una costruzione medioevale a base rettangolare in origine costruita come sede del potere pubblico della cittadina. Reimbiancata di fresco, mostra uno stile gotico particolarmente gradevole nelle due facciate a capanna che offrono alla vista spioventi scalinati e profonde finestre con il perimetro accentuato da un bel giallo carico. Al fianco scorrono le due strade che conducono in Marienplatz, quella alla nostra sinistra sinistra occupata in parte dai tavolini del Ballenhaus Café di cui si racconta nel capitoletto dedicato alle api.

Prima di proseguire, facciamo sosta in un negozio, sorta di cartoleria- merceria, perché Chiara dovrebbe comprare qualcosa che non ricordo più (anche perché non dev’essere molto importante, visto che l’acquisto non va a buon fine senza particolari tragedie). Il padrone parla un ottimo italiano e ci spiega il perché e il percome della festa di cui ho accennato all’inizio, pronosticandone nel contempo la difficile riuscita a causa del maltempo in arrivo (previsione azzeccata al cento per cento). In ogni caso, le bancarelle e gli stand gastronomici riempiono la piazza che non riusciamo mai ad ammirare in modo decente. In aggiunta, proprio al centro, si erge il palco su cui, quando torniamo di pomeriggio qualche giorno dopo, sta preparandosi una band di musica celtica (non lasciano dubbi in merito i caratteri con cui è scritto il nome del gruppo e la cornamusa stilizzata circondata di trifogli che ci sta sotto). Quando non c’è tutto questo trambusto, l’antico punto centrale di Schongau dovrebbe regalare un’impressione di tranquillità con le verdi piante sui lati e la fontana centrale sovrastata da una colonna con l’immancabile statua di Maria.

Slalomando, giungiamo fin dove la piazza termina: oltre Weinstraße c’è il largo sbocco di Münzstraße (di fatto solo poco più stretto di Marienplatz e con al centro un’aquila in bronzo sopra una sfera in pietra – non ne conosciamo il significato) che si va restringendo, man mano che si allontana dal punto in cui ci troviamo noi, affiancata dalla consueta teoria di case borghesi con qualche secolo sulle spalle, ma dall’aspetto curatissimo nei loro intonaci dai colori pastello. La prima alla nostra sinistra è il Municipio (Rathaus), costruito in stile a inizio Novecento, con la facciata che sovrasta un profondo portico dove è possibile trovare un buon numero di pieghevoli e piccole guide alla cittadina e al suo territorio.

Di fronte all’edificio pubblico, dall’altra parte di Weinstraße, spicca la mole della chiesa di Maria Assunta (Stadtpfarrkirche Mariae Himmelfahrt) la cui profonda abside si protende in Marienplatz. Sovrastato da un campanile a cipolla, il tempio è caratterizzato dai tratti barocchi di cui si è già ampiamente discusso: intonaco bianco dentro e fuori, alte finestre, stucchi e decori in quantità, affreschi sui soffitti a botte e un altar maggiore inevitabilmente elaborato. L’insieme è meno sovraccarico che altrove, ma anche meno dinamico, così che il visitatore che non ama il genere rimane deluso comunque e quello che invece lo apprezza sente la mancanza di qualcosa. Bisogna però ammettere che la visita avviene quando stiamo per tornare a Epfach per scaricare i bagagli e magari la stanchezza influisce sulle nostre impressioni.

La seconda visita avviene invece nella luce calda del tardo pomeriggio: giungiamo in Marienplatz provenienti da Weinstraße dopo aver lasciato l’auto sempre ai piedi della città vecchia, ma a est, dalle parti di Buchenweg (praticamente, solo un centinaio di metri più in là rispetto al parcheggio del Lidl, è strettamente riservato ai clienti e a rischio multa). Vista l’ora tutti gli stand della festa sono aperti, alternando bancarelle che vendono prodotti naturali ed ecologici ad altre che ripresentano situazioni o mestieri (e anche giochi) d’epoca. Gli abiti di commercianti e figure varie sono tutti ispirati ai secoli passati, se si esclude qualche concessione modernizzante e a un gruppo di Pirati dei Caraibi il cui Jack Sparrow mette in mostra un’incongrua pinguedine. Oltre a un incidente con una deiezione canina – che mi costringe a uscire da Alter Einlass per trovare l’erba necessaria a pulire la suola – resta da segnalare un tentativo di Diva di acquistare l’acqua ossigenata in una delle numerose farmacie di Schongau (in Baviera, le Apotheken non mancano di certo): malgrado entri armata del contenitore vuoto, riesce dura a farsi capire fino a quando il farmacista non tira fuori un preparato galenico analogo, anche se un po’ meno concentrato. Nel frattempo, stiamo seduti al bar lì accanto, quasi all’estremo di Marienplatz in direzione di Münzstraße, e sopportiamo gli strilli di due bambini parecchio fastidiosi (non è il crollo di una certezza, sono tedeschi di nazionalità ma non di origine).

LE STRADE

Le autostrade tedesche hanno un mucchio di pregi. Il principale è l’essere gratuite, con il corollario di un alto numero di uscite. Le aree di sosta sono pulite e ordinate, con tavoli da picnic all’ombra e bagni in acciaio solitamente in condizioni igieniche accettabili. Sulle direttrici che percorriamo noi, la A96 da Lindau a Landsberg (e anche un po’ oltre) e la A7 da Rothenburg verso sud fino all’incrocio di Memmingen, dove al ritorno ritroviamo la A96, il traffico, anche quando è intenso, si mantiene scorrevole – niente a che vedere con la ressa della A8 nel tratto Monaco-Salisburgo affrontata per raggiungere il Salzkammergut in anni precedenti. Non disturba più di tanto, perciò, che le corsie siano sempre solo due e che non ci siano limiti di velocità: basta ricordarsi che quello che nello specchietto è un puntino può materializzarsi in breve lasso di tempo a pochi metri di distanza e che, se è segnalato qualche limite, la grandissima maggioranza degli automobilisti si adegua con sollecitudine evitando le furbate. Tantopiù che in Germania è punito anche sistemarsi dietro a un’altra vettura facendo i fari per chiedere strada…

Detto tutto questo, è meglio evitare i tratti autostradali, e non certo per la pavimentazione in cemento sulla A7, causa del rombo fastidioso che disturba la parte iniziale del ritorno a casa. I percorsi si trovano quasi sempre a un’altezza inferiore rispetto al terreno circostante oppure scorrono tra due file di fitti alberi: l’impatto ambientale ne risulta ridotto quanto più possibile, ma di ammirare il panorama in pratica non se ne parla. Questo vale anche per i tratti a due carreggiate delle strade statali – la B17 tra Landsberg e Augusta e la B2 a nord di quest’ultima – e allora, quando i chilometri da percorrere non sono molti e il tempo non è tiranno – meglio affidarsi alla viabilità ordinaria.

Al netto di qualche inevitabile lavoro in corso – il più invasivo è un rifacimento di manto stradale a Kissing, centro residenziale a est di Augusta che gode di una qualche fama per via del nome – le strade normali sono comode e illustrate da una segnaletica chiara ed efficace (siamo in Germania o no?). Il territorio aiuta, con i continui saliscendi che attraversano paesaggi in cui la natura è ancora preponderante sulle zone abitate e l’industrializzazione, se c’è, non si fa notare. Nascono così percorsi moderatamente ondulati e ricchi di scorci interessanti in cui il traffico non è mai intenso, a meno che non ci si incolonni tutti quanti dietro l’ennesimo mezzo agricolo. Questo capita sulle più strette strade secondarie, ma anche nel tratto a tre corsie della B17 a sud di Landsberg, dove il sorpasso è alternato – un paio di chilometri per senso di marcia: il trattore che si porta a spasso un rimorchio carico di fieno a non più di venti all’ora non viene sorpassato da nessuno anche se dall’altra parte non si scorgono automezzi fino all’orizzonte (detta così, parrebbe ovvio, ma si ha la vaga impressione che in Italia funzionerebbe in modo diverso).

La considerazione che anche le strade federali (quelle indicate con una B) e spesso le statali (contrassegnate con ST, dove lo Stato è la Baviera) sono spesso dotate di aree di sosta, consentendo così al viandante con problemi di incontinenza di evitare la sosta al primo bar, lascia che siano solo un paio gli aspetti delle strade tedesche che da noi non si incontrano più o sono stati molto ridotti.

Agli incroci urbani dominano ancora i semafori mentre le rotonde sono più che altro riservate alle aree fuori dai centri abitati. A parte il giallo anche dopo il rosso, che con ogni probabilità scatenerebbe dalle nostre parti partenze da gran premio, l’assiduità semaforica anche nei centri medi e piccoli dà l’impressione di strozzare il traffico, facendo rimpiangere le rotatorie spuntate come funghi nelle città italiane. Può darsi, però, che su questo giudizi pesi la laboriosissima uscita da Ansbach, da dove abbiamo preso il treno per Norimberga. Al ritorno, quando lasciamo la stazione, un incidente sulla A6, che passa poco più a sud, ha spostato tutto il traffico sulla viabilità ordinaria, intasando la cittadina. Se ai (tanti) camion e alle auto dirottate ci si aggiungono il movimento originato dalla fine della giornata lavorativa (Ansbach si aggira sui quarantamila abitanti) e qualche immancabile trattore, ecco spiegata l’ora necessaria per arrivare al punto dove, dalla strada che percorriamo noi, la B13, quasi ai limiti dell’abitato, si stacca il percorso che rientra in autostrada. In tutto, tre o quattro chilometri di sofferenza, acuita, a una prima impressione, dalla dozzina di semafori che li costellano, rendendo ancor più nervose le blande ripartenze e le improvvise fermate.

L’altra stranezza sta nella presenza di un certo numero di passaggi a livello, alcuni dei quali addirittura incustoditi. Ne incontriamo un paio uscendo da Schongau verso Peiting, ma la maggior concentrazione ci capita sotto le ruote mentre da Nördlingen ci dirigiamo verso Reichardsroth. In pratica, la B25 per un lungo tratto interseca una linea ferroviara a binario unico e, tra una curva e l’altra, ecco comparire la croce di Sant’Andrea e il semaforo: i binari non sembrano molto frequentati, ma l’attraversamento senza sbarre regala sempre un piccolo brivido.

Nel nostro girovagare, i percorsi minori non sono mancati, ma sono due o tre quelli si distinguono per lunghezza e ‘alternatività’. Il primo è (de)merito del navigatore, al quale ci affidiamo per arrivare a Geltendorf e prendere il treno per Monaco. Sarà perché Epfach pare essere fuori dalla rilevazione satellitare, sarà per qualche suo motivo particolare, la macchinetta, invece di farci tornare verso Landsberg e l’autostrada, propone di passare il ponte sul Lienz, risalire rapidamente fino alla vicina Reichling (come ricorderete, Epfach è più in basso della campagna circostante) e attraversare per numerosi chilometri una campagna in cui i contadini stanno riprendendo le attività e, probabilmente, guardano con sorpresa un’auto con la targa italiana bazzicare dalle loro parti di primo mattino. E’ con un certo sollievo che ritroviamo una strada un po’ più importante, proveniente dal vicino Ammersee, perché l’ora del treno si avvicina, ma l’aggeggio non ha ancora dato il meglio di sé. Ritrovata l’A96 a Landsberg-Ost, l’uscita successiva parrebbe la più ovvia, ma ci vien chiesto d’ignorarla solo per arrivare alla successiva e… tornare indietro. A quel punto, decidiamo di spegnere e di affidarci alla più che sufficiente cartellonistica: dopo pochi chilometri attraverso una natura ricca di alberi, abbiamo almeno la consolazione che la stazione sia dalla parte da cui stiamo arrivando.

Più cosciente è l’erratico ritorno da Donauwörth. lasciata nel primo pomeriggio con il sole che splende ormai luminoso. La strada inizia seguendo la sinistra della valle del Danubio, scorrendo dapprima all’altezza del fiume, poi alzandosi a mezza costa fra le basse colline circostanti e infine rituffandosi – all’altezza di Marxheim, appena prima di un’interruzione per lavori in corso – quando è ora di passare sull’altra sponda e tornare a dirigersi verso sud. Passiamo così da una statale all’altra: la carreggiata è stretta, i paesi piccoli e sonnacchiosi, il traffico scarso. Tutto resta immutato almeno fino a una ventina di chilometri da Landsberg, solo il paesaggio si fa più aperto e le curve seguono il perimetro dei campi coltivati. Molti alberi ombreggiano il percorso e, in un paio di casi, sembrano avvolgere completamente alcuni minuscoli centri che attraversiamo a non più di trenta all’ora. Il rischio di perdersi è ridotto al minimo dai cartelli della Romantische Straße che indicano le strade da preferire in bicicletta: passiamo così accanto ad alcune località che farebbero parte dell’itinerario turistico – soprattutto si fa notare, alla nostra sinistra quando siamo vicini ad Augusta, la mole possente della borgo fortificato di Friedberg – ma la stanchezza consiglia di soprassedere. Solo nell’ultimo tratto le indicazioni si fanno confuse e così scegliamo di puntare dritti alla A96 costeggiando le reti dell’aeroporto di Landsberg.

Ancor più secondarie sono le stradine lungo le quali, l’ultimo giorno, lasciamo Ottobeuren in direzione di Lindau. L’incidente che blocca la A7 in direzione nord ci taglia i ponti alle spalle, come raccontato nel capitoletto dedicato proprio a Ottobeuren. Seguiamo così un percorso che passa da Bad Grönenbach, Legau (più altri ancora minori) e Leutkirch dove ritroviamo la A96: puntolini sulla carta geografica che si rivelano essere piccoli villaggi essenzialmente agricoli al centro di una regione più spiccatamente collinare. Per passare da uno all’altro, dobbiamo fare ripide salite attraverso fitti boschi di larici e altrettanto insidiose discese, oltre che l’ultimo attraversamento del Lech tra il primo e il secondo dei paesi sopra elencati. Le mucche pascolano tranquille nei prati che brillano nel sole, il verde scuro della foresta riposa la vista, Chiara si becca un’occhiata assassina salutando un ciclista al massimo dello sforzo in cima a una delle rampe : se non si trattasse del viaggio di ritorno (e dell’ora di pranzo), il piacere sarebbe ancora maggiore, ma, tutto sommato, la deviazione vale la pena.

WEIKERSHEIM

Dove la valle del Tauber inizia a distendersi fra colline verdi ricche di vigneti, si trova uno dei gioielli della Strada Romantica. Weikersheim è un paese relativamente piccolo, posto sul lato sinistro del fiume, ma può offrire un centro fatto di stradine strette tra case ancora in stile e, soprattutto, la bella piazza principale (Marktplatz) sulla quale si affaccia lo splendido castello, ovvero residenza (Schloß Weikersheim).

Il maniero, sorto all’inizio dello scorso millennio, è stato nei secoli la dimora avita dei conti di Hohenlohe-Weikersheim, una famiglia nobiliare di campagna con un certo gusto per la rappresentanza. L’aspetto attuale si deve soprattutto al conte Carlo Ludovico, che modellò sia il castello sia i giardini secondo i dettami imperanti ai suoi tempi (prima metà del Settecento) del barocco e rococò, ma non potè lasciarlo a nessuno perché il figlio morì in un incidente prima di aver messo al mondo un erede. Adesso la struttura è proprietà del Land del Baden-Württemberg ed è accessibile all’interno solo con visita guidata in tedesco – ma vengono fornite stampe esplicative in altre lingue – mentre la passeggiata nel parco è gratuita.

Lasciamo l’auto in un comodo parcheggio, ombreggiato e senza pedaggio, appena fuori le mura. Attraversata una porta, in pochi minuti arriviamo in piazza. All’estremo alla nostra sinistra, le linee pulite della gotica chiesa di San Giorgio (Stadtkirche St. Georg, evangelica); dalla parte opposta, due costruzioni curve dotate di portici ombreggiati formano un emiciclo al cui vertice si imbocca il ponte che, scavalcando l’antico fossato, conduce all’interno del castello. Tutto intorno, belle dimore con facciate che risalgono ai secoli diciassettesimo e diciottesimo in cui trovano posto alcuni ristoranti e bar i cui dehors non risultano invadenti in modo particolare.

Giungiamo alla cassa sul far del mezzogiorno (tredici euro e mezzo il biglietto famiglia) e scopriamo che il tour in partenza è già esaurito. Entriamo comunque: per ingannare l’attesa di un’ora per il successivo, ci rechiamo a visitare il giardino. L’accesso a quest’ultimo dal cortile avviene lungo uno stretto passaggio a volta (in due locali ai lati è illustrata la storia del castello, ma solo in tedesco): l’effetto che si ha avanzando verso l’uscita ha un che di cinematografico, quasi una carrellata in avanti che dischiude lentamente la visione della’area verde e che è resa ancor più impressionante dalla giornata tersa e luminosa. Si esce così su una balconata sopraelevata che consente di dominare le porzioni di prato meticolosamente pettinate, i geometrici sentieri di ghiaia bianca disseminati di statue classicheggianti, la fontana che zampilla in centro e l’orangerie, pure decorata con statue, a chiudere il tutto con funzione di quinta. Ai due lati, oltre due viali ombreggiati dai castagni, ci sono invece zone più verdi e alberate, a destra quella che una volta era l’orto e a sinistra l’attuale parco pubblico di Weikersheim.

Scavalchiamo di nuovo il fossato, la cui sponda a sud è terrazzata a vigneto, e scendiamo a livello del giardino. Una balaustra si estende a destra e sinistra: sopra, a intervalli regolari, le statue di nani raffigurano figure popolari in modo buffo e caricaturale (se non è barocco questo…). Passeggiamo fotografando lungo l’asse principale, superiamo la fontana di Ercole – posta in centro – in cui sguazzano numerosi pesci di varie dimensioni, sognamo di rinfrescarci nella piscinetta che si può raggiungere scendendo alcuni gradini – una coppia legge pacifica il giornale godendosi il sole accanto all’acqua – e infine troviamo un attimo di riposo su una panchina all’ombra dell’orangerie.

I brezel, compreso quello dolce in pasta sfoglia comprato a Creglingen, consentono di non pensare troppo all’ora di pranzo mentre ammiriamo il controcampo del giardino con, sullo sfondo, l’imponente struttura del castello (anche se forse sarebbe più corretto parlare di palazzo, con la grande facciata rettangolare sovrastata da un tetto rosso spezzato al centro e ai lati da un affacciarsi di finestre in una struttura a triangolo). La visione, allietata dai molti fiori e dalle piante esotiche (per la zona) che, vista la temperatura, prendono una boccata d’aria fuori dall’orangerie, è incantevole ed invita a perdere tempo.

Il ritorno al punto d’incontro per la visita avviene lentamente sotto un sole caldo e quasi fastidioso. Il cortile interno ha una forma vagamente a pentagono (l’impianto del castello è triangolare, ma un lato risulta spezzato): circondato dagli alti muri del palazzo e sovrastato da una torre cilindrica che termina vagamente a cipolla, offre una piacevole frescura prima che la guida si avvii su per lo scalone lungo il quale ci scrutano, un po’ accigliate, generazioni di Hohenlohe-Weikersheim. Lo scritto che abbiamo in mano aiuta a seguire quanto detto e il racconto fatto con voce alta e tranquilla risulta intelligibile al mio tedesco in varie parti, integrando così le informazioni. Ne viene fuori una traduzione volante di sicuro raffazzonata, ma si coglie più di uno spunto interessante: ad esempio che il ‘riscaldamento centralizzato’ dell’edificio (diffondendo il calore delle cucine) più le grosse stufe presenti nelle stanze riuscivano a portare la temperatura invernale a ben sedici gradi centigradi!

Il primo piano dell’edificio fu arredato da Carlo Ludovico e perciò è barocco. Sono visitabili il suo appartamento e quelli della moglie, dello sfortunato figlio e della nuora: tutti con la stessa struttura – una o due anticamere, un salotto e una camera da letto – con le stanze disposte una in fila all’altra e tutte accessibili dal corridoio laterale. La disposizione illogica è dovuta a motivi di rappresentanza, l’ospite o il questuante venivano fatti attendere nell’una e/o nell’altra e poi ammesso a udienza in camera da letto, come da moda lanciata dal Re Sole e richiamante l’accoglienza dei clientes nell’antica Roma. Tutte le stanze sono riccamente decorate, tra arazzi, tappeti, mobilio (soprattutto cassettoni e tavoli da gioco, finemente lavorati, letti con baldacchini in raso che risultano al nostro occhio di moderni rigidi e… corti). Nell’ultima camera da letto è in primo piano di fronte al visitatore una culla riccamente decorata e dalle sponde dorate – quella dell’erede mai arrivato – ma l’ambiente più interessante è quello arredato come sala da pranzo. Sulle pareti si notano le immagini di paesaggi in bianco e nero direttamente realizzati sul muro e poi circondati con una cornice dorata per simulare una quadreria, mentre sulla tavola imbandita è disposto un servizio di porcellana di delicata fattura, pezzo unico al mondo a causa di un errore: i suoi disegni dovevano essere blu, ma un errore di cottura ha dato al tutto una delicata tonalità tra l’azzurro e il verde.

Passiamo quindi al piano superiore, in cui è stata mantenuta la disposizione rinascimentale, con gli appartamenti dei conti del sedicesimo secolo più orientati all’abitazione che a impressionare i visitatori. Stanze più grandi, finestre luminose affacciate sul giardino, pavimenti in legno di buona fattura. C’è anche un gabinetto degli specchi, ma l’attrazione principale resta la Sala dei Cavalieri (Rittersaal) che il solito Carlo Ludovico recuperò quanto più possibile simile all’originale (il castello fu usato come caserma di soldataglie durante la guerra dei Trent’anni e il trattamento non gli giovò). Solo il grande lampadario e i quadri alle pareti sono posteriori: il resto dell’arredamento – i grandi camini, il pavimento in listelli di legno, il soffitto a cassettoni con quadri di scene di caccia – è o riproduce quella del Cinquecento. Sulle pareti lunghe fanno bella mostra di sè le riproduzioni di teste di tutti gli animali cacciabili (vi sono anche un elefante e un leone incoronato) con, se possibile, le corna vere, mentre su quello corto, accanto al camino, due alberi genealogici hanno radice nelle immagini tridimensionali di una coppia di conti.

In contrasto a tanta decorazione stanno le linee semplici della cappella interna, voluta quasi spoglia dagli stessi, religiosissimi – e protestanti – conte e contessa. Tutta bianca, compresi gli stucchi, viene visitata in posizione rialzata, dove gli Hohenlohe assistevano alle funzioni dietro a un vetro mentre il resto della corte e il celebrante stavano al ‘piano terra’.

Dopo circa un’ora torniamo in cortile. Una raccolta di oggetti e libri alchimistici di uno della famiglia con tale pallino è allestita nelle ex-cucine – c’è anche un pezzo di pavimento originale – ma diamo solo un’occhiata anche perché è tutto spiegato in tedesco. Torniamo in piazza ammirando lo splendido scorcio che si può vedere uscendo, con la bianca facciata a capanna della chiesa sovrastata proprio al centro dall’agile campanile a punta. Visto l’orario, ci accontentiamo di gelati e torta di mele, ma veramente ottima, nel bar che pare avere i tavolini più ombreggiati e capaci di intercettare il filo d’aria che rende la temperatura sopportabile. Ci troviamo così quasi al centro della piazza stessa, accanto alla fontana rococò, in un locale che sfoggia bandiere tricolori, ma con una cameriera dagli inconfondibili tratti asiatici.

WÜRZBURG

L’esercito degli Stati Uniti attaccò Würzburg il 3 aprile del ’45 e vi entrò vittorioso due giorni dopo. Sarebbe cambiato qualcosa se, a metà marzo, i bombardieri inglesi non avessero scaricato sulla città oltre trecentomila bombe incendiarie? Probabilmente no, visto che la Germania era ormai al collasso: lasciando agli storici l’ardua sentenza, resta il fatto di un’incursione, pari in ferocia a quella di Dresda e addirittura più devastante in rapporto alle dimensioni della città, che causò oltre cinquemila vittime e danni gravissimi all’intero tessuto urbano, inclusa gran parte dei monumenti (la vistosa eccezione è la Fortezza di Marienberg, sull’altra sponda del fiume).

Questo destino da Coventry della Bassa Franconia – le amministrazioni delle due città si sono, nel corso dei decenni, avvicinate – spinse addirittura qualcuno a pensare di lasciare intatta la devastazione come monumento agli orrori della guerra. La voglia di ricominciare – se possibile, non in una new town – ha però avuto la meglio e, con oltre trent’anni di lavori, è stato ricostruito tutto il ricostruibile: il centro ha perso il suo originale profilo barocco, ma gli edifici moderni ben si amalgamano con quelli in stile e il passeggio nella vasta zona pedonale risulta assai piacevole. E’ vero, non ci sono più le case a graticcio in questa che è l’estremità nord della Strada Romantica, ma la visita di una giornata è in ogni caso ben spesa.

RESIDENZ

Il pezzo forte resta però la Residenz, che anche da sola varrebbe la pena del viaggio fino a Würzburg. La reggia fu fatta costruire a inizio Settecento dai principi-vescovi della famiglia Schönborn perché la Fortezza di Marienberg (che domina la città dall’omonima collina) era diventata piccola o forse demodè. Le imponenti dimensioni dell’edificio contrastano con quelle cittadine – gli abitanti sono circa 130.000 – in modo quasi stridente: affacciati su una grande spianata alleggerita da una fontana sovrastata da una statua in bronzo e con alle spalle un giardino barocco confinante a sua volta con un più intricato giardino inglese, i tre grandi corpi – quello centrale più arretrato – fanno pensare a una versione più massiccia del Palazzo di Schönbrunn. Il visitatore si sente molto piccolo al confronto e non può consolarsi neppure fotografando perché, anche con il grandangolo al massimo, il palazzo non vuol saperne di entrare tutto nell’obbiettivo.

Parcheggiamo sulla spianata (sette euro per circa sei ore) dopo un viaggio di una quarantina di minuti e un ingresso in città semplice e tranquillo. Il percorso si è svolto prima su lunghi rettilinei che seguono le ondulazioni del terreno e poi, passata Ochsenfurt, costeggiando la riva destra del Meno: le pendici delle colline circostanti dove più batte il sole sono coperte di fitti vigneti a volte in notevole pendenza – novità paesaggistica presente anche nei rilievi circondanti la conca di Würzburg. Del resto, la zona è prettamente vinicola e, lungo la strada, numerose sono le aziende che vendono in modo diretto il prodotti delle loro viti. Il passaggio di grossi nuvoloni neri, che avranno la meglio fino al primo pomeriggio, rende meno ridente il colpo d’occhio, ma consente di godere di una temperatura più fresca rispetto al sole del giorno prima a Bamberga.

Con quindici euro (gli studenti non pagano) iniziamo la visita della Residenz entrando in un ampio androne su cui si aprono le porte carraie. Dall’altra parte rispetto a queste, un altrettanto imponente vestibolo si affaccia sul giardino illuminato da porte a vetri nella parete ricurva che fanno risaltare i muri bianchi e gli affreschi sul soffitto sostenuto da sottili colonne. Le dimensioni del tutto fanno già colpo così, eppure l’impressione risulta amplificata salendo il grande scalone che porta al piano superiore: l’ampia scalinata decorata in stile barocco è sovrastata da un soffitto altissimo in cui spicca l’affresco del Tiepolo considerato il più grande del mondo. Alla fine gira un po’ la testa nel tentativo di ammirare la gloria del principe-vescovo attorniato dalle allegorie dei quattro continenti, ma si perde presto la cognizione del tempo mentre si sta col naso per aria a scoprire nuovi particolari.

Quando riusciamo a staccarci, entriamo nella Sala Bianca, riposante per gli occhi con le sue delicate decorazioni in stucco bianco su uno sfondo appena più scuro, e poi nell’imponente Sala Imperiale, che celebra la gloria dei signori di Würzburg stordendo il visitatore tra stucchi dorati, specchi e dipinti del Tiepolo alle pareti e sul soffitto. Finisce qui la parte originale della costruzione: l’uscita dal corpo centrale significa il passaggio in ambienti danneggiati dalle bombe e poi restaurati (e per fortuna che almeno è andata così, altrimenti ciao ciao Tiepolo…). La visita non guidata (ci sono comunque tavole esplicative anche in inglese) è limitata all’ala nord: per l’altra – comprendente anche la Cappella e la Stanza degli Specchi – sarebbe necessario aggregarsi a un gruppo, ma la lingua è solo il tedesco a parte un giro mattutino e uno pomeridiano in inglese: decidiamo di proseguire da soli e il tutto risulta comunque più che soddisfacente.

Transitiamo in una serie di stanze, costituenti un appartamento, in cui è stato ripristinato l’originale aspetto barocco. Sono tutte finemente decorate, ma due spiccano sulle altre. La prima è la stanza da letto in cui hanno dormito Napoleone e sua moglie: il giaciglio, decorato in raso rosso, presenta un curioso promontorio della testiera che finisce per separare nettamente i cuscini dei due sposi. L’altra è la fascinosa stanza d’angolo laccata in verde su fondo argento: purtroppo, l’incendio del 1945 ha rovinato i riflessi della decorazione originale che si possono solo immaginare a partire dai pochi tratti ancora presenti e dalle fotografie esposte nelle stanze successive, mentre il pavimento in legno con effetto trompe l’oeil è stato minuziosamente ricostruito. Gli ambienti che seguono non sono stati in gran parte recuperati, ma sui muri imbiancati e decorati con semplicità spiccano, oltre una piccola pinacoteca, anche le immagini ‘prima e dopo’ il restauro, con l’illustrazione delle tecniche applicate e della passione profusa: l’ammirazione per quest’ultima non cancella il vago malessere dato dalla capacità di distruzione fine a se stessa che ogni tanto l’essere umano mette in mostra.

Prima di tornare allo scalone, si visitano ancora un’ampia sala ovale, in origine pensata come piccolo teatro di corte, e alcuni altri ambienti restaurati fra i quali spicca la Sala dei Principi, salone da ballo riccamente decorato e con alle pareti i ritratti di alcuni principi-vescovi. Infine scendiamo e, mentre cadono i primi pesanti goccioloni, passiamo nel giardino. Siccome abbiamo con noi gli ombrelli, siamo tra i pochi che continuano a gironzolare quando lo scroscio inizia a farsi consistente: gli altri turisti si stringono sotto alcuni pini dalla chioma modellata a tronco di cono che decorano lo spazio verde di fianco al lato sud. Il disegnato qui è geometrico, come pure nell’area, più grande, situata alle spalle della costruzione principale: attorno a una fontana centrale, si dipartono vialetti che delimitano tratti di prato il cui perimetro è decorato con fiori di vari colori. Fitte siepi creano gallerie verdi – una signora ne raccoglie i frutti somiglianti a grossi lamponi – alle cui spalle percorsi in lieve pendenza salgono verso la parte rialzata che consente di cogliere l’aspetto complessivo sullo sfondo dell’imponenza della Residenz. Il numero di visitatori assai limitato consente di godere della tranquillità che traspare dalle forme regolari e dalle combinazioni di colori.

DA NEUMÜNSTER AL MENO

Due passi fino all’estremità nord e un brezel per tacitare lo stomaco precedono la breve passeggiata verso il centro. Dopo cinque minuti, entriamo da una porta laterale nella Neumünster, chiesa romanica a tre navate con decorazione e facciata barocca i cui muri bianchi sono vivacizzati da una serie di quadri moderni che non stonano con l’insieme. Ci sarebbe anche, alla destra dell’altare, un (resto di) chiostro in cui è seppellito il poeta altomedioevale Walter von der Vogelweide, ma non è nulla di particolare e interesserà solo gli appassionati di letteratura tedesca.

Usciti dall’ingresso principale, ci portiamo verso il vicino Duomo dedicato a San Killian, uno dei tre monaci irlandesi che per primi portarono il cristianesimo da queste parti (la moglie del re di allora era la vedova di suo fratello e i tre volevano fargliela ripudiare, così ella li fece, con una qualche ragione, eliminare). Purtroppo, la chiesa è chiusa per restauri e possiamo così ammirare solo l’agile facciata, stretta e slanciata fra due torri a base quadrangolare: l’effetto prospettico è accentuato dalla piazza antistante, larga solo quanto la facciata stessa. Così, dopo qualche foto, ci giriamo di centottanta gradi e ci dirigiamo verso il Ponte Vecchio (Alte Mainbrücke).

La Domstrasse, come pure Kürschenhof su cui si affaccia Neumünster e che con quella fa angolo proprio davanti alla chiesa, è pedonale e bisogna solo stare attenti ai tram che la percorrono con frequenza. Sulla destra, quasi al ponte, sono situati il Municipio e il Grafeneckart, edifici che hanno mantenuto l’aspetto medioevale: in una sala, con un accesso un po’ nascosto, è in mostra un impressionante plastico della città dopo il bombardamento corredato di alcuni pannelli esplicativi bilingui. Lungo tutta l’ampia via si affacciano numerosi negozi e il passeggio, di turisti e non, è abbastanza intenso: sul ponte, invece, godiamo di una maggior calma oltre che della vista del Meno che scorre placidamente sotto di noi. Nell’ultima ora, il cielo si è fatto sempre più sereno e ora brilla un bel sole che illumina sia il corso d’acqua sia il profilo cittadino, per non parlare delle verdeggianti colline che ci circondano. Però, lo scorrere del tempo ci ha anche portati oltre l’ora di pranzo e risulta necessario trovare un posto dove andare a mangiare.

Proprio all’inizio del ponte si trova un bel ristorante con vista, ma i prezzi paiono eccessivi. Stiamo così per tornare verso il centro e i suoi locali abbastanza affollati, quando scorgiamo un Biergarten sotto le piante dall’altra parte del fiume, proprio nei pressi della conca navigabile lungo la sponda sinistra. Il suo nome è ‘Goldene Gans’ e si rivela un posto fresco allietato da un discreto panorama: seduti sulle panche accanto a uno dei numerosi tavoli consumiamo würstel bianchi e rossi, un leberkäse che però ha un altro nome (forse per disorientare i turisti) e una buona torta di mele (non al livello di quella di Weikersheim, però). La birra è di produzione propria e in offerta lancio assieme ai miei würstel bianchi – tento di separarli nel pentolino di acqua calda che li mantiene tiepidi originando una fontana – è una weiss chiara servita a temperatura non molto fredda e di qualità più che discreta.

DAL MENO ALLA RESIDENZ

Il pomeriggio è dedicato al resto della città, tralasciando la Fortezza Marienberg, la salita alla quale fa storcere il naso alla truppa. Riattraversato il Meno, raggiungiamo prima la Marienkapelle, che si affaccia, bianca e rossa, sulla piazza del mercato. La struttura gotica dell’esterno si conferma anche nelle tre navate: oltre ad altre sculture dell’onnipresente Riemenschneider, spiccano lungo le pareti le pietre tombali di alcuni cavalieri vissuti agli albori dell’età moderna, tutti quanti con gli attributi ben evidenziati (meno uno al quale, per caso o per dispetto, sono stati eliminati). Lungo le mura esterne della chiesa si aprono alcuni negozietti di materiale turistico, mentre sulla piazza sono ancora attive le bancarelle del mercato di generi alimentari: le ignoriamo tutte quante ma, dopo aver ammirato gli stucchi rococò su sfondo giallino che decorano la facciata della vicina Falkenhaus, non possiamo sottrarci alla libreria Hugendhubel che ci aspetta sulla confluenza su Kürschenhof.

Quest’ultima conduce poi allo Juliusspital, bell’edificio settecentesco che esercita ancora funzione ospedaliera (ma c’è anche una Weinstube) consentendo di visitare sia il bel cortile interno, sia il verde parco retrostante ora aperto al pubblico. Ci sarebbe anche una farmacia barocca (così dice la guida), ma resta aperta solo un’ora al giorno e noi manchiamo l’appuntamento per una quindicina di minuti. E’ oramai metà pomeriggio e la stanchezza comincia a farsi sentire, così, una volta tornati sulla Juliuspromenade cominciamo a dirigerci verso la Residenz.

Non possiamo però ignorare la possente Stift Haug, costruita a fine Seicento su progetto di un architetto italiano. Dotata di due torri gemelle sulla facciata e di un’ardita cupola, la chiesa era, fino al marzo del ’45, riccamente decorata: ora invece i suoi interni sono completamente bianchi – come del resto la facciata e gran parte della struttura esterna – facendo meglio risaltare la grande pala del Tintoretto che sovrasta l’altare. Il sedersi sulle panche del vasto edificio consente anche di rifiatare un po’, perché, nel frattempo, le nubi sono tornate e l’aria si è fatta più pesante. Non collabora certo il fatto che oramai abbiamo lasciato la zona pedonalizzata e il traffico, pur non trascendentale, disturba un po’ anche perché la temporizzazione dei semafori costringe ad attraversamenti a passo svelto.

La nostra prossima tappa sarebbe il Bürgerspital, di cui la guida loda il cortile interno, ma un cantiere di restauro ne blocca l’accesso. Proseguiamo così la marcia: lasciata alla nostra sinistra Semmelstrasse (l’antica via dei panificatori, con tanto di orgogliosa scritta gialla sospesa all’imbocco) e data una sola occhiata alla Rothaus – edificio patrizio costruito curiosamente in arenaria rossa – completiamo il periplo giungendo sulla spianata di fronte alla Residenz.

OUTRO

L’ultimo mattino, a Nenzing, ci alziamo che il sole deve ancora fare capolino da dietro le montagne. Prima che la colazione sia pronta, facciamo a tempo a sistemare di nuovo le valigie nell’auto parcheggiata in una piazzetta poco distante dall’hotel, scattare un paio di foto e ispezionare meglio il paese che sembra in tutto e per tutto una località di montagna a dispetto dei poco più che cinquecento metri d’altitudine. All’impressione contribuiscono in gran parte l’architettura delle case e le alte montagne che circondano un paesaggio dominato da numerose tonalità di verde.

Con qualche minuto di ritardo è infine pronta la colazione: del resto, il padrone ha dato giornata libera al personale – il ristorante di domenica è chiuso – e perciò deve trasformarsi di volta in volta in cuoco, barista o cameriere. In compenso, è possibile mangiare a volontà con una vasta scelta di salato e di dolce (con brioches di tutti i tipi). Volendo, ci sarebbero anche le uova sode, noi decliniamo al contrario degli altri, pochi clienti.

Verso le nove siamo di nuovo in strada in direzione di Feldkirch – solo una dozzina di chilometri, la sera prima erano sembrati molti di più – e di lì per l’Italia secondo un percorso che abbiamo imparato bene negli anni precedenti tornando da Lech: Liechtenstein, Svizzera (vicino a Lugano una lunghissima coda è ferma sull’altra carreggiata a causa di un auto in fiamme nella galleria del Monte Ceneri), Como, Milano. La patria ci accoglie con il cantiere per la costruzione della terza corsia sull’A8 che ci fa viaggiare a larghezza ridotta fino alle porte della metropoli lombarda: nel frattempo, la temperatura rilevata dal termometro dell’auto sale implacabile e, quando ci fermiamo a un autogrill poco dopo l’entrata in Autosole, i trentasei gradi accompagnati da un’umidità che si taglia con il coltello ci fanno per un attimo vacillare.



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