Un continente in un paese – parte I

L’Australia, sin dai miei ricordi di ragazzo, è sempre stata il paese remoto per eccellenza, così lontano che persino le notizie sul suo conto sembravano diradarsi. Finalmente la scorsa estate, avendo a disposizione un periodo di ferie sufficientemente lungo, con Stefania abbiamo deciso di intraprendere il viaggio rimandato più volte....
Scritto da: mapko64
un continente in un paese – parte i
Partenza il: 06/08/2004
Ritorno il: 05/09/2004
Viaggiatori: in coppia
L’Australia, sin dai miei ricordi di ragazzo, è sempre stata il paese remoto per eccellenza, così lontano che persino le notizie sul suo conto sembravano diradarsi. Finalmente la scorsa estate, avendo a disposizione un periodo di ferie sufficientemente lungo, con Stefania abbiamo deciso di intraprendere il viaggio rimandato più volte. Visitare un’isola che in realtà è un continente non è un’impresa facile: le nostre quattro settimane non erano sufficienti per “vedere tutto” e bisognava necessariamente fare delle scelte. Con un certo rammarico abbiamo rinunciato, ad esempio, al Western Australia, lo stato più remoto e selvaggio, e ci siamo affidati ad una serie di voli interni per guadagnare tempo. Prendere l’aereo e saltare da una parte all’altra non è tra i miei modi preferiti per entrare in sintonia con un paese: un continente andrebbe scoperto con calma, passo dopo passo, percorrendolo avanti ed indietro per mesi ma dato che per tirare avanti il mondo ha la pessima abitudine di costringermi a lavorare e scrivo diari di viaggio solo per diletto, qualche compromesso è stato inevitabile. L’Australia è veramente un mondo a parte, isolato da tutto il resto e popolato da venti milioni di persone concentrate in una minima parte del suo territorio. Tutto l’interno del paese, il mitico Outback, non è che uno sterminato bush e mi ha riportato ad un mondo primordiale altrove scomparso nel nostro sovraffollato e frenetico pianeta. La sensazione di vuoto che si ha, percorrendo centinaia di chilometri in mezzo al nulla, è veramente impressionante. La fauna australiana è il frutto di una linea evolutiva del tutto indipendente, che ha prodotto, grazie al lungo isolamento, animali con caratteristiche originali, come i marsupiali ed i monotremi. E’ stato emozionante incrociare nel loro ambiente naturale i “celebri” canguri e koala, e tanti altri animali meno “famosi”, molti dei quali vivono unicamente in Australia come l’echidna ed il buffo ornitorinco. La popolazione attuale del paese nasce da un miscuglio di razze; l’elemento anglosassone è dominante e caratterizza tutta la società, nel bene e nel male, ma è solo uno dei tanti (Melbourne è la terza città greca nel mondo dopo Atene e Salonicco). In particolare la comunità italiana è molto numerosa ed è veramente curioso che solo in questa nazione, così lontana dalla nostra patria, i cartelli e gli avvisi ufficiali se bilingue recano l’italiano come seconda lingua. Un discorso a parte meritano gli aborigeni: sono stati “travolti” dalla civiltà occidentale ed i filmati di inizio novecento del museo di Adelaide sono impressionanti in quanto ripropongono un mondo primitivo ormai spazzato via dalla modernità. Nell’Outback per fortuna alcuni aspetti della civiltà aborigena sopravvivono ancora. Si tratta di una civiltà degna del massimo rispetto: ha molto da insegnarci nella capacità di vivere in armonia con la natura mentre l’affascinante religione è la più antica del pianeta. A partire dagli anni settanta si è sviluppata finalmente una maggiore sensibilità verso i problemi ed i diritti delle popolazioni originarie dell’Australia. Molte terre (solo quelle “vuote” naturalmente) sono state formalmente restituite ma questa gente spesso vive ancora emarginata in una società che non è la sua. Nel nostro viaggio abbiamo avuto pochissimi contatti con gli aborigeni, incrociandone alcuni solo nel Northern Territory. Ho trovato veramente curiosa la situazione di Uluru: tutto ricorda gli anangu, di nuovo proprietari di queste terre, inclusi i vari divieti che proteggono i luoghi sacri alla loro religione, ma poi in giro non si vede nemmeno un aborigeno !! I momenti emozionanti sono stati tanti: abbiamo ammirato paesaggi stupendi ed incredibilmente vari, dal Top End tropicale con l’emozionante Kakadu alle splendide rocce del Central Australia con Uluru e Kata Tjuta, dallo stupendo “anfiteatro” di Wilpena Pound alla costa mozzafiato dell’Ocean Road, finendo in bellezza con la sterminata costa del Queensland, detentrice di tanti “primati mondiali” (l’isola di sabbia più grande, la spiaggia più bella, la barriera corallina più estesa). Le città australiane non sono il motivo principale per il quale si visita un paese così lontano ma, anche se prive della nostra storia, sono piacevoli e molto vivibili; sono state progettate a dimensione d’uomo, piene di verde e di piacevoli aree pedonali. Sydney poi è veramente incantevole, collocata in una baia d’incredibile bellezza. Abbiamo organizzato il viaggio per conto nostro, documentandoci sulle guide ed utilizzando internet per le varie prenotazioni. Di seguito riporto qualche utile consiglio. Volo intercontinentale: se volete risparmiare evitate assolutamente di partire ad agosto come siamo stati costretti a fare per problemi di ferie. In questo mese il prezzo del volo sale alle stelle. Abbiamo scelto la Quantas che ci garantiva almeno la possibilità di arrivare e ripartire da città diverse senza spese aggiuntive ma alla fine i calcoli sono risultati sbagliati: abbiamo superato il numero massimo di miglia e ci è toccato pagare il volo Sydney-Darwin. Voli interni: la scelta più conveniente è quella di acquistare i biglietti su internet. Le tariffe sono molto più basse, specie se ci si muove con un certo anticipo. Abbiamo scelto sempre la Quantas che copre più tratte ma si può utilizzare anche l’altra compagnia nazionale, la Virgin Blue. Al check-in è sufficiente consegnare l’e-ticket, cioè la stampa della prenotazione fatta su internet (in questo modo si evita anche lo stress dell’eventuale smarrimento del biglietto). Auto a noleggio: abbiamo prenotato i vari tratti in macchina su internet. La scelta è caduta sulla Hertz, con la quale Stefania gode dello sconto della sua azienda (oltre ad una serie di altre facilitazioni quali l’additional driver ed il drop off gratuiti). I noleggi sono risultati molto convenienti in tutti gli stati eccetto il Northern Territory. In questo caso, infatti, la tariffa era a chilometraggio limitato e, viste le distanze percorse, il sovrapprezzo è stato notevole tanto che il costo ha superato quello offerto dalle agenzie turistiche italiane. Trasporti e gite organizzate: per evitare brutte sorprese abbiamo prenotato tutti i trasporti e le gite organizzate tramite internet. Alloggi: nei parchi abbiamo dormito sempre in campeggio, utilizzando la nostra tenda. Spesso abbiamo scelto i “powered site” senza usufruire mai della presa per la corrente e scoprendo poi che in realtà sono destinati ai camper. La soluzione della tenda è da tenere in considerazione anche per molte città, visti i numerosi caravan park. I campeggi sono stati tutti ottimi, puliti (inclusi i bagni) e organizzati. In città siamo ricorsi agli ostelli, prenotati tramite il sito web “hostelworld”. In genere abbiamo dormito in doppie senza bagno, concedendoci “private facilities” poche volte nel corso del viaggio. Gli ostelli sono risultati puliti, molto piacevoli ed in alcuni casi anche particolarmente carini (come ad Alice Springs, Hervey Bay e Cairns). Unica eccezione il fatiscente Victoria Hall di Melbourne: un vero pulciaio da evitare assolutamente !! Pasti: spesso abbiamo fatto la spesa, nutrendoci con formaggini, biscotti e scatolette. Negli ostelli e nei campeggi in realtà esiste la possibilità di cucinare ma arrivando tardi la sera non ne avevamo proprio voglia. Le cene migliori sono state quelle al Kangaroo Island Wilderness Resort e al Dublin Inn di Port Fairy.

Ed ora il diario di viaggio. In terra australiana abbiamo seguito il seguente itinerario di massima: Sydney – Darwin – Kakadu – Alice Springs – Ayers Rock – Adelaide – Wilpena Pound – Kangaroo Island – Ocean Road – Melbourne – Brisbane – Fraser Island – Isole Whitsundays – Cairns

Venerdì 6 / Sabato 7 agosto: Roma – Francoforte – Singapore L’Australia si trova dall’altra parte del globo e ci attende un lungo viaggio per raggiungerla. Dopo un “volo di riscaldamento” fino a Francoforte, a mezzanotte partiamo alla volta di Singapore. Durante la trasvolata di dodici ore, ho modo di apprezzare due funzionalità dei nuovi aerei: ciascun passeggero ha a disposizione un piccolo schermo collocato nel sedile di fronte che gli consente di scegliere tra una quindicina di canali e svariati video-giochi; il poggiatesta del sedile può essere curvato ai lati, consentendo di dormire senza farsi venire il torcicollo. Grazie soprattutto a questo secondo optional, il volo passa più in fretta del previsto con una gran dormita !! A Singapore dobbiamo scendere dall’aereo; ne approfittiamo per sgranchirci un po’ passeggiando per l’aeroporto e collegarci ad internet con le postazioni gratuite. Saliti nuovamente in aereo ripartiamo alla volta di Sydney. Domenica 8 agosto: Sydney Alle sei del mattino locali, dopo un volo di sette ore, raggiungiamo finalmente Sydney. Gli australiani sono dei veri isolazionisti: non si possono introdurre generi alimentari (dovrebbero passare una quarantena) e bisogna dichiarare tutte le medicine che si portano con se, per cui perdiamo un po’ di tempo alla dogana. Preso possesso della nostra prima macchina a noleggio, una Toyota Yaris dal bagagliaio piccolissimo, ci dirigiamo verso l’ostello prenotato tramite internet. Si tratta della Pink House, ospitata in una bella palazzina tinta di rosa nell’animato quartiere di King Cross. A questa ora la reception è chiusa ma ci attende una busta con le chiavi della stanza; è veramente microscopica, appena sufficiente a contenerci con tutto il bagaglio !! Il viaggio è stato molto lungo ma non possiamo certo sprecare un’intera giornata e quindi teniamo duro. Sistemata la macchina nel costoso parcheggio vicino all’albergo, partiamo a piedi per l’esplorazione della città. King Cross non è lontano dal centro e, percorsa William Street, raggiungiamo Hyde Park. E’ domenica mattina ma le strade sono affollate perché è il giorno della maratona “City to Surf”. La partenza è fissata proprio a Hyde Park mentre l’arrivo è a Bondi Beach. Le strade sono piene di atleti in attesa del via e l’effetto è molto bello, un gradito benvenuto al nostro arrivo in Australia insieme alla luminosa giornata di sole. Ci mescoliamo alla folla passeggiando nel parco e gettando un’occhiata all’Anzac Memorial, ricordo dei caduti del contingente australiano alla prima guerra mondiale. La partenza della maratona si lascia attendere e così decidiamo di proseguire il nostro giro. Le origini di Sydney, come di molte altre città australiane, non sono proprio nobili: nasce come colonia penale inglese e quei tempi sono ricordati dalle Hyde Park Barracks. Il vecchio carcere ospita un interessante museo che ricostruisce gli ambienti e la vita dei prigionieri. La lunga Macquarie Street conduce verso la baia, consentendoci di ammirare un’interessante commistione di edifici storici e architetture ultra moderne (splendidi alcuni palazzi per appartamenti). Due colorati pappagalli sembrano anche loro volerci salutare dall’alto di un albero. L’aspetto più apprezzabile di Sydney è senza dubbio la sua spettacolare posizione, a cavallo di un’insenatura che si allunga come un fiordo dall’oceano verso l’interno. Raggiunto il Sydney Cove, cuore originario della città, la baia si schiude davanti ai nostri occhi, con la mole dell’Harbour Bridge che la scavalca da un lato, lo skyline dei grattacieli in mezzo e la celeberrima Opera House sul lato opposto. L’edificio è uno dei simboli del paese e la sua fama è veramente meritata: l’originale architettura si adatta perfettamente al luogo. L’impressione è quello di una flotta di grandi velieri ancorati uno accanto all’altro. Per visitare gli interni ci affidiamo ad un tour guidato che ci porta in quattro sale, con destinazioni e dimensioni differenti, dall’enorme Concert Hall, all’Opera Theatre (il cui piccolo palcoscenico pone non pochi problemi organizzativi) e alle altre più raccolte. Percorso il Circular Quay, l’animata passeggiata lungomare punto di partenza dei traghetti per le varie località della baia, ci spostiamo sull’altro lato dell’insenatura raggiungendo The Rocks, il quartiere più antico della città, animatissimo grazie anche al mercato domenicale. Ci spingiamo fino alla punta dalla quale l’Harbour Bridge spicca il suo salto attraverso la baia. Proseguiamo la nostra esplorazione della città tornando verso l’interno, nel CBD; oggi è domenica ed il distretto finanziario, pieno di grattacieli, appare spopolato. Nel quartiere svetta la Sydney Tower, l’edificio più alto della città e, nonostante l’ingresso salato, non possiamo mancare la sua terrazza panoramica. La vista abbraccia tutta la baia consentendoci di apprezzare la sua originale conformazione. Ripresa la passeggiata, facciamo una capatina al Queen Victoria Building, un colossale edificio ottocentesco, riutilizzato come shopping centre. Nei decorati interni spicca un gigantesco carillon. Il nostro giro termina alla Town Hall da dove in metropolitana facciamo ritorno a King Cross. La giornata è stata veramente intensa, dopo un viaggio così lungo, e quindi per cena scegliamo una soluzione veloce in un piccolo e simpatico locale indiano. Lunedì 9 agosto: Sydney – Blue Mountains – Sydney Giornata dedicata alle Blue Mountains, le verdeggianti montagne ad un centinaio di chilometri da Sydney. La loro caratteristica colorazione deriva dai raggi del sole che attraversano le gocce di olio disperse dagli alberi della gomma. Il parco è percorso dalla Great Western Highway e le varie escursioni si compiono facendo brevi deviazioni. E’ curioso pensare che queste montagne costituirono per anni un limite invalicabile per i coloni mentre oggi sono così semplici da raggiungere !! Per primo incontriamo il paesino di Glenbrook, sede del visitor centre; proseguiamo poi fino a Wenworth Falls, raggiungendo l’omonima Reserve. Dal Princess Rock Lookout la vista spazia sulla Jamison Valley, una bella vallata coperta di alberi. Seconda tappa alla Conservation Hut, dalla quale un sentiero conduce all’Empress Lookout con un’altra bella vista, questa volta sulla Valley of Waters. Katoomba è il centro principale delle Blue Mountains, con le attrazioni turistiche più famose. In macchina raggiungiamo l’Echo Point: un vasto piazzale si apre su una verdeggiante vallata con i picchi delle Three Sisters, simboli delle Blue Mountains. Al visitor centre c’informiamo sulle possibilità di fare qualche trekking: la mia idea iniziale era quella di scendere nella valle da questo punto in corrispondenza della Giant Stairway, percorrere una parte del sentiero che la attraversa tutta, risalire con il trenino a cremagliera ed infine tornare indietro con la funivia Skyway. Il percorso però è chiuso per frane e quindi siamo costretti a ripiegare sulla combinazione più classica, amata dal turismo di massa: ci spostiamo al capolinea della funivia e acquistiamo il doppio biglietto per scendere con il trenino e risalire con la funicolare. La Scenic Railway era utilizzata in passato per il trasporto da una miniera e si vanta di detenere il record mondiale per la pendenza. Su una ringhiera se ne stanno appollaiati alcuni splendidi cacatua bianchi con la cresta gialla. La musichetta di Indiana Jones completa l’atmosfera da luna park. Scesi nella valle facciamo una passeggiata attraverso la rainforest. E’ la nostra prima esperienza con la foresta pluviale, ridotta ormai in Australia ad una serie di sacche isolate e la vegetazione rigogliosa c’impressiona notevolmente. Completato il giro, risaliamo nella moderna cabina dello Scenic Scender. La funivia Skyway, altro simbolo delle Blue Mountains, scavalca il profondo canyon delle Katoomba Falls, ma è chiusa per lavori di ristrutturazione. Lasciamo Katoomba proseguendo sulla highway fino a Blackheath, dove raggiungiamo il Govett Leap: il panorama sulla Grose Valley e le Bridal Veil Falls è molto bello anche se l’ora tarda fa sì che buona parte del paesaggio sia ormai in ombra. Sulla strada del ritorno una deviazione nel paesino di Leura ci porta ad un altro punto panoramico, il Sublime Point Lookout. Da un costone di roccia proteso nel vuoto la vista spazia sulla Jamison Valley ma spira un vento fortissimo e resistiamo per poco. La nostra gita alle Blue Mountains è ormai terminata: il parco è sicuramente spettacolare ma la visita, fatta quasi esclusivamente di panorami dai lookout, ha finito per esaltarne l’aspetto più turistico !! A Sydney raggiungiamo il Darling Harbour; il vasto bacino, insieme allo skyline dei grattacieli illuminati, fornisce un bel colpo d’occhio ma la grande attrazione è l’incredibile acquario. Appena entrati, la nostra attenzione è subito attratta dal platypus: è proprio buffo con quel muso da cartone animato e non smette mai di nuotare avanti ed indietro. Il panorama sul mondo sottomarino australiano è veramente completo, dai pesci d’acqua dolce (tra cui il curioso pesce gatto) all’incredibile spettacolo della barriera corallina, presentato in un’enorme vasca stracolma di pesci coloratissimi (un “tuffo” nel mondo di Nemo ricordato in molti cartelli). Tra le curiosità mi colpiscono alcuni squali dalle buffe pinne che conferiscono loro l’aspetto di mante e un granchio enorme che vive a centinaia di metri di profondità. Nell’esposizione non manca uno spazio per i pinguini, con tanto di finte onde, ed una piscina per le foche, ma sicuramente il momento più emozionante è l’incontro con gli squali. Due gallerie trasparenti attraversano la vasca, permettendo di passeggiare tranquillamente in mezzo a loro !! La vista ravvicinata offre uno spettacolo veramente impressionante. Vista l’ora tarda (sono le dieci di sera), ripieghiamo su una rapida cena da McDonald. Prima di tornare in ostello, facciamo un giro in macchina per ammirare Sydney by night, attraversando la baia sull’Harbour Bridge. Martedì 10 agosto: Sydney – Darwin Le guide recitano che un must per chi visita Sydney è la gita sul battello di linea che collega il centro con il sobborgo di Manly; obbedienti decidiamo di assolvere questo “dovere”. Il ferry parte dal Circular Quay, nodo nevralgico del traffico marittimo. Manly si trova in prossimità dell’imboccatura settentrionale della baia e lo spettacolo non tradisce l’attesa: la vista dello skyline dei grattacieli con l’Opera House e l’Harbour Bridge che si allontano è indimenticabile. La baia è tutta una successione di verdi calette e borghi con porticcioli caratteristici; approdati al Manly Cove siamo ancora al suo interno ma il Corso, fiancheggiato da case pittoresche, ci conduce subito alla spiaggia sull’oceano. E’ inverno ed in giro non c’è quasi nessuno ma la giornata soleggiata rende lo spettacolo ugualmente godibile. La traversata di ritorno è resa ancora più piacevole dal traghetto più lento, rispetto al “veloce” Jetty Cat dell’andata. Dal Circular Quay una corsa in metro ci porta alla Town Hall, dove riprendiamo la passeggiata interrotta il primo giorno. Percorsa l’animata George Street, siamo a Chinatown con la solita vivace porta d’ingresso. Il quartiere è meno caratteristico dei corrispondenti in altre città. Pranziamo al BBQ King, in compagnia di business men in pausa. Tornati all’ostello recuperiamo la macchina e raggiungiamo Bondi Beach, la spiaggia più famosa di Sydney. Durante l’estate il posto è animatissimo ma in questa stagione solo alcuni gruppi sparsi di surfisti cercano di cogliere le onde dell’oceano. Il surf è uno sport nazionale in Australia e per molti giovani anche una filosofia di vita !! A questo punto la nostra intenzione sarebbe quella di spingerci fino a South Head, la punta meridionale dell’imboccatura della baia. Raggiungiamo prima The Gap, una serie di spettacolari scogliere sull’Oceano e poi Watson Bay, con un porticciolo pieno di barche e una bella vista sulla City. Per raggiungere South Head dovremmo proseguire per il sentiero lungo la spiaggia (dicono dei nudisti) ma non ne abbiamo il tempo, dato che ci attende il volo per Darwin. All’aeroporto, riconsegnata la macchina, partiamo per il primo volo interno. La trasvolata fino a Darwin dura quattro ore, a testimonianza dell’estensione dell’Australia, ma per me il tempo passa molto in fretta, grazie ad una gran dormita. Ritirata la nostra seconda macchina a noleggio, una Hyunday Getz, raggiungiamo l’ostello, il Frogshollow, superata la mezzanotte. Come a Sydney, anche questa volta ci attende una busta con le chiavi della stanza. Mercoledì 11 agosto: Darwin – Kakadu NP Il bagagliaio della macchina non è sufficiente per tutte le nostre cose e, visto che alla fine del giro nel Top End torneremo a Darwin, decidiamo di lasciare una borsa nell’ostello. Il deposito ci costa addirittura 10 dollari ai quali dobbiamo aggiungere anche una sovrattassa poiché paghiamo con la carta di credito !! Lasciamo Darwin seguendo la Stuart Highway, la mitica strada che taglia tutta l’Australia fino a Adelaide. Sarà la nostra fedele compagna di lunghi spostamenti ma oggi deviamo quasi subito sulla Arnhem Highway, che puntando verso est conduce fino al Kakadu NP. Siamo nella stagione secca ed il paesaggio appare decisamente brullo. Il traffico inesistente ci consente di procedere spediti. Lungo il percorso incrociamo un incredibile numero di termitai: la loro altezza arriva a qualche metro ed è sorprendente pensare che siano l’opera d’insetti così piccoli (quando si dice che l’unione fa la forza !!). Finalmente varchiamo l’ingresso (a pagamento) del Kakadu, considerato giustamente una delle meraviglie dell’Australia. Il parco si vanta di essere tra i pochi siti al mondo incluso dall’UNESCO nel patrimonio dell’umanità, sia per motivi naturalistici che culturali. Il paesaggio non cambia molto, come accade bruscamente in altri paesi all’ingresso di un parco: nell’Outback australiano la presenza dell’uomo è molto limitata e il paesaggio, anche fuori dei parchi, mantiene il suo aspetto selvaggio (speriamo che duri !!). Il Kakadu è immenso: si estende per centinaia di chilometri ma per fortuna quasi tutte le attrazioni principali sono raggiungibili con strade asfaltate. La nostra prima fermata è a Mamukala: ci appostiamo, per una “sessione” di birdwatching, in un casotto di legno costruito davanti ad una vasta palude. Subito scorgiamo un alto uccello bianco dal becco giallo, l’egart della famiglia degli aironi, molto comune da queste parti. In silenzio continuiamo a scrutare le acque con il binocolo: gruppi di papere si aggirano tranquille nei paraggi mentre una tartaruga fa capolino in lontananza in mezzo alla vegetazione. Poco prima di Jabiru, principale centro abitato all’interno del parco, pieghiamo verso sud lungo la Kakadu Highway. Dopo pochi chilometri, siamo al Bowali Visitors Centre, provvisto di interessanti spiegazioni sulla natura, presentate anche dal punto di vista degli aborigeni. Ripresa la marcia, una deviazione ci porta nell’area di Nourlangie Rock dove si trovano le pitture aborigene più belle. Un sentiero di dodici chilometri, il Barrk Walk, gira tutto intorno alla montagna (raggiungendo anche l’area di Nanguluwur) ma noi preferiamo limitarci alla comoda passeggiata che consente di ammirare tutte le attrazioni principali. Raggiungiamo per primo l’Anbangbang Rock Shelter, un ricovero frequentato dagli aborigeni già 20.000 anni fa. Proseguiamo ammirando numerose pitture rupestri: oltre a molte raffigurazioni di canguri, colpiscono in particolare la figura di Nabulwinjubulwinj, con l’attributo maschile in evidenza, e l’Anbangbang Gallery con le tre splendide figure principali: si tratta di Namarrgon, signore dei fulmini rappresentati dalle sottili linee che uniscono testa, mani e piedi, sua sorella Namondjok, in posizione dominante al centro, e sua moglie Barrkinj, in basso; gruppi di uomini e donne completano il quadro della cerimonia. Le pitture appaiono molto vivide poiché sono state ridipinte nel 1964, secondo una pratica tradizionale. Dal Gunwarddehwarde Lookout la vista spazia ampia sulle rocce ed il bush. Un breve tratto in macchina ci porta all’area del Nawulandja Lookout e dell’Anbangbang Billabong. Per prima scaliamo la collina con il lookout, godendo una bella vista su Nourlangie Rock. Raggiungiamo poi il billabong. Questo termine aborigeno indica un bacino più o meno grande, formato dal ritirarsi delle acque nella stagione asciutta. Nell’estate australe il paesaggio del Kakadu cambia completamente: le piogge torrenziali alimentano i fiumi che invadono tutta la pianura. Lo spettacolo deve essere incredibile ma gli spostamenti diventano estremamente difficoltosi (a testimonianza dell’intensità del fenomeno lungo le strade si trovano spesso indicatori di profondità che arrivano fino a tre metri !!). Un sentiero consente di fare il giro tutto intorno al billabong, circondato da paperback e mangrovie; lungo il percorso scorgiamo nuovamente alcuni esemplari del bianco egart. L’ultima escursione in quest’area ci permette di ammirare altre pitture rupestri. In macchina percorriamo una sterrata fino ad un parcheggio dove parte il Nanguluwur Walk. Il posto è poco frequentato ed in giro non incrociamo quasi nessuno. Percorrendo il sentiero, attraversiamo un’arida piana con il solito bush e finalmente siamo soli con la natura. Fa caldo e un nugolo di mosche ci ronza attorno per tutto il tragitto. Alla fine raggiungiamo la montagna (la stessa di Nourlangie Rock ma sul lato opposto) dove si trovano altre pitture, anche queste molto belle. Ammiriamo per la prima volta grossi pesci, raffigurati con la lisca e gli organi interni, una serie di mitici Antenati dalle curiose figure allungate ed alcune pitture del Periodo del Contatto, con i primi elementi di “modernità”. Ormai abbiamo terminato l’esplorazione della splendida area di Nourlangie Rock e, ripresa la marcia verso sud lungo la Kakadu Highway, raggiungiamo Cooinda dove trascorreremo le prossime due notti. Nel campeggio del Gagudju Lodge il terreno durissimo ci crea qualche difficoltà nel piantare i picchetti; riusciamo nell’impresa solo grazie al prestito di un martello. Anticipando la gita in barca di domani, sfruttiamo gli ultimi scampoli di luce prima del tramonto per una puntata a Yellow Water, una serie di bacini e canali separati da verdissime lingue di terra, nella pianura alluvionale del South Alligator River. Un breve percorso su passerella consente di ammirare il paesaggio. Mentre ci stiamo godendo il tramonto compare un grosso coccodrillo: nuota emergendo appena dal pelo dell’acqua, suscitando l’interesse di tutti i presenti. Un paio di aquile, appollaiate sulla cima di un albero, preannunciano la “scorpacciata” di uccelli che ci attende domani. L’unica scelta per cena è il ristorante del lodge; il costoso buffet ci consente almeno di rimpinzarci per bene. Al campeggio il cielo stellato è emozionante e trascorro un po’ di tempo ad “esplorarlo”, cercando di individuare le “misteriose” costellazioni dell’emisfero australe. Le stelle numerosissime mi confondono le idee, tanto che alla fine riesco a riconoscere solo la Croce del Sud. Giovedì 12 agosto: Kakadu NP La crociera nella wetland di Yellow Water è una delle grandi attrazioni del Kakadu e non tradisce le nostre aspettative. Abbiamo scelto il giro delle 6:45 in quanto all’alba gli animali sono molto più attivi. In cielo la costellazione di Orione ci guarda a testa in giù. A quest’ora anche il paesaggio sembra dare il suo meglio: il sole sorge dalle vaste distese verdi ed una nebbiolina dorata si leva dalle acque, movimentate dall’immagine riflessa della ricca vegetazione. La varietà d’uccelli è incredibile (al Kakadu si trova un terzo delle specie di tutta l’Australia). Incrociamo l’alto jabiru, nero con le zampe rosse, il piccolo kingfisher, tutto blu, il maschio dello jacan che assomiglia ad un gallinaccio con la cresta rossa e blu. Le papere sono numerosissime e naturalmente non mancano gli egart, bianchi con il becco giallo in rappresentanza della famiglia degli aironi. I neri danters tengono le ali spalancate per asciugarle al sole del mattino. Su un albero in lontananza riusciamo, grazie al binocolo, a cogliere la rara immagine di un nido con mamma jabiru e pulcino. Il sole si fa sempre più alto, illuminando il paesaggio e le ninfee lungo la riva. Naturalmente però le “star dello spettacolo” sono i coccodrilli: ne incrociamo diversi, inizialmente mentre nuotano immersi nell’acqua mostrando solo la parte superiore della testa, poi mentre se ne stanno distesi sulla riva a riposarsi. Sono veramente impressionanti ed impariamo a distinguere questa specie, il saltwater (estuarine) crocodile, dagli alligatori assenti in Australia, per i terribili denti che spuntano dalla bocca. Terminata la crociera, raggiungiamo il Warradjan Aborigenal Cultural Centre, dedicato agli aborigeni Bininj, tradizionali abitanti di queste terre. Ogni tribù è divisa in vari gruppi ed una serie di ruote illustra le complesse combinazioni cicliche in base alle quali uomini e donne devono sposarsi. La forma circolare dell’edificio rappresenta una warradjan, la tartaruga dal naso di maiale. Per raggiungere Ubirr, nostra prossima meta, torniamo verso nord fino alla Arnhen Highway e proseguiamo oltre, ancora un bel tratto. L’area, ricca di spunti interessanti, è limitata dall’East Alligator River che segna il confine del parco con l’Arnhem Land, la vasta e “misteriosa” terra degli aborigeni. Iniziamo le esplorazioni con la Manngarre Walk, una passeggiata circolare di un chilometro e mezzo attraverso un tratto di rainforest. La prima parte costeggia il fiume, fino ad una piazzola panoramica dalla quale scorgiamo sull’altra sponda un grosso coccodrillo, immobile con la bocca spalancata. Pochi passi e incrociamo un impressionante ficus banjam, cresciuto su una roccia dedicata al Serpente Arcobaleno. Ripresa la macchina, ci spostiamo al molo d’imbarco della Guluyambu Cruise. Un cartello ribadisce, se a qualcuno fossero sorti dei dubbi, il divieto di balneazione per la presenza di coccodrilli !! La crociera si sviluppa lungo l’East Alligator River e non è una ripetizione di quella di Yellow Water, poiché è incentrata su aspetti culturali illustrati da una guida aborigena. Il paesaggio lungo il fiume è molto bello, con le acque limacciose e la rigogliosa vegetazione lungo le rive. Durante la navigazione, scorgiamo diversi coccodrilli che a questa ora della giornata, usciti dall’acqua, se ne stanno sdraiati lungo la riva. Una sosta a terra ci porta sull’altra sponda, nell’Arnhem Land. La guida ci mostra una serie di oggetti d’uso comune nella civiltà aborigena: borse, ceste, giavellotti di legno e altri ancora. Gli aborigeni sanno sfruttare tutto ciò che offre la natura, ad esempio la corteccia del paperback, utilizzata insieme con pezzetti di legno per accendere il fuoco, come c’illustra l’altro nostro accompagnatore di colore. Nell’area di Ubirr si sviluppano varie passeggiate: scegliamo la Bardedjilidji Walk, un percorso circolare di due chilometri e mezzo, che consente di ammirare curiose formazioni rocciose e diverse piante. Alla fine della strada asfaltata raggiungiamo il pezzo forte, il sito di Ubirr, apprezzato sia per le pitture rupestri che per la possibilità di ammirare uno splendido tramonto. Il primo gruppo di pitture presenta l’interessante figura del pescatore Mabuyu. Un racconto che lo vede come protagonista narra che un giorno prese molti pesci ma gli furono rubati da altri aborigeni. Mabuyu rintracciò i ladri in una caverna e li intrappolò dentro facendo rotolare una roccia davanti all’ingresso. Morirono tutti insieme alle loro mogli, una giusta punizione per il loro comportamento immorale. Sulla parete la sottile figura di Mabuyu è rappresentata con un astuccio penico, una sacca per trasportare il cibo, una lancia nella mano destra, un ventaglio per attizzare il fuoco e altre due lance nella mano sinistra. Vicino a Mabuyu è raffigurata una tartaruga dal collo lungo, il simbolo del “Tempo dei Sogni” delle popolazioni aborigene di questa regione. Un breve tratto ci porta ad un ampio ricovero nella roccia con un gran numero di pitture: la Main Art Galery presenta una lunga fila di animali (pesci, wallaby, un pesce gatto, un ornitorinco) dipinti nello stile a raggi X, cioè raffigurando la loro struttura interna, insieme ad un paio di balanda, uomini bianchi, con le mani in tasca. Sul soffitto sono presenti le figure “stick-like” dei Mimi: i mitici spiriti dispettosi vivono nei crepacci e sono considerati gli autori di tutte le pitture situate dove gli uomini non possono arrivare. In alto si nota anche una rappresentazione della Tigre della Tasmania, scomparsa dal Northern Territory dopo l’arrivo dei dingo. Nella galleria si osservano stili differenti, corrispondenti alle varie epoche dei dipinti: i più antichi sono le figure più semplici dei Mimi e della tigre, seguite poi dalle raffigurazioni a raggi X e per ultime da quelle relative al Periodo del Contatto, con l’arrivo dell’uomo bianco. L’ora del tramonto si sta avvicinando ed ecco spuntare a fianco della roccia alcuni wallaby, che si mantengono prudentemente ad una certa distanza. Il gruppo successivo di pitture, contiene tra le altre la rappresentazione del Serpente Arcobaleno ed il posto è stato “immortalato” recentemente nella trasmissione televisiva “Turisti per Caso”. Il Serpente Arcobaleno è uno degli antenati totemici più importanti, rispettato in tutta l’Australia ma particolarmente nell’Arnhem Land. Ha un doppio simbolismo: rappresenta sia il bene che il male, evocando la creazione e la distruzione. Il dualismo è riproposto dalle sue due personificazioni: la femmina Yingarna, Grande Madre Creatrice ed il suo figlio maschio Ngalyod, Grande Trasformatore della Terra. I poteri del Serpente ispirano un tale terrore che gli uomini devono guardarsi da lui, le donne incinte devono fare attenzione a non sporcare le fonti dove vanno ad abbeverarsi mentre i ragazzi, durante i riti che segnano il passaggio all’età adulta, devono evitare di bere nei fiumi per paura di essere rapiti dal Serpente. Una storia racconta che un bambino non smetteva più di piangere ed il Serpente Arcobaleno indispettito piombò nell’accampamento, intrappolò tutti gli abitanti, avvolgendoli con il suo enorme corpo circolare, e li divorò. La storia serve come ammonimento per le donne aborigene affinché abbiano cura dei loro bambini, poiché il pianto del piccolo fu provocato dal cibo cattivo che aveva mangiato. Il giro prosegue arrampicandosi sulle rocce. Incrociamo altre pitture: una nuova serie di pesci rappresentati come il solito con tanto di lisca e stomaco e la raffigurazione delle sorelle Namarkan, due donne anziane che raccontano le loro storie intrecciando dei fili tra le dita, secondo una tradizione aborigena. Finalmente in vetta raggiungiamo il Nardab Lookout. La vista spazia ampia su uno splendido paesaggio di rocce immerse nel bush; su un lato si estende la scarpata che segna il confine dell’Arnhem Land, su un altro una pianura con vaste distese d’acqua. La calda luce del tardo pomeriggio rende lo spettacolo ancora più bello, fino all’emozionante tramonto. Per tornare a Cooinda ci attende un lungo tratto di strada. Ormai è buio e quindi procedo con grande prudenza per evitare di investire qualche animale. Seconda cena al resort: questa volta rinuncio al buffet e mi godo un abbondante fish & chips. Alcuni tavoli sono occupati da comitive di aborigeni: uomini e donne dalle debordanti pance siedono separati, fumando sigarette e consumando un gran numero di birre. I loro atteggiamenti mi ricordano i tristi effetti del modo di vivere occidentale sui nativi australiani. Venerdì 13 agosto: Kakadu NP – Pine Creek – Edith Falls – Katherine Dopo un’ultima occhiata agli splendidi paesaggi di Yellow Water, lasciamo Cooinda dirigendoci verso l’uscita meridionale del parco. Le possibili deviazioni lungo questo tratto della Kakadu Highway richiedono le quattro ruote motrici: con un certo rammarico dobbiamo rinunciare, in particolare, alle Jim Jim Falls e alle Twin Falls. L’unica eccezione è l’area di Gungurul: decidiamo quindi di esplorarla se non altro per spezzare il viaggio. Rinunciando al percorso lungo un ramo del South Alligator completamente asciutto, ci limitiamo a raggiungere un lookout sopra una collina ma il panorama è deludente. Tutta l’area è veramente secca ed in compenso le mosche non la finiscono più di ronzarci intorno. Usciti dal parco raggiungiamo il paese di Pine Creek, all’incrocio con la Stuart Highway; ne approfittiamo per fare benzina ed acquistare un po’ di provviste, gettando appena un’occhiata alla vecchia stazione dove è esposto un treno d’epoca. Proseguiamo verso sud lungo la highway fino a raggiungere le Edith Falls, una delle due sezioni del Nitmiluk NP. L’Edith River forma in questo tratto una serie di cascate e laghetti, raggiungibili mediante una rete di sentieri. Il Leliyn Walk compie un anello di due chilometri e mezzo passando per l’Upper Pool; da esso si diparte un lungo percorso di 66 km fino al Katherine Gorge, seconda sezione del parco. Il primo tratto conduce in tre chilometri e mezzo alla Sweetwater Pool e, vista la distanza più “ragionevole”, decidiamo di affrontarlo. Il sentiero procede pianeggiante raggiungendo il fiume che prende poi a costeggiare fino alla Longhole, un laghetto alimentato da una serie di cascatelle. Proseguiamo raggiungendo la Sweetwater Pool, meta finale del percorso, immersa in una bella vegetazione. Un cartello segnala in modo intimidatorio che solo i più esperti possono proseguire per gli oltre sessanta restanti chilometri. Durante la passeggiata incrociamo un nuovo tipo di cacatua: i pappagalli questa volta sono neri con una macchia rossa sotto le ali ma come i loro cugini bianchi fanno un gran baccano. Ritornati sul primo anello, raggiungiamo l’Upper Pool: una cascata alimenta una piscina naturale e con Stefania mi concedo finalmente un bagno rinfrescante. Proseguendo arriviamo ad un punto panoramico dal quale la vista spazia sia sulle cascate superiori che su quelle inferiori. Una ripida discesa ci porta fino a queste ultime dove non mi lascio sfuggire l’occasione di un secondo bagno. Ripresa la highway, raggiungiamo la cittadina di Katherine, dove decidiamo di pernottare al Kookaburra Lodge. In giro finalmente si vedono varie comitive di aborigeni. Sabato 14 agosto: Katherine – Katherine Gorge – Litchfield NP – Darwin La sezione più apprezzata del Nitmiluk NP, percorsa dal Katherine Gorge, si trova ad una trentina di chilometri dalla città. Il canyon può essere visitato noleggiando una canoa oppure più comodamente con gite in barca da due, quattro ed otto ore; dall’Italia abbiamo prenotato la soluzione intermedia. Al parcheggio, la nostra attenzione è subito attratta da due “piccoli canguri”, mamma e cucciolo, che se ne stanno tra i cespugli. In Australia questi simpatici “saltellatori” sono di tutte le dimensioni: dai grossi canguri ai piccoli wallaby. Questi sono probabilmente dei wallary, una taglia intermedia !! Se ne stanno a debita distanza con i loro simpatici musi ed il bel pelo marrone chiaro. Il canyon di Katherine è formato da tredici gorge, in questa stagione asciutta separati da rapide. La nostra crociera prevede la visita dei primi tre, con un cambio di barca ogni volta che si deve passare da un tratto all’altro. Siamo una compagnia numerosa e l’operazione richiede ogni volta un po’ di tempo. Tra il primo ed il secondo gorge facciamo una breve passeggiata per ammirare alcune pitture aborigene sulle pareti del canyon. Il tratto più spettacolare è senza dubbio il secondo: la gola si fa più stretta con impressionanti pareti rocciose a picco sulle acque. Durante il percorso di ritorno, facciamo una sosta per una “merenda” ed un bagno. Le acque sono frequentate dai freshwater crocodile che se non sono molestati non attaccano l’uomo; posso quindi nuotare “tranquillo” fino all’altra sponda. Raggiungo una bella spiaggia ma devo mantenermi sul bagnasciuga per non danneggiare le uova dei coccodrilli che potrebbero trovarsi sotto la sabbia. Terminata la crociera, facciamo una puntata al lookout sulla collina dietro il molo d’imbarco. Verso l’una e mezzo lasciamo il parco, iniziando il lungo percorso di ritorno verso Darwin. Raggiunta Katherine, ci concediamo solo una breve sosta, giusto il tempo per acquistare un boomerang in un negozio di articoli aborigeni sulla strada principale. Ripresa la marcia verso nord lungo la Stuart Highway e superato Pine Creek, mi sorge un dubbio. I cartelli che segnalano i limiti di velocità sono “strani”: leggendo sulle guide scopriamo infatti che nel Northern Territory il limite fuori dai centri abitati è fissato solo dal “buon senso” !! Ne approfitto per aumentare la velocità di crociera, vista la consueta assenza totale di traffico. Prima di raggiungere Darwin vogliamo, infatti, fare una deviazione al Litchfield NP e il tempo a disposizione è appena sufficiente. Lasciata la highway procediamo verso il parco, superando il paese di Batchelor, fino all’area dei termitai magnetici. La visione è veramente curiosa: alti e sottili si stagliano numerosi, allineati in una vasta distesa pianeggiante. Sembra quasi di trovarsi in un cimitero di gigantesche lapidi !! Le termiti costruiscono le loro case in questo modo per trascorrere le varie ore della giornata, sia d’estate che d’inverno, sempre alla “giusta” temperatura. Nei pressi si trova la Cathedral, un gigantesco termitaio della forma “tradizionale”. La guida di un gruppo di giovani, ignorando i divieti e senza nessun rispetto per la natura, pensa bene di fare un foro nel tumulo e subito ne fuoriescono un gran numero d’insetti. L’ora del tramonto si sta avvicinando e quindi puntiamo direttamente alle Wangi Falls, la seconda attrazione più apprezzata del parco: due cascate formano uno splendido bacino naturale mentre la luce del tardo pomeriggio accende le tonalità delle rocce. Un bagno è “inevitabile” e con una nuotata mi spingo sotto la prima cascata, arrampicandomi fino ad una pozza, alimentata dal salto: insieme con un gruppo di tedeschi m’immergo nelle sue acque e mi sembra di essere in una vasca d’idromassaggio !! Dalle Wangi Falls la strada prosegue verso Darwin ma diventa sterrata. Non ci resta quindi che tornare indietro e raggiungere di nuovo la Stuart Highway. Verso le otto di sera finalmente siamo a Darwin; questa volta alloggiamo al Chilli Backpackers, situato in pieno centro sull’animatissima Mitchell Street. Ceniamo sull’altro lato della strada al Rorke’s Drift; è sabato sera ed il locale è stracolmo di giovani mentre tra gli alberi del giardino si aggira un opossum, in cerca di cibo. Siamo tornati da poco in stanza quando suona l’allarme antincendio e dobbiamo uscire tutti fuori dell’ostello. Tranquillizzati dai pompieri che sopraggiungono in brevissimo tempo andiamo finalmente a letto dopo la lunga giornata. Domenica 15 agosto: Darwin – Alice Springs Nell’attesa del volo pomeridiano per Alice Springs dedichiamo la mattinata alla visita di Darwin. La città ha un aspetto moderno: negli anni settanta, infatti, il ciclone Tracy spazzò via le vecchie case di legno che le conferivano un aspetto tropicale. E’ domenica e Smith Street, il mall pedonale, è praticamente deserto. Raggiungiamo una piazza con un giardino e al centro un enorme banyam. A fianco si trovano i resti della Old Town Hall distrutta dal ciclone. Una deviazione ci porta fino al moderno Chinese Temple, testimonianza della comunità della città (in calo rispetto al passato). Tornati in piazza gettiamo un’occhiata alla cattedrale: anche in questo caso l’edificio originario è stato distrutto da Tracy. Solo la porta è stata ricostruita e dietro si staglia la nuova chiesa in vetro e cemento. Proseguiamo lungo l’Esplanade che corre alta sul mare con viste sul porto e la baia, fiancheggiata da un vasto giardino (come il solito, nelle città australiane il verde non manca). Recuperata la macchina, raggiungiamo i vasti Botanic Garden con la “solita” sezione dedicata alla rainforest. Poco lontano sorge il variegato Museum and Art Galery of Northern Territory. Una sezione è dedicata all’arte aborigena contemporanea; scopriamo che i quadri esposti sono in vendita con tanto di listino prezzi. La parte dedicata alla natura ci offre una vasta carrellata sulla fauna australiana; Stefania è molto “attratta” dalle sezioni dedicate ai ragni ed alle meduse. Tra gli animali spicca Sweet Heart, un coccodrillo imbalsamato di cinque metri che alcuni decenni fa creò vari problemi nei dintorni di Darwin. La sezione più impressionante è quella dedicata al ciclone Tracy. Molte foto ed un filmato ricordano quei tragici giorni. Non manca la ricostruzione dell’interno di una tipica casa dell’epoca ed una camera buia dove si può ascoltare il rumore impetuoso dei venti che superarono i duecento chilometri orari. Il nostro giro per Darwin è terminato e non ci resta che raggiungere l’aeroporto, riconsegnare la macchina e spiccare il volo per Alice Springs. L’aeroporto di Alice è veramente piccolo e scendendo dall’aereo si procede tranquillamente a piedi. L’auto a noleggio presenta una novità, il cambio automatico. Mi cimento così nella guida a sinistra di una macchina automatica, combinazione che ancora mi mancava. In compenso il bagagliaio è ampio, finalmente sufficiente per tutti i nostri zaini. L’ostello prenotato dall’Italia è l’Annie’s Place, uno dei più “simpatici” del viaggio, con le camere vivacemente dipinte. L’ora del tramonto è vicina e ci affrettiamo a fare una passeggiata in centro. Raggiungiamo Todd Street, il mall pedonale, un po’ più animato di quello di Darwin e con qualche edificio “storico”. Per il tramonto saliamo sull’Anzac Hill, dalla cui cima si domina tutta la città. Siamo una compagnia numerosa e tutti sono intenti a scattare foto; il panorama però non è niente d’eccezionale, con la città moderna sotto di noi e le montagne più in lontananza. Ceniamo nel ristorante dell’ostello: in quanto ospiti godiamo di uno sconto e tutti i piatti costano cinque dollari. Decido di provare uno spezzatino di canguro che, benché abbondante, mi lascia abbastanza indifferente. Lunedì 16 agosto: Alice Springs – Ayers Rock La nostra prima giornata interamente nel Central Australia, prevede subito il pezzo forte, Ayers Rock, uno dei simboli del paese. Lasciamo quindi Alice Springs, puntando verso sud lungo la solita Stuart Highway. Durante il percorso, incrociamo i mitici road train, camion con svariati rimorchi, lunghi fino a cinquanta metri !! La strada prosegue interminabile nel nulla più totale finché, dopo oltre duecento chilometri, pieghiamo a destra per la Lasseter Highway. Vaste aree sono destinate al pascolo e l’assenza di recinti provoca una strage di mucche, travolte lungo la strada. Una di loro giace con le zampe rigide e pietrificate: una visione decisamente raccapricciante. Forse per questo motivo su questa strada il limite di velocità è di “soli” 100 chilometri orari !! Improvvisamente una montagna si staglia in lontananza sulla pianura: non si tratta però di Ayers Rock ma del Monte Conner; la sua forma ricorda le mese del West americano. Un lookout su una collinetta offre, oltre la vista sul monte, un bel panorama sul lato opposto: la bianca distesa di sale di un lago asciutto, in contrasto con il rosso della sabbia. Finalmente, dopo circa 250 chilometri dal bivio con la Stuart Highway, raggiungiamo Ayers Rock Resort (Yulara per gli aborigeni), il paese sorto come punto d’appoggio per i turisti in visita all’Uluru-Kata Tjuta NP. Puntiamo subito alla reception del campeggio, prendendo possesso del powered site prenotato telefonicamente dall’Italia. Uluru è il più grosso monolite al mondo e subito ci appare maestoso mentre percorriamo i venti chilometri che lo separano dal paese. Con i suoi 350 metri d’altezza si staglia in mezzo alla bassa vegetazione della pianura ed è incredibile pensare che si tratti di un solo pezzo di roccia, i due terzi del quale si trovano sottoterra !! Il parco è gestito da un ente nazionale, in collaborazione con gli aborigeni anangu ai quali, ormai da un paio di decenni, è stata restituita la proprietà della terra. A poche centinaia di metri dalla montagna sorge il cultural centre. I due edifici hanno la forma degli antenati serpenti Kuniya e Liru. Al loro interno sono illustrati gli aspetti della cultura anangu; la vita è regolata dalla tjukurpa, la legge tradizionale tramandata solo per via orale. Il suo grado di conoscenza è legato all’età, al sesso ed ai vari livelli d’iniziazione e pertanto molte nozioni non possono essere rivelate a noi “estranei”. Tutto si ricollega ad un passato mitologico, il Tempo della Creazione o Tempo dei Sogni. In principio il mondo era privo di forma e fisionomia. Esseri atavici emersero da questo vuoto e viaggiarono in lungo ed in largo, creando tutte le specie viventi e il paesaggio desertico che vediamo oggi. I viaggi di questi Antenati sono stati tramandati sin da allora di generazione in generazione nei racconti, nei canti e nelle danze cerimoniali. Uluru e Kata Tjuta si trovano ad importanti crocevia di questi “Sentieri del Sogno”, le “Vie dei Canti” di Chatwin. Ad Uluru in particolare s’incontrano le vie del wallaby Mala, del serpente velenoso Liru, della femmina di pitone Kuniya e del mostruoso cane Kurpany. Una strada circolare corre tutto intorno al monolite, offrendo alcune aree di sosta. Superata quella destinata all’alba, incrociamo un cane che si aggira liberamente (che si tratti di uno dei “famosi” dingo !?). Raggiungiamo poi il Mala Car Park, punto di partenza per la scalata. La vista delle persone che si arrampicano, superando la tremenda pendenza con l’ausilio di una catena, è impressionante. Per il momento preferiamo dedicarci alla passeggiata di nove chilometri che corre tutto intorno alla base. Molte aree sono recintate e vietate ai visitatori perché si tratta di luoghi sacri, destinati solo alle donne o agli uomini aborigeni. I cartelli segnalano le multe salatissime, inflitte a chi viola il divieto di accesso e di scattare foto. Il giro inizia con una deviazione, il Mala Walk, che porta proprio sotto il monolite; da vicino la roccia appare ancora più maestosa, movimentata da ondulazioni e rientranze ma estremamente compatta. Il suo intenso colore rosso arancione contrasta splendidamente con il verde dei pochi alberi. Ripreso il giro attorno alla roccia, gli scorci spettacolari si succedono uno dopo l’altro. Solo in alcuni punti la montagna è scalfita dall’erosione, presentando dei grossi buchi. D’estate il caldo deve essere tremendo ed, infatti, a metà del percorso, sono disponibili un kit di pronto soccorso, un telefono per le emergenze e dell’acqua. Doppiata la punta, passiamo nella zona all’ombra fino a raggiungere Mutitjulu, una pozza legata allo scontro tra gli antenati serpenti Kuniya e Liru: i solchi sulle pareti della roccia sono considerati le impronte del loro passaggio. Il Central Australia è molto arido ma quando piove, l’intensità delle precipitazioni è notevole. In quei rari giorni si formano ad Uluru delle vere e proprie cascate, testimoniate oggi dai profondi solchi che si vedono in più punti. Raggiunto di nuovo il parcheggio, terminiamo il giro. Uno dei momenti più emozionanti ad Uluru è il tramonto, quando i colori della roccia assumono tonalità incredibili. Lungo la strada è stato ricavato un apposito lookout: si tratta in realtà di un lungo parcheggio a spina di pesce orientato in modo che il sole sia alle spalle ed il monolite di fronte. Arriviamo sul posto mezzora prima del tramonto anche per occupare una buona posizione. L’affollamento è notevole ma per fortuna regna il silenzio, come se tutti stessero trattenendo il fiato nell’attesa dell’evento. Lo spettacolo che si presenta è uno dei ricordi più belli del viaggio: man mano che le ombre si allungano sulla pianura, Uluru si “accende” sempre di più passando dall’arancione, al rosso fino a diventare praticamente incandescente come se qualcuno gli avesse dato fuoco. Appena il sole è calato la “luce si spegne” e il monolite diventa tutto marrone. La sera ceniamo in un take away ad Ayers Rock Resort, una delle poche, se non l’unica, soluzione economica nei paraggi. Martedì 17 agosto: Ayers Rock – Monti Olgas – Kings Canyon Dopo le splendide emozioni del tramonto di ieri, iniziamo la giornata con la visione altrettanto affascinante dell’alba. Il punto d’osservazione sulla strada, meno affollato rispetto a quello di ieri, si trova più vicino alla roccia; ancora una volta con il sopraggiungere dell’alba, il monolite si accende di un rosso quasi fluorescente. Gli aborigeni non gradiscono che i turisti scalino Uluru, poiché per loro si tratta di un luogo sacro. Lasciano tuttavia ognuno libero di decidere. Stefania saggiamente sarebbe contraria alla scalata ma io, come la maggior parte dei visitatori, non resisto alla tentazione e lei decide di seguirmi. L’ascesa inizia con il tratto più impegnativo che s’inerpica con una pendenza incredibile; si procede aiutandosi con una catena fissata ad una fila di paletti. Il cuore in gola mi costringe a frequenti soste. Arrivati in cima proseguiamo per un altro tratto, con una serie di continui saliscendi. Il panorama spazia ampio sulla pianura, con i Monti Olgas in lontananza. Spira un forte vento e finiamo per ricoprirci con gli strati “persi” durante l’ascesa. Il posto è molto affollato ed i più numerosi sono i giapponesi, tutti presi nella loro missione anche quelli di una certa età. La vertiginosa discesa ci preoccupava più della salita ma tutto fila liscio. Alla fine getto un’occhiata, volutamente rimandata, ad una serie di targhe: ricordano le persone che hanno perso la vita nella scalata (ci sono molti giovani e le tragedie più recenti risalgono agli anni settanta). La visita di Uluru è ormai terminata e non ci resta che dirigerci in macchina verso la seconda attrazione del parco, i monti Olgas (Kata Tjuta per gli aborigeni). Lungo la strada incrociamo un paio di cammelli selvatici; introdotti in Australia da altri continenti, molti si sono poi dispersi nei vasti deserti dell’Outback e vagano oggi allo stato brado. Avvicinandosi ai monti una prima fermata ci porta ad un lookout su un sistema di dune. La silhouette di Kata Tjuta è quella del lato meno spettacolare ma la vista è ugualmente bella come anche le dune coperte di vegetazione. I monti Olgas sono una serie di gigantesche rocce arancione, dalle incredibili forme levigate e tondeggianti, separate da profondi canyon. Si possono compiere due sole escursioni: una più impegnativa alla Valley of Winds, spesso chiusa d’estate per il caldo tremendo, e una seconda “per tutti” all’Olga Gorge. Iniziamo le nostre “fatiche” dalla Valle dei Venti: il sentiero parte pianeggiante, prosegue in salita e poi scende infilandosi in uno stretto passaggio. Finalmente entriamo nel canyon da cui la passeggiata prende il nome, salendo fino al punto panoramico esattamente al suo centro. La vista è molto bella con l’acceso contrasto tra zone d’ombra e di luce. Dopo la discesa, usciamo dal canyon e proseguiamo lungo il percorso circolare tra piante dai bei fiori selvatici. Un grosso lucertolone con cresta se ne sta su un sasso, perfettamente mimetizzato. Conclusa la passeggiata, ci spostiamo all’Olga Gorge dove un comodo sentiero s’infila nel canyon, terminando quando questo si chiude. Le pareti intorno a noi incombono perfettamente verticali e prive di qualsiasi appiglio. L’ultima fermata ci porta ad un lookout, dal quale si gode la vista d’insieme più celebre: privati di una scala di riferimento i monti potrebbero essere scambiati per una manciata di sassolini rossi gettati sulla terra. Anche qui la vista all’alba ed al tramonto deve essere fantastica. La nostra esplorazione del parco di Uluru e Kata Tjuta è terminata e ci aspetta un lungo spostamento fino al Kings Canyon. Ripresa la strada dell’andata, torniamo indietro ma, senza raggiungere la Stuart Highway, questa volta pieghiamo a sinistra per la Luritja Highway. All’incrocio facciamo il pieno in una sperduta stazione di servizio; la pompa sembra vecchia di decenni ed è bloccata da un lucchetto. Il prezzo della benzina è salato (un dollaro e trenta centesimi, record del viaggio, contro i novanta centesimi dei posti più economici al sud). Il tragitto è lungo ma i paesaggi benché desolati non annoiano mai. Al tramonto arriviamo finalmente a destinazione, sistemandoci nel campeggio del lodge. Per cena non c’è molta scelta: ci affidiamo all’Outback Barbecue dove assaggio finalmente gli spiedini di coccodrillo. La carne è bianca, simile a quella di un pollo !! Come al solito, l’organizzazione è pratica ed efficiente: si ordina alla cassa dove viene consegnato un numero che si espone sul tavolo per essere individuati quando il cibo è pronto. Mercoledì 18 agosto: Kings Canyon – Alice Springs Un’altra giornata nel maestoso mondo delle rocce del Central Australia: questa volta tocca al Kings Canyon !! Dal campeggio raggiungiamo il parcheggio dove partono due passeggiate, una sopra e l’altra dentro il canyon. Iniziamo dalla prima decisamente più impegnativa. Il percorso circolare si apre con una ripida salita che ci porta in cima alle montagne che chiudono il canyon. Attraversiamo splendide formazioni rocciose, con alberi che sembrano loro aggrappati. In passato questa regione era un vasto deserto sabbioso e le dune pietrificate sono ancora al loro posto !! Dai numerosi lookout la vista spazia sul canyon, chiuso da rosse pareti a strapiombo, con la macchia verde della vegetazione nel fondo. In certi punti camminiamo su costoni sospesi nel vuoto (quelli di Will Coyote per intenderci, sperando di non fare anche noi la stessa fine !!). Finalmente si prende a scendere e con un ponte si passa sull’altro lato del canyon. Prima di risalire, un sentiero porta nel Garden of Eden fino ad una pozza avvolta in una lussureggiante vegetazione. Sull’altro lato, proseguiamo il giro in una successione di panorami mozzafiato con la vista delle dune pietrificate in lontananza. Ce la siamo presa comoda e così completiamo il percorso in quattro ore. La passeggiata dentro il canyon è molto più breve e ci permette di ammirare da vicino la vegetazione, prima intravista dall’alto. Conclusa l’esplorazione di Kings Canyon, ci aspetta un lungo tragitto verso Alice Springs, percorrendo in senso opposto le strade dell’andata. In città ritroviamo il simpatico ostello di qualche giorno prima, cenando nuovamente nel suo ristorante. Giovedì 19 agosto: Alice Springs – West Mc Donnel NP – Alice Springs – Adelaide Questo pomeriggio abbiamo il volo per Adelaide e decidiamo quindi di sfruttare la mattinata per visitare il West Mac Donnel Ranges NP. Alice Springs sorge in una conca, nella parte centrale della lunga catena dei monti Mac Donnel; la sezione occidentale, considerata quella più spettacolare, è protetta da un parco ed è attraversata da una strada asfaltata che dopo un centinaio di chilometri si trasforma in una sterrata proseguendo fino al Kings Canyon. Ci portiamo subito al termine dell’asfalto, facendo poi le varie escursioni sulla strada del ritorno; spesso incroceremo le indicazioni del sentiero che collega i vari siti con un affascinante trekking di diversi giorni. Iniziamo l’esplorazione del parco con l’Orniston Gorge, raggiungendo una vasta pozza in cui un pellicano sguazza tranquillo. Un sentiero ci porta al Gum Tree Lookout da dove si può ammirare il canyon (rinunciamo per mancanza di tempo a proseguire sul più impegnativo percorso circolare). La seconda sosta è alle Ochre Pits: le friabili pareti rocciose presentano una notevole varietà di colori, tanto da essere utilizzate dagli aborigeni per ricavare le tinte delle loro pitture. I monti Mc Donnel sono “tagliati” in più punti da profondi canyon scavati dalle acque. La nostra tappa successiva è al bacino più grande, l’Ellery Big Hole, che “blocca” lo stretto passaggio tra due montagne. Quando ormai ci siamo riavvicinati molto ad Alice Springs, visitiamo il popolarissimo Standley Chasm. L’effetto del turismo locale si fa sentire dal salato biglietto d’ingresso che acquistiamo mossi da un impeto d’onestà, poiché nessuno controlla e avremmo potuto tranquillamente evitare di pagare; tra l’altro i soldi guadagnati non sono nemmeno investiti per sistemare il piazzale sterrato del parcheggio, pieno d’insidiosi sassi taglienti. Il sentiero s’infila in un canyon che si fa sempre più stretto, finché la sua larghezza si riduce appena a qualche metro. Le alte pareti verticali mantengono l’ombra tutto il giorno, eccetto un breve intervallo attorno a mezzogiorno. Siamo proprio nell’ora giusta per scattare la foto al canyon illuminato dal sole; il posto è affollatissimo di turisti intenti a questa attività, terminata la quale non indugiano più di tanto e se ne tornano indietro. Dopo una decina di minuti, il sole è ancora al suo posto ma lo stretto canale si è svuotato !! L’ultima escursione, ormai a pochi chilometri dalla città, ci porta al Simpson Gap: anche in questo caso un laghetto chiude la spaccatura tra due montagne. Siamo nella stagione secca e l’acqua non è molta, tanto è vero che possiamo camminare sulla sabbia del letto asciutto del fiume. Un costone della montagna ricoperto da grossi macigni offre un habitat ideale per i rock wallabies: armati di binocolo riusciamo a scorgerne un paio mentre fanno capolino tra le rocce. Ormai è venuto il momento di lasciare lo stato del Northern Territory: raggiunto l’aeroporto, partiamo alla volta di Adelaide, la capitale del South Australia. Il volo è allietato da uno splendido tramonto, immortalato insieme all’ala dell’aereo dalla macchinetta digitale di Stefania !! All’aeroporto ci consegnano la nuova auto a noleggio; ritorniamo nella categoria delle small car ma il bagagliaio questa volta è sufficiente per tutte le nostre cose, opportunamente incastrate. L’ostello è una filiazione dell’omonimo di Alice Springs ma ha cambiato gestione da poco e non ha ancora raggiunto il livello della casa madre (è comunque ospitato in un bel edificio storico). Una passeggiata ci porta fino a Hindley Street, dall’animata vita notturna anche per la presenza di alcuni locali a luci rosse. Le possibilità gastronomiche non mancano ma finisco per “accontentarmi” di un gigantesco hamburger doppio ad un fast food. Venerdì 20 agosto: Adelaide – Wilpena Pound NP La mattina è dedicata alla visita di Adelaide. Raggiungiamo per prima Victoria Square, punto di riferimento nel reticolo stradale del centro cittadino, piegando poi per King William Road, piena di banche ed uffici. Molti edifici risalgono all’ottocento; alcuni hanno vivaci forme neogotiche. Arrivati all’incrocio con Hindley Street, riprendiamo il giro dove lo abbiamo interrotto la sera prima. Randle Mall è l’area pedonale dedicata allo shopping; in vista delle prossime notti di campeggio, ne approfittiamo per fare la spesa nel solito grande magazzino Woolworth. Lungo la strada ammiriamo alcuni edifici dell’epoca passata. Proseguendo su Rundle Street, raggiungiamo i piacevoli Botanic Gardens, ricchi di belle piante e curiosi alberi. Una serra gigantesca ed ultramoderna ospita una piccola rainforest, con tanto di uccelli tropicali. Al suo interno il caldo umido è notevole e lo sbalzo climatico si fa sentire. Il nostro giro prosegue sulla North Terrace, sede degli edifici “prestigiosi” della città. Superata l’università, raggiungiamo il South Australia Museum; la sezione dedicata agli aborigeni è considerata la più importante al mondo ed è molto interessante, uno splendido tuffo nella civiltà degli abitanti originali dell’Australia. Sono presentati tutti gli aspetti della loro cultura: le pratiche religiose, le armi (compresi i celebri boomerang), il loro rapporto con la natura, i primi contatti con i colonizzatori e tanti altri ancora. Particolarmente coinvolgenti sono una serie di filmati in bianco e nero della prima metà del novecento: riprendono un mondo ed una cultura tradizionali ormai spazzati via da modernità e globalizzazione. Lo splendido museo non si esaurisce con gli aborigeni: si prosegue con sezioni dedicate alla storia naturale, ai dinosauri, alla grande fauna estinta (anche questa tipicamente australiana con giganteschi marsupiali), alla geologia (con la seconda pepita d’oro al mondo per dimensioni, testimonianza di passate epoche di corse all’oro). Terminato in bellezza il giro di Adelaide, torniamo all’ostello e ci apprestiamo alla lunga cavalcata stradale fino al Wilpena Pound NP. Usciti dalla città puntiamo verso nord, ritrovando la nostra “fedele” Stuart Highway. I paesaggi però sono completamente diversi da quelli del Northern Territory: distese verdissime si estendono a perdita d’occhio, ravvivate dalle macchie bianche delle pecore (la lana merino australiana è molto apprezzata). L’unico elemento in comune con i giorni scorsi è il traffico inesistente, una volta lasciata l’area di Adelaide. Poco prima di Port Augusta deviamo verso l’interno: superata una fascia di colline, il paesaggio cambia completamente, tornando all’aspetto desolato dell’Outback australiano. Siamo nella zona dei Flinders Range e il lungo tratto di strada ci ricorda che anche il South Australia è per la maggior parte uno stato desertico. La cittadina di Hawker è l’ultimo “avamposto” prima del parco e ne approfittiamo per fare benzina. Arriviamo a destinazione proprio al tramonto. L’ingresso si paga presso un casotto facendo tutto da soli: si mettono i soldi in una busta che si deve imbucare in una cassetta, conservando un tagliando come ricevuta. Il prato a fianco è pieno di canguri, finalmente numerosi come ci si aspetta di trovarli in Australia !! Al campeggio il montaggio della tenda ci presenta di nuovo problema di piantare i picchetti (risolto anche questa volta grazie al prestito di un martello). Ormai ci appare chiaro che i powered site sono destinati ai caravan: per noi la presenza della presa elettrica è del tutto inutile mentre l’assenza di un prato ci complica la vita. Dato che ci troviamo in un’area destinata ai caravan manca persino un tavolo e così siamo costretti a consumare la nostra cena “succulenta” seduti in macchina !! Sabato 21 agosto: Wilpena Pound NP Giornata dedicata interamente al lungo trekking che ci porterà al St. Mary Peak, la vetta più alta di Wilpena Pound. Prima di iniziare l’escursione facciamo una puntata verso il visitor centre nella speranza di incrociare i canguri, avvistati già ieri sera al tramonto. Le nostre attese non vanno deluse: attraversando il campeggio scorgiamo subito due canguri, probabilmente mamma e cucciolo un po’ cresciutello, che giocano tranquillamente. Ci muoviamo con una certa circospezione per paura che si allontanino ma quando capiamo che non ne hanno nessuna intenzione ci facciamo sempre più vicini. Ignorando la nostra presenza si tengono in piedi sulla zampe posteriori giocando alla lotta. Sono veramente uno spasso !! Poche decine di metri e troviamo un altro canguro tranquillamente disteso per terra. Ci avviciniamo a pochi passi, notando una strana “quinta zampa” che spunta in mezzo alla pancia. Le sorprese non sono finite: ecco una famiglia al completo, papà, mamma e cuccioletto. Il maschio è veramente buffo, molto più grande della femmina, completamente sproporzionato con le zampe posteriori possenti e la testa piccolina. Il cucciolo intimorito dalla nostra presenza s’infila di testa nel marsupio della mamma. Ecco svelato il mistero della quinta appendice: sono le zampe del “piccolo” che spuntano dal marsupio !! Le foto si sprecano. Il cucciolo riprende coraggio ed esce fuori; tutta la famiglia torna a brucare tranquillamente mentre noi ce ne stiamo estasiati ad ammirarla. Lasciati i canguri alle loro “attività”, arriva finalmente il momento del trekking. Nel parco esistono molti sentieri ma noi ci concentriamo sul più spettacolare, l’ascesa al St. Mary Peak. Seguiremo la strada più breve, vale a dire quella esterna al pound, percorrendo in tutto quasi 15 chilometri. Sono le nove del mattino ed il sentiero inizia piacevolmente pianeggiante in mezzo ad un fitto bosco; procediamo spediti per svariati chilometri finché iniziamo a salire. L’ascesa si fa sempre più faticosa: nel tratto finale procediamo in un mezzo ad una vera e propria pietraia superando forti pendenze. Raggiunta la cresta ci si apre, splendida, la vista del pound: le montagne formano un anfiteatro naturale racchiudendo una conca, dall’aspetto di un vasto cratere. In questo punto confluisce anche l’altro sentiero, che raggiunge la cresta passando internamente al pound. Le nostre fatiche non sono finite, dato che ci resta da scalare il St. Mary Peak ma, rispetto all’ascesa mozzafiato di prima, questa salita sembra quasi agevole. Incrociamo un signore ed un ragazzo che ci salutano in italiano. Si tratta di un abruzzese emigrato in Australia molti anni addietro (ora vive ad Adelaide) in compagnia del nipote che lo ha raggiunto da Roma per qualche settimana di vacanza. Scambiamo quattro chiacchiere con il simpatico italo australiano che ci fa anche da “cicerone”, raccontandoci che nell’ottocento un gruppo di coloni s’insediò nella conca ma, dopo alcune annate miracolosamente fruttuose, dovette abbandonare l’insediamento perché troppo arido. In vetta la vista è a 360 gradi. Il pound sotto di noi è veramente curioso per la sua conformazione. Una leggenda aborigena vuole che sia stato modellato nel “Tempo dei Sogni”: le pareti sono i corpi di due antichi serpenti Akurra, intrecciati intorno ad una cerimonia d’iniziazione, dopo la quale crearono una tromba d’aria e divorarono gran parte dei partecipanti. La regione dei Flinders Range ha ispirato molte leggende di questo genere che spiegano la creazione del paesaggio e degli animali. Una figura centrale è il gigantesco antenato serpente Arkaroo che assetato bevve l’intero lago salato di Frome, prosciugandolo. Oltre il pound s’intravedono sterminate distese aride ed una vasta piana ricoperta di sale. Il vento si fa sentire forte e indossiamo nuovamente gli strati che pian piano ci siamo tolti salendo. E’ l’ora di pranzo; consumiamo quindi le provviste portate, seguendo la massima del nostro amico australiano: “In queste situazioni il cibo è cibo !!”. Rinfrancato dopo la lunga scarpinata, mi dedico ad immortalare i numerosi scorci: le aguzze creste delle rocce su cui sediamo sospesi nel vuoto, un corvo appollaiato a pochi metri di distanza, i curiosi fiori della yucca, nulla sfugge alla mia macchinetta. Salutati i nostri due amici che ci precedono nella discesa, trascorriamo un altro po’ di tempo in completo relax per poi affrontare anche noi la strada del ritorno. Raggiunto il bivio per l’interno del pound, rinunciamo a questa strada alternativa perché il percorso, anche se più agevole, sarebbe ancora più lungo. La discesa è una vera picchiata e mi sembra di essere uno stambecco che saltella tra le rocce. Lungo il tratto in piano torniamo ad ammirare i canguri che con l’avanzare del pomeriggio sono usciti nuovamente a brucare. Alle quattro, soddisfatti, siamo di nuovo al campeggio. Ai tavoli del visitor centre i corvi banchettano con le briciole del nostro spuntino; la famigliola di canguri della mattina è ancora al suo posto. Seconda cena seduti in macchina a base di pane e scatolette, rallegrata dal dolcetto acquistato al visitor centre. Fine della prima parte ma il viaggio ed il racconto proseguono …



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