Le Madri Caucasiche

Viaggio in Georgia e Armenia
Scritto da: gnappetto68
le madri caucasiche
Partenza il: 14/07/2013
Ritorno il: 28/07/2013
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
La voglia di continuare a visitare l’Asia Centrale, ci ha spinto quest’anno a scegliere come meta del viaggio due Stati caucasici, uno più conosciuto, l’Armenia, e l’altro decisamente meno, la Georgia. L’occasione arriva a febbraio quando per pura casualità, l’amica Emanuela dice a Stefano di aver intenzione di fare un viaggio in Armenia con il figlio Filippo. Essendo da sempre interessati a questa parte di mondo cogliamo la palla al balzo e, durante una cena a base di pollo al curry e torta all’ananas (deliziosa!), cominciamo tutti e quattro a fare programmi. Non avendo Manu e Fil molto tempo a disposizione optano per una settimana. Io e Stefano, invece, seguendo la nota filosofia “almeno ammortizziamo il volo aereo” decidiamo di allungare il viaggio di sette giorni. Poiché per visitare l’Armenia non serve moltissimo tempo, perchè non attaccarci la Georgia, stato confinante e facilmente raggiungibile? Detto fatto! Prenotiamo un volo “round trip” con Lufhtansa (Venezia-Tbilisi via Monaco e Yerevan-Venezia via Vienna, Euro 525,00 a testa incluse tasse) ed iniziamo a contattare agenzie locali per l’organizzazione dei servizi a terra. Dopo la solita scrematura (fondata più che altro sui preventivi e sulla…velocità di risposta alle mail) optiamo per la Hyur Service in Armenia e per l’Envoy Hostel in Georgia. Comincia un fitto scambio di corrispondenza tra me, Lyudmila (della Hyur) e Marine (dell’Envoy) per decidere posti da vedere, alberghi e appartamenti. Nel giro di un paio di mesi tutto è compiuto: io e Stefano passeremo una settimana in giro per la Georgia poi raggiungeremo via terra Yerevan dove ci incontreremo con Manu e Fil e insieme, facendo base in capitale, gireremo i numerosi siti turistici armeni. Il costo è decisamente interessante: per la Georgia spuntiamo poco più di 1.000,00 Euro in due (alberghi, autista, guida, macchina, entrate ai siti) mentre per l’Armenia l’appartamento per quattro e sette giorni di escursioni per il nostre gruppetto ci costa circa 1.200,00 Euro in totale. Soddisfatti dell’affare, non ci resta che attendere la partenza: fortunatamente anche l’Armenia, come la Georgia, ha deciso di togliere l’obbligo del visto, quindi non abbiamo grandi incombenti burocratici da fare se non apporre la noiosissima marca sul passaporto (continuo a chiedermi a che cosa serva….) e stipulare l’assicurazione di viaggio (Globy Rosso Allianz, circa 160 Euro in due) così come non dobbiamo preoccuparci di vaccinazioni essendo sufficiente una buona farmacia da viaggio. Caucaso, arriviamo!

1 Torta arance, noci e cardamomo al Cafè Gabriatze

Tbilisi – Mtskheta

14-15 Luglio. Alle 15.00 arriviamo in aeroporto con i nostri dinosauri al seguito (le samsonite così battezzate durante il viaggio in Giappone) e scopriamo che non esiste più il check in “umano” sostituito, devo dire con ottime prestazioni, dalle postazioni elettroniche di Lufhtansa presenti in gran numero. Con qualche difficoltà riesco a stampare tutte le carte d’imbarco e a spedire le valigie (fortunatamente ci siamo col peso, anche se per un pelo…). Il volo per Monaco è in ritardo ma come al solito durante la tratta recupera alla grande e quindi atterriamo allo scalo tedesco più che puntuali. Passiamo le tre ore che mancano al volo per Tbilisi in tutta tranquillità girovagando per il duty free, acquistando le sigarette, bevendo il cappuccino gentilmente offerto da Lufhtansa (ci sono decine di distributori automatici gratuiti in tutto l’hub), ascoltando un po’ di musica. Finalmente imbarchiamo e dopo il decollo decidiamo di separarci visto che ci sono alcuni posti liberi: Stefano si pentirà della scelta visto che per tutto il volo avrà davanti a sé due piccoli rompiscatole che piangeranno ed urleranno a squarciagola. Per fortuna il volo è breve (più o meno tre ore e mezzo) e quindi quasi non ci accorgiamo di iniziare la discesa verso la capitale della Georgia. Memore dei tempi biblici necessari, l’anno scorso, per uscire dall’aeroporto di Tashkent in Uzbekistan, mi preparo ad una lunga attesa. Invece i bagagli arrivano in frettissima e altrettanto veloce è il controllo passaporti eseguito da una giovane poliziotta georgiana che ci mette il timbro d’entrata…sull’ultima pagina del passaporto!

Usciamo nella zona arrivi e, come al solito, nonostante siano le 3.15 di notte, un muro di gente ci si para davanti: cerchiamo l’omino con il cartello (Marine mi ha assicurato che sarebbe stato facilissimo individuarlo) scrutando i nomi scritti su ogni tipo di carta e finalmente lo troviamo, un ragazzo alto, con gli occhi semichiusi, che parla pochissimo e sembra decisamente una spia russa. Ci facciamo la solita sigaretta post volo e saliamo in una lussuosa Lexus che lentamente si avvia verso l’uscita del parcheggio. L’aria è fresca perciò niente condizionatore ma finestrini spalancati. La strada verso la città è semi deserta ma non altrettanto Tbilisi! La capitale della Georgia ci accoglie totalmente illuminata e piena di gente (che cavolo ci fanno questi in giro nel bel mezzo della notte?) soprattutto in Gorgasalis Moedani dove c’è il nostro albergo. L’agente segreto russo invece di fermarci in piazza dove ero convinto ci fosse l’entrata dell’Hotel Morgan, imbocca una ripida stradina e si ferma davanti ad una porta che dà direttamente sulla strada. Guardo Stefano e dico “Questa deve essere l’entrata di servizio. Probabilmente scaricherà qui le valigie…”. E invece sbagliavo, come sbagliavo. Saliti i due gradini ci troviamo in uno spazio angusto con un minuscolo bancone posto sotto una scala: incastrato (nel verso senso della parola) sotto questa scala c’è…il portiere di notte…non sappiamo se ridere o piangere. Congediamo il nostro autista che declina la mancia dicendo che non serve, che va bene così, che lui è già pagato, e risaliamo i due gradini. E ora? Il portiere ci chiede i passaporti e ci registra mentre nel frattempo dalla stretta scala scende quello che scopriremo essere il titolare dell’albergo che ci accoglie con mille sorrisi e ci fa vedere la stanza numero 1, che si trova fatti altri due scalini sulla sinistra. Praticamente l’albergo è tutto qua: due metri quadrati di ingresso (per non dire un metro …) e la nostra stanza. Congediamo il proprietario spingendolo letteralmente fuori dalla porta della camera dopo aver contrattato sull’orario della colazione: lui voleva farcela trovare per le undici ma noi gli diciamo che per le nove va più che bene. Al momento non diamo importanza al suo imbarazzo, lo capiremo la mattina dopo…. La camera è spaziosa ma non proprio pulita. Il bagno è in condizioni precarie (come il wc non ancorato al suolo…), le coperte un po’ polverose, ma siamo talmente stanchi che spegniamo la luce, ci spogliamo e ci ficchiamo a letto. Ma il sonno fa fatica ad arrivare un po’ per la stanchezza un po’ per il casino che arriva da fuori visto che, essendo a piano terra, siamo a livello strada, molto frequentata anche se sono le quattro e mezza di mattina: gente che urla, ride, canta, macchine che strombazzano, insomma più che dentro una camera ci sembra di avere i letti direttamente al centro della piazza! Alla fine, forse per sfinimento, ci addormentiamo.

Alle 8.30 l’iPhone suona la marimba. A tentoni ci alziamo e cerchiamo di fare una doccia ma purtroppo di acqua calda neanche l’ombra. Ci cambiamo ed usciamo direttamente nel sottoscala dove troviamo un allampanato portiere di giorno che ci guarda come dire “che cavolo ci fate alzati a quest’ora?”. Ci rivolgiamo a lui con gentilezza chiedendo se sia possibile cambiare camera ed averne una più tranquilla. Ci dice che non sa se sia possibile, dovrà parlarne con il proprietario quando arriva. Allora gli chiediamo…dove si trova la sala colazione, visto che alle 9.30 abbiamo appuntamento da Marine per cominciare la visita della città. Lui ci guarda smarrito e ci dice “Colazione? La colazione comincia alle 11.30!”. Io e Ste ci guardiamo allibiti, lentamente mi giro e gli chiedo “Alle 11.30? Perchè così tardi?” e lui serafico “Perchè prima i negozi sono tutti chiusi e non possiamo acquistare il cibo”. Ahhhh! Molto bene! Direi ottima motivazione. Al che, preso più che altro dalla curiosità, gli chiedo “E scusa, dove dovremmo fare questa colazione?” e lui “Al ristorante qui di fianco, ovviamente”. A quel punto la rabbia sale: ecco dove stava la fregatura, il prezzo così basso, la gentilezza così ben distribuita. Se la vacanza sarà tutta così sarà da ridere. Cerchiamo di arginare le mille richieste che ci fa il portiere (vorrebbe essere pagato e gentilmente gli spieghiamo che non dobbiamo pagare lui ma chi ci ha organizzato tutta la vacanza; ci chiede quanti soldi abbiamo speso di tutta la vacanza e gentilmente gli spieghiamo che non è affar suo; ci chiede una fotocopia del nostro programma di viaggio e, stavolta un po’ meno gentilmente, gli diciamo che non possiamo darglielo e che se lo vuole lo vada a chiedere a Marine) e gli chiediamo di indicarci dov’è l’Envoy Hostel dove abbiamo appuntamento con Marine. Lui ci guarda, sempre smarrito, e ci dice che non lo sa; allora tiro fuori la mia mappetta scaricata dal web e gliela faccio vedere. Lui la guarda, la gira, la rivolta, guarda il logo dell’Enoy e poi guarda oltre la mia spalla, in cima alla strada di fronte alla porta d’ingresso dell’albergo e mi dice “Io non so dove sia questo ostello ma questa insegna qua c’è anche là” e indica un punto su per una collina. Io mi giro e…miracolo! Giusto a 100 metri più su vedo l’ingresso dell’Envoy. Intasco tutte le mie scartoffie in fretta e furia, non bado all’aria allibita del portiere che forse manco saluto e ci avviamo a passo spedito, agguerriti come mai, da Marine. Fatta la ripida salita entriamo all’Envoy e subito ci colpisce la bellezza di questo ostello: una vecchia casa cinta da mura, con un bel cortile interno. Entriamo alla reception e conosciamo Marine che subito “aggredisco” spiegandogli quel che è successo al Morgan. Lei mi guarda allibita e incredula e mi dice di stare tranquillo che sistemerà le cose. Ci invita a fare colazione da loro mentre lei ed il manager dell’ostello andranno a parlare con il titolare del Morgan. Pane, marmellata e un buon caffè è tutto quello di cui abbiamo bisogno e nell’accogliente saletta dell’Envoy c’è! Dopo esserci rifocillati torniamo di sopra alla reception: Marine ci dice che ha parlato con il proprietario, che non è possibile cambiare camera perchè l’unica altra esistente ha la doccia che non funziona e che la colazione viene servita molto tardi (intorno a mezzogiorno!!!) nel ristorante in piazza. Ma lei ha già trovato una soluzione: ci farà pulire bene la camera e la colazione potremo farla lì da loro. Un po’ rassicurati dalle parole di Marine, mentre aspettiamo di iniziare la visita guidata della città, facciamo un giro per l’ostello e notiamo che è tenuto davvero bene: i bagni sono pulitissimi, le camere sono in ordine, l’atmosfera è familiare. Insomma, rispetto al nostro albergo è un gioiellino! Vabbè, pazienza.

L’Envoy Hostel oltrechè che un ostello è anche una sorta di agenzia viaggio e quindi organizza escursioni in tutta la Georgia: in particolare, ogni giorno, offre ai suoi ospiti una passeggiata gratuita di un paio d’ore attraverso la città, durante la quale vengono visitati i luoghi turistici più significativi. Ero convinto che ci fosse un gruppetto di persone con una guida e invece scopriamo che siamo solo io e Stefano e come guida avremo proprio Marine, cosa che ci fa davvero molto piacere visto che, a parte l’impatto iniziale non proprio bellissimo data la nostra incazzatura con il portiere del Morgan, è una ragazza davvero simpatica e molto disponibile. Armati di cappello e crema da sole, partiamo quindi per la visita di Tbilisi: pur essendo solo le 10 di mattina, il sole è forte e fa molto caldo ma, come sempre, quando siamo in vacanza nulla ci ferma nemmeno una notte quasi insonne o l’afa più torrida. Scopriamo da subito che in Georgia i pedoni non hanno alcun diritto e che le strisce pedonali quasi non esistono; per attraversare Gorgasalis Moedani (la piazza principale che altro non è che una gigantesca rotonda), infatti, rischiamo più di una volta la vita ma arriviamo sani e salvi sul Metekhi Bridge che separa la città vecchia dal quartiere di Avlabari e scavalca il fiume Mtkvari, da dove si gode una bellissima vista della collina su cui svetta l’imponente fortezza di Narikala. Visitiamo quindi la Chiesa di Metekhi arroccata in cima ad uno sperone roccioso direttamente sopra il fiume e che risale al 1200. Sul piazzale della chiesa fa bella mostra di sé la statua equestre di Re Vakthang Gorgasalis rivolta in direzione della immensa statua chiamata Madre Georgia posta dall’altro lato della collina che sovrasta la città. All’interno la chiesa è decorata e piena di fedeli (qui sono per la maggior parte cristiani ortodossi) che pregano di fronte ad icone in legno e accendono candele fatte di una particolare cera arancione, dettaglio questo che ritroveremo ovunque sia in Georgia che in Armenia. Usciti dalla chiesa, ci dirigiamo verso il moderno parco di Rike un insieme di giardini ben tenuti ma poco ombreggiati visto che gli alberelli di recente piantati sono giovanissimi e molto bassi. Da un lato si staglia il nuovissimo (e ancora da terminare) Teatro Nazionale costituito da due enormi trombe di acciaio e vetro che fuoriescono dalla collina e dall’altro l’altrettanto nuovissimo Peace Bridge anche questo tutto in acciaio e vetro costruito, fra l’altro, da una azienda tutta trevigiana. Attraversiamo il bel ponte che Marine ci assicura essere uno spettacolo di sera (l’avevamo intravisto illuminato di mille colori al nostro arrivo la notte prima) e ci ritroviamo nel cuore della città vecchia con i vicoli acciottolati, i bellissimi balconi delle basse case, i tantissimi ristoranti e locali con sedie all’aperto, i verdissimi e piccoli giardini dove sono state dislocate panchine fatte con tavole di legno e cancelli in ferro come schienale, la splendida Cattedrale di Sioni del XIII secolo. Pur se fa caldo, è piacevole passeggiare per la città, con Marine che risponde alle nostre domande e ce ne illustra la storia. Arriviamo alla zona delle rinomate terme di Abanotubani, dove sgorgano acque caldissime e sulfuree, con le loro cupole ad alveare tipiche di questa zona del mondo.

Proseguiamo con una bella passeggiata lungo il torrente che scende dalla fortezza fino ad arrivare ad una cascata da cui si gode una bella vista della città. Torniamo verso il centro e vediamo i bellissimi bagni Orbelliani con la loro facciata molto simile a quella delle madrasse dell’Uzbekistan ricoperte di maioliche verdi e turchesi. Imbocchiamo quindi la strada che sale verso la fortezza di Narikala e, pur con un po’ di fatica, arriviamo in cima ripagati da una vista su tutta la città che si estende sotto di noi. Passeggiando con calma, torniamo quindi verso il nostro albergo e ci diamo appuntamento con Marine alle tre per andare a Mtskheta. Pranziamo al Wok Cafè, un minuscolo ristorantino che serve piatti orientali in Bambis Rigi, una viuzza piena di ristoranti e caffè, seduti fuori all’ombra con riso, verdure e carne spendendo 16 Lari, circa 8 Euro, e poi facciamo una bella passeggiata lungo Kote Abkhazi ammirando quasi estasiati gli edifici vecchi ma molto affascinanti, ornati dai bei balconi con ringhiere in ferro battuto. Compriamo delle pesche da un’anziana signora che ha adagiato la sua mercanzia sul marciapiede e che continua a sorriderci e a parlare in georgiano, facciamo scorta d’acqua e torniamo verso il famigerato Morgan Hotel dove abbiamo appuntamento con Marine. La troviamo già lì ad aspettarci a bordo di una vecchia mercedes grigia guidata da colui che sarà il nostro autista per tutta la settimana. Saliamo e ci dirigiamo verso Mtskheta, la vecchia capitale della Georgia. In macchina si sta bene, senza aria condizionata ma con i finestrini spalancati. Passiamo la periferia di Tbilisi molto popolata ma non triste né degradata e attraversiamo quella che è una vera e propria istituzione della città: il centro commerciale Carrefour! C’è poco da ridere visto che quando è stato completato, pochi anni fa, le istituzioni cittadine hanno creato una vera e propria fermata delle marshrutky (i piccoli bus locali) proprio a fianco del supermercato che fu preso d’assalto per mesi e mesi (ed ancora oggi costituisce un punto di ritrovo soprattutto per i ragazzi più giovani). Proseguiamo verso la nostra meta e dopo una mezzoretta circa vediamo, arroccata sulla rupe alla nostra destra, la fantastica chiesa di Jvari. Per arrivarci imbocchiamo una stretta stradina di campagna che sale lungo la collina: l’auto si riempie del suono del frinire delle cicale ed il paesaggio che vediamo è davvero spettacolare. La chiesa di Jvari è forse il luogo più sacro di tutta la Georgia perchè eretta nel punto esatto in cui re Mirian, nel IV secolo, fece posare una croce in legno subito dopo essere stato convertito al cristianesimo da Santa Nino. L’edificio in sé è spoglio ma carico di suggestione con le mille candele arancioni accese e le belle icone in legno. Ma quello che più impressiona è la vista che spazia sulla cittadina di Mstkheta che sorge all’incrocio tra i due fiumi Mtkvari e Aragvi e sulla vasta campagna circostante. Dopo aver attraversato il ponte sul fiume, arriviamo a appunto a Mtkheta, completamente restaurata e quasi leziosa con le sue basse casette, un paio di guesthouse, negozi di souvenir e soprattutto la bellissima e maestosa cattedrale che risale all’XI secolo decorata sia all’interno che all’esterno da bellissime statue. Ci facciamo un giro per i giardini totalmente deserti e poi girovaghiamo un po’ per la tranquilla cittadina, fermandoci incuriositi davanti ad una bancarella che vende una specie di salsicce appese al sole. Quando la gentile signora ce le fa assaggiare scopriamo che si tratta in realtà di dolci: l’involucro di questo finto insaccato è ricavato dallo zucchero d’uva e contiene, all’interno, noci o nocciole ed il tutto è abbastanza stomachevole, molliccio, quasi plastico…da provare ma nulla più. Risaliamo in auto con Vakho, il nostro autista che nel frattempo si è fatto un pisolino sotto il sole cocente e torniamo verso Tbilisi dove ci rifugiamo in camera (che è stata pulita ma poco è cambiato…) per una doccia e un po’ di riposo.

Alle otto usciamo per andare a cena ma prima girovaghiamo per la parte alta della città vecchia che non finisce di affascinarci: passiamo lungo vie strette fiancheggiate da bellissime case mezze diroccate, con balconi costruiti in legno o in pietra, giardini rigogliosi nascosti dentro agli alti muretti, gente seduta sulle sedie fuori dalla porta di casa che ozia, gatti randagi che dormono sui cassonetti dell’immondizia, bambini che giocano a pallone in mezzo alla strada. Arriviamo ad una bella piazza alberata con gente anziana seduta sulle panchine e veniamo attratti da un fortissimo profumo di pane appena sfornato (e infatti lungo la strada abbiamo incrociato un sacco di gente con enormi filoni di pane sotto il braccio): in uno dei palazzi, a livello della strada, vediamo delle basse finestre con delle inferiate, ci affacciamo e vediamo…il fornaio che impasta, modella, inforna e sforna! Cerchiamo di capire dove sia la porta ma non la troviamo e ci chiediamo dove sia l’ingresso: la risposta ci arriva poco dopo quando vediamo una signora sporgersi verso una delle basse finestrelle attraverso cui le viene passata un’enorme pagnotta di pane! Che bel modo di fare la spesa! Niente porte, niente banconi, niente registratori di cassa, un solo tipo di pane. Semplice e veloce. Dall’altra parte della piazza c’è un bellissimo anche se un po’ fatiscente palazzo e da una finestra scende uno stendardo che pubblicizza il ristorante Pur Pur che la Lonely giudica come uno dei migliori ristoranti di Tbilisi. Il portone d’ingresso è spalancato e una larga scalinata di legno sale al primo piano. Decidiamo di andare a vedere il posto per una delle prossime sere visto che per la cena abbiamo già in programma un altro ristorante. Alla fine dello scalone troviamo un salone immenso, bellissimo, decine di tavoli con tovaglie una diversa dall’altra illuminati da paralumi in seta di diverse forme e colori, atmosfera elegante, grandi specchiere, soffitti altissimi, mobili vecchi restaurati, musica lounge…insomma un posto davvero da favola. Chiediamo alla gentile cameriera che ci viene incontro se il locale ha giorni di chiusura e le promettiamo di tornare a cena una delle prossime sere. Torniamo verso la strada principale e cerchiamo di orientarci per trovare il Cafè Gabriatze, un ristorante consigliato dalla Lonely. Chiediamo informazioni ad un po’ di persone ed ognuna ci dà un’indicazione diversa, chi ci dice di andare verso est, chi verso ovest, chi verso il fiume, chi su verso la città vecchia.

In Republic Square incontriamo un gruppo di ragazzi che, vedendoci in difficoltà, si ferma a chiederci se abbiamo bisogno di aiuto; saputo quel che cerchiamo quello che sembra il leader del gruppo ci dice che ci condurrà lui al ristorante. Ci avviamo e percorriamo di nuovo la strada dalla quale eravamo giunti, giriamo da una parte all’altra della città per circa 20 minuti con questo tizio che ci bombarda di domande in un inglese stentato e che, alla fine, ci dice che lui ogni tanto fa la guida e si offre di accompagnarci dove vogliamo. Capiamo l’antifona e gli diciamo che cercheremo da soli il ristorante visto che si è fatto tardi; è un po’ difficile sganciarlo ma alla fine ci riusciamo. La mappa della Lonely non ci aiuta ma lo fanno due simpatiche ragazze che stavolta ci danno le indicazioni giuste: arriviamo al Cafè Gabriatze illuminato da candele e luci soffuse, con le pareti tappezzate di vecchie locandine di film, tavoli multicolori, musica rilassante. Finalmente ci sediamo ed ordiniamo una buonissima zuppa di zucca e un hamburger di pollo con polenta e formaggio “Georgian Style”, tutto molto buono. Concludiamo la cena con un fantastico dolce arance, noci e cardamomo che ci lascia in bocca un gusto buonissimo (costo 35 Lari, circa 17 Euro). Usciamo nella notte di Tbilisi molto movimentata, visto che le strade sono piena di gente e ci avviciniamo al Ponte della Pace che viene illuminato improvvisamente da fuochi d’artificio; lo spettacolo delle fontane danzanti è davvero molto bello, ma la stanchezza comincia a farsi sentire visto che è quasi mezzanotte. Torniamo verso il nostro “albergo” passando lungo le viuzze con i locali strapieni di gente ma non abbiamo neanche la forza di fermarci a dare un’occhiata ai negozi ancora aperti, ci rifugiamo in camera e, indossati i tappi (troppa confusione, lì fuori!) crolliamo sui nostri letti.

2 Pane dolce al succo d’uva nella foresta di Surami

Samegrelo region e Zugdidi

16 Luglio. Ci svegliamo presto, chiudiamo le valige e senza quasi degnare di uno sguardo il ragazzo della “reception” saliamo direttamente all’Envoy per fare colazione. Marine ci chiede com’è andata la notte e noi gli ribadiamo che non siamo contenti dell’albergo e che non avremmo voglia di tornarci per il fine settimana; le chiediamo quindi se non sia possibile passare le nostre due ultime notti a Tbilisi all’ostello. Lei ci dice che non hanno camere con bagno privato, ma noi le rispondiamo che non ce ne importa visto che sono più puliti i loro bagni in comune del nostro! Marine non fa una piega, ci fa entrare nella reception, controlla la disponibilità e ci dà il via libera: quando torneremo dal nostro giro al nord, dormiremo lì e si occuperà lei del proprietario del nostro albergo. Sfoggiamo i nostri migliori sorrisi e, felici, scendiamo a recuperare le valigie visto che alle otto e mezza dobbiamo partire. Lasciamo quindi definitivamente il Morgan Hotel sotto lo sguardo attonito dei proprietari, saliamo sulla nostra Mercedes, conosciamo Giorgi, il ragazzo che ci accompagnerà nei prossimi giorni giovanissimo e molto simpatico, e ritroviamo Vakho, il nostro autista un po’ pazzo che appena partito accende la radio a tutto volume e la prima di una lunghissima serie di sigarette. Usciti da Tbilisi prendiamo la strada statale che corre verso nord ovest e dopo aver passato la periferia della capitale diminuiscono sempre più gli alti palazzi ed aumenta sempre più la verde campagna georgiana. Ci addentriamo quindi nella foresta di Surami nella regione dello Samtskhe Javakheti, un immensa oasi di boschi, piccoli laghi e campeggi: i lati della strada sono occupati da decine e decine di bancarelle che vendono amache, sedie a sdraio e giochi per bambini visto che questa è una delle più popolari zone di villeggiatura di tutta la Georgia. Spessissimo, ci racconta Giorgi, le famiglie vengono qui il week end, piazzano le loro amache tra due alberi e si fanno un bel barbecue. Tra le bancarelle, ogni tanto, spuntano uomini e donne con dei sacchetti di plastica in mano con all’interno una pagnotta: incuriositi chiediamo a Giorgi informazioni su questo strano modo di vendere il pane e lui ci spiega che non si tratta di pane, ma di un dolce tipico di questa zona, una sorta di focaccia dolce fatta con il succo d’uva e uvetta sultanina che deve essere consumato rigorosamente caldo. Non possiamo resistere alla tentazione di assaggiarlo e quindi alla prima occasione fermiamo la nostra auto vicino ad una signora che, dall’interno del suo baracchino, ci vende una di queste focacce, ancora caldissima: notiamo infatti che al bordo della strada c’è un piccolo forno con il fuoco che arde sotto dove all’interno vengono cotti questi dolci: tutte le focacce vengono cotte e vendute quasi subito. Ripartiamo mangiando questo pane dolce davvero delizioso, dolcissimo e fragrante. Dopo aver passato il caotico centro di Kutaisi (una città abbastanza anonima) ed aver fatto uno stop in un autogrill locale per consumare un veloce pranzo a base di kachapuri (questa focaccia ripiena di formaggio farà parte della nostra dieta per i prossimi giorni: ne esistono diverse varianti ed ogni regione la fa in modo diverso anche se gli ingredienti, farina e formaggio, appunto, sono sempre gli stessi), entriamo nella regione del Samegrelo: qui non ci sono palazzi, condomini e strade affollate bensì campagna a perdita d’occhio. Abbiamo fortemente voluto visitare questa parte di Georgia dopo aver letto la descrizione sulla Lonely: “vale il viaggio”, c’era scritto nel capitolo introduttivo dove venivano descritti i “segreti del Samegrelo” ossia cinque o sei spot turistici da visitare assolutamente. Le strade sono fiancheggiate da basse casette in tipico stile georgiano, di legno o di mattoni, con i loro giardini rigogliosi recintati da steccati. E poi centinaia di animali che circolano liberamente sulla strada: mucche, maiali, galline, oche. Vakho deve fare molta attenzione, soprattutto alle mucche che, a volte, non ne vogliono sapere di spostarsi dal centro della strada: inutile strombazzare, bisogna scendere e farle spostare. Il Samegrelo è davvero un posto fantastico, tutto parla di natura, di ritmo di vita tranquillo, di serenità. L’aria qui è diversa dalla capitale, più pura, più fresca. C’è pochissima gente in giro e quindi facciamo un po’ di fatica a trovare la nostra prima meta, il Monastero di Martvili. Giorgi chiede informazioni ad un contadino che trasporta fieno in una carriola parlando nella lingua del posto: essendo originario di Zugdidi, il capoluogo del Samegrelo, conosce benissimo quella che lui definisce una vera e propria lingua e non un semplice dialetto. Dopo una serie di strade sbagliate, arriviamo finalmente al Monastero: il cielo è plumbeo, niente sole, ma anche con il tempo non decisamente favorevole il luogo è davvero incantevole. Una lunga scalinata ci porta al complesso monastico formato dalla cattedrale, da un’altissima torre e da una serie di piccole cappelle sparse nel vasto giardino tenuto in maniera impeccabile disseminato di vecchissime querce e alberi di noce. La chiesa principale è adornata da affreschi che risalgono al VII secolo e l’atmosfera è quella tipica che si respira in tutte le chiese georgiane: candele arancioni che sfrigolano, pregiate icone in legno, l’altare chiuso da portali di legno intarsiati, pace e silenzio. C’è pochissima gente, qualche fedele, un paio di turisti locali e qualche giovane prete di nero vestito che vaga per il giardino meditando. Riprendiamo quindi la strada per visitare il secondo segreto del Samegrelo (ridiamo con Stefano a questa battuta: sembra di essere in pellegrinaggio…”i cinque segreti del Samegrelo!!!”) passando attraverso bei paesaggi e scendendo verso una profonda gola. Arriviamo quindi nella zona delle cascate di Gachedili: decine e decine di auto parcheggiate, gente con tavolini da pic nic o coperte stese per terra che pasteggia, tutti in costume da bagno, bambini urlanti, salvagenti colorati e… canotti!

Ci aspetta una gita in gommone che si rivelerà oltrechè molto strana anche abbastanza ardua. Passando in mezzo alla gente con le gambe a mollo nelle gelide acque del torrente, saliamo (con molta fatica) su questo canotto della lunghezza di un paio di metri che deve contenere, oltre a noi due, Vakho, Giorgi, il proprietario del canotto e suo figlio di 8 anni che lo aiuta a remare: la situazione non è delle migliori, visto che ho i pantaloni lunghi e le infradito, lo zainetto, gli occhiali, la macchina fotografica! Tutto ciò si rivelerà, nel corso della traversata, alquanto scomodo, scivoloso e mi renderà impacciato nei diversi sali scendi che ci aspettano. Ma tutto questo io non lo sapevo quindi, consiglio: chi viene qui non si porti nulla di nulla, si metta un costume e, possibilmente, delle scarpe che può bagnare! In bilico sul piccolo gommone cominciamo ad avventurarci nella profonda gola con le pareti di roccia a strapiombo e una fitta volta di vegetazione che ci impedisce di vedere il cielo. L’acqua, in questa zona, è bassa e calma, di un azzurro quasi brillante tanto è limpida. Giorgi, prima di salire, ci aveva chiesto se volevamo “accontentarci” del percorso classico oppure se ci sarebbe piaciuto allungare il percorso fino alle grotte dove anni fa sono state scoperte della tracce di dinosauro (e, pare, anche di alcuni fossili…), alla “modica” cifra di 35 Lari (circa 17 Euro). Il prezzo non è esattamente basso ma siamo qui e che dobbiamo fare? Acconsentiamo, quindi, all’estensione del trip.

Dopo aver percorso circa 800 metri sulle tranquille acque del torrente arriviamo al punto dove tutti si fermano ma avendo acquistato il “pacchetto vip” (ahahaha) possiamo andare oltre. E qui comincia una vera e propria odissea: ogni tre metri dobbiamo scendere tutti dal gommone per trasportarlo al di là delle secche che si formano perchè l’acqua è bassa. Non è di certo comodo alzarsi sul gommone traballante, scendere in acqua con i pantaloni che, anche se arrotolati, diventano fradici, con le infradito che scivolano di continuo sulle rocce bagnate… Arriviamo ad una piccola spiaggetta e ci addentriamo in una piccola grotta dove sono stati scoperti i fossili: il proprietario del gommone ci indica alcune sporgenze che, a quanto pare, sarebbero gli stomaci dei dinosauri con tanto di costole e spine dorsali…a dir la verità noi non vediamo assolutamente nulla o meglio vediamo la nuda roccia con alcune sporgenze che potrebbero, dico potrebbero, essere anche degli scheletri ma con molta, molta fantasia. Dopo sei o sette saliscendi (tra imprecazioni varie, uno “stai attento” qua e un “fai attenzione” là) arriviamo alla fine della gola dove alcune basse cascatelle riversano l’acqua del torrente su un bacino azzurro che invita davvero a fare il bagno. Ma fa freddino visto che non c’è il sole e l’acqua è parecchio gelida quindi invertiamo la rotta con il bambinetto che rema con foga, ansioso evidentemente di dimostrare al padre che con i turisti ci sa fare, e riaffrontiamo i saliscendi questa volta con un po’ più di esperienza. Torniamo quindi al luogo di partenza totalmente fradici e anche un po’ infreddoliti ma soddisfatti di questa avventura visto che il posto è davvero affascinante. Saliamo in macchina e vorremmo quasi chiedere a Vakho di accendere il riscaldamento ma ci sembra di essere assurdi visto che siamo a luglio. Riprendiamo a percorrere le tranquille stradine di campagna, incrociando qualche trattore con il rimorchio pieno di fieno, decine e decine di mucche che imperterrite stazionano in mezzo alla strada, gente che ozia sul bordo della strada sotto alberi di fico, ed arriviamo sul sito della fortezza di Nokalakevi che racchiude i resti di un’antica città reale. Dopo aver attraverso quel che resta delle imponenti mura perimetrali e dopo esserci fatti controllare i biglietti da guardie annoiate stipate dentro un casotto alquanto malridotto, entriamo nel sito: in realtà rimane ben poco di quella che doveva essere una splendida città, ma è piacevole passeggiare in mezzo alla natura incontrando ogni tanto i resti di qualche costruzione, un vecchio monastero quasi integro e imponenti alberi di noce: il tutto in un’atmosfera di assoluta tranquillità visto che praticamente non c’è anima viva. Visitiamo poi anche il piccolo museo posto all’entrata della fortezza che sembra direttamente uscire dai tempi del soviet con tanto di guardia armata all’ingresso: resti di bellissime anfore, antiche monete, monili e gioielli che sono stati ritrovati tra le rovine sono disposti su teche polverose e tutto sembra abbandonato, ma interessanti raffigurazioni ci mostrano com’erano la città e la fortezza prima di essere distrutte.

Risaliamo in macchina e ci avviamo verso Zudgigi sotto una leggera pioggia. La nostra giornata volge al termine e quando arriviamo al nostro albergo siamo distrutti. Il vecchio Zudgigi Hotel, dato come il “migliore” della città sulla LP, in realtà lascia molto a desiderare: situato a poche centinaia di metri dalla piazza principale della città è un albergo modesto, mal tenuto, polveroso, con le stanze piccole dai muri non esattamente puliti, letti duri e solite lenzuola sintetiche con tanto di “pallini” appiccicati (tipico dei tessuti sintetici: i fili si arrotolano e si formano dei piccoli batuffoli che ricoprono interamente la superficie…). Dalla finestra della nostra camera (l’ultima a cui si accede da uno strettissimo corridoio ricoperto di moquette macchiata) si gode una fantastica vista su…un’officina meccanica con il cortile disseminato di vecchie auto arrugginite, pezzi di motore, pozze d’olio esausto e via dicendo. Dopo una doccia, usciamo per cena e decidiamo di andare all’Host, un ristorante raccomandato dalla Lonely perché è… l’unico esistente in città che si possa definire tale. Il posto che da fuori sembra uno chalet svizzero, all’interno è davvero immenso ma praticamente vuoto se si escludono gli unici due tavoli occupati sul minuscolo terrazzino del primo piano. Abbiamo i camerieri tutti per noi e ordiniamo salmone alla griglia, un piatto tipico del Samegrelo composto da funghi, patate e formaggio fuso e un piatto di patate fritte alla paprika (ottimo servizio, ottimo cibo, il tutto a 37 Lari, circa 15 Euro). Usciamo che è già buio e facciamo una lunga passeggiata attraversando la città fino ad arrivare ai curati giardini del palazzo reale stranamente illuminato con potenti fari di colore verde e ad un piccolo luna park popolato di gente del posto che si diverte mangiando semi di girasole. Torniamo stanchissimi al nostro albergo non senza notare la presenza massiccia di farmacie lungo la strada: nell’arco di un paio di chilometri ne abbiamo contate nove, quasi tutte aperte anche a quest’ora della sera e la cosa ci è sembrata parecchio strana. Crolliamo sui nostri letti durissimi ma il sonno fa sopportare tutto.

3 Alle pendici del Caucaso col botto

Svaneti (Mestia e Ushguli)

17 Luglio. Ci svegliamo accompagnati dal rumore delle saldatrici dell’officina meccanica e ci prepariamo per andare a far colazione dopo aver chiuso le valigie. La saletta è deserta fatta eccezione per il proprietario seduto ad un tavolino con sigaretta e tazza di tè che legge il giornale e l’imponente cuoca che traffica in cucina. La nostra colazione si compone di uova sode, pane e burro… chiediamo se c’è del caffè e ci sentiamo rispondere “niet”, chiediamo se c’è della marmellata ed otteniamo un altro “niet”. Di bene in meglio! Non c’è verso di fare una colazione normale in questo paese. Chiediamo allora dell’acqua calda (questa per fortuna ce l’hanno) e faccio una corsa in camera a recuperare dalla valigia dei biscotti che avevamo preso a Tbilisi e il caffè solubile che sempre ci portiamo dietro e così riusciamo a riempire i nostri stomaci. Trasciniamo a fatica le nostre valigie giù per le scale (l’albergo è al secondo piano di un palazzo stile sovietico e ovviamente non c’è ascensore) e ritroviamo Giorgi e Vakho che ci aspettano vicino alla nostra Mercedes. Partiamo con una sottile e fastidiosa pioggerellina che scende verso la remota regione dello Svaneti (anche questa fortemente voluta visto che pare essere un luogo davvero bellissimo) cominciando ad inerpicarci sulla stretta ma bellissima strada di montagna. Facciamo una sosta alla Enguri Arch Dam, una imponente diga sull’immenso omonimo fiume che, a quanto pare, fornisce energia elettrica a gran parte della Georgia e riprendiamo poi a salire. Stiamo tranquillamente chiacchierando con Giorgi quando, affrontando una curva, sento Vakho imprecare, giro la testa alla mia sinistra e mi accorgo, anche se per una frazione di secondo, che un camioncino rosso ci sta letteralmente piombando addosso: istintivamente mi butto verso Stefano seduto vicino a me e stringo forte gli occhi aspettando il botto che arriva potente facendo barcollare la macchina. I ricordi che ho dei minuti successivi all’impatto sono ben chiari: Vakho, Giorgi e Stefano che spalancano le portiere dell’auto ed escono fuori; io che invece rimango immobilizzato seduto in macchina; Giorgi che si sporge dal finestrino e mi chiede se è tutto a posto, se ho bisogno di un’ambulanza, se sto bene; io che tento di aprire la mia portiera senza riuscirci e sono quindi costretto ad uscire dall’altra parte; le gambe che non mi reggono. Dopo cinque minuti mi rendo conto che, per fortuna, va tutto bene, non ho neanche un graffio né una botta. Sono un po’ intontito ma solo per la paura che ho preso. Ci ritroviamo quindi in questa curva con i mezzi quasi in mezzo alla strada, i cellulari che non prendono, Vakho che impreca in Georgiano, Giorgi che continua a ripetere “Your mother fuked, stupid man” verso l’autista del camioncino che non sa più come scusarsi, io che faccio il giro dell’auto e guardo attonito la mia portiera dall’esterno tutta incurvata…Trascorriamo le due ore successive andando su e giù per la strada con la polizia che fa i rilievi e interroga i conducenti, Giorgi nervoso perchè la sosta forzata sballerà tutti i nostri progetti per la giornata ed inizia a fermare alcune marshrutky dirette a Mestia che però sono tutte al completo. Marine mi chiama da Tbilisi per sapere come sto e mi informa che manderà un’altra auto; le dico che non è necessario, che sentiremo prima Vakho e se lui dirà che la macchina può correre non servirà nessuna sostituzione. Sono le undici e mezza quando ci rimettiamo in marcia e il clima è ancora molto teso ma continuiamo a ripeterci quanto siamo stati fortunati perchè poteva davvero succedere di tutto, la macchina poteva ribaltarsi a causa dell’urto, il finestrino dalla mia parte poteva scoppiare, la carrozzeria poteva spaccarsi e via di questo passo. Piano piano ci rilassiamo e io e Stefano addirittura ci addormentiamo. Arriviamo a Mestia all’una e mezza ed andiamo direttamente alla Guesthouse Rosa dove dormirà Giorgi e dove tutti ci stanno aspettando, preoccupati per il ritardo. Rosa, la proprietaria, quando le raccontiamo dell’incidente si trasforma immediatamente in una mamma affettuosa e ci offre caffè, tè, anguria e parole di conforto. Il tempo di andare velocemente in bagno e poi partiamo a bordo della 4×4 del cognato di Rosa in direzione Ushguli, facendo prima tappa in un panificio di Mestia per comprare due pezzi di katchapuri che mangeremo per strada. Strada che fin da subito si preannuncia come un incubo: pur essendo davvero bellissima con le spettacolari cime caucasiche di un verde quasi finto, bassi corsi d’acqua che guadiamo, animali che circolano in libertà, piccoli villaggi con le particolarissime torri Svan, il percorso è disseminato di rocce, sassi e terreni dissestati che provocano continui sballottamenti. Dopo quasi due ore e mezzo di vera e propria tortura (non so come abbiamo fatto a mangiare il kachapuri in quelle condizioni…) arriviamo alla nostra meta: descrivere Ushguli è impossibile vista la sua bellezza e la sua unicità. Dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO e situato ai piedi della vetta perennemente innevata del Monte Shkhara (5068 metri), Ushguli si compone in realtà di quattro villaggi situati a 2000 metri di altitudine in un contesto davvero spettacolare: immaginate quattro nuclei di edifici antichissimi, ognuno con cinque o sei torri “svan” (le tipiche torri dello Svaneti che secondo alcuni servivano da posti di avvistamento, secondo altri da magazzini per stivare granaglie e animali), praticamente deserti salvo qualche pigro vecchietto seduto all’esterno delle antiche case, un impetuoso corso d’acqua che separa i villaggi dalla strada (oddio, chiamarla strada è davvero troppo…) e tutto intorno vallate splendide illuminate dal sole. Parcheggiamo la Jeep a Zibhiani, il più alto dei villaggi, e visitiamo il solitario monastero con la Chiesa della Vergine Maria risalente al XII secolo imbruttito, ahimè, da un’orribile recinzione di onduline che, a detta di Giorgi, serve a preservarlo dagli animali. Il cielo è di un blu incredibile ed il sole del tardo pomeriggio illumina le pendici delle vette caucasiche che sembrano dei verdissimi e morbidi tappeti. Ci sediamo sulle sgangherate sedie dell’unico baretto godendoci il sole e ci beviamo un bel caffè forte e caldissimo (il mio mal di testa, però, si ostina a rimanere…). Dopo la pausa facciamo una bella camminata lungo il torrente fino al villaggio più basso, Murqmeli, dove ci addentriamo tra le vecchissime case, qualche relitto di automobile, letamai, vecchissimi alberi e, su tutto, le torri “svan” che svettano sopra le nostre teste. Ciò senza assolutamente vedere nessuno: né bambini, né adulti, né turisti (ne avremo incrociati due o tre), tanto da chiederci se siano dei villaggi fantasma… L’idea di risalire in macchina e sorbirci altre due ore e mezza di sterrato non ci alletta, ma il sole sta piano piano scendendo ed è l’ora di tornare verso Mestia. Lasciamo a malincuore questo bellissimo luogo ed affrontiamo il nostro ritorno che si rivela addirittura peggio dell’andata visto che al terreno dissestato si aggiunge anche la stanchezza, ma arriviamo comunque sani e salvi a Mestia e parcheggiamo nella piccola piazza del villaggio di fronte al Seti Hotel.

A questo punto devo fare un piccolo passo indietro: al momento di decidere l’albergo di Mestia, Marine mi aveva suggerito la Seti Guesthouse che avevo cercato su internet senza però trovarla: nessuna foto, nessun sito, nessun commento su Tripadvisor. Ma avevo trovato il Seti Hotel che, sinceramente, non mi aveva fatto una buonissima impressione (è l’albergo più vecchio di Mestia e anche se recentemente restaurato non mi ispirava). Tuttavia Marine mi aveva assicurato che non era quello che lei aveva prenotato per noi, che avremmo dunque alloggiato alla Seti Guesthouse. Quindi rimango parecchio sorpreso quando Giorgi ci accompagna su per le scale del Seti Hostel visto che mi aspettavo, appunto, un’altra cosa. Parlotto velocemente in inglese con Giorgi e gli chiedo se è sicuro che questo sia il nostro albergo per stanotte visto che a Mestia esistono “due” Seti, l’albergo e la guesthouse. Lui mi tranquillizza e mi dice di stare sereno (a me???) che siamo nel posto giusto! Si rivolge alla ragazza della reception e…scopre che non c’è nessuna prenotazione a nostro nome! Dopo una discussione (ci avrebbero accettato anche senza prenotazione visto che l’albergo è praticamente vuoto) svela l’arcano e…mi dà ragione! Riprendiamo quindi l’auto per fare…200 metri e trovare, finalmente, la Seti Guesthouse un posto davvero caratteristico, ex fattoria con una torre “svan”, sistemata e riadattata a piccola guesthouse con 4 camere con bagno privato nuovissime ed appena ridipinte. Ci sistemiamo nella piccola ma accogliente camera, congediamo Giorgi e Vackho (loro dormiranno alla Rosa’s Guesthouse), ci facciamo una doccia e scendiamo a cena che qui è compresa nel prezzo della camera. La grande cucina comune ha due tavoli, uno è gia occupato da 6 turisti armeni e l’altro è tutto per noi, imbandito di ogni ben di dio: pesce al forno, patate fritte “home made”, una specie di risotto ai funghi, zuppa calda di verdure e pollo, melanzane sottolio e, per dessert, melone e anguria. Concludiamo la nostra cena luculliana con un caldo nescafè e poi decidiamo di andare a fare un giro notturno per Mestia. Pur essendo meno caratteristica di Ushguli anche Mestia ha innumerevoli torri “svan” che, grazie ad un progetto di riqualificazione del villaggio, di notte vengono illuminate con soffuse luci arancioni. Facciamo un salto all’unico negozio di souvenir dove acquisto una calamita a forma di torre “svan” destinata ad arricchire la mia collezione e poi nella piazza del villaggio dove incontriamo Giorgi che sta bevendo una birra con Vakho. Ci salutiamo e in quel momento chiama Marine da Tbilisi che vuole parlare con me per sincerarsi che io stia bene; la rassicuro e ci facciamo anche una risata (in effetti siamo stati molto fortunati…). Congediamo la nostra guida-assistente, facciamo una lunga passeggiata fino al limitare del villaggio da dove si gode una bellissima vista delle torri illuminate e poi torniamo sui nostri passi (portatevi una torcia visto che qui non esiste illuminazione e le strade non sono in buone condizioni: buche e tombini aperti sono sempre in agguato!) arrivando alla guesthouse più morti che vivi e crollando sui comodi e puliti letti della nostra camera.

4 Kiki, l’orsetto arancione del tirassegno

Zudgigi – Borjomi – Alkhasikhe

18 Luglio. Dopo un lungo sonno ristoratore, ci svegliamo, prepariamo le valigie e scendiamo a fare colazione. Il nostro tavolo è imbandito quasi come la sera prima e questa è la prima colazione degna di questo nome che facciamo durante il nostro trip. Raccomandiamo fortemente la Seti Guesthouse (da non confondersi con l’Hotel Seti), ottimo posto e, ad eccezione dell’Envoy Hostel, la migliore sistemazione di tutto il viaggio. Lasciamo Mestia in una bella giornata di sole e iniziamo la discesa verso il Samegrelo, ma ben presto la nostra corsa si arresta: la strada di montagna è franata e… non si passa. Non ci resta che scendere dall’auto ed aspettare, insieme alla gente del posto ed agli annoiati operatori della protezione civile, che gli operai sgomberino la carreggiata dai detriti. Dopo 50 minuti abbiamo finalmente il via libera e quindi riprendiamo il nostro viaggio. Dopo un paio d’ore arriviamo a Zudgigi e Giorgi ci dice che i suoi genitori ci hanno invitato a pranzo. Siamo sorpresi e felici e gli chiediamo di fermarci o in una pasticceria o da un fioraio per portare qualcosa alla mamma ma lui non vuole sentire ragioni e ci dice che non è necessario, che non dobbiamo preoccuparci di nulla, che per loro è un onore averci ospiti. Pur con imbarazzo, accettiamo di buon grado l’invito e a mezzogiorno siamo ricevuti con tutti gli onori dai genitori e dalla zia di Giorgi. Il pranzo è a dir poco esagerato: pollo con una squisita salsa di pomodoro piccante, insalata di melanzane , polenta con formaggio fuso, lavash (il tipico pane georgiano/armeno) il tutto annaffiato da una frizzantissima acqua minerale Borjomi e, soprattutto, dalla “chacha” un incrocio tra wodka e grappa ad altissima gradazione alcolica. Cosa particolare, a tavola siamo seduti in cinque: io, Stefano, Giorgi, Vakho e il papà di Giorgi, mentre le donne…mangiano in cucina e si occupano di servire, cosa alquanto insolita ma evidentemente in uso qui. Il pasto si consuma allegramente tra chiacchiere e bicchierini di chacha che non si beve a fine pasto come da noi ma durante e, soprattutto, in maniera abbondante. Io riesco a berne un bicchierino e mezzo mentre Stefano arriva forse a tre: il problema è che bisogna svuotare in un sol colpo tutto il bicchierino ed il bruciore allo stomaco è davvero indescrivibile. Concludiamo il pranzo con buonissime pesche che crescono sull’albero del giardino di casa ed un caffè molto forte. Sotto una pioggia battente, lasciamo i genitori di Giorgi (la mamma Eliso se l’è abbracciato e baciato un’infinità di volte) e riprendiamo la nostra strada verso la regione dello Samtskhe-Javakheti ma prima facciamo uno stop alle sorgenti calde di Tsaishi, ovvero il quarto segreto del Samegrelo. Questa zona vicino a Zudgigi è famosissima per le sue acque sulfuree che sgorgano ad una temperatura intorno ai 40 gradi e soprattutto durante il periodo sovietico era un luogo dove la gente veniva a curarsi. Oggi rimane ben poco delle vecchie terme: palazzi disabitati e mezzi diroccati che sorgono in mezzo ad una campagna popolata perlopiù da mucche, rivoli di acqua sulfurea che scorrono lenti e fumanti ed una gigantesca pompa idraulica industriale che riversa sul terreno ettolitri di acqua caldissima. Mentre passeggiamo, veniamo avvicinati da due anziani del posto che, grazie alla traduzione di Giorgi, ci raccontano com’era il posto al tempo dei russi. Nei loro occhi c’è un po’ di nostalgia e sono felicissimi che qualche turista capiti da queste parti anche se sanno benissimo che, in realtà, c’è rimasto ben poco da vedere. Dopo aver salutato i due simpatici vecchietti riprendiamo la nostra strada: Vakho è sempre più scatenato con la musica e quindi sfrecciamo velocissimi sulla nostra Mercedes mezza ammaccata ascoltando una colonna sonora sparata a tutto volume che comprende gli Abba, Gloria Gaynor ma soprattutto Las Ketchup con il tormentone in voga all’inizio degli anni 2000 “Aserejè”. C’è solo da divertirsi con questi georgiani!

A metà pomeriggio ci fermiamo lungo la strada dove un baracchino vende caffè espresso “italian style” e dei buonissimi dolcetti alla nocciola che ci offre Giorgi e verso le cinque arriviamo finalmente a Borjomi, una delle mete turistiche più famose tra i georgiani visto che offre la possibilità di fare bellissime passeggiate sui sentieri in estate e sport invernali nella stagione fredda. A fatica troviamo un parcheggio vicino al parco delle acque minerali (il touristic spot più visitato di Borjomi) e ci addentriamo in quello che è un vero e proprio luna park ma senza le giostre: la strada è fiancheggiata da bancarelle che vendono qualsiasi cosa, dai giocattoli per bambini alle cibarie, da una strana resina che si deve masticare tipo chewing-gum (che Stefano invece ingoierà paventando già una serata al pronto soccorso locale) alle bottiglie vuote di plastica da riempire all’interno del parco con la preziosa acqua minerale che sgorga dalle fontane. Vakho è però attratto dai tirassegno: fino ad una decina di anni fa, infatti, era nella polizia e quindi ha un ottima mira e una passione sfrenata per questo gioco da fiera. Passiamo quindi la successiva mezzora a guardare il nostro autista infoiato che cerca di abbattere barattoli con la carabina ad aria compressa e che è felicissimo di vincere uno spelacchiato (e alquanto vecchio…) orsacchiotto di peluche arancione che subito battezza Kiki (come il nome della sua attuale fidanzata: a 52 anni è già stato sposato tre volte ma, a quanto pare, Kiki sarà la quarta…). Facciamo poi un bel giro nel parco che in realtà non ha nulla da offrire se non fare la coda per riempire una bottiglietta di acqua minerale calda, salata e sulfurea, ma è un buon posto dove osservare da vicino gli stili di vita dei georgiani che, a quanto pare, sono particolarmente attirati da questo luogo visto che decine e decine di persone attendono pazientemente il loro turno per fare scorta d’acqua. Con i giubbotti addosso (la temperatura si è abbassata notevolmente) e con una bottiglietta di coca riempita con la preziosa acqua (che, a dir la verità, fa un po’ schifo ed infatti finirà nel wc dell’albergo) riprendiamo l’auto in direzione Akhaltsike dove pernotteremo. Entriamo in città da una periferia alquanto degradata disseminata di palazzoni soviet style in stato di semi abbandono, ed è proprio in mezzo a questi palazzi che troviamo…il nostro albergo, il Bonadea Hotel. La cosa ci lascia un po’ tramortiti visto che non ci sembra una zona molto sicura ma il più preoccupato di tutti è Giorgi che, resosi conto della situazione, quasi si rifiuta di lasciarci in questo albergo di periferia per andare a dormire nella guesthouse che ha prenotato per sé e Vakho. L’albergo è totalmente deserto, alla reception non c’è nessuno ma poco dopo il nostro ingresso dalla scala interna scende una signorina con minigonna ascellare, tacco 12, rossetto di un rosso quasi accecante che ci viene incontro come se fosse una modella (peccato che sia alta 1,60…con i tacchi!). Inizialmente scontrosa, col passare dei minuti, mentre parla con Giorgi, si ammorbidisce e diventa quasi simpatica. Come detto siamo in una zona periferica che non ci ispira molto quanto ad affidabilità: la signorina però ci tranquillizza dicendoci che il posto è sicuro e tranquillo e a circa 10 minuti a piedi c’è un bel ristorante nuovo. A nostra volta, quindi, tranquillizziamo Giorgi che, finalmente convinto, ci lascia da soli con la nostra amica che ci conduce alla nostra camera, molto spartana ma tutto sommato abbastanza pulita. Dopo una doccia e dopo esserci fatti spiegare esattamente dove si trova il ristorante, ci avviamo lungo la strada quasi deserta fiancheggiata da casermoni ornati di parabole satellitari, panni stesi e fili elettrici di vario spessore e colore. Dopo essere entrati in un supermercato per rifornimento d’acqua, arriviamo ad una rotonda e ci dirigiamo verso il Rio Hotel (l’altro albergo di Akhaltsikhe) di fronte al quale è stato ricavato un grande lago artificiale contornato da una stradina pedonale che percorriamo tutta per arrivare sull’altra sponda dove si trova il nuovissimo ristorante che scopriremo poi essere degli stessi proprietari del nostro albergo. Il “Fontana Restaurant” è a dir poco kitch: un blocco di cemento situato sul lungo lago più simile ad un night club che ad un posto dove cenare, con arredamento stile anni 80, luci stroboscopiche e musica assordante all’interno, aria condizionata sparata a mille (nonostante fuori ci siano poco meno di 20 gradi) e chiassose tavolate di giovanotti del posto che banchettano allegramente. Veniamo avvicinati da una timida cameriera che però non parla assolutamente inglese (neanche basico…) e che chiede aiuto ad una giovanissima cliente per la traduzione. Optiamo per un tavolino all’aperto (la musica, l’aria condizionata e le strobo ci disturbano parecchio) e anche se con un qualche difficoltà riusciamo ad ordinare katchapuri e pizza (non siamo assolutamente riusciti a capire che cosa fossero gli altri piatti della casa visto che anche l’inglese della ragazza-cliente non era granchè) che arrivano poco dopo calde e buonissime. Dobbiamo assolutamente consigliare questo ristorante visto che il posto è pulito, il cibo buono ed il costo potremmo dire irrisorio visto che abbiamo speso 15,40 Lari, poco più di 7 Euro in due.

Dopo aver bevuto un buon caffè ed aver trascorso la serata a chiacchierare ammirando il finto e tranquillo lago, torniamo vero il nostro albergo dove ritroviamo la simpatica receptionist che stavolta ci accoglie con un sorriso e si informa su come abbiamo trovato il ristorante. Non possiamo che darle soddisfazione dicendole che tutto è andato per il meglio e che ci siamo trovati benissimo. Con il sorriso stampato in faccia lei si ritira nel suo ufficio e noi nella nostra camera.

5 Sotto gli alberi di albicocche di Vardzia

Akhaltsikhe – Vardzia – Tbilisi

19 Luglio. Quando tiriamo le tende della nostra camera una bagnata sorpresa ci aspetta: fuori sta piovendo a dirotto e la cosa non ci mette di buon umore. Impacchettiamo i bagagli e scendiamo a fare colazione in compagnia della nostra amica receptionist e della cuoca (si si, fanno proprio colazione in un tavolino vicino al nostro, mangiando uova sode e tè bollente spillato da un samovar di finto argento). Anche questo albergo lo possiamo tranquillamente consigliare: la zona non è il massimo, ma la camera era pulita, il bagno appena rifatto (forse la doccia merita la palma d’oro…) e la colazione abbondante. La nostra amica ci saluta con la mano mentre ci allontaniamo dal Bonadea in direzione del monastero di Sapara sotto una pioggia battente e scopriamo che Giorgi e Vakho hanno in realtà dormito vicinissimi al nostro albergo visto che hanno scoperto che la guesthouse che avevano prenotato si trovata a 18 km da Akhaltsikhe. La strada che ci porta al monastero di Sapara è davvero strepitosa e corre in mezzo a basse colline coltivate a grano. Incontriamo qualche difficoltà visto che il tracciato è quasi da fuoristrada (non capiamo cosa Vakho dica ma secondo noi sono le solite imprecazioni!) e veniamo bloccati da un paio di lentissime marshrutky con a bordo turisti russi. Dopo una buona ora di sterrato arriviamo finalmente in vista del monastero di Sapara parzialmente nascosto tra le nuvole basse. Visitiamo l’antica Chiesa della Dormizione risalente al X secolo, spoglia ma molto suggestiva, girovaghiamo per il complesso monastico con le sue piccole cappelle ed arriviamo alla principale Chiesa di San Saba che però ha la porta sprangata da un catenaccio. Dispiaciuti di non poter entrare (avevamo letto sulla guida che l’interno era affrescato con dipinti molto ben conservati) stiamo per andarcene quando arriva un giovane prete vestito di nero che apre la chiesa. Entriamo ed in effetti sarebbe stato davvero un peccato perderci questa meraviglia con dei dipinti che sembrano essere stati fatti qualche giorno fa, il maestoso altare decorato in legno ed un antichissima icona poggiata su un leggio tutto intarsiato. Ci avviamo quindi verso l’uscita visitando velocemente la minuscola Chiesa di Santo Stefano e lasciando quindi questo posto davvero molto suggestivo, grazie anche alla sottile pioggerella che scende ma che non ci infastidisce affatto visto che contribuisce a conferire un’atmosfera quasi magica al luogo.

Torniamo quindi ad Akhaltsikhe con un timido sole che fa capolino fra le nuvole e visitiamo Rabati ossia la città vecchia. In realtà non capiamo molto il senso di questo posto: la fortezza, che al suo interno racchiude una moschea, i resti di una sinagoga e diverse bizzarre costruzioni, è infatti stata tutta ricostruita con una spesa pazzesca: il risultato è molto simile ad un outlet village dove tutto sembra finto da quanto è perfetto. E’ stato comunque piacevole passeggiare lungo i giardini fiancheggiati da fontane che ricordano molto quelli dell’Alhambra a Granada e visitare le costruzioni e l’interno dell’alta torre posta in cima al sito ma, rispetto a quanto abbiamo visto fino ad ora, direi proprio che questo sito ci colloca in fondo alla classifica. Ci beviamo un bel caffè forte (in un bicchiere di vetro che ne contiene quasi mezzo litro) nel bar all’aperto del nuovissimo albergo a cinque stelle aperto di recente e, usciti da questo finto mondo antico, ci dirigiamo verso Vardzia, la nostra prossima meta, facendo però prima una sosta alla stupenda (e verissima!) fortezza di Khertvisi. Si tratta di una costruzione fortificata risalente ad un’epoca collocata tra il X ed il XIV secolo, molto ben conservata ma che possiede un non so che di trascurato, con la vegetazione che cresce spontanea e selvaggia dentro al cortile principale e sulle mura. Dalla torre principale si può ammirare sia il fiume Parvani che scorre impetuoso lungo le mura della fortezza, sia la verde campagna circostante. Riprendiamo quindi la bellissima strada verso Vardzia che costeggia il fiume Mtkvari con il paesaggio che pian piano cambia: la campagna infatti lascia il posto a basse colline rocciose sulle cui pendici sono state scoperte diverse grotte naturali molto suggestive. Ma tutto ciò non è nulla paragonato a Vardzia che, improvvisamente, ci appare alla nostra sinistra in tutta la sua imponenza. Questa antichissima città rupestre fatta costruire da Re Giorgi III nel XII secolo è interamente scavata sul fianco di una collina e comprende centinaia di grotte ed alcune chiese collegate fra loro da scale di pietra di diversa lunghezza e dimensione. Il sito è immenso e per fortuna quasi deserto.

Dopo aver parcheggiato l’auto cominciamo a salire verso le grotte seguendo un sentiero lungo il quale crescono alberi di albicocche e ci riteniamo fortunati visto che non c’è il sole perchè la salita è davvero faticosa. Passiamo l’ora successiva a gironzolare per le celle collegate da cunicoli che a volte si rivelano stretti e quasi claustrofobici, facciamo scale in salita e in discesa, entriamo in una chiesa interamente scavata nella roccia e splendidamente affrescata e ogni tanto ci fermiamo ad ammirare il paesaggio della valle sotto ai nostri piedi davvero meraviglioso. Percorriamo quindi il sentiero che ci riporta al parcheggio dove ritroviamo Wakho e tutti e quattro ci sediamo al tavolo sulla terrazza del piccolo ristorante dove ci abbuffiamo di maiale arrosto e patate, piatto molto gustoso anche se un po’ unto. Risaliamo in macchina e puntiamo dritti verso Tbilisi. La strada del ritorno è lunga, fuori diluvia e finiamo per assopirci. Ci svegliamo in un parcheggio di un modernissimo autogrill dove beviamo un buonissimo caffè espresso della Ily (il barista, per fare due caffè, ci ha messo quasi un quarto d’ora: sembrava che stesse compiendo un rito sacro!) e facciamo scorta di cioccolato georgiano. Arriviamo a Tbilisi nel tardo pomeriggio e quando varchiamo il portone del cortile interno dell’Envoy una sorridente Marine ci accoglie abbracciandoci, felice di constatare che siamo tutti interi. Le raccontiamo con entusiasmo tutto quello che abbiamo visto e fatto e prendiamo possesso della bellissima stanza che ci ha assegnato (addirittura con una terrazza con una splendida vista su tutta Tbilisi). Dopo una doccia usciamo e siccome non abbiamo molto appetito decidiamo di cenare al Wok Cafè con riso e tagliolini. Facciamo quindi una lunga passeggiata fino a Freedom Square e lungo la via Rustaveli, compriamo le sigarette (qui costano 1,50 Euro a pacchetto!) e, sfiniti, ci fiondiamo a letto.

6 Ammirando il confine Azero

Davit Gareja – Sighnaghi

20 Luglio. Ci svegliamo prestissimo, stamattina, perchè è l’ultima occasione per gironzolare con la luce per la vecchia Tbilisi. Alle 7.00 armati di macchina fotografica partiamo a casaccio percorrendo gli stretti vicoli della città, ammirando vecchie case pericolanti ma piene di fascino, giardini segreti racchiusi da staccionate di legno, fermandoci ogni tanto a scambiare due parole con qualche abitante che ozia seduto fuori della porta di casa. Non c’è molta gente per le strade, Tbilisi è ancora mezzo addormentata. Ma il fascino che ha questa parte della città è davvero unico: ogni angolo riserva delle sorprese che possono essere un ingresso su un cortile nascosto, un muro di un edificio interamente ricoperto di vegetazione, il campanile di una chiesetta che spunta in mezzo ai tetti, dei gatti che dormono pacifici sopra i cassonetti delle immondizie, un vecchietto che lava la strada di fronte a casa con grandi secchi d’acqua, una signora carica di pane fresco e caldo sotto al braccio. Pieni di immagini e sensazioni torniamo all’Envoy dove facciamo un abbondante colazione, beviamo un secondo caffè seduti nel cortile chiacchierando con Marine e, alle 9.00, incontriamo per l’ultima volta i nostri due compagni d’avventura, Giorgi e Wahko, e la nostra mercedes ammaccata. Meta di oggi, l’estremo est della Georgia, al confine con l’Azerbaijan. La ragazza che ha fatto il turno di notte all’ostello ci chiede se possiamo darle un passaggio fino a casa e quindi ci stringiamo in macchina fino a Rustaveli dove la lasciamo di fronte al suo portone per il meritato riposo. Usciamo dalla capitale e veniamo pian piano catapultati nell’ennesima altra dimensione: le dolci colline al confine con l’Azerbaijan sono praticamente spoglie, quasi senza vegetazione, brulle; ogni tanto ci compare davanti un campo di girasoli che ci lascia quasi senza fiato, un piccolo vigneto racchiuso da un basso muretto a secco, laghetti naturali invasi da uccelli acquatici che zampettano nell’acqua bassa, un gruppetto di alberi di albicocche carico di frutti. Il cielo è di un azzurro quasi finto che contrasta con il bianco delle nuvole e che invita a fare mille fotografie. Arriviamo, percorrendo una strada totalmente deserta, al monastero di Lavra il più importante, insieme a quello di Udabno, della zona di Davit Gareja. Il complesso, anch’esso quasi deserto, è davvero bellissimo: gli edifici risalgono ad epoche diverse, tra il VI ed il XVIII secolo, e sono disposti su più livelli collegati tra loro da scale di pietra viva.

Dopo aver visitato la piccola ma bellissima chiesa, scendiamo verso il cortile interno dominato da un immenso albero di gelso carico di frutti da cui si gode una vista della vallata sottostante e, sulla parete della montagna, delle celle dei monaci scavate nella roccia. L’atmosfera è come al solito molto suggestiva, pace, tranquillità, silenzio. Ci sediamo su un muretto senza fare nulla, ascoltando i suoni della natura. Prima di partire da quest’angolo davvero strepitoso acquistiamo delle piccole croci di legno dal monaco che gestisce il negozietto del monastero. Ripercorrendo la strada al contrario, rimaniamo ancora una volta affascinati dal bellissimo paesaggio che ci circonda e rimaniamo stupiti da un’invasione di cavallette che, quasi come dei kamikaze, si lanciano sul cristallo dell’auto sfracellandosi: ne entra qualcuna anche in macchina dai finestrini aperti e diventa un problema ricacciarle fuori anche se alla fine, grazie al fido Giorgi, riusciamo a liberarcene. Dopo circa un’ora entriamo nella regione del Kakheti, totalmente diversa dalla precedente, ricchissima di vegetazione e terra dove si produce il vino migliore della Georgia, ed arriviamo al Convento di Bodbe dedicato a Santa Nino. Pur non essendo sicuramente tra i più belli visti sino ad ora, il luogo è molto importante per i Georgiani visto che qui è sepolta la “santa nazionale”: la tomba è bellissima e ricchissima, custodita all’interno di una piccola cappella, interamente ricoperta da una lastra d’argento e da un’aureola turchese smaltata contornata da pietre preziose. Giorgi ci propone di scendere alla sorgente sacra e, ignari di ciò che ci aspetta, accettiamo di buon grado. Attraversiamo l’ordinato convento con i bei giardini tenuti ad arte dalle suore locali e iniziamo a scendere una scalinata: il dislivello da percorrere è di 800 metri e, anche se la discesa è piacevole, quel che ci preoccupa è la strada del ritorno. Il sentiero pare non finire più quando finalmente arriviamo in riva ad un torrente dove sorge una piccola chiesetta a fianco della quale c’è una fontanella affollata di gente armata di taniche, bottiglie di plastica, damigiane e quant’altro necessario a raccogliere la preziosa acqua. Pare, infatti, che la sorgente sacra abbia iniziato a sgorgare dopo che Santa Nino si fermò a pregare qui e all’interno della chiesetta l’acqua viene fatta convogliare in un grande bacile dove i fedeli si immergono per ricevere la benedizione.

Torniamo quindi sui nostri passi ed affrontiamo la lunga salita: il caldo è quasi insopportabile e quindi ce la prendiamo con calma chiacchierando del più e del meno con Giorgi. Gli scalini sembrano non finire mai ma finalmente, dopo un bel po’ di tempo, cominciamo a scorgere gli alti cipressi del convento. Risaliamo in macchina dopo aver svegliato Wakho (ma quanto dorme quest’uomo?) e ci dirigiamo verso Sighnaghi, descritta dalla Lonely come la città più graziosa del Kakheti. In effetti la cittadina è carina, ma nulla di più. Ci fermiamo in un ristorantino per pranzare con il solito katchapuri ed un enorme piatto di frutta fresca e poi visitiamo la fortezza dalle cui mura si ammira un bel panorama della vallata sottostante. Il tempo stringe, la strada del ritorno è lunga e dobbiamo ripartire. Affrontiamo quindi il nostro ultimo viaggio a bordo della mercedes ammaccata ed arriviamo all’Envoy verso le sei. Salutiamo, abbracciamo e baciamo sia Wakho che Giorgi, ringraziandoli per i bei giorni passati insieme, tocchiamo il fianco ammaccato della Merceds per l’ultima volta e la guardiamo, poi, allontanarsi per le strade di Tbilisi diretta con tutta probabilità verso una buona carrozzeria! Usciamo a fare una passeggiata sempre nella parte vecchia che, ancora una volta, ci regala degli angoli bellissimi da guardare e fotografare. Rientriamo alla base, ci facciamo una bella doccia rinfrescante e chiacchieriamo un po’ con Marine mentre il sole sta calando sulla città.

Usciamo quindi per cena e decidiamo di andare al Pur Pur, il ristorante che avevamo solo visto il nostro primo giorno a Tbilisi. Il locale si rivela davvero bellissimo, anche se un po’ caro: atmosfera chic, un pianista che suona, luci soffuse, la sala davvero fantastica proprio come ce la ricordavamo. Ordiniamo zuppa di funghi, insalata di prosciutto e “parmigiano” e pollo con spinaci e purè il tutto per 63 lari, quasi 26 Euro: come dicevo il Pur Pur è abbastanza caro per gli standard georgiani ma vale assolutamente la pena di cenare almeno una volta qui. Dopo la cena luculliana, facciamo la nostra ultima passeggiata serale per la vecchia Tbilisi, acquistiamo altre sigarette (dobbiamo fare scorta!) e rientriamo all’Envoy dove impacchettiamo in valigia le ultime cose. Un ultima sigaretta in terrazza ammirando una città davvero bellissima e densa di suggestione e ci buttiamo in branda: domani ci aspetta un lungo trasferimento verso la terra Armena.

7 Toto Cutugno ci fa da garante alla frontiera

Tbilisi – Yerevan

21 Luglio. E’ arrivato il momento di lasciare Tbilisi. Dopo colazione ci fumiamo una sigaretta in tutta tranquillità nel cortile dell’Envoy, chiacchierando con Marine e con le altre ragazze che lavorano all’ostello. Non dimenticheremo mai l’accoglienza e l’ospitalità di questo posto che assolutamente raccomandiamo. Alle 9 siamo pronti con le nostre valigie al fianco, abbracciamo Marine che ci saluta con gli occhi un po’ lucidi e ci augura un buon soggiorno nella sua terra natale e aspettiamo che arrivi la famigerata marshrutka che lei stessa ci aveva “prenotato” con promessa di pick up all’ostello. In realtà quella che arriva è tutt’altro che una marshrutka: si tratta, in realtà, di un lussuoso minivan che condivideremo con un ragazzo francese, anche lui ospite dell’Envoy, una coppia di anziani originari di Yerevan ma che da tempo abitano a Tbilisi ed una vecchietta di ottantanni che, dopo aver visitato dei parenti in Georgia, se ne torna a casa. L’autista ci carica le valigie, diamo un’ultima occhiata all’Envoy e partiamo alla volta del confine Armeno. Dopo esserci lasciati alle spalle la capitale, nel giro di un paio d’ore arriviamo alla frontiera Georgiana: qui veniamo scaricati dal nostro autista e, a piedi, ci dirigiamo verso il fabbricato della frontiera. La coda è corta e la funzionaria della dogana, pur se integerrima, si rivela disponibile e simpatica. Dopo averci fatto una foto segnaletica con la web cam, ci timbra il passaporto e ci augura buon proseguimento. Usciamo quindi all’aperto in terra di nessuno, in fila ordinata percorriamo a piedi un centinaio di metri, attraversando un ponte e ci incolonniamo al controllo passaporti della frontiera Armena. Dal primo gennaio di quest’anno l’Armenia ha abolito il visto d’entrata e quindi le procedura d’ingresso sono molto più veloci. Quando arriva il mio turno il funzionario doganale prende il passaporto ed esclama “Ahhhhhhhhhh, Italiaaaaaa! Toto Cutugno the best!”. Non ci posso credere! Velocissimamente mi mette il timbro d’entrata sfoderando un sorriso smagliante e mi congeda. Bene, ogni tanto essere italiani serve a qualcosa anche se essere ricordati per Toto Cutugno mi fa un po’ specie! Ritroviamo quindi il nostro taxi, risaliamo a bordo e ci inerpichiamo su per i monti azeri subito al di là del confine. Il nostro vicino di sedile, francese di Dijon, non è molto loquace: si limita a dirci solamente che è in giro tra Georgia, Armenia e Azerbaijan da un paio di mesi, arrivato dalla Turchia, e che…non ha biglietto di ritorno quindi potrebbe decidere di rientrare fra un mese come tra sei. Beato lui. Molto più loquaci, invece, sono i due armeni con i quali intratteniamo un’allegra conversazione. Lui ci racconta di essere un allenatore di pallanuoto, venuto anche in Italia al seguito della nazionale georgiana, e ci dà alcuni consigli di posti da visitare a Yerevan. Dopo aver attraversato la gola del Debed (che rivedremo tra qualche giorno) e uno stop per un caffè in una stazione di servizio, arriviamo sfiniti alla Kilikya Station di Yerevan che son quasi le due. Fa molto caldo ed appena scendiamo dalla macchina veniamo assaliti da numerosi taxisti abusivi che ci offrono passaggi in qualsiasi parte dell’Armenia. Per una corsa in città ci chiedono 3.000 Dram (6 Euro per fare meno di 2 Km!) e quindi rifiutiamo categoricamente. Mentre io faccio da guardia ai valigioni, Stefano attraversa la statale e va a cambiare un po’ di soldi in un ufficio cambio che abbiamo visto arrivando. Quando torna becchiamo un tassista e contrattiamo la corsa per 1.000 Dram. Le valigie però non ci stanno tutte nel portabagagli e quindi siamo costretti a metterne una sui sedili posteriori cosa che manda in bestia il tassista perchè, dice, la polizia non vuole che i bagagli stiano all’interno dell’auto e che se verrà fermato prenderà una grossa multa. Non rispondiamo alla lamentele del ragazzotto (che cosa possiamo fare? Prendere un altro taxi?) che, fra l’altro, non conosce l’indirizzo della Hyur Service, la più famosa agenzia di viaggi Armena e quindi deve fare alcune telefonate per conoscerne l’ubicazione. Per fortuna dopo neanche 10 minuti arriviamo a destinazione, paghiamo, scarichiamo le valigie e entriamo nel fresco e affollato ufficio della Hyur dove abbiamo appuntamento con Lyudmilla. Chissà perchè mi aspettavo di trovarmi di fronte una signora di mezza età, molto professionale ed anche un po’ fredda e invece Lyudmilla è una ragazzina di 20 anni molto simpatica e disponibile. Prima di tutto consegniamo anche a lei il nostro regalino, il libro su Venezia uguale a quello che abbiamo regalato a Marine e la reazione ci lascia stupefatti: lei si imbarazza, diventa rossa e abbassa gli occhi ringraziandoci più volte, fa quasi tenerezza. Dobbiamo saldare ma non abbiamo sufficienti dram e siccome è domenica chiediamo dove possiamo cambiare. Lei ci dà una mappa della città e ci dice che a cinque minuti a piedi dall’ufficio c’è un supermercato che ci cambierà i soldi. Un supermercato? Lei ci rassicura e ci dice di non preoccuparci. Mappa alla mano ci avviamo quindi lungo le strade di Yerevan, troviamo il supermercato (molto lussuoso) che all’interno ha anche un piccolo ufficio cambio. Facciamo due rapidi conti, scambiamo euro con dram e torniamo sui nostri passi. Proprio mentre stiamo per firmare le ricevute di pagamento la porta dell’ufficio si apre ed entra un’elegante signora con cappello e occhialoni da sole con, al seguito, un riccioluto giovinetto che a fatica trascina due trolley. Ci giriamo verso la porta e…ma sono la Manu e Filippo! Arrivati dopo un lungo volo (via Mosca) a Yerevan sono giunti all’ufficio della Hyur quasi in contemporanea con noi. Ci abbracciamo e ci baciamo, loro completano le pratiche con Lyudmila e poi un autista molto professionale ci porta tutti al nostro appartamento dopo aver caricato le valigie (che, guarda caso, nel portabagagli ci stanno tutte!). Arriviamo in un cortile interno dove scarichiamo e, seguendo l’autista, saliamo al 13simo piano di un modernissimo palazzo. Il nostro appartamento è davvero molto bello e, soprattutto, con una bellissima terrazza dalla quale godiamo di una vista strepitosa su tutta Yerevan compresa Piazza della Repubblica. Sistemiamo quindi le nostre cose, prendiamo possesso delle camere e poi usciamo, ansiosi di scoprire la capitale dell’Armenia.

Facciamo una bella passeggiata lungo i viali alberati, entriamo in un supermercato per fare un po’ di spesa (marmellata, succo e pane…il caffè ce lo siamo portato dall’Italia!) e poi torniamo all’appartamento visto che Filippo sta letteralmente crollando dal sonno. Mentre io, Stefano e Manuela chiacchieriamo sorseggiando un caffè, Fil si fionda a letto e verrà svegliato alle 8 per andare a cena. Ancora mezzo addormentato, con il capello arruffato, indossa le sue mitiche Crocs blu (che non abbandonerà quasi mai per tutta la durata del viaggio con grande incazzamento di Manu “Filippo! Mettiti un paio di scarpe e non quegli zoccoli! Ti rimangono tutti i piedi neri!”) e si stipa con noi nel piccolo ascensore. Giusto sotto al nostro palazzo c’è una taverna che ci aveva molto ispirato al nostro arrivo e siccome siamo tutti stanchi, non abbiamo voglia di girovagare per la città e quindi ci fiondiamo all’interno. Ceniamo abbondantemente con kebab ai gusti vari, l’humus che Manu definirà come il più buono che abbia mai mangiato, dei pomodori al forno e riso bianco. Il tutto per l’irrisoria somma di 6.000 dram (più o meno 12 Euro….). Facciamo quindi due passi verso piazza della Repubblica, ci prendiamo dei dolcetti da asporto in quella che diventerà la nostra panetteria di fiducia per i prossimi giorni, e assistiamo al suggestivo spettacolo delle fontane danzanti, un po’ pacchiano ma molto d’impatto. Finito lo show torniamo sui nostri passi, con il vento che si è alzato e che smorza la temperatura bollente di Yerevan, e ci buttiamo, distrutti, sui nostri letti.

8 Vendita di mucche porta a porta a Fioletovo

Tsaghkadzor (Kechari Monastery), Dilijan (Goshavank e Haghartsin monasteries) Villaggi Molokan (Fioletovo e Lermontovo)

22 Luglio. Stanotte abbiamo dormito come dei sassi e quindi alle 7.30 siamo tutti svegli e pimpanti. A dir la verità, non tutti… Abbiamo avuto precise disposizioni da Fil: “A che ora dobbiamo partire? Alle 8.30? Bene, svegliatemi alle 8.25!”. Io, Ste e Manu facciamo colazione con calma, chiacchierando del più e del meno, un buon caffè forte e sigaretta in terrazza ammirando la città che si sveglia e il sole che comincia già a scaldare. Prepariamo le nostre cose (zainetti pratici con dentro un po’ di tutto) e alle 8.25, come d’accordo, chiamiamo Fil che, come uno zombie, dopo una veloce puntata in bagno, si beve un po’ di succo con pane e marmellata, infila le sue crocs blu, si assicura che la macchina fotografica sia bella carica ed entra ancora mezzo addormentato in ascensore con noi. Giù nel piccolo parcheggio del condominio ci aspetta un enorme van da 10 posti ed il nostro autista dall’aria burbera che…non parla inglese. Lyudmilla ci aveva avvertito che i loro autisti conoscevano giusto 10 parole d’inglese ma a noi pare che questo (del quale non ricordiamo il nome) non sapesse nemmeno quelle. Dopo le presentazioni, a gesti ci fa cenno di salire e partiamo. Usciti da Yerevan imbocchiamo l’autostrada poco trafficata che però lasciamo dopo qualche chilometro per inerpicarci lungo una strada che si snoda in mezzo ad una bellissima vallata che ci porta a Tsaghkdzor, la rinomata stazione sciistica dell’Armenia che ai tempi della dominazione sovietica era una delle mete preferite dagli atleti russi per allenarsi. Da qui deviamo per arrivare alla nostra prima meta: il monastero di Kechari. Il complesso monastico, recintato e ben tenuto, è costituito dalla cattedrale principale, dalla chiesa di Surp Grigor e dalla più piccola cappella di Surp Nishan. Sul retro del complesso c’è un intimo e ben curato cimitero. Usciamo dal monastero e, attraversata la strada, ci inerpichiamo lungo un sentiero non ben delimitato e invaso da erbacce che conduce ad una piccola chiesetta circondata da una folta vegetazione e ben conservata. Ripartiamo quindi alla volta di Dilijan costeggiando il bellissimo lago Sevan con i suoi alberghi faraonici (molti dei quali…lasciati a metà, veri e propri mostri ecologici) e le centinaia di bancarelle lungo la strada che vendono salvagenti, sedie a sdraio e asciugamani coloratissimi. Imbocchiamo un tunnel di recente costruzione che ha permesso di accorciare le distanze tra la capitale e Sevan e ci sembra di entrare in una base militare segreta dell’epoca sovietica: le dimensioni sono impressionanti, alte pareti di cemento grezzo, sul soffitto immense ventole che fanno circolare l’aria ma, soprattutto sinistri altoparlanti collocati ogni 300 metri dai quali escono degli annunci in russo e in armeno parecchio inquietanti. Ovviamente non capiamo cosa dice la voce registrata ma il tutto ha un che di surreale. Finalmente rivediamo la luce del sole e, arrivati a Dilijan imbocchiamo la strada che ci porta al bellissimo monastero di Hargatsin. Costruito nel XII secolo in una bellissima valle ricoperta di fitti boschi, il complesso è costituito da più chiese dedicate a San Gregorio, alla Vergine Maria e a Santo Stepanos. Degno di nota è il refettorio, con le sue bellissime travi arcuate e i tavoli originali restaurati. Il complesso è stato recentemente restaurato ed il lavoro non è stato fatto molto bene visto che sono stati inseriti, negli antichi edifici, elementi nuovi come porte in legno o tettoie che mal si armonizzano con tutta la struttura. L’atmosfera pacifica è in parte disturbata da un gruppone di armeni con bambini urlanti che invadono il posto e che cerchiamo a tutti i costi di evitare senza però riuscirci granchè.

Ripartiamo quindi alla volta del molto più bello monastero di Goshavank. La strada per entrare nel complesso è costeggiata di bancarelle che vendono souvenir abbastanza improponibili, noci, fiori secchi e immagini sacre. Il complesso però è davvero spettacolare: le tre chiese principali sono molto suggestive con i loro spogli altari e le candele arancioni che bruciano sui treppiedi di ferro battuto; l’antica biblioteca costruita all’interno di una torre, pare che contenesse, nel periodo di massimo splendore, oltre 15.000 libri; il suggestivo cimitero con le lapidi finemente lavorate ed i giganteschi alberi di noce. Facciamo quindi una bella passeggiata lungo un viottolo di campagna, passando in mezzo ad orti, piccole casette ordinate, pollai e covoni di fieno, finchè arriviamo ad una bellissima ed isolata cappella che però è chiusa.

Risaliti sul nostro van facciamo sosta per il pranzo a Dilijan e optiamo per una panetteria posta sul ciglio di una trafficata rotonda, con un unico tavolino sotto un ombrellone collocato precariamente sul marciapiede. L’interno della panetteria è angusto ma il profumo è davvero invitante. Andiamo di pizzette calde e brioche salate con wursterl che divoriamo avidamente in piedi appoggiati al tavolino: la location non è granchè ma il cibo è talmente buono che ci fa dimenticare di essere praticamente in mezzo alla strada! Le commesse della panetteria sono poco cordiali e ci fanno problemi anche per accettare banconote che giudicano di valore troppo alto: per pagare l’equivalente di due euro paghiamo con una moneta da dieci che, per loro, è un’enormità e quindi ci chiedono spiccioli che però noi non abbiamo…dopo un po’ di discussione, riusciamo finalmente a far accettare la banconota e, dai borbottii, capiamo che non siamo stato molto…apprezzati! Strani armeni! Ripartiamo verso una splendida vallata ed i due villaggi Molokan di Fioletovo e Lermontovo. Abbiamo voluto a tutti i costi inserire nel nostro giro questi due luoghi sperduti che, a quanto pare, non sono molto visitati. Il nostro autista fa una fatica del diavolo a trovare il primo dei villaggi e porta il van lungo strade sterrate che, a volte, si rivelano senza uscita con conseguenti retromarce difficoltose. Dopo aver chiesto informazioni ad una decina di persone, finalmente arriviamo a Fioletovo. I Molokan appartengono ad una setta cristiana fondamentalista che si separò dalla chiesa russo-ortodossa nel XVII secolo e vengono anche chiamati “bevitori di latte” visto che, nelle feste ufficiali, non osservano il digiuno come gli altri fedeli. L’autista ci ferma al centro del villaggio disposto sul fianco digradante della collina, un unica strada lungo la quale sono disposte delle modeste ma ben tenute casette in legno, tutte uguali, recintate e con giardini pieni di fiori, orti coltivati a cavoli e panni stesi ad asciugare al sole. In giro non c’è quasi nessuno: i Molokan sono un popolo schivo che non ama avere contatti con gli stranieri ed infatti i pochi uomini, tutti rigorosamente con una barba lunghissima caratteristica tipica del popolo, ci evitano e non ci salutano, scomparendo ben presto dentro alle case. Girovaghiamo un po’ lungo la “via principale” e, all’improvviso, alle nostre spalle sentiamo un forte rumore di campanacci: una mandria di mucche guidate da un paio di giovani Molokan barbuti invade totalmente la strada. Seguiamo questa strana processione che ad un certo punto si blocca di fronte ad una casa dalla quale esce una donna con la testa coperta da un fazzoletto che intrattiene una fitta discussione con il capo mandria, indicando alcuni capi di bestiame. La storia si ripete di fronte alle case successive e quindi immaginiamo tra noi (ma non ne avremo mai conferma) che si tratti di una sorta di vendita porta a porta di mucche. Guardiamo la mandria allontanarsi seguita da una scassatissima marshrutka guidata da un autista che ci saluta allegramente con la mano fuori dal finestrino, addirittura sorridendoci: evidentemente non è un Molokan! Visto che il posto continua a restare deserto e siamo arrivati alla fine del centro abitato, decidiamo di proseguire in macchina verso Lermontovo. Percorriamo una stradina di campagna davvero bellissima che si snoda in mezzo alle verdi colline, fiancheggiata da altissimi pioppi: il paesaggio è davvero strepitoso e quindi ci fermiamo per fare qualche foto. Arriviamo quindi al secondo villaggio Molokan che sembra un po’ più vivo del precedente visto che, sulla strada, c’è un folto gruppo di gente che chiacchiera. Quando scendiamo dal nostro van, però, gli uomini con le loro folte barbe si calano il cappello in testa e se ne vanno mentre le donne vanno a ritirarsi nelle loro case. Ma i bambini, loro no. Loro rimangono anche se si tengono “a distanza di sicurezza”. Ci guardano, parlano tra di loro, sono di una timidezza quasi sconvolgente. Alcuni di loro sono a piedi, altri in bicicletta. Anche se con difficoltà cerchiamo di avvicinarli rivolgendo a quelli più grandini qualche parola in inglese. Fanno fatica a capire ma pian piano prendono confidenza, si fanno fotografare, facciamo loro vedere le foto sulle nostre digitali ed è davvero bello guardare i loro sorrisi. Le femminucce sono più timide e spesso si mettono le mani davanti al viso anche se si vede che sono felici per questo diversivo. Ad un certo punto spunta da una casa un signore molto anziano che ci viene incontro, camminando ingobbito appoggiandosi al suo bastone: quando ci raggiunge comincia a parlare in una lingua che ovviamente non conosciamo, rivolgendosi soprattutto a Filippo che, chissà perchè, evidentemente gli ispira fiducia. Viviamo un momento davvero imbarazzante quando gli diamo la mano e, quando arriva il turno di Fil, lui gli prende le mani e se le avvicina alla bocca, baciandole. Continua a parlare senza sosta con FIlippo quasi a volergli raccontare la sua vita ma la conversazione è praticamente impossibile. Salutiamo educatamente e ci allontaniamo con, negli occhi, l’ultima istantanea di questo posto davvero unico: un gruppo di bambini che circonda il vecchio Molokan sullo sfondo di coline verdissime disseminate di fiori spontanei. Immagine difficile da dimenticare. La nostra giornata è finita e quindi risaliamo sul van prendendo la strada verso casa. Dopo cinque minuti ci addormentiamo sfiniti. Arriviamo a Yerevan quando il sole sta già scendendo.

Dopo una sosta ad un supermercato russo adocchiato da Manu, torniamo al nostro appartamento per un po’ di relax, una doccia e per ammirare il tramonto sul monte Ararat che appare sempre seminascosto e sulla città. Usciamo a cena alla Caucasus Tavern, un ristorante consigliato dalla LP. I camerieri non sono molto gentili, ad eccezione di una ragazza che parla in inglese. Io e Filippo ordiniamo un piatto tipico georgiano, carne di vitello con funghi, maionese e una montagna di sulgumi (formaggio locale) che si rivelerà buonissimo ma una vera mattonata mentre Manu e Stefano optano per zuppa, involtini di cavolo e legumi ed un turbante di trota agli spinaci. Completa il tutto del buon pane caldo, riso bianco e un forte caffè alla turca. Spendiamo in tutto 11.000 Dram (circa 20 Euro). Sazi, usciamo dal ristorante e ci facciamo un giro in Piazza della Repubblica, come al solito piena di gente, ammiriamo lo spettacolo delle fontane danzanti per una decina di minuti e poi, davvero sfiniti, torniamo a casa e ci buttiamo distrutti a letto.

9 Battesimo collettivo a Vanevank

Lago Sevan, Mankenyats Vank, Vanevan Monastery, Noratus, Hayravank Monastery, Lchashen Village, Sevanavank Monastery

23 Luglio. Dopo colazione scendiamo nel piazzale del “nostro condominio” e incontriamo un nuovo autista, Levon, con una nuova auto, sempre un van ma più piccolo anche se molto più lussuoso. Fortunatamente Levon parla inglese quindi riusciamo ad instaurare una conversazione più che decente. Partiamo in direzione Lake Sevan e facciamo tappa al piccolissimo villaggio di Lchashen. Passeggiamo lungo la strada principale del villaggio, costeggiata da un gruppo di case in legno ordinate e ben tenute e ci fermiamo a guardare degli uomini che lavorano in un parco giochi per bambini in fase di costruzione: piantano gli alberi, montano altalene e giostrine, costruiscono muretti, accompagnati dalla musica che esce da alcuni altoparlanti sistemati alla meglio sopra i pilastri del cancello. Poco più avanti troviamo l’ambulatorio medico del paese e, sulla porta, un anziano con un camice bianco che chiacchiera con alcuni abitanti del posto. In fianco all’ambulatorio c’è un container totalmente arrugginito che funge da negozio di alimentari, con tanto di tenda che abbellisce la porta d’entrata. Girovaghiamo per le minuscole stradine, passando in mezzo ad orti ben tenuti e a stalle con all’esterno enormi cumuli di letame messo ad essiccare da utilizzare in inverno come combustibile. Riprendiamo quindi la strada e costeggiamo il lago, con le sue spiagge desolate frequentate solo da mucche che brucano l’erba sotto a mostruose costruzioni in cemento armato (gli alberghi rimasti incompiuti che ieri avevamo visto dalla strada principale).

Dopo aver percorso pochi chilometri arriviamo a Noratus dove visitiamo un antichissimo ed immenso cimitero sul quale sorgono centinaia di khatchkar, ossia delle vecchissime lapidi finemente intarsiate che si ergono anche per un paio di metri sopra il terreno. Dopo aver varcato il cancello da dietro le tombe spuntano alcune donne anziane che vogliono a tutti i costi venderci babucce, sciarpe e guanti in lana fatti a mano e nonostante il nostro cortese rifiuto, continueranno ad assillarci per tutto il tempo, sparendo dalla nostra vista per poi sbucare improvvisamente da dietro una tomba. I khatchkar posti sopra le tombe sono davvero bellissimi ed alcuni sono così finemente scolpiti che sembrano quasi ricamati: oltre a disegni geometrici, fiori stilizzati e complessi ghirigori, compaiono spesso delle vere e proprio storie raccontate tramite la scultura su pietra. Girovaghiamo per il cimitero, visitiamo la piccola cappella con all’interno un altare in pietra grezza ricoperto dalla solita colatura di cera arancione e ci fermiamo incuriositi a cercare di “leggere” cosa c’è scritto sulle antiche tombe senza, ovviamente, riuscirci. All’uscita del cimitero entriamo nel piccolo negozio di souvenir dove Fil contratta con la venditrice l’acquisto di un duduc, tipico flauto armeno: non si riesce a abbassare molto il prezzo ma alla fine, conquistato dalla bellezza del pezzo, conclude l’acquisto e se lo mette nello zaino tutto felice.

Dopo aver costeggiato un’altra parte del lago Sevan, svoltiamo in una stradina sterrata che si inerpica su una montagna e, dopo aver attraversato un piccolo villaggio, arriviamo alla bellissima ed isolata chiesa di Vanevank. Scendiamo dall’auto e fuori dalla chiesa incontriamo un gruppo di armeni vestiti di tutto punto che ci guardano, come al solito, con fare un po’ sospetto. L’autista, dopo aver confabulato con gli uomini, ci chiede di non entrare in chiesa subito ma di aspettare una mezzoretta e ci invita a fare un giro al villaggio. Il tono è quello di chi non ammette repliche e perciò, senza capire che cosa stia succedendo, ci avviamo con fare mesto. Mentre stiamo percorrendo il viottolo che porta al paese, vediamo arrivare a tutta birra una Opel Corsa rossa guidata da un uomo barbuto che si dirige verso la chiesa: la velocità dell’auto su quel sentiero di campagna è incredibile, come se l’uomo fosse in ritardo anche se trova il tempo comunque di salutarci con un gesto della mano. Scampato il pericolo d’investimento, continuiamo la nostra passeggiata in mezzo alla natura: anche qui casette con giardini pieni di fiori e alberi da frutto, orti coltivati a patate e aglio, pollai collocati precariamente tra la strada ed il fiumiciattolo che la costeggia. Attraversiamo un paio di piccoli ponti fatti con assi di legno e ci imbattiamo in un paio di vecchissimi camion russi evidentemente fuori uso abbandonati sul ciglio della strada. Da una piccola casa escono alcune donne che ci vengono incontro e iniziano a parlarci in armeno; una di loro ha in mano una ciotola piena di ciliege, le offre a Manu che, a malincuore, ingoia quella che definirà come la ciliegia più amara della sua vita (evidentemente si trattava di frutti selvatici). La conversazione è praticamente nulla visto che loro continuano imperterrite a rivolgersi a noi in una lingua assolutamente incomprensibile. Con qualche gesto e qualche sorriso ringraziamo per le bellissime (ma non buone!) ciliege e decidiamo di tornare verso la chiesa. Lo spiazzo di fronte all’edificio adesso è deserto, ad eccezione del nostro Levon che, quando ci vede, ci fa cenno di sbrigarci ad entrare. Ma come, ci chiediamo? Prima ci dici di andar via e adesso ci metti fretta? Dubbiosi entriamo in chiesa e scopriamo che tutta la gente è all’interno e sta assistendo ad un battesimo collettivo. Il pazzo al volante della Opel Corsa altri non era che il prete che sta celebrando la funzione che, con un cenno quasi impercettibile, ci fa cenno di avvicinarci per assistere alla cerimonia. Il tutto è davvero molto suggestivo con canti intonati alla bell’e meglio dai parenti dei battesimandi vestiti con gli abiti della festa. Nessuna fonte battesimale, qui in Armenia: il prete esce dalla chiesa con in mano una bacinella in plastica azzurra (quelle dove si fa il bucato, per intenderci), raccoglie l’acqua del fiumiciattolo che scorre lì vicino e poi la benedice. Quindi immerge prima il neonato con l’aiuto dei genitori, poi è la volta di un ragazzino di dieci anni e infine, quando arriva il turno di un uomo adulto (conversione o rinnovo delle promesse battesimali? Non lo sapremo mai…) decidiamo di uscire dalla chiesa visto che ci sembra imbarazzato nel doversi spogliare con degli stranieri che assistono. Ci allontaniamo accompagnati dal canto del prete (voce strepitosa) ed usciamo sullo spiazzo di fronte alla chiesa dove due anziani inviatati con vistosissimi denti d’oro attaccano subito bottone con Fil (sempre rigorosamente in lingua russo-armena) e gli chiedono di farsi fotografare insieme cosa che lui accetta di buon grado. Immortalato il nostro ragazzo con l’allegra coppia, Levon ci richiama all’ordine in maniera quasi burbera: dobbiamo ripartire per la nostra prossima destinazione. Usciti dalla gola dove si trovava la chiesa, imbocchiamo una strada ancor più sterrata disseminata di massi di pietra (non capiamo il russo né l’armeno ma chiaramente quelle di Levon sono imprecazioni sparate a denti stretti!). Dopo un bel po’ di sballottamenti arriviamo in un minuscolo villaggio semi deserto, Levon ci fa scendere dalla macchina e ci indica il sentiero per raggiungere la bellissima ed isolata Mankenyats Vank, una chiesa edificata tra il X ed il XIII secolo. Apriamo il cancello che dà accesso al complesso e restiamo letteralmente a bocca aperta: la vecchia chiesa sorge su una area verde disseminata di imponenti alberi di noce e termina su un dirupo a strapiombo sul cui fondo scorre un impetuoso torrente. Mentre percorriamo il prato per arrivare all’ingresso della chiesa improvvisamente ci si para davanti un giovane ragazzo barbuto vestito come un montanaro che, a gesti, sembra chiederci … che cosa vogliamo. Non parla inglese ma gli facciamo capire che vorremmo vedere la chiesa. Solo dopo qualche minuto di imbarazzo notiamo che al collo porta una croce e, da quanto capiamo, deve essere il prete della chiesa che vive lì solo quasi come un eremita. Ci conduce quindi verso il portale della vecchia chiesa ma prima chiede a Fil e a Stefano di coprire le gambe (hanno i pantaloni corti): estraiamo dei magici parei dagli zaini e risolviamo il problema. All’interno la chiesa è davvero strepitosa: totalmente disadorna, con i muri anneriti dal fumo delle candele, il pavimento in pietra tutto dissestato. Con il giovane prete accanto a noi con le mani giunte chiuse intorno ad un rosario, ammiriamo e “respiriamo” l’aria solenne di questo posto che, alla fine del viaggio, rimarrà forse uno dei più belli che abbiamo visitato. Compriamo delle candele che paghiamo direttamente al prete e le accendiamo. Ad un certo punto il prete si avvicina a Manu e le regala due santini facendole un profondo inchino: questo giovane uomo che, evidentemente, vive da solo in questo posto semi sperduto, sembra quasi invaso dalla sua fede mentre rimane lì vicino a noi muovendo appena le labbra in quella che crediamo essere una preghiera. Dopo averlo salutato e ringraziato (chissà se avrà capito!) lasciamo quest’angolo armeno davvero bellissimo e torniamo verso l’auto. Qui chiediamo a Levon se possiamo fermarci a comprare qualcosa da mangiare ma lui, sempre in maniera scontrosa, ci dice di no perchè in questo villaggio non c’è nulla. Ma dopo aver percorso pochi metri con l’auto, si ferma in un diroccato negozio dove entriamo tutti insieme ed incontriamo l’anziano proprietario che ovviamente parla solo con Levon visto che l’inglese non fa parte del suo bagaglio di conoscenze. Il negozio è davvero strepitoso: si può trovare di tutto, dalle saponette ai detersivi, dai giocattoli per bambini alla frutta e verdura, dal pane alle patatine. Compriamo il nostro pasto che si compone di lavash (un pane buonissimo), noccioline e salatini in sacchetto, alcuni gelati, birra, aranciata ed una specie di coca cola armena per Fil con tanto di cannuccia incorporata nella bottiglia. Rimaniamo assolutamente di stucco quando il proprietario ci fa il conto con un vecchissimo abaco che tutti vorremmo comprare tanto è bello. Ringraziamo l’anziano e risaliamo in macchina dove tra mille sballottamenti consumiamo il nostro pranzo che Stefano e Manu accompagnano con una bella dose di semi di girasole, subito ribattezzati “cocoriti” (scopriremo nei giorni successivi che questo è lo snack preferito dagli Armeni che lo mangiano ad ogni ora ed in ogni luogo lasciando le bucce degli oleosi semi dappertutto). Riscendiamo quindi verso il lago ed arriviamo allo spettacolare monastero di Hayravank risalente al X secolo, costruito in tufo su un promontorio a strapiombo sul lago. Saliamo la ripida scalinata che porta alla chiesa principale ed entriamo nel vestibolo con le imponenti colonne annerite; anche qui mille candele arancioni, l’altare spoglio, nessun dipinto. Ma l’atmosfera che si respira è davvero suggestiva. Usciamo sul retro della chiesa dove sorge un piccolo cimitero disseminato di vecchissimi khatchkar ed ammiriamo il lago Sevan che da qui si può vedere in tutta la sua grandezza: più che un lago sembra un vero e proprio mare. Si è alzato un vento forte e quindi decidiamo di risalire in macchina e ripartire verso la nostra ultima destinazione, la penisola di Sevan con il bellissimo monastero di Sevanavank. Il parcheggio vicino alla scalinata che porta al monastero è letteralmente invaso di auto, bus e decine di bancarelle di souvenir e cibo prese d’assalto da gruppi di armeni che urlano e ridono; sembra di essere alla sagra della salsiccia! L’atmosfera è decisamente diversa da Hayravank dove, eccetto noi, non c’era assolutamente nessuno. Imbocchiamo quindi la lunga scalinata che porta al complesso di chiese cercando di evitare gli ambulanti che vogliono vendere di tutto, dalle cartoline alle croci di plastica, dai santini alle noci in sacchetto. Arrivati in cima nonostante il forte vento iniziamo a visitare il complesso: prima la piccola chiesa di Arakelots poi quella di Surp Astvatsatsin con il cortile pieno di khatchkar ed all’interno una vecchissima e preziosa stele. All’interno della chiesa c’è un folto gruppo di turisti giapponesi capitanati da una guida armena vestita in maniera alquanto bizzarra: vestito a fiori stile anni 50, enorme cintura di brillanti in vita e cappello di paglia con fiori finti in testa. Quando usciamo dalla chiesa il vento si è fatto ancora più violento e fa davvero molto freddo. Scopriremo solo durante il tragitto di ritorno che Sevanavank si trova ad un altitudine di circa 2.000 metri. Visto che grossi nuvoloni neri si stanno ammassando in cielo, andiamo di corsa verso l’auto non senza prima aver acquistato una paio di belle piccole croci di pietra a 1.500 dram l’una (la contrattazione è stata furiosa!!!). Arriviamo al cortile del nostro appartamento dopo circa un paio d’ore di macchina. Io e Ste non abbiamo voglia di uscire per cena e quindi, mentre Manu e Fil vanno a mangiare il fantastico humus della taverna sotto casa, noi ci concediamo pane e marmellata con un caldo caffèlatte consumato sul terrazzo ammirando le mille luci di Yerevan che si accendono con il tramonto. Ci concediamo quindi una bella passeggiata in piazza per ammirare il solito spettacolo delle fontane danzanti (non ci stancheremo mai!!!), ci fermiamo ad acquistare pizze e sfoglie salate per il giorno dopo alla nostra panetteria preferita e, finalmente, esausti, ci buttiamo a letto.

10 Levon ci rimprovera

Haghpat and Sanahin Monastery – Akthala fortress

24 Luglio. La sveglia stamattina suona presto, con grande rammarico per Fil che si trascina al tavolo della colazione con gli occhi praticamente ancora chiusi. Scendiamo nel cortile dove troviamo di nuovo Levon che ci accoglie con una faccia scura e incazzata e per 10 minuti ci fa una bella ramanzina per aver osato mangiare in macchina ieri ed aver sparso briciole di pane e semi di girasole dappertutto. Ci dice che lui, ieri sera, ha dovuto perdere ben due ore per pulire la macchina e che quindi, da oggi in avanti, dovremo mangiare rigorosamente all’esterno dell’auto! Non sappiamo se ridere o infuriarci: per carità, è vero, abbiamo mangiato in macchina ma non è che abbiamo lasciato un porcile! Ci limitiamo a qualche parola di scusa più per educazione che per convinzione e saliamo in macchina pronti per affrontare la lunga strada che ci porterà verso la gola del Debed al confine con la Georgia.

Dopo un paio d’ore durante le quali attraversiamo verdi vallate e le città minerarie di Vanadzor e Alaverdi con i loro vecchi ed immensi stabilimenti di epoca russa oramai in disuso e in rovina, ci fermiamo per uno stop in un’isolata stazione di servizio dove troviamo…un distributore automatico di bevande calde della Zanussi! Ci avventiamo sulla macchinetta per tè e caffè bollenti che consumiamo su un tavolato coperto da una bisunta tovaglia di plastica. Riprendiamo la strada ed arriviamo al bellissimo monastero di Sanahin uno dei due siti di questa regione dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità costruito tra il X ed il XIII secolo. L’affascinante complesso di chiese ed edifici ricoperti di muschio è pieno di vecchissime tombe, lunghe gallerie fiancheggiate da sedili in pietra che una volta venivano utilizzate come aule per l’insegnamento, cappelle annerite dal fumo delle candele, un gavit con enormi colonne che sorreggono le basse volte ad arco. Le facciate delle chiese sono decorate con intarsi in pietra ma quello che più fa impressione è come la natura circostante sembri far parte integrante degli edifici visto che sul tetto e sulle pareti crescono piante di ogni tipo che spuntano direttamente dalla pietra. Imbocchiamo uno stretto sentiero ed arriviamo ad una minuscola chiesetta circondata da maestosi alberi; visitiamo una vecchissima tomba invasa da erbacce ma molto ben decorata; ci sediamo sui troni di pietra ammirando gli splendidi intarsi delle pareti delle aule scolastiche. Ci lasciamo alle spalle il monastero e scendiamo per la strada che ci porta al parcheggio. Ci sono alcune bancarelle che vendono souvenir ma i venditori sono alquanto ostici: i prezzi sono alti e non c’è alcuna possibilità di contrattare. Nella piazzetta del paese entriamo in un negozio che vende articoli di artigianato che Manu definirà “stile Yugoslavia degli anni 70” e non trovando nulla di interessante da acquistare, risaliamo in auto con un Levon sempre accigliato (che avremo mai fatto a questo uomo?). Dopo aver attraversato altre cittadine minerarie ognuno dotata di un affascinante stabilimento abbandonato, arriviamo al monastero di Haghpath. Prima di visitarlo, però, approfittando di un tavolino non propriamente pulito incastrato sotto un bell’albero di noce, consumiamo il nostro pranzo al sacco costituito da pizzette di sfoglia e bibite fresche. Mentre finiamo di mangiare, l’autista d i una scassatissima marshrutka ci avvicina, ci chiede da dove veniamo in uno stentato inglese e non appena scopre che siamo italiani estrae dalla sua tasca un foglietto spiegazzato con a fianco segnati numeri dall’uno al dieci, ce lo fa vedere e ci chiede di scrivere a fianco la traduzione in italiano. Quando arriviamo al numero quattro e gli spieghiamo come si pronuncia lui esclama “Ahhhhhhhh, quatro, like Suzi Quatro!” scatenando le nostre risate. Si avvicina poi un anziano con un bastone che vende nocciole e ce ne regala una manciata. Così, sgranocchiando frutta secca, varchiamo il cancello del monastero forse più bello di Sanhanin, molto suggestivo, grazie anche alle splendide vedute che si godono da qui sull’intera gola del Debed. Splendide la torre campanaria e la biblioteca. Terminata la visita ci sediamo in un negozio che è anche bar (definirlo tale sembra, a ben vedere, un’esagerazione….) e ci beviamo un caffè caldo e molto forte stravaccati su malconce sedie di plastica.

Ripartiamo quindi per la nostra ultima meta giornaliera, il monastero di Akhtala, un complesso cinto da alte mura famoso per i suoi affreschi. La chiesa (non si sa ancora se dedicata al solito Surp Grigor o agli Apostoli) molto ben conservata, è all’interno altrettanto meravigliosa con le pareti magnificamente affrescate. Ci attardiamo a girovagare sul parco intorno alla chiesa pieno di giganteschi gelsi colmi di more e di edifici semi diroccati letteralmente invasi dalla vegetazione, ma dopo un po’, visto che si è fatto tardi e che la strada verso Yerevan si preannuncia molto lunga, Levon ci sollecita la partenza. Più o meno a metà strada, nonostante l’autista tenga una velocità bassissima, la polizia ci ferma. Lui scende, chiacchiera con i poliziotti e poi risale se possibile più incazzato di prima. Ci dice che è stato multato perchè non rispettava il limite dei 50 km orari…ecco, ci mancava pure questa! Ora sarà ancora più incavolato di prima! Quando finalmente arriviamo a casa è già buio e mentre Stefano e Fil salgono per la doccia, io e Manu facciamo un salto al supermercato imbattendoci in un gruppo di giovani armeni che stanno manifestando per l’aumento del prezzo del biglietto degli autobus, passato da 50 a 100 dram nell’arco di una sola giornata. Uno dei ragazzi attacca bottone e ci dice che ammira l’Italia perchè è un paese civile…accettiamo quel che sembra essere un complimento e gli auguriamo buona fortuna per la loro protesta. Usciamo molto tardi e torniamo a cena alla Caucasus Tavern dove banchettiamo con la solita trota, braciola con patate fritte, una sorta di pasta al ragù, zuppa e verdure miste, il tutto per il soliti 11.000 Dram. Girovaghiamo quindi per i negozietti del centro ancora aperti e poi ci ritiriamo per due chiacchiere, una sigaretta e una camomilla sulla nostra bellissima terrazza, prima di andare a letto.

11 Filippo nuovo volto della MTS Viva Cell

Khor Virap, Noravank Monastery e Areni

25 Luglio. Dopo colazione scendiamo al parcheggio e troviamo il nostro caro Levon con il quale ormai scambiamo solo qualche battuta di convenzione visto che lui imperterrito continua ad avere la faccia scura ed i modi bruschi. Oggi la prima tappa sarà il famoso e fotografatissimo monastero di Khor Virap che sorge su una collina proprio di fronte al monte Ararat. Sulla strada verso il monastero c’è il limite di 50 km orari e quindi viaggiamo a velocità lentissima. Quando arriviamo in prossimità del sito rimaniamo un po’ delusi visto che il monte Ararat non si vede a causa della foschia, quindi niente foto “memorabili”. Già dal parcheggio capiamo che ci sarà parecchia folla ed infatti appena entrati dalla cinta muraria ci troviamo di fronte ai soliti gruppi caciaroni di armeni. Gli edifici del Khor Virap sono comunque ben tenuti: entriamo nella chiesa di Surp Avartsin e Ste, Fil e Manu decidono di scendere nel pozzo posto a sette metri sotto il livello del suolo, caricandomi di zaini e macchine fotografiche. Girovaghiamo quindi per gli altri edifici ma, alla fine fine, possiamo dire che questo Khor Virap ci ha un po’ delusi, forse perchè le aspettative erano alte o forse perchè, a differenza dei siti visitati fin’ora, è davvero troppo affollato. Riprendiamo quindi l’auto e la strada verso il monastero di Noravank lungo la quale ci sono moltissimi allevamenti di pesci: quasi ogni casa all’esterno ha una grande vasca in cui tiene dei pesci (non sappiamo di che tipo) che vengono poi venduti alla gente che transita dalle regioni del sud verso Yerevan o viceversa.

Un’altra caratteristica di questa zona è la moltitudine di cicogne che nidificano in ogni dove, sopra un palo della luce o sul camino delle case: vedere volare questi splendidi animali è davvero un’esperienza bellissima che frutterà a Fil delle fantastiche foto. Ci addentriamo quindi nella regione di Areni, zona famosa per i vitigni, la buona frutta ed i paesaggi verdissimi che si alternano alle brulle montagne; lungo la strada ci sono moltissime bancarelle che vendono albicocche, pesche e fichi.

Arriviamo finalmente a Noravank situato in una posizione davvero unica: stagliato contro il fianco di una montagna totalmente spoglia lo si vede solo quando si è molto vicini tanto si confonde con il paesaggio. Saliamo il ripido sentiero che porta alla chiesa principale dedicata a Surp Astvatsatsin edificata intorno al 1300 e ci arrampichiamo sugli strettissimi gradini che ornano la facciata per vedere da vicino la cupola: la discesa si rivelerà molto più ostica della salita visto che i gradini sono praticamente scavati sul muro della chiesa senza corrimano o altre protezioni. Visitiamo quindi la più piccola ma molto suggestiva chiesa di Surp Karapet e quindi torniamo sui nostri passi. Ma proprio all’imbocco del sentiero Fil viene letteralmente bloccato da una troupe televisiva armata di telecamere e microfoni che sta girando degli spot per la maggior compagnia telefonica armena. Gli chiedono quindi se accetta di inscenare una telefonata in cui dovrà far finta di chiamare un amico italiano e dirgli quanto bella è l’Armenia per poi, a telefonata chiusa, pronunciare qualche frase in inglese sull’eccellente qualità delle chiamate con la MTS Viva Cell, economica, funzionale e pratica! Osserviamo divertiti il nostro Fil con i suoi capelli arruffati che si atteggia ad attore professionista riuscendoci perfettamente vista la soddisfazione della regista e del cameraman. Riprendiamo la strada e facciamo uno stop per un pranzo a base di pesche in una bancarella lungo la strada dove ci sediamo all’interno di una baracchetta ricavata dietro il banco di vendita e addentiamo i frutti che però sono più belli che buoni. Lo stop in una cantina si rivela assai deludente visto che il proprietario mira (giustamente) solo a venderci bottiglie di vino e liquori alla frutta che però nessuno di noi acquista e quindi la sosta si risolve nel giro di una decina di minuti. Dopo aver percorso la bella strada con pesci&cicogne a ritroso arriviamo a Yerevan verso le tre e invece di farci portare a casa ci facciamo scaricare, da un sempre più accigliato Levon, in piazza della Repubblica. Sotto la canicola del primo pomeriggio andiamo a fare un lungo giro al Vernissage Market, un mercatino tipico dove ci sono decine e decine di bancarelle che vendono souvenir armeni di ogni tipo. Fil rimane fulminato da una bancarella che espone splendidi duduk più belli e più economici di quello che ha comprato a Noratus. Ci diamo quindi alla contrattazione folle ed un altro flauto magico va a finire dentro lo zaino. Sfiniti dal caldo e dalla stanchezza ci rifugiamo sotto la tenda di un baretto dove consumiamo bevande fresche e arachidi tostate. Poi visitiamo la bellissima Piazza dell’Opera con l’imponente edificio che ospita il teatro più famoso di Yerevan. Ci dirigiamo quindi alla Cascata, una maestosa ed altissima scalinata in pietra intervallata da aiuole piene di piante e fiori di ogni tipo. Ad ogni “pianerottolo” si trovano delle bellissime fontane una diversa dall’altra. All’interno della struttura si può agevolmente salire ogni piano con le scale mobili che sono state rimesse in funzione una decina d’anni fa da un miliardario collezionista d’arte che ha abbellito le “salite” con numerose opere d’arte moderna. Arrivati in cima ci godiamo il bel panorama dall’alto di Yerevan ma vogliamo salire ancora più su fino al monumento costruito per commemorare il cinquantesimo anniversario del Soviet Armeno che si erge sopra le nostre teste. La strada per arrivarci è alquanto impervia visto che il collegamento tra la Cascata ed il monumento è interrotto da un gigantesco cratere dove sono in corso dei lavori che, secondo noi, non finiranno mai visto che i tralicci in ferro sono totalmente arrugginiti e non c’è segno di ripresa dell’attività. Saliamo quindi scale pericolanti e senza parapetto e, finalmente, arriviamo all’immenso spiazzo al centro del quale si erge un’altissima colonna: dall’enorme piazza si gode di una vista stratosferica su tutta la città mentre alla nostra sinistra sopra la collina veglia l’imponente statua in cemento di Madre Armenia con la spada parallela al busto impegnata a difendere la città.

Torniamo quindi verso la Cascata percorrendola tutta all’esterno e fermandoci ad ogni piano per fotografare le belle fontane; incontriamo due turisti spagnoli che ci raccontano di aver visitato l’Armenia con una macchina a noleggio e di aver speso parecchi soldi per pagare multe appioppate da poliziotti inflessibili; percorriamo quindi la strada verso casa fermandoci ogni tanto in qualche negozietto. Dopo la doccia ci dividiamo visto che io e Stefano avevano notato nel pomeriggio una pizzeria molto invitante dove vogliamo andare mentre Fil e Manu optano per l’humus che tanto amano preparato dal ristorantino sotto casa. Quando arriviamo alla pizzeria troviamo miracolosamente un tavolino all’esterno, al bordo della poco trafficata strada. La cameriera è molto simpatica e ci racconta di avere un’amica che vive in Italia, paese che ama profondamente e che prima o poi vuole visitare. Ci porta una fantastica e gigante pizza, alta e soffice, piena di formaggio che divoriamo letteralmente (costo della cena 3.000 Dram, circa 6 Euro). Girovaghiamo poi lungo una delle vie principali della città entrando nei negozi a curiosare: fuori si sta bene tira un po’ di vento ma il clima è piacevole, non vorremmo tornare a casa ma è tardi e siamo stanchi quindi ci dirigiamo verso il nostro condominio dove, dopo le consuete chiacchiere con Fil e Manu in terrazza, andiamo finalmente a dormire.

12 Sotto gli alberi di noce di Yeghegis con un cavallo bianco

Yeghegis Village, Tatev Monastery, Karahunj ancient observatory

26 Luglio. Scesi in cortile dopo colazione, una sorpresa ci aspetta: un nuovo autista e una nuova auto! Ci viene spontaneo chiederci se il nostro “amato” Levon si sia rifiutato di trascorrere un’altra giornata con quattro italiani che gli sporcano la macchina! Il nuovo arrivato sembra leggermente più simpatico, parla un po’ meno bene l’inglese rispetto a Levon, ma pare molto disponibile. Oggi ci aspetta una lunga trasferta verso l’estremo sud del paese con meta finale il bellissimo e solitario monastero di Tatev. Dopo un paio d’ore di strada ci fermiamo per fumare una sigaretta e lì scopriamo che il nostro nuovo autista ci sta davvero simpatico visto che ci fa compagnia fumando sotto un bell’albero di noce. Ripartiamo percorrendo bellissime strade quasi deserte in mezzo a vallate verdissime in parte coltivate e in parte ricoperte di boschi.

Arriviamo alla nostra prima meta, il villaggio di Yeghegis: l’autista ci fa scendere all’imbocco di un sentiero e ci dice di percorrerlo perchè più un alto troveremo delle chiese molto vecchie. Ne incontriamo quasi subito una, mezza diroccata, che però è chiusa e pare sconsacrata. Proseguiamo immergendoci sempre più all’interno del villaggio: il sole fa fatica a filtrare tra le foglie dei maestosi alberi di noce ma l’atmosfera è davvero straordinaria. Passiamo in mezzo a basse casette ben recintate, ognuna col suo orto, il suo giardino, il pollaio e la stalla. Dentro ad un recinto vediamo un cavallo bianco che, insieme al suo padrone, ci viene incontro circondato da quattro o cinque cani che subito attirano l’attenzione di Manu. Ci fermiamo ad ammirare lo splendido animale tenuto per la cavezza dal padrone che si rivela simpatico ed affabile pur non parlando inglese e ad un certo punto passa a Manuela alcune noci e la invita a darle al cavallo che, docile, le sgranocchia davanti a noi. Salutato l’uomo, continuiamo a passeggiare senza meta lungo i viottoli sterrati del villaggio i cui abitanti sembrano tutti intenti a riposare seduti sulle sedie dei portici in legno delle case. Imbocchiamo un viale fiancheggiato da noci altissimi ed arriviamo ad una bellissima chiesetta circondata da un piccolo cimitero pieno di vecchi ketcharis. L’aria è fresca, intravediamo il sole tra le fronde degli alberi, la gente ci saluta timidamente pur rimanendo a debita distanza. Incontriamo un gruppetto di cinque persone che sembrano dei turisti e quella che pare essere la capogruppo attacca bottone con me: scopriamo che è nata in Armenia ma da anni vive in Germania; ogni tanto torna qui per le vacanze e si dimostra davvero stupita di trovare dei turisti al villaggio perchè, dice, è cosa molto rara. Chiacchieriamo ancora un po’ delle bellezze dell’Armenia e poi torniamo verso la nostra auto: la strada per Tatev è ancora molto lunga.

I paesaggi sono sempre molto spettacolari e le montagne intorno a noi cominciano a farsi alte ed imponenti. Arriviamo in una bella vallata piena di fiori selvatici ma quasi subito ci troviamo immersi in nuvole basse che riducono la visibilità quasi a zero costringendo l’autista a rallentare bruscamente e a procedere a passo d’uomo. Finalmente giungiamo al villaggio di Tatev e ci dirigiamo verso l’imbocco della ropeway: il monastero, infatti, è stato costruito su uno sperduto sperone di roccia nella Gola del Vorotan e, per raggiungerlo, o si prende una marshrutka che però impiega ore per arrivarci oppure si prende questa nuovissima funivia costruita con la collaborazione di una società svizzera che si vanta di essere la più lunga del mondo. Quando arriviamo alla stazione di partenza, fa davvero molto freddo e quindi ci intabarriamo dentro ai nostri giubbotti, facciamo i biglietti che ci autorizzano a salire sulla navicella delle 14.45 (su ogni biglietto, che costa 4000 dram a/r, viene stampato l’orario di partenza) e ci mettiamo in coda di fronte ai tornelli. Salendo abbiamo l’impressione di essere molti di più di quelli che la navicella potrebbe contenere, sarà perchè oltre a noi quattro e a due turisti francesi, c’è un foltissimo gruppo di armeni che fanno un baccano del diavolo. Il tragitto è davvero spettacolare visto che sotto di noi si estende la gola punteggiata ogni tanto da qualche monastero in rovina ricoperto da una folta vegetazione. Dopo circa una ventina di minuti arriviamo alla base e quando scendiamo dalla navicella scopriamo che fa ancora più freddo e bassi nuvoloni stanno ricoprendo il cielo. Il monastero, circondato da alte mura difensive, è davvero molto bello ed è forse il complesso più ben tenuto che abbiamo visto in questo paese. Costruito tra il IX ed il XVII secolo si compone di numerose chiese e cappelle, un refettorio molto ben conservato, le cucine, una biblioteca e le celle dei monaci. L’atmosfera suggestiva viene ogni tanto guastata dalle comitive dei soliti armeni caciaroni (pare che siano scolaresche in gita) ma noi cerchiamo di evitarle invertendo il senso delle visite. Molto particolare la colonna intarsiata posta al centro di uno dei cortili che, pare, tramite le sue oscillazioni permettesse di prevedere l’arrivo di un terremoto. Molto infreddoliti, riprendiamo la funivia un po’ meno affollata. Prima di ripartire ci concediamo una sosta al ristorantino dove, seduti lungo una vetrata con una vista spettacolare sulla valle, mangiamo sandwich di lavash con formaggio e uova sode.

L’ultima tappa che ci aspetta è il desolato Kahrauni ancient observatory (anche conosciuto con il nome Zorats Karer) considerato lo Stonhenge armeno: su un brullo altopiano battuto da un vento forte affiorano centinaia di megaliti di basalto che a prima vista sembrano essere messi lì a caso ma in realtà pare seguano un ordine logico rispecchiando la posizione delle stelle nel cielo. Girovaghiamo infreddoliti intorno ai massi ammirando lo splendido paesaggio ma dopo un po’ ci rifugiamo al centro visitatori, una baracchetta in mattoni dove il custode ci offre un caffè in tazzine ricolme di polvere. Affrontiamo quindi la lunga strada verso casa che percorriamo senza sosta e che ci sembra davvero interminabile ma subito ci rianimiamo quando arrivati nei pressi di Khor Virap ci accorgiamo che…si vede il monte Ararat! La maestosa montagna infatti oggi è quasi completamente sgombra da nuvole e quindi si presta ad essere fotografata nel migliore dei modi. Ci godiamo quindi il bel tramonto dal finestrino dell’auto ed arriviamo a Yerevan quasi alle nove. Dopo una doccia veloce decidiamo di andare a cena alla taverna sotto casa che però è strapiena di gente e non ha nessun tavolo libero. Una veloce consultazione e decidiamo di andare di take away: ordiniamo riso, bulgur, l’humus che Manu tanto adora, kebab e zuppa e, quando tutto ci viene consegnato dentro a comodi contenitori di plastica, risaliamo in casa e ceniamo in tutta tranquillità. Questa è la bellezza e la comodità di avere un appartamento a Yerevan!

13 A messa col Katholikos?

Echmiadzin, Zvartnots, Garni temple, Geghard monastery

27 Luglio. Oggi è l’ultimo giorno per me e Stefano (Manu e Fil avranno invece anche la giornata di domani) e siamo tutti un po’ stanchi. Il simpatico autista del giorno precedente ci accoglie con un mezzo sorriso. Partiamo e facciamo la nostra prima tappa a Echmiadzin, la città santa considerata il Vaticano armeno visto che qui dimora il katholikòs massima autorità della chiesa armena. Il complesso è davvero imponente, ben tenuto ma forse un po’ anonimo. Dopo aver visitato la chiesa principale, vediamo, in lontananza, la torre di un’altra chiesa che ci pare molto interessante: seguendo dapprima un sentiero battuto e poi passando in mezzo ad un vecchio cimitero riusciamo a raggiungerla. I giardini del vecchio edificio sono ben tenuti dalle suore che popolano il piccolo convento posto a fianco della chiesa e che si stanno di corsa dirigendo alla funzione. Entriamo in chiesa dove intravediamo un gruppo di preti che circondano una figura bardata di tutto punto con paramenti di lusso e una specie di mitra in testa: vista la solennità della celebrazione, ci chiediamo se non si tratti del katholikos in persona, cosa che però non scopriremo mai visto che le persone alle quali chiediamo informazioni non parlano inglese e non ci sanno dare una risposta. Lasciamo quindi il complesso accompagnati dalle portentose voci di un corso composto da cinque donne e torniamo sui nostri passi verso l’auto.

Arriviamo quindi a Zvartnots, una chiesa in rovina dedicata al solito San Gregorio Illuminatore. Dell’edificio rimane solamente la pavimentazione e decine di colonne ben conservate ma si può capire come la struttura originaria fosse davvero unica nel suo genere, con la sua forma rotonda e il monte Ararat sullo sfondo. Intorno alla cattedrale si trovano le rovine del palazzo del katholikos: possiamo solo immaginare cosa fosse il complesso all’epoca del suo massimo splendore e in ciò siamo aiutati dai cartelli che troviamo lungo il percorso di ritorno che riportano disegnati i modellini originali del complesso. Ripartiamo quindi in direzione Garni, uno spettacolare tempio greco costruito in una suggestiva vallata. Il tempio è davvero ben conservato e sembra quasi stonare: un vero e proprio tempio greco con tanto di colonne e timpani è assolutamente inusuale in Armenia. Il paesaggio è assolutamente brullo fatta eccezione per alberi di albicocche carichi di frutti. Dopo la visita, visto il caldo, ci concediamo un gelato al baracchino posto vicino all’uscita. Ripartiamo quindi in direzione del suggestivo Monastero di Geghard che sorge in una profonda vallata. Il posto è letteralmente gremito di armeni e quindi, un po’ a fatica, visitiamo le belle chiese costruite tra il VII ed il XIII secolo. Passeggiamo per le mura fortificate e, attraverso una piccola porticina, sbuchiamo sulla riva di un torrente affollato di gente con i piedi a mollo nell’acqua. Sotto una tettoia improvvisata sono raggruppati un paio di galli ed una pecora legata ad un palo: i due ceppi messi in un angolo ci fanno intuire che questo deve essere il luogo dove vengono compiuti sacrifici animali eseguiti, di solito, durante i matrimoni. Torniamo verso il cortile del monastero e usciamo percorrendo la ripida discesa che porta al parcheggio. Ci fermiamo a guardare dei ragazzi che lanciano dei sassi sul fianco della montagna cercando di colpire dei buchi naturali formatisi sulla roccia: Fil ovviamente vuole partecipare e subito stringe amicizia con due giovani e alquanto graziose fanciulle con le quali farà un sacco di fotografie. Sarà in questo preciso momento che si accorgerà del fascino che esercita sulla popolazione armena di sesso femminile, con suo grande rammarico visto che fra poco più di 24 ore dovrà partire! Ripartiamo per l’ultima volta in direzione Yerevan dove arriviamo nel primo pomeriggio. Dopo una veloce sosta a casa decidiamo di tornare al Vernissage Market che troviamo super affollato. Come già avevamo sperimentato la scorsa volta i commercianti armeni sono poco inclini all’arte della contrattazione: un po’ scendono di prezzo, ma veramente di poca cosa. Alcune bancarelle ci spacciano degli oggetti come “unici” e “molto antichi” sparandoci dei prezzi altissimi: ci accorgeremo ben presto che quei pezzi unici, in realtà, li ritroveremo in molti altri esemplari… Un mercante di tappeti attacca bottone con noi e, in un inglese stentato, mi dice che si vede che Fil è mio figlio! Mi metto a ridere, anche se in realtà mi viene veramente da piangere…devo sembrare veramente vecchio…o forse è Fil che sembra tanto giovane… mah! Dopo aver fatto gli ultimi acquisti, decidiamo di passare alla Hyur per salutare Lyudmila che, appena ci vede, ci viene incontro felice che tutto sia andato bene. Dopo la doccia, andiamo a fare la nostra ultima cena e optiamo ovviamente per la taverna sotto casa: pollo ai ferri, humus, zuppa, bulgur, spiedini al barbecue e riso, il tutto per 10.000 dram. Manu rinuncia alla passeggiata dopo cena visto che ha un forte mal di testa, così io, Ste e Fil ci incamminiamo per ammirare per l’ultima volta le bellissime fontane danzanti in piazza della Repubblica. Dopo aver girovagato un po’, torniamo verso caso e salendo in ascensore sentiamo un rumore di fuochi d’artificio: ci spingiamo, quindi, verso una finestra del tredicesimo piano ed ammiriamo un bellissimo spettacolo pirotecnico sullo sfondo della Cascata. Dopo aver salutato ed abbracciato Fil, ci buttiamo a letto, consapevoli del fatto che dormiremo poco visto che alle 2.00 abbiamo il pick up per l’aeroporto. All’1.45, puntualissimo, l’autista della Hyur ci bussa alla porta e, guidando attraverso una Yerevan decisamente addormentata e deserta, ci porta in aeroporto. Facciamo il check in molto velocemente mentre perdo un sacco di tempo al controllo passaporti dove una scrupolosa poliziotta esamina attentamente il mio (scoprirò solo dopo mesi che quel passaporto si stava scollando e che ho davvero rischiato di non uscire dal paese…). Abbiamo il tempo di fare una mini colazione con caffè e cornetti, consumando gli ultimi Dram. L’aereo per Vienna parte puntuale. Ci sarà il tempo per riposare all’aeroporto della capitale austriaca, su enormi divani, prima di prendere il volo che ci riporterà a Venezia.

L’avventura in terra caucasica, per noi, finisce qui ed è stata davvero memorabile. Rimpianti? Fondamentalmente due: non aver previsto 3 o 4 giorni in più per visitare Baku, la capitale dell’Azerbaijan, facilmente raggiungibile con un volo da Yerevan, e non essere stati nel Nagorno Karabakh, sorta di stato satellite in terra azera ma popolato unicamente da armeni, territorio condiviso e conteso tra i due stati, a quanto pare con bellezze naturali strepitose. Ma i rimpianti, a volte, si trasformano in nuove occasioni: prima o poi potremmo decidere di tornare da queste parti.

Un viaggio in Georgia e Armenia è sicuramente consigliato. Sono mete facili, economiche, sicure e molto suggestive. Quale ho preferito tra le due? Indubbiamente la Georgia. Certo, a livello di siti turistici è sicuramente superiore l’Armenia ma in Georgia si respira un’aria molto più rilassata e tranquilla, la gente è molto cordiale e Tbilisi è una città fantastica che batte di gran lunga Yerevan. Assolutamente da non perdere in Georgia la regione dello Svaneti: non fatevi scoraggiare dalla distanza da Tbilisi né dalla scomodità dei percorsi di montagna perchè una volta arrivati qui vivrete davvero un’esperienza indimenticabile. Concedetevi un po’ di tempo per girovagare per Tbilisi, perdendovi nella città vecchia. Non perdetevi i monasteri di Davit Garej (visita che si può fare, in giornata, partendo dalla capitale). Attraversate, se potete, il confine via auto: per raggiungere Yerevan da Tbilisi si impiegano circa 6 ore ed il costo è davvero molto basso con una marshrutka o un’auto condivisa (35 Lari, circa 17 Euro). I paesaggi che si possono ammirare durante il trasferimento sono davvero unici. L’esperienza appartamento a Yerevan è sicuramente da consigliare, ce ne sono decine e decine in affitto in tutte le zone della città. Nella scelta considerate la posizione: meglio se lo trovate vicino a una delle piazze principali in modo da poter girare per il centro con la massima comodità. Nella programmazione del viaggio, se potete, inserite assolutamente i due villaggi Molokan: qui non ci sono vecchi monasteri, cimiteri o chiese antiche, ma vedere e toccare con mano lo stile di vita di questa minoranza si rivelerà un’esperienza indimenticabile. Per l’organizzazione affidatevi (e fidatevi) senza alcun tipo di problema all’Envoy Hostel in Georgia ed alla Hyur Service in Armenia.

Ringrazio e abbraccio i miei compagni di avventura, Stefano, Filippo e Manuela. E chiedo scusa a tutti coloro che leggeranno questo diario per gli errori di ortografia e grammatica sicuramente presenti… ma spero, nonostante ciò, di avervi trasmesso la voglia di visitare questi due bellissimi paesi.

Per altri consigli o suggerimenti, scrivetemi senza problemi.



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