Argentina, da Buenos Aires a Ushuaia in due settimane

Dalla capitale a El Chalten, passando per El Calafate, lungo tutta la Patagonia, fino alla Terra del Fuoco
Scritto da: jessiejane32
Partenza il: 11/11/2013
Ritorno il: 26/11/2013
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
Dalla capitale a El Chalten, passando per El Calafate, lungo tutta la Patagonia (in auto e bus), fino alla Terra del Fuoco (in aereo)

Programma

• 11 novembre: partenza dall’aeroporto Marco Polo di Venezia (scalo allo Charles De Gaulle di Parigi)

• 12-13 novembre: Buenos Aires

• 13-16 novembre: da Buenos Aires in bus fino a Puerto Madryn, da lì in auto fino a Puerto Piramides, per un safari nella penisola Valdes

• 16 novembre: in auto fino alla pinguinera di Punta Tombo

• 16-17 novembre: da Trelew a El Calafate in bus, passando per Rio Gallegos

• 18 novembre: passeggiata a cavallo a El Calafate

• 19 novembre: escursione al ghiacciaio Perito Moreno (Big Ice)

• 20 novembre: trasferimento in bus a El Chalten + trekking

• 21 novembre: trekking

• 22 novembre: trasferimento in bus all’aeroporto di El Calafate; aereo per Ushuaia

• 23 novembre: escursione al parco nazionale della Terra del Fuoco + canoeing nella Lapataia Bay

• 24 novembre: navigazione in catamarano del Canale di Beagle fino al faro del fin del mundo + aereo per Buenos Aires

• 25 novembre: breve visita nel centro di Buenos Aires + volo di rientro in Italia (Verona) con scalo a Parigi

11 novembre 2013

Siamo partiti dall’aeroporto di Venezia con scalo a Parigi. I biglietti li avevamo acquistati on line quattro mesi prima al costo di circa 850 euro a testa andata/ritorno – Air France – e senza alcuna assicurazione.

Ci siamo invece affidati ad un’agenzia di Buenos Aires – trovata su internet con buoni commenti – gestita da un italiano per le prenotazioni dei pernottamenti, gli spostamenti interni e la maggior parte delle escursioni.

13 novembre 2013

Stamattina ci siam fatti a piedi un bel giro per Buenos Aires, ma selezionando alcuni fra i tanti quartieri della città (La Boca, Telmo, Puerto Madero…), che è davvero immensa. Ieri, per dire, durante il city tour personalizzato in auto, di cui ci ha omaggiato l’agenzia, pur in quattro ore, abbiam visto la città solo in parte.

Ad accompagnarci, oltre ad un gentilissimo autista, Rodolfo, c’era la guida, Marta, una signora anziana di origini marchigiane, ma nata in Argentina e mai stata in Italia. Ciononostante parla un ottimo italiano, e pure dotto: da giovane infatti ha studiato lingua e cultura italiana per diversi anni alla scuola Dante Alighieri di BA. Peccato che noi fossimo così stanchi che facevamo davvero fatica a seguirla in tutte le sue spiegazioni.

Il fatto è che, dopo non aver mai dormito durante la traversata oceanica in notturna (oltre 13 ore, ed eravamo in piedi dalle 7 del mattino), abbiam perso oltre due ore per raggiungere la città dall’aeroporto, nonostante distino tra loro appena una ventina di chilometri: imbottigliati in autostrada tra bisonti su ruote, avanzavamo di qualche metro al minuto, finchè il nostro autista non ha deciso di imboccare delle laterali (sì, delle laterali in autostrada!) per evitare la colonna. Peccato che guidasse, lui come tutti gli altri al volante, peggio che se fossimo stati a Napoli: ogni 10 secondi mi stupivo di come non avessimo ancora incidentato o perchè ancora non avessimo incrociato decine di incidenti. Le brusche frenate, le accelerate per infilarsi tra un camion e un autocarro, le attraversate delle strade per raggiungere la colonna di volta in volta meno lunga, non si contavano, ma soprattutto se allungavo il braccio fuori dal finestrino, potevo toccare i veicoli al nostro fianco da quanto si viaggiava vicini. Un incubo.

Aggiungiamo che al di là del finestrino, non c’era affatto un gran spettacolo: oltre alle strade messe male, con rigagnoli continui ai bordi per la mancanza di caditoie, e quindi delle fognature, marciapiedi disastrati e case fatiscenti, simili agli innumerevoli abusi edilizi del sud Italia (peraltro anche qui per lo più lasciati a metà, ma qui sempre abitati), incrociavamo cani a briglia sciolta e soprattutto tanta sporcizia e spazzatura abbandonata per strada. L’autista, poi, sembrava improvvisare l’itinerario in continuazione, con direzioni decise anche in mezzo alla strada e strombazzamenti continui da dietro.

Già sfiniti, siamo dunque giunti all’ostello America del Sur, dove ci attendeva il titolare dell’agenzia cui ci siamo affidati per la consegna di tutti i voucher di hotel, spostamenti ed escursioni che abbiamo prenotato con lui.

Si erano dunque fatte già le due del pomeriggio quando finalmente salivamo in camera, ma già di lì a mezz’ora appena dovevamo farci trovare pronti giù in reception per partire con Marta per il city tour. Stavamo per impazzire e quasi per sbranarci a vicenda dal sonno e dalla fame (avevamo fatto colazione appena alle 7 in aereo), e quel letto, per quanto in una camera assai spartana, ci richiamava come il vino i moscerini. Avremmo anche voluto farci una doccia, ma niente.

Marta comunque è stata coccola: quando le abbiam riferito che eravamo affamati, ci ha subito fatti portare lungo i Docks a mangiare al volo un ottimo choripan, cioè un panino con la salsiccia.

Siamo rientrati dal city tour quasi alle 7 di sera, convinti che avremmo cenato fuori in uno dei localini indicatici sia da Marta che da Andrea. Ma alle 19.30, docciati, abbiamo commesso l’errore di stenderci sul letto. Abbiam riaperto gli occhi la prima volta alle 23. Senza dirci quasi niente, ci siam rimessi a dormire e ci siam alzati alle 7 di questa mattina, realizzando finalmente dove eravamo e cosa dovevamo fare. La colazione, prima di tutto.

17 novembre 2013

Qui in Argentina sono le 8.30 del 17 novembre. Ci troviamo in un bus a due piani da 12 ore esatte diretti a Rio Gallegos, nella profonda Patagonia e a due passi dalla Tierra del Fuego. Lì ci aspetterà un tizio che, in auto, ci porterà in 3-4 ore a El Calafate, zona dei ghiacciai, dove ci fermeremo 3 notti.

Che l’aria si stia facendo frizzantina l’abbiam capito già pochi minuti fa, durante una breve sosta in una stazione di servizio persa nel nulla, tra distese sconfinate disseminate di cespugli, e sotto un cielo, che qui in Patagonia è ovunque e sembra schiacciarti. Se non altro questa stazione era decisamente più pulita di quella lurida in cui ci siam fermati alle 4, stanotte.

Com’è facilmente immaginabile, dire che abbiam dormito è una parola grossa… Ma almeno siam seduti vicini, non come nella prima traversata in bus, quando da Buenos Aires siamo andati a Puerto Madryn. Luca però, in compenso, in quell’occasione, si è trovato seduto accanto a una coppia di ragazzi tedeschi di Dusseldorf, Ulf e Daniela, con cui è scattata subito l’amicizia. Galeotta è stata la tv, che il personale di bordo ha acceso su un film di guerra ad un volume insopportabile, centralizzato e diffuso dagli altoparlanti di ciascun sedile. Tutti d’accordo abbiam chiesto di eliminare l’audio, ma il nostro addetto, come tutti coloro che in Argentina svolgono mansioni umili, non capiva l’inglese, e neanche l’italiano (e forse neanche lo spagnolo), tanto era acerbo e francamente incapace.

Ci è stata servita la merenda e abbiam giocato a Bingo, la nostra tombola, che peraltro è stata vinta proprio da Daniela, aggiudicandosi così una bottiglia di spumante. Subito dopo in tv hanno dato per tre volte di fila un film argentino, che ha assai appassionato la coppia di sudamericani di mezza età seduta al mio fianco.

Inutile poi dire quanto siano scomodi i bagni di questi bus, del tutto identici a quelli dei treni. Io proprio non riesco ad utilizzarli: quando la mia vescica non ce la fa più, ci provo anche, con mille acrobazie per non toccare da nessuna parte, ma come fai a rilassare i muscoli così?? Per questo salto giù dal bus come una cavalletta appena – ogni quelle 7-8 ore – ci si ferma in una estaciones. Sempre detto, beati i maschi!

I tedeschi arrivavano a Puerto Madryn da un viaggio di 20 giorni nel nord dell’Argentina e una volta giunti a destinazione sarebbero stati senza mezzo di trasporto verso Puerto Piramides, porta della Penisola Valdes. Pertanto, una volta saputo che noi avevamo invece noleggiato un’auto, ci hanno chiesto un passaggio (anche se noi avevamo già pensato di offrirglielo). Raggiunto il Rent-a-car a piedi e una volta espletate le formalità per farci consegnare la Ford Ka grigio metallizzato a tre porte, ci siam messi quindi a caricare, come in Tetris, tutti i bagagli, sotto gli scettici occhi del personale dell’agenzia, peraltro gentilissimo.

Appena partiti abbiam subito preso familiarità con gli innumerevoli cartelli arancio con scritto “desvio” ad indicare le deviazioni. Le strade infatti sono per lo più o sterrate o asfaltate, ma messe malissimo, con continue voragini non segnalate o rattoppate alla meno peggio. Il primo desvio peraltro ci ha portato completamente fuori strada, su un percorso sterrato che non finiva mai, complice una velocità che non poteva superare, neanche volendo, i 40-50 km/h. Invece di un’ora c’abbiam messo così il doppio per giungere a destinazione.

Puerto Piramides e la Penisola Valdes meritano da sole tutto il viaggio. Il paese è un fazzoletto di case che si adagia in un golfo, dove appunto le balene, in questo periodo, vengono a partorire approfittando delle acque tranquille della baia.

Il paesaggio terrestre a tratti sembra lunare, a tratti ricorda il Messico dei film, solo che qui non ci sono cactus, ma tanti, tantissimi arbusti e cespugli. Il nostro hotel, il più bello di tutto il paese (e anche di quelli in cui alloggeremo fino alla fine di questo fantastico viaggio), non ha deluso le aspettative: era l’unico in spiaggia e la nostra camera, al piano terra, come richiesto, godeva della vista mare. Stanza ampia, letto gigante, bagno confortevole: un sogno. Dopo le fatiche dei primi giorni, il breve periodo trascorso in questo angolo d’Argentina ci ha ampiamente ripagati e ristorati.

Mentre gli amici tedeschi quindi cercavano una stanza dove dormire, noi, dopo esserci docciati e cambiati, siamo andati a prenotarci l’uscita in catamarano per vedere le balene (whalewatching). C’era posto solo nell’ultima della sera, ma molto più costosa per il fascino del tramonto e per una durata di 2 ore anziché 1,5; o la mattina del giorno dopo, alle 9.30, quando però, secondo il nostro programma, dovevamo esser già in auto in direzione Penisola Valdes. Insomma, non avevamo scelta. Ma è andata alla stragrande!

Non solo eravamo pochissimi, una decina e nessun marmocchio esaltato, ma soprattutto perché dopo aver percorso non so quanti chilometri in mare per trovare la prima balena, abbiamo avuto la fortuna di assistere persino ai salti. Uno, due, tre, quattro. Incredibile! Sembrava che la balena franca si divertisse almeno quanto noi che la stavamo a guardare ad appena 30-40-50 metri, grazie alle peripezie del nostromo che la inseguiva. Ad un certo punto, poi, l’ho vista venire verso di noi: un mammifero enorme del peso di tonnellate, di cui sbucava fuori solo un po’ di muso, ma che repentinamente è scomparso alla nostra vista. Se tanto mi da tanto, ho pensato, non può che essersi inabissata qui, sotto di noi. Così, mentre tutti, continuavano a guardare nello stesso punto dove era scomparsa, io ho abbassato lo sguardo e, dall’alto del pontile in cui eravamo, ho riconosciuto in acqua le incrostazioni bianche che si formano sul muso delle balene: la balena, insomma, ci stava passando sotto, come continuavo a immaginarmi prima di partire per questo viaggio, rabbrividendo al pensiero che, in caso, sarebbe bastato un colpo di coda per spazzarci via. Non per niente in quel momento mi stavano tremando le gambe e avrei voluto avvisare tutti, ma l’urlo era strozzato in gola. Muta, mi sono solo voltata e spostata in solitaria nel lato opposto del pontile, perchè, di nuovo, se tanto mi da tanto, e se avevo visto bene, la balena non poteva che riemergere dall’altra parte. E infatti, dopo pochi secondi, mi è ricomparsa davanti, spruzzando acqua dal buco sul dorso, che quasi giungeva a noi. Allora tutti si sono voltati e spostati dalla mia parte, mentre le mie gambe facevano giacomo-giacomo al pensiero di quanto avevo assistito. Un’emozione unica e irripetibile, che non possono rendere neanche le numerosissime foto scattate alle evoluzioni cui abbiamo assistito al calar del sole, in controluce, addirittura con due balene appaiate, e noi lì a fianco a seguirle, mentre altre in lontananza sbuffavano o emergevano in verticale, fino a tre quarti, torcendosi e lasciandosi cadere sul dorso sollevando schizzi e ondate per metri.

Infreddoliti per la sventata, siamo rientrati che ormai cominciava a far buio e ci siam diretti dopo poco a mangiare in un’ottima trattoria del paesino (Las estaciones). Abbiam dovuto aspettare a lungo prima che si liberasse un tavolo, ma ne è poi valsa la pena: ottimo cibo, ottima birra (rigorosamente una bottiglia da litro in due) e localino assai gradevole, pieno di cimeli appesi, e luci, tavoli e sedie multicolori.

L’indomani, dopo un risveglio e la colazione davanti alle onde che si infrangevano sulla spiaggia lì di fronte a noi, sotto un cielo limpidissimo, ci siamo addentrati in auto verso la Penisola Valdes. Come già detto più volte, il sito è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità per la grande varietà di specie animali che la abitano. Ma non avremmo mai potuto immaginare di vederne davvero con i nostri occhi così tante e da così vicino da poterle toccare.

Già il giorno prima, per la verità, oltre alle balene, avevamo visto anche i leoni marini, di cui il maschio è davvero impressionante: bruno come un orso, gigantesco rispetto alle femmine, dalle quali si distingue anche per la criniera leonina, appunto, da cui la specie prende il nome, sta sempre attorniano da almeno una decine di femmine, le quali, si nota lontano un miglio, subiscono il suo potere. Noi eravamo distanti alcune centinaia di metri da loro, ma eravamo in cima alla scogliera per cui li potevamo osservare molto bene mentre se ne stavano languidamente adagiati per lo più a pancia in su, laddove la roccia si presenta piatta e levigata per effetto della risacca. Con il binocolo potevamo vedere bene i loro grandi occhioni dalle lunghe ciglie, mentre anche a occhio nudo era buffo vedere come si muovessero. Sempre meglio comunque degli elefanti marini che abbiam visto l’altro ieri nella penisola Valdes, a Punta Norte. In uno scenario unico, mai visto in nessun posto, con il verde brillante che si spingeva fin dentro il blu cobalto dell’oceano dando luogo a strani corridoi e pozzanghere dentro cui gli stessi elefanti marini si adagiavano per rinfrescarsi, prima di strisciare nella spiaggia dove scaldarsi pancia all’aria, abbian potuto osservare che gli elefanti marini si distinguono appunto dai leoni marini perché non essendo dotati di quattro pinne, si muovono sulla terraferma un po’ come i lombrichi. Solo che i lombrichi sono sottilissimi, mentre questi bestioni pesano quintali su quintali e sono assolutamente sgraziati, e buffi nel loro incedere a spanciate continue, con soste più o meno lunghe, quasi a riprender fiato dallo sforzo.

Due giorni fa, dunque, a bordo, della nostra macchinina, avanzando a 50-60 chilometri orari al massimo per via della strada sterrata e dei probabili attraversamenti di animali, abbiamo incrociato guanachi, parenti del lama dal mantello rosso bruno, mape, uno strano incrocio tra un coniglio, un cane e un canguro, nandù, parenti dello struzzo, mara, simpaticissimi roditori senza coda, armadilli, salamandre, falchetti, una volpe grigia, svariati uccelli, tra cui i pinguini di Magellano, oltre a lepri, cavalli e pecore in quantità, del tutto simili questi ultimi a quelli europei. Insomma, per noi è stato un autentico safari, in una giornata limpida, brillante, tiepida, ma assai ventilata, con scenari che solo le foto potranno rendere, in parte, la loro bellezza.

All’inizio della gita, peraltro, ci siam spinti in un litorale, Punta Pardella, assai singolare per la conformazione della roccia, disseminata di crateri simili a pozzanghere, dove peraltro abbiamo di nuovo scorto le balene, ma stavolta dalla terra ferma, ed è stato emozionante in egual misura all’uscita in catamarano. Si vedevano benissimo anche a occhio nudo, ma con il binocolo e il teleobiettivo della nostra nuova super fotocamera erano davvero uno spettacolo emozionante!

In serata abbiam mangiato mariscos, frutti di mare disposti su un grande tagliere circolare foderato da un letto di lattuga. Buonissimi, ma fin troppi.

Ieri mattina, con gran calma, abbiam preparato gli zaini, e finalmente siam riusciti a rivederci con Daniela e Ulf, prima e dopo la loro uscita in catamarano a veder le balene (ci hanno riferito di non aver assistito ai salti, ma comunque ad una mamma con il piccolo, e i delfini che volevano giocare con lui), ci siam fatti scattare qualche foto assieme e infine abbiam lasciato quasi a malincuore questo paradiso che è Puerto Piramides.

In auto ci siam quindi diretti verso Punta Tombo, quasi 300 km più a sud, lungo l’autovia che corrisponde alla Ruta 3: uno stradone dritto che più dritto non si può, lungo centinaia di km, con il nulla a destra e a sinistra. Solo spianate che si perdono all’orizzonte, lontanissimo, ma tanti colori ugualmente, che qui in Patagonia, davvero sono unici.

Arrivando, poi, abbiamo scorto una palude e degli alti uccelli che da distante sembravano rosa. Non potevano che essere fenicotteri, ma nessuno ci aveva detto che avremmo potuto incontrarli, per cui non credevamo ai nostri occhi. Accostata l’auto, armeggiati di binocolo e superteleobiettivo, abbiamo quindi voluto approfondire: erano proprio fenicotteri. Bellissimi, elegantissimi, quasi danzanti sull’acqua. Una visione!

A Punta Tombo ci aspettavamo di trovare orde di pinguini, invece ce n’erano, certo, ma non così tanti. Anche qui in uno scenario comunque unico – con colori che spaziavano dal blu luccicante dell’oceano al rosso delle rocce al giallo delle colline sabbiose, al verde degli arbusti -, i pinguini (chiamali stupidi!) trovano il posto ideale per dare alla luce i piccoli in tane scavate sotto terra o sotto gli innumerevoli cespugli.

Tirati sui tempi – forse la mattina a Puerto Piramides ce l’eravamo presa un po’ troppo comoda -, siam tornati a nord per riconsegnare l’auto a Trelew. Era andato tutto bene, finchè nella ricerca della via del Rent-a-car, non abbiam sentito un botto tremendo da sotto l’auto: purtroppo non ci eravamo accorti di uno dei numerosissimi malefici dossi di cui le strade sono disseminate in Argentina. Atterriti, abbiamo accostato per controllare se andasse tutto bene, gli pneumatici in primis, e sembrava di sì. Per questo però non vedevamo l’ora di riconsegnare l’auto, che peraltro era impolverata all’inverosimile a causa della famigerata polvere patagonica.

Tuttavia, pur giunti in extremis entro le 19.30, come da contratto, il Rent-a-car era chiuso. Dopo pochi minuti, per fortuna, è arrivato ad aprire un uomo che non si staccava dal telefono, e scurissimo in volto, perchè, ci spiegò più tardi sbloccandoci la carta si credito, solo in quel giorno c’erano stati ben tre incidenti nella penisola Valdes, di cui uno mortale, e tutti con la sua agenzia. Gli automobilisti infatti tendono a non rispettare i limiti consigliati, così, quando un animale improvvisamente attraversa la strada, son cavoli amari: si frena bruscamente, il peso dell’auto trascina avanti il mezzo finchè non rocambola a bordo strada.

Per questo, quando il tipo dell’agenzia, in seguito ad un minuzioso controllo, ci ha chiesto 200 pesos (circa 25 euro) per aver riscontrato sul nostro parabrezza una piccolissima scheggiatura, glieli abbiam dati quasi volentieri pensando a cosa avevamo rischiato. Ma va detto che noi siam stati sempre prudenti.

Eccoci quindi arrivati a ieri sera, alle 20.30 circa, quando a Trelew abbiam preso questo bus per Rio Gallegos, dopo aver comprato alla spicciolata, un po’ qua un po’ là, frutta, panini e snack per la lunga traversata, perchè la schifezza che ti servono in bus per cena, dicono tutti sia immangiabile e infatti noi l’abbiam rifiutata senza batter ciglio.

Ora son le 12.30 e siam fermi da quasi due ore a Puerto San Julian, a causa di un guasto al cambio. Il cielo è velato di grigio e l’aria parecchio frizzante. Per fortuna per stasera non avevamo preso impegni per cui abbiamo un discreto margine nella tabella di marcia.

Siamo ancora sulla Ruta 3 e sono da poco passate le 16 locali. Non dovrebbe mancar molto a Rio Gallegos, dove un tizio ci aspetta per accompagnarci a El Calafate. Ad ogni modo son quasi 20 ore che siamo a bordo di questo bus, che poi stamane ha ripreso a funzionare dopo circa tre ore di tentativi di riparazione.

Nel frattempo, a terra, abbiam conosciuto un altro italiano, di Terni, “accampato” al piano di sopra del bus, con moglie e figlia. Loro sono in viaggio da quasi due mesi, tra Cile, Perù, Bolivia, Argentina. Invidia! Consiglia di andare in Bolivia, come se non c’avessimo già pensato…!

Sono le 19 e da pochi minuti, con 6-ore-6 di ritardo, abbiamo finalmente lasciato quel bus su cui eravamo saliti 22,5 ore prima! Ad aspettarci al terminal dei bus di Rio Gallegos, città prettamente industriale, c’era Marcelo, un simpatico giovane di Calafate che ci ha condotti alla sua confortevole auto. Il povero Marcelo ci aspettava dalle 14, poveretto!

È l’una passata e finalmente sono sotto le coperte dell’ostello America del Sur di El Calafate. La stanza è ok, non come a Puerto Piramides, ma meglio che a Buenos Aires. Qui fa un freddo cane: Marcelo ci aveva detto che di notte c’è un’escursione termica pazzesca, per cui di giorno ci sono 16 gradi e di notte ci si avvicina allo zero. Le stelle in compenso sono ad un palmo dal naso e la luna (piena stasera) qui è gigantesca.

Siamo appena rientrati dal ristorante qui vicino con vista panoramica sulle luci della cittadina. Abbiam mangiato rispettivamente un gigantesco lomo (filetto) e un cordero patagonico (agnello) che sembrava una montagna.

18 novembre

Sono le 15.40 del 18 novembre e siamo stanchi morti, dopo una cavalcata di oltre due ore e mezza. Proprio così. Alla fine non siamo andati all’estancia Cristina. C’eravamo quasi, in realtà: alzati alle 6 – come zombie, dopo neanche 5 ore di sonno -, fatta la colazione, preparato lo zaino, saliti sul pulmino dell’estancia direttamente davanti all’ostello, fatti i 42 km fino a Porto Bandera sul Lago Argentino, saliti sull’imbarcazione, ma… dopo una decina di minuti, ci hanno comunicato che l’escursione veniva annullata perchè c’era troppo vento. In effetti, era qualcosa di molto simile alla bora, nel senso che soffiava con quella forza che ti sposta le gambe mentre cammini e che fai fatica a farti sentire da una persona che sta a un paio di metri di distanza. Un tizio poi, per dire, stava caricando in battello un vassoio di croissant, quando una raffica gliene ha sollevati un paio fino a farli cadere in acqua. Se il cielo, poi, era brillante nei suoi colori e le nuvole di un bianco accecante, il lago Argentino – assai grande e incastonato tra le montagne con le cime innevate da una parte e brulle colline gialle dall’altra, più alcuni iceberg azzurri che vagano fra le sue acque – era disseminato ovunque di increspature bianche che effettivamente facevano presagire una traversata per niente tranquilla. Tant’è che ci han spiegato ci sarebbero volute almeno 5 ore per raggiungere l’estancia, che poi è una delle fattorie storiche della Patagonia, con tutti i suoi animali, il ranch e quant’altro, a fianco del ghiacciaio Upsala.

Amareggiati, ma perfettamente consci che… va bene l’avventura, ma fino ad un certo punto, siamo quindi risaliti nel pulmino e tornati a Calafate, affiancati nei sedili da alcune coppie vercellesi di mezza età che non si davano pace per la prospettiva di una giornata buttata. Al punto che appena il loro cellulare ha avuto segnale di campo (in Patagonia i telefonini funzionano solo nei pochi centri abitati), hanno chiamato la loro agenzia per chiedere cosa potessero fare di alternativo, e pare gli abbiano risposto che le prime attrazioni si trovavano a 800 chilometri, giusto per dare ancora una volta l’idea di cosa significhi la Patagonia.

In effetti, anche noi non avremmo potuto semplicemente posticipare l’escursione a domani, come ci suggerivano gli organizzatori, perché saremo sul Perito Moreno, ma almeno non ci siamo scoraggiati: stavamo anzi già pensando a qualcosa di alternativo in loco, come noleggiare un’auto e fare il giro del lago, o una bici per esplorare Calafate. Alla fine invece all’ostello ci hanno consigliato la passeggiata a cavallo, che ci ha subito entusiasmati, anche perchè era una delle cose che avremmo voluto fare in Patagonia, se avessimo avuto almeno un giorno in più a disposizione.

Poco dopo le 11 quindi è venuto a prenderci Gustavo del maneggio con uno sgangheratissimo pulmino, dove a bordo c’erano già due ragazze newyorchesi e, dopo di noi, ad un’altra fermata, son salite altre due ragazze francesi.

Siamo dunque partiti più o meno in fila, con Gustavo e altri due del maneggio. A farci da scorta, poi, sei cani bastardi che qui in Argentina sono ovunque e sembrano abitare le città tanto quanto le persone: liberi, pacifici, di tutti i tipi, all’inizio fanno specie per chi non è di qui, ma alla fine li si guarda invece con simpatia e quasi quasi li si invidia.

Il vento intanto non cessava, anzi, continuava ad aumentare, al punto che il berretto di lana sembrava quasi non averlo in testa.

Entrambi non salivamo in sella ad un cavallo da almeno 20 anni, ma come al solito non ci tiriamo indietro e – unici del gruppo – abbiamo optato per il percorso più lungo (sulla carta stava scritto 4 ore, ma al netto della sosta e dei trasferimenti saran state poco più di 2,5-3).

Va detto comunque che entrambi i cavalli erano miti, solo ogni tanto sbruffavano, e il mio, in particolare, tendeva a prendersi indietro, così ogni tanto dovevo dargli di talloni per farlo accelerare un po’.

Nonostante ora abbia il sedere ammaccato, la passeggiata a cavallo ci ha davvero fatto vivere la Patagonia da dentro: finalmente infatti eravamo parte del paesaggio che per oltre un migliaio di chilometri ci siam visti dai finestrini dei bus. Abbiamo cavalcato tra le colline brulle e cespugliose, attraversato recinzioni di pascoli sconfinati, visti da vicino branchi di cavalli, osservato i cani rincorrere le lepri nascoste tra i cespugli e le anatre (o loro sorelle) lasciare incustodito, spaventate, il nido di uova… e soprattutto sullo sfondo avevamo sempre una lama lunghissima del colore dello smeraldo, luccicante sotto il sole della Patagonia, dove peraltro, seppure da lontano, abbiamo rivisto i fenicotteri, tanti fenicotteri.

A metà percorso, peraltro, ci siamo fermati in una baracca fatiscente, sperduta in mezzo al nulla, che la nostra guida, Martin, ci aveva indicato da lontano. Ma non pensavo sarebbe servita per il nostro pranzo! Mi aspettavo di raggiungere una sorta di bar o una sorta di malga, ma dimenticavo che qui siamo alla fine del mondo, mica sull’altopiano di Asiago! Il “pranzo” quindi ce l’ha preparato lo stesso Martin dentro quella stamberga, mentre ci ha mandati a piedi a farci un giro sulle colline, dove, immancabili, ci continuavano a gironzolare attorno i sei cani, ma senza mai dar fastidio, anzi, proteggendoci in qualche modo da chissà che cosa.

Tornati quindi verso quelle quattro lamiere in piedi non si sa come, abbiamo trovato pane, affettati, pomodori e formaggio sopra ad un barile. Sorvolando sull’igiene e sulle innumerevoli immagini di donnine in deshabillè attaccate alle pareti da chissà quanto tempo, in fondo Martin se l’era cavata anche troppo bene, per la verità, considerando le risorse a disposizione; e le vettovaglie, evidentemente, invece che esser sbucate dal nulla, stavano nascoste nelle sacche fissate alla sella del suo cavallo.

20 novembre 2013

Sulle note di Fuera de mi vida (il cui videoclip ricalcherà sicuramente il clichè sudamericano della storia d’amore burrascosa, ma appassionata), stiamo lasciando El Calafate alle 8 del 20 novembre, in un mattino splendente. In bus, ovviamente! Lungo la celeberrima Ruta 40, fra tre ore dovremmo essere a El Chalten, ai piedi delle altrettanto celebri vette Fitz Roy e Cerro Torre. I prossimi due giorni saranno infatti dedicati al trekking in alcuni dei posti più ambiti dagli appassionati delle passeggiate in montagna di tutto il mondo.

Siamo appena partiti e siamo già fermi a bordo strada, in realtà, perchè al posto di polizia in uscita dalla città la solita scrupolosa agente che già ci ha fermati in auto tre giorni fa con Marcelo, mentre entravano a El Calafate, vuole controllare tutti i documenti dei passeggeri. Per fortuna che l’agenzia di Buenos Aires ci aveva assicurato che i passaporti potevamo metterli in fondo allo zaino e non pensarci più fino al volo di rientro in Italia: ce li avran in realtà chiesti almeno una volta al dì.

Ma veniamo alla strepitosa giornata di ieri. E cominciamo col dire che il ghiacciaio Perito Moreno da solo vale il viaggio fino alla fine del mondo.

Sveglia impostata alle 6, colazione veloce e alle 7 eravamo giá fuori dell’ostello a goderci i teporosi primi raggi di sole di Calafate, in attesa del bus che ci avrebbe accompagnato al ghiacciaio Perito Moreno. Abbiamo atteso una mezz’oretta scarsa, poi finalmente il bestione su quattro ruote di “Hielo e Aventura” é passato a raccattarci.

Durante il viaggio verso il Perito, una quarantina di km, il sole ha piano piano ceduto il posto ad un nutrito gruppo di nuvole che hanno reso il cielo grigio argenteo da cui si poteva vedere in sospensione una sorta di nebbiolina, come dei micro spruzzi di goccioline d’acqua che appunto galleggiano nell’aria: il classico clima patagonico in questa precisa zona nei dintorni dei ghiacciai perenni argentini.

Tra la corriera piena e il cambio di clima, presto i finestrini del bus si sono talmente appannati che non si poteva piú vedere fuori, rendendo perció ancora piú spasmodica l’attesa. Intanto la guida, Francisco, snocciolava un sacco di utili informazioni sul ghiacciaio, non prima di averci fatto compilare una scheda in cui indicavamo il nostro stato di buona salute in vista dell’escursione “Big Ice” che stavamo per intraprendere.

Non la faccio troppo lunga: prima di addentrarci dentro e sopra il ghiacciaio ci siamo approcciati al Perito dal fronte che dá su un braccio del lago Argentino: una diga di ghiaccio impressionante che si estende per 5 km in larghezza (30 km in lunghezza) e si erge in altezza fino a oltre 60 metri dalle acque del lago. Il fragore dei blocchi di ghiaccio che ogni tanto si staccano dalla cima cadendo rovinosamente nel lago sono un’esperienza uditiva difficile da dimenticare.

Da questo “mirador” ci siamo spostati in battello nel lago fino al ghiacciaio, ancora piú vicini, facendoci rendere davvero conto delle dimensioni gigantesche di questo immane colosso gelido. Da lí abbiamo intrapreso una camminata di un’ora – si erano intanto fatte le 11 – per arrivare al fianco del Perito. La camminata si é svolta in parte in un bosco di enormi e centenari faggi (nothofagus), alcuni dei quali colossali e persino artistici nelle inaspettate forme assunte dai loro rami nodosi, dalle possenti radici e dai bitorzoluti tronchi.

Arrivati al campo base, le guide ci hanno imbragato con una cinta di sicurezza e ci hanno fornito i ramponi per il ghiaccio: era arrivato il momento di addentrarci sul dorso del perito, all’interno dei suoi ghiacci millenari. É un’esperienza da provare, difficile da descrivere. Per certo, ci si sente piccoli e insignificanti al cospetto di tali immani spettacoli della Natura, che è la protagonista in Patagonia, e la sua forza é tanta e tale da emozionare e commuovere.

Sul ghiacciaio siamo comunque stati circa 4 ore. Davanti avevamo la guida che ci portava, e la seconda guida invece teneva d’occhio il gruppo (ci hanno divisi in gruppi di massimo 8-12 persone) in modo che se qualcuno fosse stato in difficoltá potesse prontamente soccorrerlo, oltre ad andare in avanscoperta in certe zone per saggiare la robustezza del ghiaccio nei punti in cui passavamo. Il rumore dei ramponi sul ghiaccio ci accompagnava senza sosta e il paesaggio circostante era “fantascientifico”, quasi da film apocalittico: immense distese di ghiaccio con cunette, montagnole, discese e altre asperitá e tantissimi pertugi, fessure, crepacci, buchi piú o meno estesi al cui interno dominava incontrastato il colore azzurro, celeste intenso se non blu cristallino, da cui abbiamo perfino estratto una delle migliori acque mai bevute, “celestiale” è proprio il caso di dire.

Finita l’escursione sul Perito abbiamo potuto sorseggiare del caldo caffé argentino, e in nave, sulla via del ritorno, del buon e rigenerante whiskey con un pezzo di cioccolata: che bontá!

Giornata conclusa al ristorantino vicino all’ostello dove alloggiamo mangiando le empanadas e una leggera e fresca insalatina.

Adesso ci troviamo in corriera alla volta di El Chalten, un viaggio di sole 3 ore, che per gli standard argentini o, meglio, patagonici, si tratta davvero di un viaggio comodo e breve!

22 novembre 2013

“Meno male domani sarà una giornata di trasferimenti”. Con queste parole ieri sera ci siamo dati la buonanotte nella nostra stanza di El Chalten, dopo quasi 50 km percorsi a piedi in un giorno e mezzo lungo la cordigliera andina patagonica. Al punto che, cenando direttamente al ristorante dell’hotel in cui alloggiavamo – tanto eravamo sfiniti -, siamo andati avanti un pezzo a confrontarci sui muscoli e le articolazioni che sentivamo dolenti. Una cosa è certa: avevamo esagerato, ma come in ogni viaggio non riusciamo mai a tirarci indietro.

Dall’aeroporto di El Calafate, dove in questo momento son da poco passate le 11 del mattino, in attesa del volo delle 15.45 per Ushuaia, la città più a sud del mondo, affacciata su Capo Horn, vedo dunque di riepilogare velocemente la tappa a El Chalten.

Non prima però di annotare che persino qui in aeroporto, come in tantissimi luoghi pubblici in cui siam stati in Patagonia, alla toilette la carta igienica non va gettata nel water, ma nei contenitori a fianco. È evidente infatti che qui il sistema fognario non può collegare tutti i gabinetti che ci sono, perchè sono estremamente sparsi, distanti tra loro chilometri e chilometri.

El Chalten è un piccolo villaggio a nord del lago Viedma, sorto appena nel 1985 appositamente per fornire servizi ai viaggiatori che qui arrivano da tutto il mondo per far trekking ai piedi delle (o sulle!) celeberrime vette Cerro Torre e Fitz Roy. Sembra un paesino di frontiera, tipo Far West: tutto è in costruzione, manutenzione, ampliamento. Tantissimi i giovani, sia fra quelli che vi lavorano (nei negozi, affittacamere o esercizi pubblici), sia fra coloro che arrivano – rigorosamente con gli zaini in spalla – per fermarsi qualche giorno.

Noi siam stati fortunatissimi. Davvero. Siamo arrivati due giorni fa verso mezzogiorno, in una giornata splendente, senza nuvole: un caso raro, come ci ha spiegato la guida del parco nazionale appena entrati a El Chalten, dicendoci che ci sono turisti che si fermano anche 4-5 giorni e non riescono mai a vedere le vette più ambite, spesso ammantate dalle nuvole che si formano per le perturbazioni che arrivano dal Pacifico. Noi invece ce le avevamo lì, sopra la testa, a un palmo dal naso, irte e imponenti, macchiate di neve. E già da ieri infatti non le abbiam più viste, realizzando quindi quanto fossimo stati fortunati il giorno prima.

Consci quindi dell’eccezionalità del tempo, l’altro pomeriggio, muniti di mappa con tutti i sentieri possibili, abbiamo scelto il più impegnativo, perchè il più consigliato quando il cielo è blu. Dall’una alle 9 di sera (qui ora vien buio verso le 10) abbiamo quindi fatto 22 km con un dislivello di 1100 metri. Abbiamo attraversato le foreste australi di nothofagus, quegli alberi, per capirci, che si vedono nei film fantastici di Tim Burton o ne Il signore degli anelli. Alla fine, esausti, dopo che la foresta aveva lasciato improvvisamente il posto alla steppa e a lingue di neve, siamo arrivati sulla sommità, ricoperta di sassi bronzei, sfaccettati come pietre preziose. Ancora pochi passi seguendo dei paletti gialli e finalmente si è aperto, sull’altro versante, un paesaggio a tal punto meraviglioso da pensare a un fotomontaggio. Le vette, vicinissime di fronte a noi, si mostravano in tutta la loro maestosità, ma soprattutto nascondevano ai propri piedi uno specchio d’acqua circolare opalino, generato da un ghiacciaio che vi finisce dentro rilasciando qua e là alcuni blocchi di ghiaccio azzurro. E intorno il verde muschio dei nothofagus. Uno scrigno di natura, esaltato da colori vivissimi e da un’aria tersa, che lassù dov’eravamo noi sferzava senza pietà, raggelando le mani. Misantropi come siamo, poi, eravamo ancor più felici perchè non c’era nessuno, eccetto una ragazza, sola, alla quale abbiam chiesto di scattarci una foto, e poi un paio di ragazzi che son scesi lì da un’altra vetta.

Per la prima volta ieri ci siamo alzati senza sveglia, perchè nessuno finalmente doveva venire a prenderci alle 7 del mattino per portarci via in pulmino. Purtroppo però, un po’ per la fatica del giorno prima, un po’ perchè entrambi non eravamo riusciti a dormire sodo, ci siam trascinati al salone dell’hotel per la colazione con grossa fatica e poche parole. Complice una giornata non certo splendente come il giorno prima, entrambi eravamo d’accordo che avremmo scelto una fra le passeggiate meno impegnative, corta e senza dislivello. Invece, non so come, ci siamo trovati lungo il secondo percorso più impegnativo indicato nella mappa: 11 km per andare e altrettanti per tornare, con un dislivello di 350 metri, che però continuava a ripetersi su e giù. Eravamo attratti dalla meta, cioè quella laguna opalina (Laguna Torre) vista il giorno prima dall’alto. Volevamo vederla da vicino e magari toccarla con mano. Cosa che abbiamo fatto, anche se con qualche difficoltà, soprattutto all’andata, perchè quello specchio d’acqua sembrava non arrivare mai e noi continuavamo a fermarci a scattar foto, ad ascoltare gli uccelli (abbiam visto – e fotografato – pure il picchio patagonico dalla testa rossa), a guardar le cascate e tutti quei nothofagus schiantati a terra e lasciati là.

Infine, dopo 4 ore e mezza di cammino, siamo arrivati alla laguna e, come al solito di fronte agli spettacoli che la natura offe, la stanchezza è svanita in un attimo. Pur sferzati da un vento impetuoso che scendeva dal Glaciar Grande, da lì non ci saremmo più mossi. Invece l’orologio segnava già le 17.30 e sapevamo quanta strada ancora dovessimo fare per tornare a El Chalten. Curioso, tra l’altro, che la tappa alla laguna fosse stata così rinfrancante che al ritorno ci abbiam messo poco più di due ore e mezza.

24 novembre 2013

Qui, al fin del mundo, sono le 9. Siamo seduti in un grande catamarano che tra poco parte per la navigazione del mitico Canale di Beagle, la lingua di oceano che bagna Ushuaia, per metà argentina e metà cilena. Fa un freddo pungente perchè, nella notte, la pioggia di ieri si è trasformata in neve, imbiancando di fresco le montagne che circondano la città più australe della Terra, l’unica a racchiudere in sè oceano, foreste e montagne innevate. In piccolo ricorda un po’ Trieste: pure Ushuaia infatti ha le sue “Rive”, anche se lungo l’oceano, e poi subito s’inerpica verso l’alto, peraltro in modo assai più caotico – nei colori, nelle costruzioni e nelle strade – del capoluogo giuliano a causa di un enorme sviluppo in pochi anni.

La cornice in particolare è unica: le montagne, coniche, sembrano tanti mantelli scuri, uno a fianco all’altro, pizzicati nel mezzo, tirati su e spruzzati di bianco sulla cima. Par impossibile immaginare gli Yamana – la popolazione che abitava la Terra del Fuoco prima che arrivassero gli europei alterando irrimediabilmente il loro habitat naturale – vivere nudi in queste fredde lande. Sì, nudi, perchè così non solo fortificavano il proprio corpo, ma erano anche pronti a buttarsi in acqua per cacciare i leoni marini e uscire asciugandosi in poco tempo a fianco degli innumerevoli fuochi che accendevano per scaldarsi, di qui il nome Terra del Fuoco.

Siamo dunque alla fine non solo del mondo, ma ormai anche del nostro viaggio, iniziato 13 giorni fa. Per la prima volta da allora, peraltro, ieri abbiamo trovato pioggia sul nostro cammino. A dire il vero l’avevamo incontrata anche attraversando l’infinita Patagonia, ma allora eravamo in bus. Ieri invece… in canoa! Già, se qualcosa mancava fra le nostre avventure, forse era proprio il pagaiare.

Ma andiamo in ordine.

Dobbiamo ammettere che avevamo sottovalutato sulla carta l’escursione nel parco della Terra del Fuoco in programma nella giornata di ieri. Sarà che avevamo già fatto un sacco di cose entusiasmanti e quindi pensavamo che nulla più in questo viaggio potesse elettrizzarci allo stesso modo.

Invece, di nuovo abbiamo vissuto un’esperienza indimenticabile. In un gruppo di circa 12 persone, come al solito intercontinentale, abbiamo percorso a piedi alcuni chilometri all’interno della foresta (abbiamo rivisto da vicino il picchio di Magellano) e lungo le numerose baie che si aprono sul canale di Beagle. Le nostre guide, come tutte quelle che abbiamo avuto durante queste due settimane di escursioni, erano non solo giovani, ma soprattutto assai simpatiche, brillanti, preparate e professionali.

Dopo quasi quattro ore di trekking, ci hanno per giunta allestito una tenda completa di tavolate, panche, bicchieri e posate, cucinato al barbecue e servito un petto di pollo gigantesco ciascuno, con contorno di verdurine spadellate, una fetta di torta salata e, per finire, una fetta di dolce a base di una crema qui diffusissima, che chiamano dulce de leche, molto simile al nostro mou; il tutto irrorato da un ottimo Malbec, vino rosso di Mendoza, città del nord Argentina.

Attorniati da volpi rosse e falchetti definiti “ladroni” dalle nostre stesse guide perchè sempre in agguato nella foresta per portar via cibo agli umani, il pasto è servito per conoscerci un po’ di più tra di noi e per affiatarci in vista del canoeing del pomeriggio. Poco dopo infatti ci hanno fatto mettere gli stivali, un paio di pantaloni giganteschi (rivelatisi però non a prova d’acqua…) e un giubbino giallo di salvataggio, ci hanno fatto trasportare i gommoni fino al porticciolo, divisi in gruppi (noi con gli spagnoli) e, dopo alcune brevi istruzioni su come si rema, fatti partire per un’esplorazione via acqua di circa un’ora e mezza della Lapataia Bay sul Lago Roca.

Purtroppo il tempo andava peggiorando fino a quando non ha iniziato a piovere e, via via, sempre più intensamente. Ma questo non ha fatto altro che rendere ancora più avventurosa l’attraversata della baia, complice il fatto che eravamo bagnati fin alle mutande. Umidi e infreddoliti, siamo rientrati in città, dove non vedevamo l’ora di farci una doccia calda e asciugare i vestiti davanti alla fornelletta elettrica della nostra stanza. Quindi siamo saliti nel salottino dove alloggiamo per sorseggiare un thè caldo e scegliere con calma su internet (viva internet!) dove andare a mangiare per cena. E la scelta è stata ottima. Dopo il ristorante cileno della sera prima, dove abbiam mangiato un ottimo granchio reale (centolla), ieri sera volevamo tornare sulla carne. Ed è andata nuovamente alla grande! Anche il lomo di ieri sera infatti era un filetto alto almeno 5-6 centimetri, cotto esattamente come richiesto dall’asador, che in una sala vetrata parallela ai tavoli tagliava, grigliava e cucinava in continuazione tutti i tagli di carne (di manzo, pollo, maiale, agnello), compreso l’asado, l’agnello intero aperto a metà fissato su delle enormi griglie disposte a cono tutto intono alle braci sotto ad un grande camino. Sul tavolo intanto avevamo il chimichurri, un condimento rosso da mettere sul pane o sulla carne, a base di spezie fresche olio, aceto e limone. Anzi, non c’è che dire: in Argentina mangiano davvero bene e, oltre alla carne, fantastica, son bravissimi anche nei panificati, sia dolci che salati.



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