I grandi parchi del West, on the rock

13 Parchi dell'Ovest americano, con Los Angeles e San Francisco.
Scritto da: Arnollain
i grandi parchi del west, on the rock
Partenza il: 30/07/2010
Ritorno il: 20/08/2010
Viaggiatori: 4
Spesa: 3000 €
I grandi parchi del West, on the rock Ma scriviamolo anche noi un diario di viaggio ! E’ vero, in America ci siamo stati lo scorso agosto, e lo scriviamo per chi sta organizzando un viaggio nel West, ma lo scriviamo anche per noi, sicuramente per la nostalgia dei bellissimi momenti passati. Senza entrare nei dettagli di colazioni, pranzi o camere, abbiamo raccolto le nostre impressioni di viaggio, quindi personali e soggettive, unite a qualche consiglio pratico.

La nostra Mission : abbiamo voluto vedere tanto e vedere bene. Sveglia di buon’ora, tante ore di guida, pasti dove capita, cene a tarda ora e dopo una rapida doccia. Goderci qualche alba e tanti tramonti nei parchi. Dormire con l’unica pretesa di una camera pulita. Non una vacanza slow, tanto ci saremmo rilassati dopo…. Ognuno alla ricerca della propria America.

Partecipanti : Luigi (52), Monica (non si dice), Virginia (partita diciassettenne, maggiorenne in Arizona), Lorenza (13)

Data viaggio : 30 Luglio – 20 Agosto 2010 Chilometri percorsi : 6979 Parchi visitati : 13 Hotel passati e valigie rifatte : 15

Costo : poco meno di 10000 Euro, con un po’ di shopping incluso In dettaglio : Passaggi aerei: 3550 Euro ( Alitalia + United ) Automobile : 615 Euro ( Enoleggio / Dollar ) Benzina : 350 Euro ( ca. 3 UDS/gallone, pari a ca. 0,60 Euro/litro ) Pernottamenti : 1650 Euro Vitto : 1650 Euro Parchi : 130 Euro Escursioni : 600 Euro Shopping e varie: 1200 Euro

Un anticipo sul meglio e sul peggio : I grandi spazi, guardare l’orizzonte a 360°, la Monument Valley, i parchi Bryce Canyon, Grand Canyon, Arches, l’Antelope Canyon, la cura dei parchi, il cielo stellato, guidare a San Francisco. L’aria condizionata a palla, il ghiaccio clorato, la BBQ-sauce, lo Starbucks Café, il massacro della nostra cucina e della lingua italiana (spagetti meatballs, proscuito, fetuccini e pure spagetthi con la acca alla fine), gli addetti dei fast-food, gli indiani, gli italiani.

E qui, per chi ne ha voglia, inizia il diario di viaggio Venerdi 30 luglio : Milano – New York – San Francisco Km ( in auto ) 10 Non sembra vero, ma il giorno è arrivato. Voliamo su New York, da dove ripartiremo per San Francisco. Al controllo passaporti lo sbarco contemporaneo di più aeromobili produce una bolgia umana che riempie ogni spazio dell’ampio salone e con paziente attesa lascia le impronte digitali agli impassibili funzionari. Con il mio noto fiuto individuo la fila che pare più scorrevole : lasceremo per ultimi un ambiente ormai desolato e silenzioso. Arrivati a San Francisco a mezzanotte, ritiriamo la nostra auto. Non è il macchinone americano che speravamo ma una grigia, anonima Hyundai Sonata, una specie di cabina telefonica con le ruote. Dopo qualche tentativo ( ma come si accende sta’ macchina e come si mettono le marce col cambio automatico ?) partiamo cartina alla mano verso Hotel Travelodge South, vicino all’aeroporto e arriviamo al Travelodge…North, dove la ns prenotazione, giustamente, non risulta. Ricevute all’alba dell’una le indicazioni e dopo qualche svolta non consentita troviamo l’hotel e ci tuffiamo nel letto, giusto prima di svenire. Dopotutto siamo in piedi da 29 ore ! Primo consiglio : investite un centinaio di Euro per la mappa USA del vostro navigatore. Con il nostro fiuto (vedi sopra e in seguito) abbiamo sbagliato strada tante, anzi, troppe volte. Il tempo perso è stato tanto e le incavolature pure.

Sabato 31 Luglio : San Francisco – Sequoia Park – Lindsay Km 560 Sveglia, il Viaggio incomincia. Primo approccio con le colazioni USA a base di ciambelline dagli aromi molto artificiali, sciroppo d’acero e pancakes, burro di arachidi (puah), caffè trasparente. E resterà pure la colazione più ricca trovata nei motel ! In macchina inserisco un CD, alzo il volume e sulle note di Born tu Run inserisco la marcia e…via! Appena i giri salgono schiaccio la frizione per cambiare marcia, solo che frizione e seconda… non ci sono ! Tiro invece un pestone sul pedale del freno che Alonso manco se lo sogna. Moglie e figlie finiscono quasi nel parabrezza e la musica non riesce a coprire gli insulti. Tra grida e macchina saltellante, qualcuno ci avrà preso per matti, ma le strade dell’America sono nostre. Usciti per il San Mateo Bridge da San Francisco, il paesaggio diventa sempre meno trafficato e ci dirigiamo in aperta campagna verso il Sequoia Park. Sbagliamo una deviazione ( vedi primo consiglio) e vista l’ora decidiamo per una sosta pranzo in una delle Istituzioni americane, il Kentucky Fried Chicken. Quattro pezzetti di pollo fritto ci massacreranno lo stomaco fino a sera, per cui il KFC finisce subito nella black list. Approfittiamo per chiedere informazioni sulla direzione del parco, ma nessuno lo conosce, ed è pure l’unica attrazione della zona, solo ad una trentina di miglia! Si trova un dipendente che ci da la dritta giusta e arriviamo al Kings Park e subito al confinante Sequoia Park. All’entrata acquistiamo l’Interagency Annual Pass, che con 80 $ ci farà entrare in tutti i parchi federali americani. Il paesaggio è alpino, ma la vista delle sequoie riempie subito di stupore. Come colonna sonora gira bene Last Kiss dei Pearl Jam. Qui ci sta il secondo consiglio : preparatevi qualche CD con le vostre musiche preferite ma adatte ai luoghi, ai momenti e allo spirito della visita. Le sensazioni di questi momenti vengono amplificate, i ricordi fissati. Alternate però il sottofondo musicale al silenzio della natura e di questi spazi immensi. Ma torniamo al viaggio. La zona più interessante è la Giant Forest, dove pare vivano 5 dei 10 più grandi alberi del mondo. Ognuna di queste creature ha un nome di personaggi storici americani: la più grossa sequoia è il Generale Sherman, altre notevolissime sono Franklin, President, Lincoln, General Grant, quest’ultima subito all’entrata ovest del parco. La corteccia è stranamente morbida ma spesso vediamo piante semi-bruciate. Maledetti piromani, diciamo, poi veniamo a sapere che gli incendi sono programmati e fanno parte del programma di mantenimento del parco, che vorrebbe riprodurre i cicli naturali di incendi e ripresa della vegetazione. Sarà, ma a noi fa molto male vedere tutto bruciacchiato, giganti compresi. Proseguendo per il giro, incontriamo qualche cervo e passiamo sotto il Tunnel Log, sequoia abbattutasi sulla strada e dentro la quale è stato aperto un passaggio. E’ quasi sera, e dobbiamo cercare da dormire. La strada è lunga e tortuosa e nei paesi più vicini non c’è posto, che troviamo, ormai estenuati dalla lunga giornata e dal fuso, in quel di Lindsay. In questo paese non ci sono ristoranti, l’unica possibilità è tra i vari fast food che contornano insieme a un paio di pompe della benzina l’incrocio principale. In una solitudine desolante scegliamo un Taco Bell, sperando che il messicano piccante sciolga il fritto stagnante nei nostri stomaci. Si mangia, sospettosi, con gli occhi di tanto in tanto si chiudono e torniamo alla fine come profughi al Motel.

Domenica 1 Agosto : Lindsay – Los Angeles Km 283 Gli americani, si sa, sono orgogliosi del loro paese e della loro bandiera, che spesso sventola sulle loro verande. Anch’io espongo la mia, un po’ sfrangiata, sulla cappelliera della macchina: la bandiera nerazzurra dell’Inter. Siamo ora pronti a partire. Il paesaggio in direzione Sud è dapprima costituito da distese di campi coltivati, qualche palma, frutteti, e diventa sempre più anonimo fino ad arrivare a Los Angeles. All’imbocco del Sunset Boulevard attacchiamo un po’ scontatamente Pretty Woman, di Roy Orbison. L’Hotel Celebrity è in pieno centro di Hollywood, giusto dietro il Kodak Theatre della cerimonia degli Oscar. La nostra camera è dedicata a Fred Astaire, ed è strategicamente dotata di cucina. Usciamo subito per camminare lungo la Walk of Fame, dove una miriade di persone si fa fotografare accanto alle stelle pavimentate e dedicate ai divi del cinema e della canzone. Dopo un’iniziale riluttanza ci pieghiamo a questo rito popolare e…posiamo. Johnny Depp, Angela Lansbury, Julie Andrews con Virginia, sempre Johnny Depp, Marylin Monroe e Tom Cruise per Lorenza, Jimi Hendrix, Leslie Nielsen ( morirà quattro mesi dopo. RIP, Tenente Drebin ), e il vulcaniano Leonard Nimoy, un po’ bordo strada, con me. Monica si smarca, ma passando dal vicinissimo Teatro cinese, quello con le famose impronte degli attori più famosi, omaggia l’italianità di Marcello Mastroianni. Mancano stella e impronte di Pino Scotto: ragazzi, bisognerà provvedere. Alla sera, dopo i precedenti patimenti gastronomici, grande spaghettata con pasta, sale e sugo astutamente messi in valigia in previsione dei tempi magri.

Lunedì 2 Agosto : Los Angeles Km 72 Inizio la giornata con un’ora di corsetta sino a Beverly Hills e ritorno lungo il Santa Monica Boulevard. Butto giù dal letto le mie riposate signore e ci avviamo verso Rodeo Drive ( coi parchimetri che accettavano solo la carta di credito! ), ci perdiamo per i labirinti di Bel Air, le cui mura e recinzioni celano lussuose ville di attori e ricconi vari, gironzoliamo a capocchia per Beverly Hills e ci dirigiamo di seguito verso l’oceano le mitiche spiagge della West Coast. Mi pregusto surfisti, pattinatori e ragazze in bikini, ma quando arriviamo a Santa Monica fa freddo e c’è la nebbia !!. Spiaggia deserta, sabbia fredda. Una toccata simbolica alle acque dell’ Oceano Pacifico e ci spostiamo più a sud, a Venice. Con la spiaggia da un lato camminiamo tra bancarelle di magliette, oggetti e souvenir assurdi, in mezzo a una moltitudine di gente e tipi strani, spensierati, colorati, spie psichiche dalla Cina, qualcuno un po’ fumato. Doctor Kush, erbologo (..!) invita col megafono a comprare preparati di marijuana, a scopo terapeutico, ufficialmente. La camminata è spensierata, divertente, it’s Californication. Sulle note di I Get Around, Beach Boys, facciamo un giro in centro città. Downtown, con l’eccezione dell’interessante Walt Disney Philarmonic Theater progettato da Genthry, è una ordinata ma insulsa distesa di palazzi e grattacieli. Anche la storico insediamento spagnolo, soffocato da bancarelle colorate, non ci dice niente. Tentiamo con la visita all’Hollywood Sign, ma l’ora è tarda, l’accesso situato in un parco è prossimo alla chiusura ed è necessario camminare una buona ora lungo un sentiero poco agevole. Peccato, poteva essere carino. In serata, spaghetti al tonno (in scatoletta USA senza linguetta, divelta con un coltello) e ultima passeggiata tra le luci al neon dell’ Hollywood Boulevard.

Martedì 3 Agosto : Los Angeles – Joshua Tree – Blythe Km 481 Oggi tappone di trasferimento, con l’obbiettivo di avvicinarsi il più possibile in zona Grand Canyon. Obbiettivo mancato, perché dopo un paio d’ore, nella piena area desertica della Morongo Valley troviamo un Outlet ( cosa ci fa lì non l’abbiamo capito bene ) e due orette vanno via. Due panini autoconfezionati nel parcheggio ad una quarantina di gradi e via. A Twentynine Palms ( colonna sonora omonima, Robert Plant ) entriamo nello Joshua Tree Park. Il paesaggio arido e desolato è caratterizzato dalla presenza di piante di aloe, appunto dette Joshua Trees. Qua e là qualche formazione di rocce erose dagli elementi dove si rifugiano lucertole colorate e scoiattolini in cerca di cibo. In questa atmosfera ti aspetteresti solo di veder transitare un cow-boy a cavallo in cerca della classica pozza d’acqua. E’ il momento giusto di accompagnare queste sensazioni con Il bello, il brutto e il cattivo, insieme ad altre musiche di Ennio Morricone. Indimenticabile. Proseguendo, si intravede all’orizzonte la faglia di S.Andrea , poi passiamo per il Cholla Garden, dove il controluce di un sole già basso esalta le spinosità di una distesa di bellissimi cactus. Usciti dal parco (calcolate un paio di orette se non fate percorsi di trekking), piede sull’acceleratore e regoliamo il cruiser a 90 mph allo scopo di arrivare il più lontano possibile. Di polizia, in giro, non ce n’è e filiamo come lippe. Stabiliamo di fermarci verso le 20.00 ed usciamo in quel di Blythe, al confine tra California e Arizona. Dopo rapida passata tra i motel all’uscita dell’Interstate 10, scegliamo un Super 8 con piscina e ci facciamo un rilassante bagno a sole ormai tramontato. Di ristoranti neanche l’ombra e ci tocca scegliere tra i pochi schifezz-food disponibili. Optiamo per un Burger King, aria condizionata a meno 13. Chiediamo un tavolo lontano dai bocchettoni dell’aria condizionata ma abbiamo freddo. La cameriera non pare molto interessata questa sera, le posate arrivano dopo qualche minuto, dell’ordinazione non se ne parla. Abbiamo sempre più freddo. Il servizio latita e decidiamo di uscire e cercare un locale meno gelato. Proviamo da Carl’s e ripassiamo dai 35°C afosi ad un’altra gelata da ictus. E qui cominci a capire perché gli americani consumano tanta energia. Rassegnati a questo supplizio e recuperate in macchina quattro felpe, mangiamo veloci veloci un hamburger e via, fuori, a riscaldarci. Anche il significato di fast-food mi è ora più chiaro, o mangi fast oppure ti becchi una polmonite.

Mercoledì 4 Agosto : Blythe – Tusayan ( Grand Canyon ) Km 597 Mancati ieri gli obbiettivi chilometrici, oggi si deve necessariamente recuperare. Entriamo subito in Arizona, in un paesaggio deserto, qualche collina e tanti saguari, i cactus dei film western. Ci guardiamo in giro ma niente indiani e cow boy… La macchina va subito in riserva ma non c’è problema, al primo paese faremo il pieno. Mi rendo presto conto che le località segnate sulla cartina sono spesso quattro case senza segnali di vita, distanti venti-trenta miglia tra di loro. Al primo paese non c’è ombra di distributori, devo proseguire. Comincio a rallentare. Perché vai così piano, chiedono da dietro. Per gustarmi meglio questi paesaggi immensi, sostengo, ma incrocio le dita. Il paese successivo ha un nome beneaugurante, Hope, ma non è altro che tre case, una chiesa con ampio parcheggio e un bar, ventilatore a pale e pochi clienti silenziosi ai tavoli, dove entro a chiedere informazioni. Il primo distributore è ad una quindicina di miglia mi dicono, già mi vedo raggiungerlo a piedi, sotto il sole e con una bottiglia dell’acqua in mano che riempirò poi con la benzina. Rallentando sempre più raggiungiamo Salome e la sospirata pompa. Sospiro di sollievo, il viaggio continua. Terzo consiglio: le distanze sono ampie e le località segnate sulla cartina sono spesso poche case sparse, quindi conviene rifornire quando il serbatoio è solo a metà. La strada è dritta e sempre senza ombra di civiltà umana. La colonna sonora è Road to Nowhere, Talking Heads; la musica è giusta e se guardate il video pare girato da queste parti. Si parla della patente che Virginia dovrà fare a breve e spunta l’idea : perché non provare adesso con la prima guida ? Con due favorevoli e due contrari la proposta si ritiene approvata e Virgi percorre i suoi primi km, in Arizona. E’ l’ora del pranzo e ci fermiamo nel prato del parco comunale di Prescott, classica cittadina americana, dove assembliamo e ci mangiamo i nostri panini osservando la gente che passa. Il programma prevede di andare a Sedona, cittadina rilanciata dalla New Age per via di una vicina collina dove pare accadano fenomeni paranormali, per poi proseguire per l’Oak Canyon. Sicuramente veniamo presi in un vortice spazio-temporale perché non riusciamo in alcun modo a trovare la maledetta route 89Alt. Le proviamo tutte e senza successo, quindi, sfiniti, abbandoniamo sia la visita alla collina dei vortex che il passaggio nel rosso Oak Canyon. Dopo un lungo giro rientriamo, molto più a nord, nel canyon, in un paesaggio di rocce mattone e boschi, ideale per passeggiate. Il tempo stringe. Dall’inizio del viaggio abbiamo già fatto 2000 km. Passiamo da Flagstaff per arrivare in serata a Tusayan, Grand Canyon, Red Feather Lodge. Per la tanto sospirata prima cena americana la scelta cade sullo Yippee-Ei-O, elencato in tutte le guide, dai cui camini esce un gran fumo di griglia. Qui scopriamo la regola americana di farsi mettere sempre in lista per poi essere chiamati quando il tavolo si rende disponibile. Dopo 20 minuti di coda ci sediamo nel saloon, pavimenti, pareti e soffitti in legno, serviti da camerieri in tenuta da cow-boy, cappellone compreso. La bisteccona è dura e bruciata, me la sognavo alta e morbida e invece è una pena. Realizziamo che questo ristorante non è altro che una gabbia per polli ( i turisti ) stipati stretti, cibati all’ingrosso e spediti appena possibile alla cassa. Un po’ delusi ci avviamo, al freschino, verso l’Hotel, anche perchè qui non c’è molto altro da fare.

Giovedi 5 Agosto : Grand Canyon Km 56 Grande giornata. La sveglia per me e Monica suona alle 5 per assistere al sorgere del sole sul Grand Canyon. Il panorama del Grand Canyon che si apre davanti a noi, sempre più distintamente, è una cosa indimenticabile e che ci resterà impressa per tutta la vita. Non ci sono parole, semplicemente immenso. Ci appostiamo su uno sperone di roccia a picco sul vuoto e attendiamo in religioso silenzio il sorgere del sole, che spunta alle 5,55. Pian piano le cime più alte vengono illuminate da un chiarore ancora freddo, in seguito la luce guadagna più spazi, spingendosi sempre più giù in profondità. Dopo un’ora di contemplazione torniamo per la colazione in camera, dopo aver recuperato qualche dolce e del caffè nell’emporio del paese. Ricomposta la famiglia partiamo per il vicino aeroporto, per farci un volo sul Canyon. Lo sfizio ci costa 484 $. Il piccolo aereo della Westwind da sei posti parte rasentando il plateau ma dopo pochi minuti la terra improvvisamente scompare. Sotto di noi la voragine del canyon e 1500 metri più in basso le anse verdastre del Colorado. Dal traballante aereo si comprende meglio la vastità del luogo ( ricordiamoci che il canyon è lungo ca. 400 km e largo decine ), con il paesaggio che a Nord si mostra molto più verdeggiante. Forse l’elicottero, potendosi abbassare sotto il livello del plateau, avrebbe dato emozioni più forti, ma i circa 700 dollari del biglietto ci hanno un po’ gelato. Consiglio: per risparmiare meglio prenotare via internet o usufruire di qualche sconticino offerto dagli hotel. Atterrati, e col le gambe traballanti, torniamo al Grand Canyon. Le navette gratuite percorrono o la Hermit’s rest route, verso Ovest, o la Kaibab trail route in direzione est, fermandosi nei più interessanti punti panoramici. Ovviamente vi sono numerosi sentieri che costeggiano o attraversano il canyon, per gli escursionisti un vero paradiso. Noi percorriamo a piedi qualche chilometro del Rim trail, il sentiero panoramico dal quale godiamo con calma queste viste mozzafiato. Come accompagnamento musicale mentale, No Ceiling, Eddie Vedder e Terry’s Song del Boss. Da questo tracciato si stacca il Bright Angel Trail, un percorso che tocca, circa 1000 metri più in basso e dopo svariate ore di cammino rese sempre più difficili dall’aumento della temperatura, il fondo del canyon. All’imbocco del trail un cartello con la foto di una bella ragazza. Incuriositi, leggiamo che si chiamava Margaret Bradley ed era una buona maratoneta. Partita con una unica bottiglia d’acqua è stata ritrovata la mattina seguente senza vita, morta disidratata, perché non ci sono rifornimenti di acqua. Ogni tanto, nelle mie uscite di corsa, penso alla collega Margaret che corre, leggera, sulle nuvole. Dopo un paio di orette di camminata proseguiamo con la navetta fino all’Hermit’s rest e torniamo al Grand Canyon Village, mentre inizia a piovere. Il cielo si va presto a riaprire e non ci resta che attendere il tramonto, spettacolare, col sole che accende prima di arancio poi di rosso i fianchi scavati del canyon. La rappresentazione finisce alle 19,40. Si ritorna a Tusayan dove, evitato il ristorante della sera prima e una pizzeria con tanto di pizza “Bellagio” (aiuto!!), finiamo, per esclusione, al Pizza Hut. Che tristezza !

Venerdi 6 Agosto : Tusayan – Meteor Crater – Petrified Forest – Holbrook Km 425 Riscendiamo a Sud per percorrere un po’ della mitica Route 66. La prima cittadina che incrociamo è Williams, dove ogni angolo ricorda gli anni ’50, con improbabili contaminazioni misto western-fiabilandia. Ci fermiano al Twister Café arredato in stile anni 50. Lo si nota subito dalla Ford Fairlane del ’55 bianca e rosa parcheggiata fuori. La foto è di rito. Facciamo una passeggiata lungo la Main Road. Anche il Diner Café ha il suo bravo macchinone pinnato color panna in posizione strategica ( bisognerebbe gonfiargli le gomme, però). Lungo la strada un bel pick-up Dodge del ’62, poi la stazione di rifornimento Pete’s gas, troppo lucida per essere vera. La cosa inizia a puzzare un pochino, capisci che sui ricordi passati questi ci marciano. La tappa successiva è il Meteor Crater. Da scolaretto, la fotografia di questo enorme cratere da impatto mi aveva colpito ed essendo “in zona” non voglio perdermelo. E in effetti lo spettacolo lascia attoniti, un cratere del diametro di 1,3 chilometri e profondo 170 metri causato dalla caduta di un meteorite di soli 25 metri di diametro. Che botta deve essere stata ! Esco soddisfatto, nonostante i 15 dollari cada adulto per l’ingresso. Panino da Subway e proseguiamo. Mi accorgo che con una piccola deviazione sulla vecchia 66 si arriva a Winslow. Devo assolutamente passarci ascoltando Take it easy, Eagles, che le hanno dato notorietà con la strofa centrale “ Well, I’m standing on the corner in Winslow, Arizona, and such a fine sight to see…” . Giro per trovare un corner adatto ad una foto ricordo e mi trovo allo… Standin’ on the Corner Park, con tanto di chitarrista in bronzo, che la popolazione riconoscente pose, e un murales con bionda sul pick-up (It’s a girl, my Lord, in a flatbed Ford, slowin’ down to take a look at me ). Piove. Li vicino, parcheggiato, un pick-up di muratori con un grande adesivo parasole con la scritta NOBAMA. Povero Barak, per par condicio vorrei esibire un NOBERLU, ma non ho i mezzi tecnici per farlo. Acquistata una maglietta della Route 66, proseguiamo il viaggio. Sotto un cielo carico di nubi entriamo nel Petrified Forest Park. Nella parte a sud il parco è disseminato di tronchi fossili conservati nei minimi particolari, dispersi in un ambiente desertico ma di grandi contrasti di colori. Vicino all’entrata vi è l’esemplare più grande, la Old Faithful, ma la più grossa concentrazione di fossili si trova alla Crystal Forest. Qui, dal terreno, spuntano centinaia di tronchi, molti dei quali spezzati a fette come resti di colonne di un tempio in rovina. Proseguendo verso nord verso la Blue Mesa il panorama si trasforma in una colorata serie di collinette stratificate in bianco, grigio, rosso, sino ad arrivare al paesaggio rosso marziano del Painted Desert. Ripresa la 66, sotto un cielo ormai da paura, arrivano i primi tuoni, lampi e scrosci d’acqua. Dobbiamo rallentare, ma Holbrook è vicina. Si pernotta – mi ero tenuto la sorpresa – al Wigwam Motel, un villaggio di tende indiane in cemento costruito da un eccentrico negli anni ’50. Davanti ad ogni tepee è parcheggiata un’auto degli anni 50-70, qualcuna in ottime condizioni, altre purtroppo messe maluccio. L’impressione di questo accappamento solitario e silenzioso, con le tende ad arco, le macchine d’epoca riflesse tre le pozzanghere del piazzale ghiaioso, nella luce serale del dopo temporale è stupefacente. Io e Virginia contempliamo e fotografiamo fino a che si fa buio, poi si va alla più vicina Steakhouse, saloon in legno grezzo e corna di toro appese qua e la.

Sabato 7 Agosto : Holbrook – Petrified Forest – Canyon de Chelly – Chinle Km 296 Colazione nel teepee con caffè del supermercato ( spinato a tentativi da 4 diverse qualità, ma esce sempre la stessa acqua sporca..), tortillas come surrogato del pane e marmellata. La Foresta Pietrificata e il Painted Desert ci sono piaciuti tanto e decidiamo di ripassarci. La giornata è ancor più bigia di ieri, peccato per le fotografie che con una luce migliore sarebbero risultate tutt’altra cosa. Usciti da parco e dopo una sessantina di miglia facciamo una breve deviazione per l’Hubble Trading Post, una vecchia postazione di commercio. Mantenuto il tipico aspetto da Far West, ora vende souvenir e artigianato indiano, carino ma esageratamente costoso. Piove. Arriviamo a Chinle, brutta cittadina all’interno del territorio Navajo per la visita del Canyon de Chelly. Il canyon si divide in due rami distinti, il North Rim Drive e il South Rim Drive, che iniziamo a percorrere con l’auto. La colonna sonora è Chants and Dances of Native Americans, un po’ tradizionale indiana, un po’ new age. In questo canyon dal fondo verde e coltivato vivono tuttora i nativi e contiene siti degli antichi Pueblos. Come troveremo anche in seguito, i territori indiani sono o di loro esclusiva proprietà o spesso sacri (per giustificare le visite a pagamento con le guide indiane?). L’unico percorso effettuabile autonomamente è il White House Trail, che parte da uno dei vari punti panoramici di osservazione. Iniziamo la camminata di ca. 2 km discendendo il fianco del canyon, tra bellissime pareti erose e rossastre, e sotto un cielo poco rassicurante. Terminata la discesa e dopo un percorso sabbioso si giunge alla White House, un piccolo villaggio in mattoni dei Pueblos incastrato in una fenditura nella roccia di una parete verticale levigatissima. L’effetto scenico è bellissimo. E inizia a piovere, una pioggerellina fitta che accompagna quattro poveretti e senza ombrello per tutto il ritorno. Ci fa compagnia un cane dallo strano mantello – qualche gene di coyote ce l’ha di sicuro – che arrivati alla macchina si mangerà ma poco convinto qualche biscotto. Come ultima tappa andiamo a vedere l’incredibile spuntone della Spider Rock sotto una pioggia torrenziale contro la quale niente può fare il nostro povero ombrellino. Come cani bagnati arriviamo all’Holiday Inn, bella struttura e belle stanze. Monica preferisce una calda doccia, per gli altri, ancora bagnati, c’è un bel bagno in piscina poco prima del tramonto, sotto un arcobaleno tondo tondo. Magnifico ! Al ristorante dell’Holiday Inn, che chiude alle 21.00, scopriamo che nei territori Navajo non c’è l’ora legale. Non sono le 20,30 come credevamo ma le 21,30, e siamo fuori tempo massimo ! Ci accettano comunque e dopo una buona mezzora ci assegnano un tavolo. E aspettiamo. I nostri segnali per chiamare un cameriere, prima timidi poi disperati, non hanno nessuno effetto. Forse non esistiamo più, siamo diventati invisibili, ci chiediamo. Camerieri e cameriere, tutti indiani, superobesi, tondi e lenti come trichechi, paiono sedati. Ci vuole un’altra mezzora per l’ordinazione e altri tre quarti d’ora per ricevere la cena. Tra disperati (tanti i francesi) e uniti nell’infausto destino ci scambiamo occhiate ora divertite, ora di compatimento, increduli per tanta inefficienza. Al transito e consegna di qualche ordinazione scatta qualche applauso al fortunato estratto, interrompendo lunghe pause di catartica rassegnazione. Ci liberiamo da questi bombardati che è quasi mezzanotte.

Domenica 8 Agosto : Chinle – Four Corners – Mesa Verde – Blanding Km 589 Usciamo per puntare allo sperone di Shiprock, un dente di 480 metri che si innalza solitario nel piatto deserto del New Mexico. La macchina scorre e socchiudo gli occhi sentendo The Pusher, Steppenwolf. Mi accorgo che la strada più diretta segnata sulla cartina via Lukachukai deve essere una carrareccia non asfaltata e deviando ci perdiamo subito. Niente indicazioni, case o persone alle quali chiedere, solo arido deserto e qualche rilievo. Ad un bivio prendiamo la destra, e man mano che i chilometri passano il sospetto è che ci si stia allontanando sempre più. Ce lo conferma un benzinaio di una malandata pompa con annesso minimarket e rottami vari abbandonati: siamo una cinquantina di miglia fuori strada, straipermaledizione. Smanetto in queste strade polverose fregandomene dei limiti, ma Shiprock è ormai fuori portata. Puntiamo sul Four Corner dove, a pagamento e mettendovi a quattro zampe, vi trovate contemporaneamente in Arizona, Utah, Colorado e New Mexico. Un ciccione occupa l’ambita meta prima fotografando da ogni angolazione, poi filmando e commentando in diretta l’evento, poi rifotografando il tutto, questa volta col telefonino. Riprende e si fa riprendere, la gente ridacchia. Il Four Corner resta alla fin fine una curiosità per americani, che si poteva saltare tranquillamente. E’ l’ora di pranzo e l’unico baracchino aperto propone hot dog o “navajo fried bread”, l’equivalente delle frittelle dei nostri mercatini. Viene il momento di pagare, sono 4 frittelle da 3 dollari (tondi e senza tasse) e una coca da 3 dollari, in totale 15 dollari. Il giovane Navajo tenta la moltiplicazione a memoria. Si sforza ma il conto non viene, si aiuta con mani e dita ma niente, cerca carta e penna ma desiste subito, questa è alta matematica. E l’espressione della faccia non è proprio quella dello scienziato. Viene in soccorso la mamma, che scuote la testa e sorridendo ammette che il figlio non è proprio portato per queste cose. Ci pensa lei, 4 x 3 + 2 = 13 dollari ! Cannato anche questo! Paghiamo trattenendo a stento la ridarola. Comincio a pensare che invece di trucidarli, gli indiani si potevano sconfiggere in modo meno cruento sfidandoli semplicemente a tabelline. Ripartiamo verso Mesa Verde, Colorado, patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Alle nostre spalle 3000 km. Nelle strette valli della regione del Four Corners si è sviluppata attorno al 1100 la civiltà degli Anasazi, antenati delle popolazioni native. Queste comunità hanno occupato gli anfratti delle scoscese pareti della Mesa con costruzioni in pietra o a pozzo; delle ca. 600 Cliffs Dwellings, una decina sono visitabili. Noi ci siamo limitati alle più importanti Spruce Tree House e Cliff Palace, raggiungibili dopo una breve camminata nel bosco. Davvero bello. Il sole va calando e ci avviamo a percorrere le ultime 100 miglia verso Blanding, Utah. Che diventano molte di più per la solita sfortunata scelta al solito bivio privo di segnalazioni. E’ buio da tempo quando raggiungiamo il Four Corners Inn, dove molliamo le valigie e andiamo direttamente all’antistante steakhouse. Appena in tempo, perché appena seduti, e sono le 22.00, le luci delle insegne si spengono e il ristorante ha chiuso. Solita bistecca, voto 6.

Lunedì 9 Agosto : Natural Bridges – Monument Valley Km 340 Sono ansioso, agitato. Oggi ci attende la Monument Valley. Ci sono 70 miglia da fare, perché è da aprile che non si trovano sistemazioni più vicine. In mattinata visitiamo il vicino Natural Bridge Park. Come si può capire dal nome, la principale attrattiva sono alcuni archi naturali, formatisi per erosione in un’area rocciosa tagliata dal White Canyon. La bellezza di questi aspri paesaggi rocciosi è esaltata dalla loro vastità e da un silenzio totale. In giro, quasi nessuno. Brevi camminate portano ai tre ponti naturali, Sipapu, Kachina e, il più bello di tutti, l’arco di 55 metri dell’Owachomo bridge. Usciamo e prendiamo la malmessa 95 in direzione sud. Dobbiamo moderare la velocità perché oltre le 80 mph i dossi diventano trampolini, i gobboni montagne russe e i passeggeri protestano. Tra un urletto e l’altro prendiamo la Moki Dugway, uno sterrato che sbocca su una incredibile vista sulla piana che comprende, qualche miglio più avanti, la Monument Valley. La vista supera ogni immaginazione, un paesaggio rosso marziano, appena puntinato da qualche cespuglio, quelle classiche formazioni rocciose erosa del West americano e massi in bilico precario. Attenzione a Wil Coyote, potrebbe spingerne giù uno per schiantare Bip Bip lo struzzo! Scesi i tornanti e raggiunta la spianata si passa dal Mexican Hat, il caratteristico roccione con in punta, in miracoloso equilibrio, un disco di arenaria a forma di sombrero. Ancora qualche miglio e, all’orizzonte, si incominciano ad intravedere le famose sagome della Monument Valley. E’ su questa lunga e dritta strada che Forrest Gump smise di correre per l’America, ormai stanchino. E finalmente il mitico sfondo di tanti film western si spalanca davanti noi, più impressionante di quanto avessimo mai immaginato. Dal piazzale dell’hotel The View (beato chi ci ha trovato posto) si apre la suggestiva vista dei tre Butte (Il West Mitten, il Merrick Butte e l’East Mitten, tanto per cambiare sacri alle popolazioni native), rosso mattone sotto un cielo azzurro a nuvolette. Iniziamo con la nostra auto il percorso sterrato, che porta alle migliori viste di questi monumenti naturali. E’ possibile ampliare il giro e raggiungere altri punti di interesse salendo, a pagamento, su fuoristrada o camion scoperti delle guide indiane, le uniche autorizzate ad uscire dal percorso obbligato. Si passa dalle Three Sisters, l’Elephant Butte, il Totel Pole, il famoso balcone del John Ford’s point. Non ci sono parole per descrivere la bellezza di questi paesaggi, si contempla, ci si emoziona, siamo membri della Terra, protagonisti di un sogno. Rimettiamo Morricone, sentire l’Ultimo dei Mohicani in questi momenti provoca a tutti una grande emozione, che ricorderemo per sempre. Attendiamo il tramonto. Pian piano la luce si fa più radente e debole, il buio sale dai piedi dei Butte, sempre più su, fino alla cima che resiste, ma ancora per poco, di un brillante arancio. Abbiamo ancora 120 km da fare, al buio. Ma la giornata non è finita. Sulla via del ritorno per Blanding si viaggia in un buio assoluto. Fermiamo la macchina a bordo strada, spegniamo le luci e assistiamo ad un altro spettacolo grandioso : il cielo stellato. Se qualcuno dubita che l’universo sia popolato da miliardi di galassie, composte a loro volta da miliardi di stelle, lì, nel buio totale, avrete la conferma che è tutto vero. Rimaniamo lì, a guardare in su, fino a che il collo incomincia a far male. Nessuno ha mai visto tutte le stelle dell’Universo. Noi si, e questo resterà uno dei ricordi più belli del nostro viaggio. E giusto per concludere bene troviamo, a Bluff, e come sempre da ultimi clienti, il ristorante Cottonwood. Omaggiati di foularino da cow-boy mangiamo la migliore bistecca delle vacanze, cotta medium-rare come chiesto, e accompagnata da una birra degna di questo nome, una Wasatch prodotta nello Utah. Il letto lo vediamo quando è passata la mezzanotte.

Martedì 10 Agosto : Blanding – Canyonlands – Arches – Moab Km 349 Sulle note di The Weight della Band partiamo in direzione nord per il Needles District, parco nazionale Canyonlands. Dalla deviazione la strada da piatta e verdeggiante si infila in un paesaggio di pareti strette, ora compatte ora frastagliate, di vari colori e striature. Ci vogliono una cinquantina di km per arrivare alla parte più selvaggia, con pinnacoli di roccia, strapiombi sul Colorado, orizzonti profondi. Ce li godiamo con frequenti soste, in assoluta solitudine. Torniamo sulla 191 sostando per un caffè presso l’Hole in the rock, dove ammiriamo divertiti una serie di sculture ricavate da materiale riciclati, in particolar modo attrezzi da officina e parti auto, saldati con grande maestria. Si arriva a Moab e concediamo a Lorenza un pasto presso un luminoso Mc Donald. Mascherando l’orrore prendo anch’io un hamburger di angus, e scopro con stupore che… è buono! Senza creme velenose e cetriolini e con un pane che non è quella spugnetta molle e dolce mi tocca ammettere, subito beccato dalle mie figlie, che non è poi un malaccio. Comunque, in Italia, da Mc non ci entro. Prendiamo le camere all’Inca Inn nel primo pomeriggio. Il caldo e il sole abbacinante ci invita ad un bagno nella antistante piscinetta. Ci divertiamo a sguazzare nell’acque fresca ed è poi dura richiamare la squadra al rispetto del programma. Entriamo nel vicinissimo Arches National park nella calda luce del pomeriggio. Appena dopo qualche tornante si aprono scorci grandiosi. Il primo è denominato Park Avenue, una valletta tra due pareti verticali che ricordano lo skyline di una città americana. Per farci stare tutto bisogna scattare tre foto in carrellata. Più avanti facciamo un giro attorno alla Balanced Rock, un disco in miracoloso equilibrio su uno spuntone di roccia e proseguiamo per la Windows section. Saliamo fin sotto l’arco della North Window, con l’enorme foro dalla forma di un occhio ( dove scattiamo una foto con una nuvoletta di passaggio che fa da iride !), ed entriamo poi sotto le volte del Double Arch. Vorremmo gustarci il tramonto presso il simbolo del parco e riprodotto sulle targhe dello Utah, il Delicate Arch, ma scopriamo che per arrivarci serve un’ora di cammino. Ci accontentiamo di vederlo da lontano, invidiando quelli che sembrano formichine, già appostati presso la volta in attesa del momento. Ormai in penombra camminiamo per un paio di km verso il Landscape Arch, il più lungo arco naturale del mondo, 88 metri di arco con una corda tesa e sottilissima. Incredibile. Raggiunta l’auto al buio ceniamo, senza passare per una doccia dal Motel, al Sunset Grill dove, evidentemente riconosciuto l’accento, ci mettono in una sala separata, con due belle tavolate di casinisti…italiani. Per noi della nazionalità sbagliata niente tavolo sulla terrazza panoramica, per loro, stasera, niente mancia.

Mercoledì 11 Agosto : Moab – Kodachrome basin – Bryce Canyon – Panguitch Km 636 Ripartiamo con l’amerezza di non aver visitato a dovere il parco degli Archi e l’interessante zona di Moab. Ci toccherà ritornare, promesso ! Per puntare al Bryce Canyon scegliamo la lunga e panoramica Byway 12. Colonna sonora Ghost Riders in the Sky , Johnny Cash. Dopo due/tre orette e attraversato il parco Capitol Reef manchiamo la mimetizzata svolta a destra per la 12 e siamo ancora fuori strada. Qualche santo cade giù. Ritrovata dopo una cinquantina di km la 12, la strada sale subito tra pini e tornanti attraversando la Dixie Nat. Forest, che scollina ad oltre 2800 metri. Nella discesa un cervo in piena corsa taglia la strada alla macchina che ci precede e urliamo per l’imminente impatto. Non si sa come ma l’animale sfila a pochi millimetri e sparisce nel bosco: una scena di due secondi ma che spaghetto! Proseguendo si entra nel Grand Staircase Escalante, grandi panorami di rocce bianche e accidentate e una strada che scorre a volte in cresta, con dirupi a destra e a sinistra, e discese ripide. Effetto montagne russe. In macchina c’è tensione, e in effetti la guida deve essere molto attenta. Arriviamo al Kodachrome Basin, un “piccolo” parco con formazioni rocciose dalle molteplici tonalità, e da qui il nome preso dalla mitica pellicola per dia. Come spesso ci è capitato, in giro ci siamo solo noi, e al povero ranger chiuso tutto il giorno nella sua piccola cabina forse non pare vero di parlare con qualcuno, anche solo per riscuotere i 6 $ del biglietto di ingresso (qui escluso dall’Annual Pass). Facciamo il godevolissimo percorso panoramico lungo la strada sterrata intervallando con brevi camminate. Ripresa la strada, invece di andare al motel decidiamo di entrare nel Bryce Canyon e di aspettare il tramonto. La vista che ci si apre all’Inspiration Point, con le migliaia di pinnacoli nella luce rosa del tramonto è impossibile da descrivere, restiamo increduli e in lotta per trattenere le emozioni. Non si possono fare classifiche, ma questa è forse la cosa più bella vista nel viaggio. Dopo questa anteprima della visita di domani e passando di fianco alle formazioni rosse del Red Canyon (sosta per foto e prelievo del sassolino di rito), raggiungiamo finalmente il Bryceway Motel, in quel di Panguitch. Per la cena, presso l’unico ristorante aperto c’è una coda lunghissima ed è già tardi. In coda, non puoi fare a meno di notarli, ci sono, gli italiani. Lacoste, capello unto e Rayban da sole ma di sera, lui. Abercrombie, scarpette col tacco alto, trucco impeccabile lei. Look emo un ragazzo, l’altro col crestino tamarro, facce da chissenefrega, la ragazzina tutta firmata. A Panguitch! Le famiglie sono sempre almeno due e si muovono nel ristorante alla caccia di improbabili tavoli liberi, che anche se sono da un capo all’altro del salone vogliono unire per stare tutti insieme. Gli altri clienti li guardano come alieni, con espressioni di compatimento, hanno già capito cosa gli tocca. I nostri spostano sedie e tavoli per stare insieme ma separati, uomini da un lato, donne in mezzo e tutti i figli in fondo. Sulle loro facce si legge “ ma che ppalle, ma in che m.. di posto siamo finiti, pensa ai nostri amici, al parchetto, a Baggio. Muti e autoisolati ordinano sempre gli spaghetti con sopra tre polpettone, tiri un’occhiata dopo dieci minuti e li hanno lasciati lì tutti. Ne abbiamo trovati tanti di italiani, regolarmente protagonisti di scene da arrossire. Noi non siamo come voi e vi diciamo vergognatevi per la fama che ci date nel mondo, anzi, datevi fuoco!. Preferiamo cambiare aria e ci rimane come unica possibilità una improbabile Pizza & Deli, scelta sponsorizzata dalle figlie. Le pizze altre tre dita ingolfano subito e per mandarle giù c’è solo coca gelata. Così imparate ! Anche qui gli spagetti meatballs vanno alla grande, ma non voglio neanche guardarli.

Giovedì 12 Agosto : Panguitch – Bryce Canyon – Page Km 377 Dopo l’anteprima dedichiamo la giornata alla visita di questo parco fatto di pinnacoli ( o camini delle fate, qui detti Hoodoos ), stratificati nei vari colori dell’ocra, bianco, rosso. Le viste che si hanno dal Sunset Point, da Sunrise Point e dall’Inspiration Point ci lasciano attoniti, storditi. Qui la Natura o il Grande Architetto si devono essere divertiti a giocare con forme e colori, creando questo paesaggio fatato. Facciamo un’escursione a piedi lungo il Queen’s Garden Trail, un bellissimo percorso che scende tra queste formazioni; ogni angolo vale una foto. Allunghiamo la camminata innestandoci nel Navajo Loop, che si conclude con la risalita con un zig-zag attraverso la spaccatura della montagna. 5 chilometri di assoluto godimento. Mangiamo pizza e panini in un parcheggio, marcati dai soliti scoiattolini ai quali spieghiamo che per il loro bene non possiamo dar loro da mangiare, ordine del ranger. Portiera aperta e la radio che manda Chasin’ that Neon Raimbow di Alan Jackson. Un’ultima occhiata dalle spettacolari balconate e ci muoviamo verse Page, cittadina sorta nel 1957 con le prime baracche dei manovali chiamati alla costruzione della locale diga, che darà poi origine al lago Powell. Per la prima volta in vita mia mi trovo ad essere praticamente coetaneo di una città, e questo mi da uno strano senso di antichità… Cercando l’Hotel e percorrendo il Lake Powell Boulevard facciamo caso ad una fila di chiesette, anche della dimensione di un monolocale, delle più disparate comunità religiose. Scopriamo che a Page ci sono 15 correnti religiose e pensiamo a folkloristici predicatori, regolarmente ammogliati, in camicia e jeans, pastori di un forse scarso gregge, a questa faccia dell’America da noi così lontana. Festeggiamo i 5000 km macinati con un Margarita da fuori giri e una buona cucina tex-mex alla Fiesta Mexicana.

Venerdì 13 Agosto : Horseshoe Band – Antelope Canyon – Lake Powell Km 71 Auguri a Virginia! Oggi compi 18 anni, e noi speriamo che questa giornata li festeggi degnamente. E’ mattina presto e con Monica cerchiamo di organizzare la giornata con le visite all’Antelope Canyon e al lago Powell. I tour all’Upper Antelope Canyon sono gestiti da tre agenzie di indiani; le ore più interessanti per la visita di questo stretto canyon sono quelle centrali, dove lame di luce attraversano le strette fessure ed evidenziano la colorazione e le striature delle pareti. Presso le due prime agenzie non c’è posto, che troviamo ormai depressi al terzo tentativo, prenotazione per le ore 12.00, costo 112 $. La possibilità di riserva sarebbe stata quella di andare direttamente sul posto e trovare il passaggio su una delle camionette dell’organizzazione. Tornati all’Hotel e sopravvissuti alla colazione nella sovraffollata sala breakfast, abbiamo il tempo per vedere, appena fuori Page, la Horseshoe Band, una maestosa ansa del Colorado che scorre 305 metri più in basso. La vista dai bordi a strapiombo (come sempre non c’è alcun parapetto) è impressionante, il panorama è enorme. Con l’equivalente di un 28 mm, per fotografarlo al meglio bisogna scattare una serie di foto in verticale e montarle di seguito. Facciamo un giro lungo il bordo di questa voragine con grande attenzione, perché per gustarlo bene bisogna stare molto vicini al bordo, mentre il sole martella. Si fa l’ora per la visita dell’Antelope Canyon. Presso l’agenzia si sale su camionette smarmittate che, dopo qualche km di strada e percorrendo poi un paio di km nel letto di un fiume in secca, portano all’imbocco quasi invisibile di questa spaccatura. Si entra con la guida a gruppi, e purtroppo parte della magia del posto viene rovinata dal parlottio e dall’andirivieni della gente. Per isolarsi, cuffiette nelle orecchie e rilassante musica indiana (per una mezzoretta scarsa la reggo..). Entrati, nella penombra appaiono queste pareti erose da acqua e vento, onde di roccia. Fotografare con la poca luce non è semplice, con tempi lunghi e il mosso sempre in agguato; qualcuno posa persino il cavalletto, ostacolando il già stretto passaggio. In qualche punto si passa uno alla volta, ci si appiattisce lungo le pareti per scoprire nuove prospettive e possibilità fotografiche. L’improvvisa entrata di un raggio di luce riempie tutti di agitazione, tutti sognano lo scatto da cartolina, o da rivista. L’emozione è grande, si aspetta di girare l’angolo successivo per vedere cosa ci apparirà. Il percorso è lungo solo 200 metri, forse meno, e lo si ripercorre per uscire, di nuovo alla luce. Sbrigate le formalità nutrizionali in un fast-food e si va alla Wahweap Marina, dove abbiamo prenotato l’escursione in battello sul lago Powell per ben 142$. Pure l’ingresso alla Marina è a pagamento, in quanto parte del Glen Nat. Park, ma è compreso nel nostro Annual Pass. La parte interessante della gita è la navigazione nell’Antelope Canyon (ancora Antelope… per inciso, si pronuncia Enlop), con la spaccatura che via via si restringe costringendo il battello all’uscita in retromarcia. Al ritorno sostiamo in una spiaggetta per un bagno nel lago dalle sensazioni strane (l’acqua scura, dalla profondità certa ma sconosciuta, la luce calda sugli strani rilievi circostanti e sul Lone Rock, sentirsi “al mare” sapendo di stare a 1100 metri..). Il tramonto con vista sul lago ( e sulla solitaria centrale a carbone ) ce lo godiamo dal belvedere della Scenic View, in silenzio, fino a che le luci scompaiono. Per la cena, e per festeggiare Virginia, andiamo verso quello che viene indicato come il miglior ristorante di Page, il Ken’s Old West. Purtroppo la coda è così lunga che cerchiamo alternative e finiamo al Glen Restaurant. Lo citiamo perché così lo evitate. Almeno recuperiamo una fetta di torta artificiale con candelina e cantiamo, ma sottovoce per non disturbare gli ultimi clienti, Happy Birthday. Buon 18° compleanno Virgi, speravo di festeggiarlo meglio ma avremo ancora tante occasioni per rifarci. Tornati in hotel mi collego ad Internet per vedere cosa è successo in Italia. Ma alla sola vista delle facce di certi politici monta il ribrezzo e chiudo il collegamento. La macchina fotografica rimane lì, nella saletta della hall.

Sabato 14 Agosto : Page – Las Vegas Km 473 E’ un giorno nero. Fatte le valigie e pronti a partire mi accorgo che la reflex non c’è. E’ stata dimenticata giù. Sparita, con tutte le foto degli ultimi giorni. Ma c’è una traccia. E’ stata trovata. Invece no. Insistiamo. Chi sa, dorme. Svegliatela. Non è possibile, vi faremo sapere. No, da qui non ci muoviamo. Il direttore, prego. Chiamiamo la polizia? Fate pure, anzi, no, datemi tempo. Ok, un paio d’ore. Siamo tutti sconvolti, le lacrime scorrono, e non per la macchina ma per le foto perse. Dopo quattro ore di disperazione la macchina – miracolo – salta fuori. Con la sorpresa : le foto sono state cancellate. La direttrice non sa spiegare lo strano fenomeno tecnico. Glielo spiego io : la receptionist “distratta” ha cancellato le foto per rendere impossibile il riconoscimento dei proprietari, ovviamente ripresi nelle foto ricordo. Addio alle foto del Bryce Canyon, da pubblicazione sul National Geographic (…), a quelle dell’Antelope Canyon (idem), niente foto ricordo del compleanno, comunque parte dei nostri ricordi. Avremmo preferito ritrovare la schedina piuttosto della reflex, ma non è andata così. La giornata è andata, niente Marble Canyon, Pipe Spring, Coral Pink Sand Dunes. Decidiamo di rimandare la partenza per rifotografare la Horseshoe band, la Marina e il panorama dalla Scenic View, così, solo per testimonianza fotografica ma senza le originali emozioni. E faccio un errore madornale: uso la stessa memory card, senza sapere che anche da schede formattate si recuperano le foto, con programmini gratuiti disponibili in rete ( perdo quasi tutto ma recupero le foto del compleanno !! ). E’ già pomeriggio e abbiamo oltre 400 km per arrivare a Las Vegas. Li faccio di rabbia, abbattuto perché la macchina l’ho dimenticata io, piede affondato nell’acceleratore e sguardo fisso sulla strada. In macchina solo triste silenzio, sento che le mie ragazze stanno peggio di me. Oggi niente musica. Entriamo nel Nevada. Arriviamo di sera all’Hotel Stratosphere dove, dopo la cena, saliamo in cima alla sua torre di 320 metri da cui si vedono le luci della Strip e della intera città. Il sorriso delle foto ricordo è di sola circostanza.

Domenica 15 Agosto : Las Vegas Km 56 Oggi ci concediamo un’oretta in più di sonno. Per la colazione lo Stratosphere ci spara 20 dollari e decidiamo di farla altrove. La nostra prima colazione veramente americana è un altro viaggio, questa volta allucinante, nell’America. Il menù del IHOP è un festival di fritture, carni, salse in combinazioni random, portate multipiano, per avvelenarti a poco prezzo. Le mie signore ordinano, a me l’appetito è già passato, la cameriera ci rimane quasi male e mi fingo indisposto. Attorno a noi li vedi, gli americani sovrappeso che ordinano, anche ai bambini, queste mega porzioni di grassi insaturi. Non mangiano tutto, questo è vero, ma anche questo aumenta la mia amarezza per tanto cibo – chiamiamolo così – sprecato. Immagino i quintali di cibo smangiucchiato e buttato ogni giorno da un ristorante medio, insieme alle stoviglie in polistirolo. Qui capisci come l’America consumi il doppio o triplo di risorse, acqua, energia rispetto all’Europa, figuriamoci in confronto con gli altri continenti. Las Vegas è il paese dei balocchi anche per lo shopping. Andiamo all’Outlet fuori città, non un gran ché, per scoprirne uno più interessante a poche centinaia di metri dallo Statosphere. Entriamo ed usciamo dai veri negozi passando in continuazione dai 42 gradi esterni ai 18 interni, estate-inverno-inverno-estate. Le mie ragazze stranamente si contengono e quasi quasi mi dispiace. Torniamo sulla Strip al Fashion Mall e poi prendiamo camera all’Hotel Golden Nugget in Fremont, per farci un bagno nella piscina acquario e vederci comodamente lo spettacolo Fremont Experience. Parcheggiata la macchina attraversiamo l’enorme sala da gioco trascinando borse e valige tra le centinaia di slot machines e gli ancora scarsi giocatori. Alla reception una fila di addette, tutte orientali o di colore, ti chiedono prima la carta di credito, poi registrazione, qualche informazione secca, meccanica, e le chiavi. Non capiamo un acca ma non è il caso di chiedere di ripetere, ci bastano le chiavi. Un sorriso di benvenuto non è compreso nel prezzo, capisci che per queste noi non siamo persone ma solo una carta di credito. Poverette. Anche qui per muoverti serve la cartina, col percorso verso la camera segnato a biro. Scendiamo subito a fare il bagno in piscina. Gli squali di tre metri ed altri pescioni sono ovviamente separati da noi da una parete in vetro, ma il bagno è di grande effetto. Ci buttiamo nel tubo / scivolo che attraversa la vasca dei pescecani ma gli schizzi d’acqua ti fanno vedere ben poco. Prima di cena si passa a vedere, sotto lo sguardo dei vigilantes, la pepita d’oro di 27 chili (the golden Nugget..). Si cena anche qui al buffet, all-you-can-eat di pesce per 25 USD, più che un buffet un campo di calcio, con una vastità e varietà di piatti mai vista. Il pesce è una pena, per non parlare delle ostriche, rivoltanti, ma con tutto quello che c’è non si fatica a trovare qualcosa di buono e si mangia fino a capienza massima. Ci attardiamo un po’ troppo e ci perdiamo parte dello spettacolo Fremont Experience, in effetti una bella experience, con migliaia di persone a faccia in su a vedere i filmati sulla volta di milioni di Led, 400 metri di lunghezza tra due ali di edifici, un po’ come una futuristica Galleria di Milano. Vedere i Queen e sentire We are the Champions in questo modo fa accapponare veramente la pelle. La serata non è finita e riprendiamo la macchina per un giro sulla Strip. Colonna sonora, ma si, Alejandro, Lady Gaga. Ci sta… Parcheggiamo al garage del Paris. Per uscire passiamo dalle sale dell’hotel riproduzione della vecchia Parigi, viuzze atmosfera Montmartre, soffitto trompe-l’oeil con cielo azzurro e nuvolette e pavimenti in porfido. Non manca un piede della torre Eiffel che, tra centinaia di slot machines, buca il cielo, per proseguire e completare la torre fuori, per un’ottantina di metri. Al Bellagio c’è lo spettacolo delle fontane d’acqua, più avanti il Caesar Palace con gli enormi ambienti in stile impero romano. Si sta facendo tardi. Vediamo il Flamingo con la famosa rosa rossa e di sfuggita il Venetian con tanto di campanile di San Marco, ponte di Rialto con gondole e torniamo al Golden Nugget.

Lunedì 16 Agosto : Las Vegas – Death Valley – Mammoth Lakes Km 652 In questi Hotel-catene-di-montaggio non è necessario fare il check-out: la chiave-tessera la si infila in un contenitore e via. Colazione allo Starbucks interno, con un caffè votato da tutti noi come il più orribile della ns vita. Ma la porcheria non finisce qui: paghiamo 15 UDS con la carta, niente mancia, ovviamente. Il giorno successivo arriva l’SMS di conferma pagamento: 20 dollari ! Questi si sono liberamente presi 5 dollari di mancia ( solo il 33% !). Maleducati o malavitosi ? Consiglio : non lasciate né libera né barrata la sezione “mancia” degli scontrini perchè vi mettono quello che vogliono. Piuttosto metteteci un insultante zero virgola zero qualcosa… Si riparte, e dopo breve occhiata al faraonico kitch del Luxor, seguita da foto ricordo con il famoso cartello di Las Vegas, ci dirigiamo verso la Death Valley, passando da un paesaggio arido ad un paesaggio… ancora più arido. Si rientra in California. Presa la 178, dopo una trentina di miglia inizia a delinearsi la valle, solcata in lontananza da una bianca striscia di sale, che si fa sempre più vasta e vicina, sino a lambire la strada. Scendiamo per toccare le incrostazioni di sale; una vampata di caldo ci assale, quasi come un pugno in faccia. Camminare a 50 gradi col sole a picco e venticello-phon addosso è un’esperienza da mistici. Dopo 5 minuti di cammino tra queste zolle spaccate e lo scricchiolio del sale la pelle brucia e gli occhi si seccano. Meglio affrettarci verso la macchina e il suo bel condizionatore e proseguire. Queste temperature venusiane non sono amiche nemmeno dei motori. A lato strada, ad ogni miglio sono posizionati serbatoi di acqua per radiatori, un po’ arrugginiti; inquietanti cartelli ne indicano il punto più vicino aumentando il timore di restare in panne. I telefonini prendono si ma soprattutto.. no. Non abbiamo una musica adatta alla situazione e ci sintonizziamo sulle stazioni tematiche in XM, soffermandoci sul canale delle musiche degli anni ’40. Proseguendo, dopo altre 30 miglia si arriva a Badwater, 98 metri sotto il livello del mare in un mare bianco di sale, sempre una cinquantina di gradi, ma stavolta afosi… Ripetiamo l’esperienza della camminata in questo forno abbacinante, e bastano solo un 300 metri per andare a fusione. Facciamo una deviazione e passiamo per la Artist Palette e le sue molteplici tonalità sfumate in giallo, ebano, verde. L’unico paese è, un nome un programma, Furnace Creek, e qui ci fermiamo a mangiare. Più avanti, dopo una breve deviazione, si giunge al famoso Zabrinskie Point. A un centinaio di metri dal parcheggio si apre un panorama di colline erose di grande pathos. Monica si sente mancare dopo pochi metri di salita e rinuncia; le giovani colgono l’occasione per riaccompagnarla alla macchina. Devo invece dire che a me i 50 gradi cominciano a piacere, temprano lo spirito, amplificano le sensazioni. Nella mia testa gira Echoes, Pink Floyd. Non ci sono albatros né echi ma fluttua bene così. Antonioni aveva scelto la brutale Careful with that Axe Eugene, ma il contesto era decisamente un altro. Cerchiamo di uscire da questa valle. La strada continua a salire per poi ridiscendere, in continuazione, fino ad attraversare con un lunghissimo viadotto la distesa di sale, risalire nuovamente per entrare, dopo una novantina di miglia che non finiscono più, in un ambiente finalmente più verde e vivente. Tagliamo il traguardo dei 6000 km. E’ già pomeriggio e tiriamo per la 395 in direzione nord , tra paesi, pascoli, mandrie; sulla nostra sinistra le Montagne Rocciose con cime di oltre 4000 metri. Sulle vette più alte qualche residuo bianco: questa volta non è sale, è neve. Ci fermiamo, al buio, a Mammoth Lakes, località di montagna a 2400 metri. Fa freschino. Scaricate le valigie al Motel 6 cerchiamo un ristorante e troviamo Roberto’s, indicato in qualche guida. Nomino questo ristorante perché mangiamo un burrito da favola, di dimensioni monumentali, tanto che ci tocca avanzarlo. Un’altra giornata è finita, con onore.

Martedì 17 Agosto : Mammoth Lakes – Yosemite Park – Merced Km 323 Che il paesaggio sia cambiato e che dal deserto si sia passati alla montagna si capisce subito dall’arietta frizzante del mattino. Mammoth Lakes è una bella località sciistica, abitazioni rivestite in legno, motoslitte riparate nei sottoscala, piste da sci che scendono dai fianchi della montagna. Troviamo –incredibile- un fornaio (Schat’s) che vende baguettes croccanti e ottime brioches; ne facciamo ampia scorta ma finirà troppo presto, in un festival di briciole su sedili e tappetini. Partiamo per lo Yosemite National Park, scavallando i 3000 metri del Tioga Pass. La strada inizia subito a salire tra pini, tornanti, bellissime viste sulle valli, laghetti “alpini”, i primi camminatori, qualche arrampicatore su pareti lisce. Colonna sonora l’album Into the Wild, Eddie Wedder. All’Olmsted Point intravediamo in lontananza la gobba dell’Half Dome, raggiungibile con una via attrezzata in ca. 3 ore di cammino. Con un telescopio si intravede una fila di formichine, sono i trekkers in ordinata ascesa del Dome. La strada ora scende verso la Yosemite Valley, dove si staglia l’incredibile parete verticale di granito del Capitan e, ai lati, le cascate Yosemite Falls e Bridalveil Falls e di nuovo, dal lato opposto, la sagoma scavata dell’Half Dome. E’ tutto molto bello ma ahimè troppo battuto, la troppa folla toglie molto alla bellezza del posto. Provo ad immaginarlo senza gente, magari con i colori dell’autunno o con la neve dell’inverno… grandioso, nel silenzio della natura. E’ vero che una escursione nelle centinaia di sentieri, fuori dalle folle, avrebbe dato una impressione diversa, ma di tempo non ne abbiamo molto, almeno questa volta. Poi, sorpresa finale, attraversa pigramente una lince e, fuori dal parco, spunta dal bosco un orsacchiotto che sparisce prima di accendere la macchina fotografica. Puntiamo ad avvicinarci a San Francisco e prima che il sole tramonti ci fermiamo al primo Motel con piscina che capita, un Travelodge a Merced. Tutti a fare un bagno e poi alla ricerca del ristorante, cercando di trovare il meno peggio in una cittadina semideserta. La buonanotte la possiamo dare solo ai muri.

Mercoledì 18 Agosto : Merced – San Francisco Km 264 Colazione nella piccola reception. I gestori indiani (questi dell’India, però) stanno già spentolando nel retro e un profumo speziato si diffonde, pesantuccio, nell’aria. Dopo un’orezza e mezza imbocchiamo il Bay Bridge, ed è finalmente San Francisco. Ci accompagna il brano omonimo di Scott McKenzie. E’ un po’ presto per andare in hotel e puntiamo subito per il simbolo della città, il Golden Gate. Chissà perché si chiama Golden, visto che è di un rosso brillante, reso ancora più vivo dal contrasto con il cielo blu. Quando poi leggiamo che il colore è ufficialmente denominato “arancione internazionale” andiamo un po’ in confusione. C’è il sole e tira un vento gelido, bisogna fare attenzione a non essere investiti dalle biciclette. Al centro della baia c’è il penitenziario di Alcatraz; Al Capone non ce la fece a scappare, ma Clint Eastwood…si. Sessanta metri più in basso nel mare increspato si vedono gironzolare delfini e foche. Ripresa la macchina e cartina alla mano ci inseriamo nella 49 mile scenic route, un percorso che tocca le principali attrazioni della città. In senso antiorario e attraversata la verde zona del Presidio tocchiamo l’enorme Ocean Beach, costeggiamo la zona balneare per poi attraversare gli 8 km del Golden Gate Park, un parco cittadino meraviglioso, verde e dove è possibile svolgere ogni tipo di attività. Il percorso incrocia le famose strade di San Francisco (ricordiamo gli inseguimenti del telefilm omonimo e di Bullit), veri muri dove ci chiediamo con vera preoccupazione se la macchina ce la farà a superarli (si, ce la fa, noi con le schiene schiacciate sugli schienali). Ancora più incredibili sono le discese. Ne imbocchiamo una urlando tutti dalla fifa, perché davanti o sotto o comunque oltre il muso non si vede niente. E’ quasi panico, e avanziamo solo perché prima era passata un’altra macchina, sperando che questa non fosse poi precipitata nel vuoto. Gridolini nervosi, piede fisso sul freno, ma la strada c’è, per fortuna. Sudati, proseguiamo. I cartelli ogni tanto spariscono e si prende la direzione sbagliata… tutto il mondo è paese, anche nei cartelli che ogni tanto, scientificamente, svaniscono nel nulla. Per questo motivo lasciamo il percorso e puntiamo al Grant Hotel (Grant con la t, non con la d), nella centralissima Union Square. Liberi da macchina e valigie camminiamo liberamente per la città della Beat Generation, della Summer of Love, degli artisti, dell’anticonformismo. Tento di captare qualche eco fossile delle sonorità di Jerry Garcia, Jefferson Airplane, Country Joe, ma la sintonia stenta. Personaggi degni di nota sono i barboni, che voglio immaginare con un passato nelle comuni o da reduci del Vietnam. I nostri mendicanti scrivono sul cartone che hanno quattro figli affamati e tutti ammalati, questi un forse più sincero “Why lie? I need a beer”, oppure “Need cash for alchool research”. Troppo forti. La città è facile da girare a piedi, pur con le strade a saliscendi. Affiancati ogni tanto dalla scampanellante cable car, percorriamo la Hyde incrociando il famoso tratto della Lombard St. conosciuto come Crooked Street, con la sua discesa contorta tra fioriere per mitigarne la forte pendenza. La percorriamo scendendo e poi risalendo il vicolo a gradini laterale e ci avviamo all’Hotel. Sono più di tre chilometri ma camminare è il nostro lavoro. Per la cena la maggioranza vota per un ristorante greco in Market Street. Finalmente niente bistecca e voto 7+. Giovedì 19 Agosto : San Francisco Km 19 Good morning, San Francisco crazies. Oggi visita della città. A 200 metri dall’Hotel attraversiamo la Dragon’s Gate con le sue piastrelline colorate, lanterne e dragoni e si entra in Chinatown. Ci facciamo largo nella trafficatissima Grant Ave tra vetrine di souvenir, alimentari e cineserie varie, proseguendo poi per il Fisherman Wharf, la zona turistica del porto. L’intenzione era quella di imbarcarci per Alcatraz, ma con disappunto scopriamo che non ci sono posti liberi per i successivi 5 giorni. Il servizio è in mano ad una sola compagnia ed andava prenotato per tempo, via internet. Delusi, proseguiamo dimenticando di vedere le otarie che sonnecchiano placide al Pier 39. Hamburger e patatine in un localino stile anni ’50 e puntiamo su Hyde St, dove almeno non manchiamo di prendere il famoso Cable-car. Sullo sfondo un Golden Gate mezzo ingoiato dalle nuvole. 5 dollari, una mezzoretta di coda ed ecco che il nostro tram arriva, viene ruotato da forzuti addetti nella direzione inversa, e si parte, in piedi sul predellino. Si attraversa così la città, tra salite (trainati dal cavo) e discese col freno tirato, col tranviere che ammonisce di non sporgerci incrociando la sopraggiungente cable-car. Arrivati in Powell e ripresa la macchina, andiamo in Alamo Square con le famose Painted Ladies, abitazioni ottocentesche di grande gusto scampate al terremoto del 1910, al successivo incendio e agli avvoltoi del cemento. La vista dal parco è meravigliosa, tanto che è riprodotta in tutte le cartoline. E’ ora di divertirci un po’ sulle strade di San Francisco e tornare ad avventurarci su queste montagne russe. Nell’area ristretta delle Russian Hills (quarda caso) si possono trovare salite e discese ripidissime, con pendenze comprese tra il 25 e il 31,5%. La più tosta, 31,5%, è la discesa sulla Filbert tra Leavenworth e Hyde ( è la parallela alla crooked street, ma senza chicane !), ma pazzeschi sono anche i tratti della vicina Jones tra Union e Filbert (29%), tra Green e Union (26%) e tra Pine e California (25%). C’è un 28% sulla Duboce tra Alpine e Divisadero, vicino al Buena Vista Park. Fatte queste strade, tutte le altre diventano di ordinaria amministrazione, addirittura la Crooked street fatta in coda e lentamente è una noia. Mi sfiora il pensiero di dare un colpetto di acceleratore al posto giusto per fare un piccolo saltino, ma la visibilità è assolutamente nulla ed è troppo pericoloso. Comunque il cambio automatico in salita è una gran comodità, mentre il manuale metterebbe in crisi davvero molta gente. Rifatto il percorso un paio di volte, dove si può sia in salita che in discesa, e ci dirigiamo verso Japantown. Il quartiere giapponese con l’America non ci azzecca per niente, e anche noi ci sentiamo fuori posto. Optiamo quindi per una vista panoramica sulla città dalle colline di Twin Peaks, ma la nebbia cala improvvisa mangiandosi il sole e la metà superiore degli edifici più alti. Fine delle visite, si torna in hotel. Ah, non abbiamo scritto le cartoline! Con grande affanno ci lanciamo alla ricerca ed espletiamo la formalità (arriveranno velocemente, anche perché ci siamo svenati con francobolli da posta aerea). La nostra ultima cena dovrebbe concludere degnamente il Viaggio, ma la stanchezza e la temperatura poco gradevole (fa veramente freddo) ci porta ad una rapida scelta. Il Grill qualcosa ha qualche pretesa di stile e anche la cucina si ferma alle pretese; siamo comunque troppo stanchi per apprezzare. Check, please.

Venerdì 20 Agosto : San Francisco – Milano Km 48 E’ finita. E’ proprio finita. Goodbye San Francisco dream. Ci muoviamo in anticipo verso l’Aeroporto e per l’ultima volta prendiamo una direzione sbagliata e ci perdiamo per San Mateo. Chiediamo ad un benzinaio, dove facciamo 5 dollari extra di benzina: la macchina va consegnata vuota, ma alla riconsegna è necessario arrivarci… Puntuali alle 10,40 si parte per New York, si cambia per Roma e poi per Milano. Siamo alle 13.00 del giorno dopo, l’aereo ha mezz’ora di ritardo, e per mezz’ora un siciliano non la smette di lamentarsi dell’Alitalia, all’imbarco non c’è una fila civile ma un ingorgo di gente si accalca e sgomita. Ma perché, perchè ? Perché siamo in Italia, ragazzi. Mi scappa il primo vaffa.



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